DEMOCRAZIA (gr. δημοκρατία, da δῆμος "popolo" e κρατέω "domino"; fr. démocratie; sp. democracía; ted. Dentokratie; ingl. democracy)
La democrazia in Grecia. - La democrazia è la sovranità concessa a tutti coloro che fanno parte del δῆμος. La sovranità dello stato spettava alla totalità dei cittadini in quanto nati o regolarmente divenuti cittadini, indipendentemente da nascita o ricchezza. Poiché è principio necessario che tutti abbiano eguale diritto di voto nella democrazia, la maggioranza è sovrana, e quindi, ove non vi sia alcun temperamento, il ceto infimo, che è il più numeroso, diviene facilmente sinonimo di demo, la folla cui si contrappongono i pochi, che sono i più ricchi o coloro che in qualche modo eccellono. Non fin dai tempi più antichi governi siffatti ebbero il nome di democrazia, ma furono anche indicati come πλῆϑος ἄρχον. Principî fondamentali sono l'isonomia, la libertà, l'isocrazia e l'isegoria. Per l'isonomia la legge è eguale per tutti; la libertà è condizione necessaria e scopo della democrazia; l'isocrazia e l'isegoria, ("eguaglianza di potere" e "libertà di parola") variamente intese nei tempi, sono i mezzi per la realizzazione del governo democratico.
Sviluppo storico. - La prima democrazia greca che ci sia nota sorse nel corso del sec. VII a Chio, ed è, per quanto ci consti, la prima volta che il popolo - δῆμος ha il riconoscimento degli attributi della sovranità. Solone, nella creazione degli ordinamenti ateniesi, ebbe presente il modello della costituzione di Chio. In Megara, l'oligarchia succeduta alla tirannide di Teagene fu sostituita da una democrazia; nel Peloponneso nel sec. VI si diedero ordinamenti democratici Elide, Mantinea e più tardi Argo: il più grande impulso allo sviluppo e alla diffusione delle idee e delle istituzioni democratiche in Grecia fu dato dalla posizione di predominio assunta da Atene e dall'esempio degli ordinamenti clistenici vigenti in quella città, onde istituzioni similari sorsero nelle città aderenti alla Lega delio-attica. Anche nella Magna Grecia e Sicilia, dopo la caduta delle tirannidi, Siracusa e altri centri si diedero ordinamenti democratici. Le vicende della storia greca segnarono gli andamenti degli sviluppi democratici: dopo la battaglia di Mantinea (418 a. C.), essendo state sconfitte le città maggiormente fautrici della democrazia, le tendenze democratiche subirono un forte contraccolpo; così pure con l'insuccesso della spedizione ateniese in Sicilia e con la fine della guerra peloponnesiaca le oligarchie ebbero di nuovo il sopravvento, appoggiate da Sparta, la quale le sostenne ovunque sinché Tebe, ribellatasi al dominio spartano, organizzò lo stato federale beotico, sotto la sua egemonia e su basi democratiche. Con l'intervento della potenza macedone nelle cose greche, la democrazia divenne, più che altro, una bandiera e un mezzo di lotta contro i Macedoni, e ancora la Lega achea poco prima della conquista romana si faceva iniziatrice di un movimento per la restaurazione democratica.
Ma non soltanto cause inerenti ai rapporti fra le città greche determinarono gli sviluppi della democrazia. Lo sviluppo dell'oligarchia segnava l'avvento al potere dei ceti possidenti e l'esclusione dei ceti di condizione economica inferiore. Mentre gli artigiani subivano le conseguenze politiche del poco conto in cui era tenuta la loro situazione economica, e i ceti medî erano privati dei principali diritti, gli agricoltori piccoli proprietarî rivaleggiavano sempre più con i maggiori possidenti che venivano, unicamente in ragione del loro censo, ad avere un potere economico e altresì politico superiore a quello stesso dei ceti appartenenti alla classe dei cavalieri. Ma a partire dal sec. VIII si aprirono all'attività economica dei greci gli sbocchi mediterranei. In certe parti della Grecia meno adatte alle possibilità del commercio marittimo, le condizioni economiche, e di riflesso quelle politiche, restarono immutate: così gran parte del Peloponneso, la Beozia, la Focide, la Tessaglia, l'Epiro, l'Acarnania, l'Etolia; ma nei paesi aperti allo scambio e al traffico, la nuova vita economica fu il lievito d'un nuovo sviluppo politico. Così si modificò assai la situazione di Eretria e Calcide in Eubea, di Corinto, di Megara, di Egina, di Atene e di Mileto. Queste trasformazioni portarono anche notevoli cambiamenti nei rapporti sociali poiché l'agiatezza cominciò a diffondersi anche nei ceti prima quasi nullatenenti. Da questo regime sorse una nuova situazione politica e il δῆμος divenne un'entità politica di notevole importanza; ma gli agricoltori videro la loro situazione assai aggravata poiché si trovarono di fronte a una svalutazione dei prodotti del loro lavoro cui corrispondeva un grande aumento nei prezzi d'acquisto degli oggetti per cui dovevano dipendere dall'industria e dal commercio delle città. Costoro, e il piccolo e miserabile ceto operaio delle città stesse, divennero un eccellente strumento di lotta e di ribellione in mano delle classi politiche moralmente pronte per la conquista del potere. Dapprima fu richiesta la pubblicità delle leggi, prima aspirazione delle opposizioni alla ricerca di una legalità sicura, per potersi difendere contro tutti gli abusi - e massime giudiziarî - delle classi dominanti. L'esempio di qualche centro della Magna Grecia fu fondamentale per tutto il mondo ellenico; e le codificazioni che si fecero a Locri per opera di Zaleuco, o di Caronda a Catania, furono citate a modello e originarono imitazioni e innovazioni che determinarono il rinnovamento giuridico greco del sec. VII e VI, rinnovamento di cui le leggi di Dracone e Solone sono i più noti monumenti: ma più ancora originarono il progressivo indebolimento dell'aristocrazia dominante e prepararono la via alla prima incompleta affermazione del movimento democratico, la tirannide, effimera e spesso crudele forma di transizione per l'abbattimento della tenace oligarchia.
Istituzioni democratiche. - Gli antichi, e soprattutto Aristotele, distinguevano quattro forme di democrazia. La più antica corrispondeva alla concezione del diritto pieno e completo di cittadinanza che si riconosce a tutti i cittadini, cioè la partecipazione attiva all'assemblea popolare e ai pubblici giudizî, escludendo però dalla magistratura coloro che non hanno un censo sia pure assai modesto, poiché i nullatenenti non possono rinunziare ai proventi del loro lavoro per attendere alla cosa pubblica. Su questi principî si fondava la costituzione ateniese di Solone, appoggiandosi al medio ceto agricolo e urbano. Questa concezione poteva venire estesa nel senso di ammettere a tutti i diritti elettorali attivi e passivi i cittadini, fermo restando però che nella legge era la suprema sovranità dello stato: ma con la riserva che ne potessero beneficiare solo i figli di padre e madre cittadini. Un'altra forma di democrazia era quella che parificava, sotto l'imperio della legge, i figli di un solo genitore cittadino ai figli d'ambedue i genitori cittadini. Ultima tra le forme di democrazia è poi quella in cui non la legge ma le deliberazioni del popolo sono sovrane, e non vi è legge, ma tutto è sottoposto all'arbitrio - cioè alla tirannide - della massa, della collettività, dei molti, guidati dai demagoghi. Organo fondamentale comune a tutte queste forme politiche di democrazia è l'assemblea popolare, la quale decide dell'approvazione delle leggi e delle norme costituzionali; nomina i magistrati e ne controlla le rese dei conti; decide circa la guerra, la pace, le alleanze, la concessione o la revoca del diritto di cittadinanza, le condanne a morte e all'esilio. L'assemblea del popolo, a seconda dei luoghi, viene chiamata εκκλησία, ἀλιαία, ἀγορά o ἀπέλλα. L'ecclesia democratica è composta di tutti i cittadini che, in quanto tali, sono ἔκκλητοι, a meno che non siano stati loro revocati o sospesi i diritti civici: in alcune circostanze i cittadini, o almeno i ricchi, sono costretti a prendere parte alle sedute. L' assemblea si convocava o in piazze pubbliche o in edifici chiusi: già nei tempi omerici si radunava in una piazza: veniva sovente scelto il mercato come il centro della vita cittadina, ma poi le esigenze del commercio obbligarono a distinguere il mercato dalla piazza di riunione popolare. In Tessaglia si distingueva il λιμήν dalla piazza normale del mercato (ἀγορά) e lo si circondava di edifici pubblici. Ad Alicarnasso si distingueva una ἀγορά sacra, destinata alle riunioni pubbliche, da quella del mercato, e così luoghi particolari di riunioni erano proprî di tutte le città democratiche: nelle più piccole città le riunioni avvenivano però anche in un tempio. In Atene si usò dapprima normalmente la pnice, ed eccezionalmente in altri luoghi: nell'età ellenistica era invece abitudine, in Atene e altrove, il riunirsi nel teatro. Convocata l'assemblea e aperta la seduta dai magistrati a ciò delegati, ognuno, per il principio fondamentale dell'isegoria, aveva il diritto di parlare sugli argomenti in discussione. La votazione era individuale e pubblica, per alzata di mano (χειροτονία) o segreta (ψηϕοϕορία) con urne e tessere di voto: questo secondo sistema in Atene era riservato alle votazioni per fatti personali: in entrambi i sistemi la maggioranza dei votanti decideva. Le decisioni, se prese in rapporto alle leggi vigenti, valevano per tutto il popolo.
Accanto all'assemblea popolare vi dovevano essere pubbliche cariche e funzioni. La breve durata delle cariche pubbliche era una garanzia importante per la democrazia: in molte città non si superavano i quattro o i sei mesi; ma nell'età ellenistica si facevano frequenti e importanti eccezioni a questa regola. Era altresì vietato, eccezion fatta per le funzioni militari, il cumulo o la proroga della magistratura. Il consiglio che fiancheggiava l'assemblea poteva poi essere diversamente composto; in Chio lo costituivano le rappresentanze di tutte le file e così la bulè ateniese della costituzione di Solone. Questi esempî furono seguiti, con molte variazioni, dalle democrazie delle altre città greche. Tanto i buleuti quanto gli altri magistrati erano sottoposti a un giuramento all'atto di entrare in carica e, per le magistrature, a una resa di conti (εὔϑυνα), per la quale s'istituivano speciali magistrature. L'amministrazione dello stato, che nei magistrati aveva il potere esecutivo, nella bulè trovava il centro di tutta l'organizzazione: accanto talvolta gli coesisteva la gerusia, l'antico consiglio oligarchico, con funzioni molto limitate, salvo il caso dell'Areopago ateniese. Le sedute di questo consiglio, che costituiva una specie di commissione rappresentativa dell'assemblea popolare, non erano pubbliche; e al consiglio spettavano poteri su tutti gli aspetti della vita della città: infatti erano in esso tutti i poteri dell'assemblea popolare che gli trasferiva l'ἀεχή. Le sedute avvenivano con varia frequenza a seconda dei luoghi e delle epoche.
Mentre i poteri e la competenza del consiglio era generica, la competenza e i poteri dei magistrati erano strettamente limitati alle loro funzioni, che, per la pratica democratica, erano suddivise fra le varie cariche, affidate a magistrati singoli o collegiati; e i collegi potevano essere più o meno numerosi. I maggiori collegi erano per importanza quelli degli strateghi, o dei polemarchi; poi vi erano i preposti all'amministrazione finanziaria, i ταμίαι, con tutti gl'incaricati di funzioni di controllo.
Le concezioni della democrazia. - I varî problemi che si presentarono al pensiero dei Greci quando essi, indagando la natura delle varie costituzioni, dovettero prendere una posizione teorica di fronte alla questione del governo popolare, risultano già chiari nel loro contrasto dalle pagine in cui Erodoto (III, 80 segg.) narra come, dopo la magofonia, Otane, Megabizo e Dario discutessero tra loro circa la costituzione da adottare, propugnando l'uno la democratica, l'altro l'aristocratica e il terzo la monarchica. Qui si presenta già quella distinzione delle tre principali forme di governo, che doveva restare fondamentale, e viene insieme in luce l'essenziale contrasto dei motivi in cui il pensiero greco si scisse di fronte al problema della democrazia. Dal punto di vista di Otane, il governo popolare (che "ha il più bello di tutti i nomi, l'isonomia") è l'unico che garantisca l'uguaglianza e la libertà, evitando ogni sopruso di tirannide; ma dal punto di vista di Megabizo esso è invece peggiore anche della tirannide, perché è il governo della folla che non sa, e quindi non può che procedere "come un torrente in piena". Da tale punto di vista, l'ottimo governo sarà invece quello degli ottimi, o, come rincalza alla fine Dario, portando alla sua più rigorosa espressione l'idea di Megabizo, quello addirittura dell'ottimo, la monarchia. In contrasto sono dunque, essenzialmente, il motivo della libertà e il motivo della sapienza: secondo il primo, il governo deve essere del maggior numero di persone e deve il più possibile rispondere ai loro singoli ed eguali diritti; secondo l'altro, il govermo deve essere soltanto di chi ne possieda la scienza, e sappia così guidar verso il meglio anche gli altri, pur contro la loro inesperta volontà. Si può dire che tutte le concezioni classiche in materia abbiano sviluppato l'uno o l'altro di questi motivi trovandosi poi di fronte, in un modo o nell'altro, alle difficoltà che derivavano dalla loro astratta e unilaterale opposizione.
Tra le due correnti, quella che parte dal concetto della libertà è in fondo la meno importante, sia perché, pur movendo dal miglior presupposto per la giustificazione teorica della democrazia, lo intende poi in maniera tale da renderlo incompatibile con lo stesso concetto dello stato, sia perché, infine, torna con altre sue tendenze su quello stesso motivo della sapienza, che all'altro si contrapponeva. Questa corrente è la cinico-stoica: la quale infatti muove inizialmente dall'esigenza di un'eliminazione delle differenze sociali, per giungere all'ideale dello stato universale, dove la schiavitù è abolita e tutti sono liberi; ma questo cosmopolitismo è poi negazione di ogni concreta vita politica, e la libertà che vi si realizza è piuttosto l'astratta libertà insofferente di leggi, quale già si affermava nella sofistica, che la libertà garantita dalle leggi. D'altra parte essenziale allo stoicismo è la concezione del saggio come assolutamente superiore agli altri uomini: di qui si giunge all'ideale della monarchia del sapiente, rispecchiante nel mondo umano la monarchia dell'universo, determinato dall'unica legge della ragione. S'intende quindi come, più tardi (specialmente nel periodo della media Stoa), questa filosofia potesse giungere, contemperando le sue estreme tendenze, a vagheggiare quello stesso ideale politico dello stato misto, equamente costituito di forme democratiche, aristocratiche e monarchiche, a cui conclusivamente mirava anche l'altra e maggior corrente del pensiero politico greco.
Questa aveva, d'altronde, preso le mosse non tanto dal motivo della libertà quanto da quello della sapienza, quale si era venuto sviluppando nell'insegnamento di Socrate in contrasto appunto con la concezione politica dei sofisti. Per la sofistica, la libertà e l'isegoria democratica erano premesse per la possibilità del successo politico, quale l'individuo poteva raggiungere in forza della sua capacità oratoria, senza che questa capacità avesse bisogno di accompagnarsi a reale sapienza: di qui l'opposizione socratico-platonica, tutta imperniata sul concetto che la virtù, e con ciò la virtù politica, è in primo luogo scienza, e che quindi vero politico è chi possiede scienza, e non già chi sa soltanto persuadere gli altri alla sua volontà. Implicita in Socrate, questa posizione antidemocratica diviene esplicita in Platone, culminando, attraverso le polemiche contro la sofistica e la retorica, nell'ideale concezione della Repubblica, in cui governano solo i filosofi, mentre le classi dei guerrieri e dei produttori restano escluse dal potere politico. Dal punto di vista di questa "vera aristocrazia" (che non è d'altronde l'aristocrazia piattamente intesa come classe, quale è difesa invece, contro la democrazia dominante, nella pseudosenofontea Costituzione degli Ateniesi) tutte le altre forme costituzionali (timocrazia, oligarchia, democrazia, tirannide) appaiono svalutate egualmente, come ideali fasi di progressiva corruzione del perfetto stato; e particolarmente aspra è proprio la trattazione della democrazia, nella quale echeggia la stessa personale esperienza politica di Platone, che scorge il suo massimo male nell'indifferenziata eguaglianza. Ma già nel Politico questa avversione appare attenuata, e proprio in quanto l'ideale immagine dello stato perfetto, in cui governa il sapiente che non ha perciò bisogno di leggi, vi si comincia ormai a staccare dalla concezione dello stato reale, in cui le leggi sono necessarie perché non è più possibile che vi governi l'unico sapiente: e qui, allora, in seno alla gerarchia delle possibili forme costituzionali, la democrazia viene ultima, dopo la monarchia e l'aristocrazia, nella scala discendente dei buoni governi, obbedienti alle leggi, ma viene prima, innanzi all'oligarchia e alla tirannide, nella scala discendente dei cattivi governi, disobbedienti alle leggi. In tal modo la democrazia è sì il meno buono dei governi buoni, ma anche il meno cattivo dei governi cattivi. Questo attenuarsi del motivo antidemocratico culmina infine nelle Leggi, dove i due principî del governo della sapienza e della libertà dei governati finiscono per essere prospettati sullo stesso piano, come esigenze egualmente imprescindibili di una buona costituzione: col risultato della negazione di ogni ordinamento esclusivamente monarchico o esclusivamente democratico, e dell'elevazione a ideale di uno stato misto.
Un ideale, questo dello stato misto, che doveva poi, come si è detto, sopravvivere nella scuola aristotelica (come per es., in Dicearco), influire sullo stesso stoicismo, ed essere infine ripreso da Polibio, in quel ripensamento del problema politico a cui egli era indotto dal grande esempio storico di Roma; e che era in realtà profondamente radicato nello stesso pensiero di Aristotele, il quale pure si presenta, per altri rispetti, come il massimo assertore teorico dell'antica democrazia. È vero, infatti, che la Politica aristotelica opta in sostanza per il governo del popolo, sia pure moderato da un solido ordinamento costituzionale che tolga alla folla la possibilità di sopraffare la legge e favorisca il più moderato e intelligente dominio delle classi medie: ma questo governo (che è la cosiddetta politeia, cioè la "costituzione" per antonomasia) è tuttavia per Aristotele un governo di compromesso, che sul piano della pratica si dimostra preferibile, contemperando la democrazia e l'oligarchia, allo stesso modo in cui si mostra buono anche l'altro governo di compromesso, la cosiddetta aristocrazia, che contempera il potere popolare con quello degli ottimi. Sul piano ideale, Aristotele continua infatti a distinguere e a contrapporre unilateralmente, nello studio dei motivi genetici delle costituzioni, quelli della sapienza, della ricchezza e della libertà; e chiarendo come, negli stati ordinati a vantaggio dei sudditi, essi diano luogo alla monarchia, all'aristocrazia e alla politica, mentre, negli stati ordinati a vantaggio dei governanti, essi dànno luogo alla tirannide, all'oligarchia e alla democrazia, mostra come per lui essi siano, comunque, elementi in contrasto, rispetto ai quali non è possibile se non la soluzione di compromesso che meglio si adegui, caso per caso, alle esigenze storiche. Ma, in assoluto, governo ottimo non può essere per lui, come per Platone, che governo degli ottimi, e cioè dei sapienti: l'aristocrazia dei saggi, o addirittura la monarchia del più saggio. Il motivo della sapienza, mantenuto ancora nella sua astratta distinzione rispetto a quello della libertà, doveva in ultima analisi soverchiarlo perfino nel pensiero del più acuto e accurato teorizzatore delle forme politiche del governo popolare.
Superiore a tale contrasto resta invece il più classico documento dell'ideale democratico greco, e cioè l'epitafio di Pericle che leggiamo in Tucidide (II, 35 segg.: v. specialmente 37-41). Qui la democrazia (chiamata questa volta senz'altro con tale nome, che altrove n0n suona mai troppo caro agli orecchi dei teorici greci) non è più soltanto governo del popolo, come forza di classe contrapposta a classe o come garanzia d'illimitate libertà: bensì governo di chiunque sappia esserne degno, in quella misura per cui egli sia capace di contribuire per sua parte alla comune intelligenza dei problemi politici. La libertà diventa essa stessa condizione di quella sapienza che sorge solo dalla comune discussione: "le stesse persone hanno insieme pensiero e delle cose private e della cosa pubblica, e, pur intente ciascuna ai suoi affari, conoscono nondimeno a sufficienza gli affari politici: ché soli noi stimiamo, chi non vi partecipi, non solo uomo ozioso ma addirittura uomo dappoco, pensando che non la discussione sia di danno alle opere, bensì, piuttosto, che lo sia il non rendersi prima conto mediante la discussione di ciò a cui poi occorra venir coi fatti" (ibid., 40). Un ideale politico, che si presenta insieme come un ideale pedagogico, onde la città d'Atene può valere d'ammaestramento per tutta la Grecia allo stesso modo che i suoi cittadini raggiungono, per effetto di tale educazione, un livello esemplare di umanità. Qui il contrasto tra libertà e sapienza è praticamente conciliato nel senso che la prima è mezzo per la conquista dell'altra e questa mezzo per il controllo della prima; e la democrazia ne risulta, può dirsi, quasi innalzata a liberalismo.
Bibl.: Fra le trattazioni generali si vedano: G. Grote, History of Greece, Londra 1846-1856; J. Beloch, Griech. Gesch., Berlino-Stoccarda 1912-1926; A. Ferrabino, La dissoluzione della libertà nella Grecia antica, Padova 1929; G. Busolt, Griechische Staatskunde, IV, i, 3ª ed., Monaco 1920, p. 411 segg.; A. Croiset, Les démocraties antiques, Parigi 1909; R. Pöhlmann, Geschichte der sozialen Frage in der antiken Welt, 2ª ed., Monaco 1912; Duremberg e Saglio, Dict. d. antiq. gr. et rom., voci Demokratia e Demos; G. Glotz, La cité grecque, Parigi 1928; W. Oncken, Die Staatslehre der Aristoteles, Lipsia 1870-75; H. von Arnim, Die polit. Theorien des Altertums, Vienna 1910; C. Bradley, Aristotle's conception of the state, Oxford 1881; P. Janet, Hist. de la science politique, Parigi 1887.
Medioevo ed età moderna. - Se l'antichità non poté realizzare praticamente il concetto dell'autogoverno che in saltuarî periodi storici e solo in parte, il Medioevo incontrò ancora maggiori difficoltà nell'elaborare quella nozione e nel derivarne concrete applicazioni di vita politica. Eppure vi erano motivi ideali che, adeguatamente svolti, potevano portare, quasi per naturale processo, a porre il popolo a centro della vita politica; in primo luogo il significato etico dell'insegnamento cristiano, quindi, dopo il Mille, la rinascita della filosofia politica classica, in ispecie di Aristotele. Certo la parola del vangelo, accentuando l'elemento soggettivo della personalità e rinnovandola nell'amore e nella carità, riconosceva una fondamentale uguaglianza, un'innata libertà umana, che, nella purificazione attinta con l'ausilio della grazia, rendeva tutti capaci di entrare nel regno dei cieli.
E nell'ordine mondano, difatti, la primitiva vita dei cristiani poté in un certo senso presentarsi nell'aspetto di un sodalizio fondato sulla libera adesione dei soci e sull'uguaglianza di essi morale e patrimoniale, attinta attraverso la comunanza dei beni e una semplicissima struttura gerarchica. Ma le vicende storiche della religione, il suo inserirsi su un piano più ampio, che va fino all'impero, la portarono lontano dalle strutture democratiche. Senza transigere sulle dottrine fondamentali, la religione, divenuta universale, non contrastò l'ordine politico vigente, pur cercando di temperarlo, di adattarlo il più possibile alle sue teorie. L'eguaglianza e la libertà, asserite nell'ordine etico, non ebbero quei pratici riconoscimenti ond'erano capaci: ché, anzi, l'organizzazione ecclesiastica, adattandosi alle forme dello stato romano, si sviluppò gerarchicamente; accettò come un dato di fatto quella società che, nel dissolversi del mondo antico, accentuava motivi autoritarî e privilegi classici. Si creò quindi un dualismo tra l'ordine ideale della dottrina, che apre la via al regno dei cieli fondato sull'amore e sulla carità, e l'ordine politico, che il primo non riesce mai a permeare del tutto, ma su cui pure influisce.
Il dualismo si approfondisce quanto più si progredisce nei secoli di mezzo, quando l'organizzazione feudale - che dall'alto derivava, in un sistema di convenzioni parziali e volontarie cessioni, l'ordinamento politico - isolò i ceti e li subordinò nei mutui rapporti, indistintamente pubblici e privati; ma quando, nello stesso tempo, indistinti bisogni di rinnovamento alimentarono rifioriture ereticali che, oltre gli aspetti officiali della vita ecclesiastica, aspiravano alla semplicità elementare del protocristianesimo, si ordinavano su basi egualitarie, cercavano di realizzare quella comunione materiale ed etica, che è la trasposizione terrena del regno promesso. Moti questi, nei quali i conati di democrazia appaiono più propriamente aspirazioni comunistiche.
Da un punto di vista dottrinale, accanto all'influsso dell'insegnamento cristiano occorre segnare inoltre, come elementi che possono spiegarci le dottrine democratiche nel Medioevo, la rinascita dell'aristotelismo e il primo fiorire delle teorie contrattualistiche.
Quando la filosofia aristotelica ebbe conquistato l'Occidente cristiano, la Chiesa, dapprima ostile al nuovo pensiero, dovette poi venire con esso a patti, cercando di conciliarlo col dogma. Nel campo del pensiero politico il rinnovamento è più che altrove visibile e porta a un abbandono della dottrina tradizionale in tema di sovranità. La democrazia comincia solo allora ad essere presa in considerazione. Di contro alla dottrina antica, che, fondandosi sulla formula paolina dell'omnis potestas a Deo, trova la base della sovranità nella trascendente volontà di Dio, che investe direttamente il singolo di un' indiscutibile autorità, la scolastica distingue nettamente tra la funzione sovrana e la persona che l'esercita, epperò, pur continuando ad ammettere che la prima in quanto si astragga dal titolare provenga da Dio, riconosce come il sovrano, di fatto, possa esercitarla attraverso le più diverse istituzioni, sia per forza propria, sia anche per scelta o accettazione popolare. Dio, in tal caso, è la "causa remota" della sovranità, il popolo la diretta. La formula democratica, che la sovranità istituisce attraverso la volontà collettiva, è una delle tante possibili, se pure praticamente la più difficile a realizzarsi. S. Tommaso elabora la dottrina e sulla sua base riconosce l'eccellenza del governo legale o politico, come egli dice, fondato sulle leggi consentite dal popolo, nei confronti di quello dispotico fondato sul libito autarchico.
Il principio popolare, che così timidamente comincia, diviene arma di battaglia dell'imperatore e dei principi per emanciparsi dal pontefice, in quanto, mentre questi, nelle lotte tra Impero e Chiesa, tra i singoli stati e la sede romana, sostiene che in ogni caso l'autorità sovrana, qualunque sia l'origine, possa pervenire e riconoscersi nel monarca solo attraverso la mediazione sacerdotale, imperatori e principi la rivendicano direttamente e taluni asseriscono gestirla in nome del popolo cui Dio ebbe a conferirla. Miscela di elementi teocratici e popolari, da cui pur si svolgono principî nuovi. Così nella lotta tra Bonifacio VIII e Filippo il Bello, Giovanni da Parigi pronuncia la famosa formula: populo faciente et Deo inspirante che anticipa quella del costituzionalismo liberale per cui il re è tale "per grazia di Dio e volontà della nazione".
Sullo svolgimento delle teorie democratiche influì anche il contrattualismo (v.), che nel Medioevo inizia il suo ciclo storico. L'idea di un contratto sociale non è nuova. L'antichità la conobbe in alcuni passi stoici ed epicurei che misero in rilievo l'elemento convenzionale, il consenso dei partecipanti alla vita collettiva. Il Medioevo non poteva non elaborare una siffatta dottrina, dato che la società di quel tempo era essenzialmente contrattuale, la si riguardi sia nelle forme feudali, di cui abbiamo detto, sia in quelle comunali, di cui diremo. Solo che le nuove dottrine contrattualistiche differiscono dalle antiche, poiché, mentre le prime riconoscevano un vago pactum societatis, ora a questo si unisce un pactum subiectionis dei consociati verso il principe. Ma sempre resta che lo stato nasce da contratto, dalla volontà concorde dei soci, che quindi idealmente partecipano al nascimento del rapporto politico. Germe iniziale di possibilità democratiche, che troviamo già in Manegold von Lautenbach e che maggiori sviluppi avrà in Niccolò da Cusa e nei politici conciliarî del Quattrocento.
Potenziali germi democratici possiamo rinvenire nei dottori del diritto romano, in quanto desideravano fondare sui testi antichi la ragione giuridica della sovranità imperiale. Per essi l'imperatore romano-germanico è l'erede di Giustiniano, Traiano, Cesare Augusto, i quali alla loro volta trassero la loro autorità da una cessione popolare, attraverso una lex regia de imperio. Nella scuola, questa cessione variamente interpretata finì per costituire l'assolutismo, poiché si ritenne che essa fosse irrevocabile, una volta avvenuta. Così l'assolutismo nasceva dalla stessa dottrina della sovranità popolare. Tanto più che il Medioevo intendeva meglio il principio della rappresentanza che quello dell'elezione, necessario quanto il primo per una esperienza di vera democrazia. Come osserva il Prins (La democratie et le régime parlementaire, Bruxelles 1884, p. 96 e segg.): "la democrazia comunale.... si slanciava arditamente avanti quando si trattava d'ottenere la rappresentanza d'un grande interesse sconosciuto; le era indifferente invece che avesse avuto molti o pochi elettori. La democrazia non sacrificava dunque al numero, questo fragile idolo del sec. XIX. No, essa si rivolgeva agli organismi, ai gruppi e diceva loro: forniteci dei rappresentanti... L'elezione è l'accessorio; l'essenziale sta nella rappresentanza".
Da ciò derivavano due importanti conseguenze. Secondo il Medioevo, il riconoscimento di una base popolare spesso è solo teorica, ché in pratica, attraverso il concetto estesissimo di rappresentanza, chi governa di fatto non mantiene il contatto (attraverso le rinnovate elezioni) con i rappresentanti, ma spesso la rappresentanza è una praesumptio iuris et de iure, che legittima la condizione esistente. L'imperatore rappresenta i sette elettori, ma, una volta eletto, non è da questi controllato, e le rispettive volontà si esplicano su un piano spesso discorde; gli elettori sono rappresentanti nati del popolo romano, ma tra essi non c'è relazione alcuna, nemmeno elettiva. Eppure, nonostante ciò, il Medioevo ha sempre ritenuto che il principe governò il popolo, per l'universus civium, per il bonum commune. Una coscienza, se pur vaga, di questo fondamento popolare della sovranità è stato sempre presente alla politica medievale, e talora oltre gli schemi della rappresentanza presunta, venne asserito altresì il principio dell'elezione diretta a populo. Così Arnaldo da Brescia ricordò al Barbarossa che al popolo romano spetta concedere la suprema dignità dello stato imperiale e non ad altri, cui questi rispose non essere del popolo dare leggi al principe, sibbene obbedire.
In secondo luogo occorre tener presente che per una realizzazione della democrazia mancava al Medioevo il concetto politico dell'eguaglianza degli uomini. Il concetto di popolo era assai ristretto, limitato solo a quei ceti che avevano i diritti pubblici, spesso a quelle classi che detenevano il potere. Si aggiunga la ripartizione di queste in corporazioni di maggiore o minore importanza costituzionale e legislativa, per cui il voto del cittadino valeva piú o meno secondo l'ordine cui apparteneva. Il criterio maggioritario tipico nelle moderne democrazie, era ignoto a quei regimi e ne occupava il posto un diverso criterio qualitativo. Ciò serve a spiegarci in quali limiti il comune italiano possa dirsi democratico. Questo suo carattere corporativo appare sempre più evidente a mano a mano che si approfondisce lo studio dell'argomento. Forma istituzionale che si vede altresì nel comune rurale assiso sempre sulle basi non dell'uguaglianza, ma dell'associazione fondata sulla distribuzione del lavoro in rapporto ai bisogni del corpo sociale. I comunisti si governavano in modo autonomo, delegavano rappresentanti, dividevano i beni comuni nell'uso e nel frutto. L'unità politica non era negl'individui, assunti come eguali, ma nel corpo sociale e nei corpi minori che quello comprendeva e nelle famiglie, spesso entità chiuse; poiché, come quelli non ammettevano nuovi soci, in queste si perpetuava l'arte o mestiere di generazione in generazione. Nell'assemblea, che si teneva in piazza, si decidevano gli affari collettivi, ispirandosi a un senso di solidarietà corporativa. Istituti del genere, le cui origini storiche sono remotissime, profonde nel Medioevo, troviamo in Italia, nel Belgio, nella Svizzera, in Inghilterra e persino in Russia.
Lo scrittore che meglio incarna l'ideale democratico nel pensiero politico medievale è Marsilio da Padova (v.), in cui i concetti di sovranità popolare e corporativa, di rappresentanza, ecc., vengono applicati largamente alla vita dello Stato e altresì a quella della Chiesa. Del resto, nel suo Defensor pacis, egli tiene presente assai spesso le forme costituzionali della sua città, col suo popolo legiferante nell'arengo, con le consuete ineguaglianze e limitazioni classiste.
Questi ideali sono dal Medioevo consegnati al Rinascimento, che li elabora e li trasforma. L'umanesimo con la sua rivalutazione del mondo classico li rivive e sogna sui libri di Livio e di Tacito le antiche repubbliche dagli uomini saggi e virtuosi. L'aspirazione democratica diviene sogno di letterati e norma di vita autonoma. Non, peraltro, del tutto vaga, ché spesso quegli umanisti operarono nella realtà e nelle contese dei loro tempi portarono uno spirito di singolare austerità. D'altra parte, la politica seguiva nei fatti una via diversa da quella auspicata, ché al govemo popolare sottentrava lentamente quello dell'unus, al comune la signoria e il principato. Erra chi crede la signoria negazione sic et simpliciter del principato popolare, ché anzi le sue origini in Italia derivano proprio dal popolo, di cui il tiranno si atteggia difensore contro le classi privilegiate. Bene è stato questo punto chiarito dall'Ercole il quale osserva come "dal comune, cioè dalla volontà popolare legalmente espressa dagli organi costituzionali del comune, il signore ripeteva l'origine del suo dominio; e al comune questo ritornava sempre, sia alla morte o alla rinuncia del signore, sia al cessare, improvviso o violento, per qualsiasi motivo, della signoria". Insomma, almeno per i comuni veneti studiati dall'Ercole, il sorgere della signoria aveva dato luogo a una diarchia, per cui da una parte v'era il comune che manteneva la sua autonomia e personalità e in cui stava la base della sovranità, dall'altra il signore, che esercitava un'illimitata sovranità ma che sempre derivava il suo potere giuridicamente dal comune.
Nel campo delle dottrine politiche la rinascita dei valori umani rivaluta la forma democratica in confronto alle altre, come quella in cui l'autonomia dei singoli incontra maggiore rispetto e garanzie. Troviamo così il Patrizi da Siena scrivere accanto al trattato De regno un De republica ove vagheggia uno stato nel quale dominino le leggi da tutti consentite. Il Machiavelli riprende la teoria di Polibio sulla successione dei regimi politici, ma non esita a preferire la repubblica, specie se essa sia temperata nel cosiddetto governo misto, il quale, come ideale di moderata democrazia, vale a dire conciliata con gli opposti principî monarchici e aristocratici, fiorisce proprio nel tempo di Machiavelli. Il suo pensiero vagheggia, oltre la contemporanea corruttela, la semplicità di vita dei montanari svizzeri. Peraltro, riconosce come sia difficile assicurarsi le condizioni che stabilizzino la democrazia. Solo ove cittadini siano animati da civiche virtù, ove non sussistano notevoli disuguaglianze economiche, può prosperare una repubblica democratica: se altrimenti, alla democrazia deve sottentrare il governo dell'unus, il principe come regime d'eccezione.
L'opera del Machiavelli è contemporanea alla formazione o al consolidamento delle grandi monarchie territoriali su basi tendenzialmente nazionali, in Spagna, in Francia, in Inghilterra. L'assolutismo regio è certo contrario alla democrazia, ma pure negativamente influisce su questa, se non altro per l'ovvia ragione che, nel suo sforzo di distruggere la potenza dei ceti privilegiati, sentiva il bisogno di appoggiarsi al popolo delle città, alla borghesia, ch'esso cominciò a favorire, spianando la via alla sua ascesa politica. Gli scrittori che accompagnano il moto assolutistico, per es., Hobbes e Filmer in Inghilterra, non sono certo teneri per i presupposti democratici, ma gli stessi principî teorici da cui muovono, in generale contrattualistici, sono da altri condotti a propugnare indirizzi più liberali. Se gli assolutisti ritengono che in seguito al patto il popolo abbia ceduto irrevocabilmente la sovranità e la libertà al principe, di contro Sidney, Milton, Locke e altri giudicano che il potere emani dal popolo, attraverso il contratto, in cui è necessario che i singoli sacrifichino libertà e diritti naturali solo per quel tanto che valga a costituire lo stato come organo superiore di tutela. Il principe, rappresentante dello stato, esercita il potere nei limiti sanciti dal patto, per cui la sottomissione dei cittadini non è illimitata, bensì relativa a quelle esigenze, per attuare le quali, in ipotesi, si è istituita l'organizzazione politica. La volontà popolare è sovrana e la legittimità del governo è data dalla maggiore o minore rispondenza al consenso popolare.
Allo sviluppo delle dottrine sulla sovranità popolare hanno dato impulso da un lato le lotte costituzionali che, nell'Inghilterra, per es., portarono alla rivoluzione del 1688, in cui si affermarono i diritti del popolo e del parlamento contro la corona e di cui i tre scrittori suddetti sono la grande eco; dall'altro, anche le lotte religiose, di cui i cosiddetti monarcomachi sono l'espressione nel campo teorico, in seno tanto al cattolicesimo quanto al protestantesimo. Per questi autori il principe deriva il potere dal popolo, ed egli deve esercitarlo nei limiti della delega, eccedendo la quale può essere punito, deposto e persino ucciso. Peraltro, quegli autori giudicavano assai contingentemente i termini oltre i quali si viola la delega originaria, considerando in fondo tiranno il principe che professa e impone una religione diversa da quella dello scrittore. In ogni modo, l'aver riferito la sovranità al popolo, sia pure come arma di battaglia contro l'ingerenza principesca nelle cose di fede, ebbe non lieve influsso sullo sviluppo delle dottrine.
Attraverso l'apporto di tanti elementi, teorici e pratici, si matura quel moto che sbocca nella rivoluzione francese, ché idealmente questa si ricollega alle precedenti inglese (1688) e americana (1774-76) e alle fioriture speculative che le accompagnarono, oltre che alle cause proprie, particolari alla Francia. La monarchia stessa aveva, come abbiamo detto, preparato l'avvento della borghesia come classe politica; d'altra parte, le dottrine contrattualistiche, elaborate dal giusnaturalismo, avevano portato a sostenere l'esistenza di diritti naturali dell'uomo, il cui rispetto costituisce l'esigenza di ogni legittima costituzione politica. Quindi la democrazia diviene in fondo termine ideale di ogni organizzazione sociale, poiché la validità di questa è commisurata alla stregua del consensus che la costituisce. G. G. Rousseau lo dice espressamente, allorquando vuole che nel suo stato comandi la volontà generale, ossia la legge espressa dal popolo sovrano, il quale è insieme legislatore e suddito. La sovramtà, inalienabile, imprescrittibile, indivisibile conserva sempre la sua base nel popolo. E qui si manifesta la differenza teorica tra la democrazia degl'ideologi della rivoluzione e la democrazia medievale: quella esclude la rappresentanza, su cui questa invece si fonda. Rousseau ritiene la rappresentanza lesiva della sovranità e propugna il governo diretto sull'esempio di alcuni cantoni svizzeri.
L'ideale di piena democrazia vagheggiato dal Rousseau era inattuabile, un regime di dei più che di uomini. Del resto il contratto sociale, secondo l'interpretazione più autorevole, non mira a costituire o a spiegare lo stato storico, lo stato come è, bensì a darci il paradigma dello stato ideale, dello stato come deve essere, la cui legittimità in tanto è in quanto si commisuri al consensus fondamentale, in quanto garantisca quei diritti naturali, per tutelare i quali gli uomini si sarebbero appunto consociati. D'altra parte la rivoluzione potè attuare i suoi fini solo adattandosi alle formule rappresentative, vale a dire temperando la democrazia diretta. La rappresentanza quindi divenne fondamentale alla vita della democrazia moderna, che assorbì con quello gli altri concetti del costituzionalismo (divisione dei poteri, monarca irresponsabile, ministri responsabili, sindacato degli atti amministrativi, tutela giuridica del cittadino) già elaborati sull'esperienza inglese dal Locke, e dal Montesquieu fatti noti ai popoli continentali. La democrazia sorta dalla grande rivoluzione è democrazia negli schemi del costituzionalismo rappresentativo, e solo in quanto conciliata con le forme parlamentari influì possentemente nella pratica. Attraverso la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, costituì le basi delle carte statutarie dell'Ottocento liberale.
Se riguardiamo la società moderna, possiamo dire che non esista alcuna democrazia tipo. I principî dianzi visti hanno certo influito sulla formazione delle nazioni dell'Ottocento in modo uniforme ma le forme positive di governo sono la risultante, oltre che di elementi teoretici, di peculiari tradizioni e di bisogni contingenti, variabili da paese a paese. Peraltro l'autogoverno del popolo, comunque sostenuto, ad opera di rappresentanza parlamentare e attraverso una più diretta partecipazione alla politica con l'iniziativa e il referendum, è l'aspirazione delle moderne società, che dà luogo a una serie d' istituti in cui la nozione moderna di democrazia si concretizza. Sicché, in fondo, per giudicarlo occorre guardare il momento storicamente, in rapporto alla vita dei singoli stati, presso i quali di volta in volta può costituire sia un bene sia un male: giacché la democrazia ha bisogno di alcuni presupposti senza i quali non solo non fiorisce, bensì decade e corrompe i popoli. Studiarli è impresa non facile, ed è possibile solo attraverso un'indagine accurata della realtà. Il Bryce ha fatto delle ricerche che sono il meglio che si abbia al riguardo. Per il Bryce la democrazia si sviluppa su un sostrato di diffuso benessere collettivo; le sperequazioni economiche infatti degenerano sempre nella prevalenza del ceto ricco sulla plebe e questa prevalenza genera le lotte classiste, cosicché la democrazia per lo più finisce in dittatura. È necessario per la democrazia un notevole grado di progresso civile, poiché altrimenti le libere istituzioni dell'autogoverno non possono essere intese dal popolo né rettamente usate: es., la corruzione istituzionale di alcuni stati sudamericani, ove la democrazia si è convertita, oltre le forme esteriori, nel suo opposto. La democrazia poi per il Bryce fiorisce solo nei paesi abituati al governo locale, poiché in fondo odia il centralismo burocratico alla francese, che è eteronomia e non autonomia della coscienza pubblica. Il governo locale abitua i cittadini alla responsabilità diretta, a un'opera indipendente, rende più vicini ai singoli i doveri e fa sentire più viva la necessità di adempierli, al di fuori di estrinseci comandi. Il centralismo burocratico, invece, è residuo di paternalismo, epperò contrario a quell'iniziativa che dovrebbe essere fondamentale nella vera democrazia. Solo ove queste condizioni si attuino, la democrazia prospera e rende forte un popolo, esprimendo da partiti e gruppi saldi e definiti quella maggioranza che sia capace di avviare la nazione ai suoi fini.
Il Bryce non ha con ciò inteso di dare principî universalmente validi, consapevole che il valore delle massime politiche non è mai assoluto, bensì di chiarire le condizioni positive d'una concreta esperienza democratica. Sulla stessa base storicistica egli ha esaminato come la democrazia sia entrata in crisi anche in paesi assai evoluti. Rinviene in tal modo le cause del malgoverno popolare in Francia nel parlamentarismo con le sue clientele, nella deficienza di governo locale, nell'ingerenza dei partiti per la tutela degli interessi comunali e provinciali presso il governo; mentre i sintomi del male che agita le democrazie nordamericane sono la mancanza di programmi che guidino l'attività dei suoi grandi partiti, il disinteresse dei ceti abbienti alla cosa pubblica affidata a politicanti, la corruzione, il sistema cosiddetto delle spoglie per cui il partito al potere copre con suoi delegati i posti più alti dell'amministrazione, la mancanza d'una burocrazia e di una magistratura di carriera. Da ciò non è da concludersi un fallimento della democrazia: l'osservazione disinteressata avverte segni di rinnovamento anche presso i popoli più provati dalla corruttela democratica.
A questo proposito dobbiamo notare come le moderne democrazie hanno nell'ultima metà del secolo scorso subito una forte prova con gli sviluppi del movimento operaio nelle sue aspirazioni socialistiche e sindacalistiche. Se alcune di esse si sono mostrate nelle difficili circostanze impreparate, troppo irrigidite negli schemi del costituzionalismo liberale, con i suoi dogmi individualistici e rappresentativi, donde una crisi non sempre sanata, altre (come quelle dell'Australia e della Nuova Zelanda) hanno accolto quelle forze sociali trasformandosi nelle strutture politiche e dando luogo a nuove forme di democrazia socialistica o semisocialistica, a fondo sindacale e corporativo, con la rappresentanza degl'interessi dei gruppi, anziché con quella atomistica del parlamentarismo corrente.
In Italia la democrazia intesa come pratica di autogoverno non ha avuto una tradizione e una linea. Lo stesso processo unitario ci spiega ciò. L'unificazione amministrativa imposta da Torino dopo il 1861 tolse in fondo la possibilità di quell'autogoverno locale che costituisce il fondamento della vera democrazia. Né tutte le parti d'Italia erano ugualmente mature alle forme libere modellate sulle costituzioni belga e francese. Donde la critica di Cattaneo, Ferrari e Anelli, che, se erra nella soluzione federalistica, coglie certo il male. L'ideale unitario fece dimenticare che lo stato vive in uno con la società da cui non astrae, e che questa è bisogni di ceti, interessi di gruppi, aspirazioni locali, spesso pregiudizî campanilistici. Quindi i partiti al governo, la Destra liberale fino al 1876, poi la Sinistra democratica, non fecero che allargare il suffragio, credendo di ampliare le basi rappresentative della democrazia, mentre c'è rappresentanza vera solo dove c'è coscienza, ciò che in Italia mancava. Donde la crisi, accentuatasi di fronte alle nuove esperienze socialistiche e sindacalistiche. Non mancarono voci, specie nell'ambito della Destra, a segnalare il pericolo, col Minghetti, col Savarese, col Cenni, col Persico, col Bonghi, col Turiello, col Mosca, auspicando soprattutto una rappresentanza d'interessi, che adeguasse lo stato alla società, gli organi parlamentari alla vita, ma rimasero isolate. La democrazia italiana continuò la sua vita stentata e in fondo illiberale nel trasformismo, che palliava conati di dittature singole, finché si dimostrò impotente ad arginare un moto come il fascismo (v.), in parte espresso da quelle stesse forze sindacalistiche che essa aveva ignorato.
Bibl.: Oltre alle opere di carattere generale per lo studio della democrazia nel Medioevo, ricorderemo, sulle dottrine medievali: O. Gierke, Les théories politiques du moyen âge, trad. franc. di J. de Pange, Parigi 1914, passim; P. Janet, Histoire de la science politique dans ses rapports avec la morale, 3ª ed., Parigi 1887, voll. 2, passim; Carlyle, A history of medieval political theory in the West, Edimburgo e Londra 1903-1928, voll. 5, passim; G. De Montemayor, Storia del diritto naturale, Palermo 1910-11; E. Crosa, la sovranità popolare dal Medioevo alla rivoluzione francese, Torino 1915; v. Bezold, Die Lehre von der Volkssoweränität während des Mittelalters, in Historische Zeitschrift, XXXVI (1876), p. 316 segg.; E. Schönian, Die Idee der Volkssouveränität im mittelalterlichen Rom, Lipsia 1919; Scholz, Marsilius von Padua und die Idee der Demokratie, in Zeitschrift für Politik, I (1907), p. 61 segg.; K. Hirsch, Die Ausbildung der konziliaren Theorie im XIV. Jahrhundert, Vienna 1903. Sulla democrazia trecentesca e quattrocentesca vedi: J. Luchaire, Les démocraties italiennes, Parigi 1915: F.T. Perrens, la démocratie en France au moyen-âge, 2ª ed., Parigi 1873, voll. 2. Sui concetti di rappresentanza nel Medioevo vedi: O. Gierke, Über die Geschichte des Majoriätsprinzip, in Essays in legal history, ed. Vinogradoff, Oxford 1913; E. Ruffini, Avondo, Il principio maggioritario, Torino 1927. Sulle origini della democrazia moderna vedi: J. Mackinnon, A history of modern liberty, Londra 1906, voll. 2; F. Battaglia, La dottrina dello Stato misto nei politici fiorentini del Rinascimento in Rivista internazionale di filosofia del diritto, VII (1927); G. Del Vecchio, Su la teoria del contratto sociale, Bologna 1906; G. Solari, La scuola del diritto naturale nelle dottrine etico-giuridiche dei secoli XVII e XVIII, Torino 1904. Sul Rousseau e la democrazia nella rivoluzione francese, vedi Liepmann, Die Rechtsphilosophie des Jean Jacques Rousseau, Berlino 1898; G. Del Vecchio, Sui caratteri fondamentali della filosofia politica del Rousseau, Genova 1914; A. Espinas, La philosophie sociale au XVIIIe siècle et la Révolution, Parigi 1898; V. Marcaggi, Les origines de la Déclaration des droits de l'homme de 1789, Parigi 1904; Jellinek, la Déclaration des droits de l'homme et du citoyen, in Revue du droit public et de la science politique, XVIII (1902), p. 385 segg. Sulla moderna democrazia: Scherger, The evolution of modern liberty, New York 1904; Constant, Della libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, in Biblioteca di scienze politiche, V, Torino 1890, p. 554 segg.; C. Raemy, La vérité dans la démocratie au moyen de la représentation proportionnelles de toutes les opinions, Friburgo 1880; E. Naville, La démocratie représentative, Ginevra 1881. Per lo studio delle più importanti democrazie moderne, Bryce,Democrazie moderne, tra. it., Milano 1930. Per l'Italia: L. Anelli, I 16 anni del governo dei moderati (1860-1876), Como 1929; M. Minghetti, I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nella amministrazione, 2ª ed., Bologna 1881; P. Turiello, Governo e governanti in Italia, 2ª ed., Bologna 1889-90; R. Bonghi, Come cadde la Destra, a cura di F. Piccolo, Milano 1929; F.Persico, Le rappresentanze politiche ed amministrative. Considreazioni e proposte, Napoli 1885; G. Mosca, Sulla teorica dei governi e il governo parlamentare, Torino 1884; id., Elementi di scienza politica, Torino 1923.