Democrazia
di Luciano Pellicani
La storia del 20° sec. ha confermato la profezia formulata da E. Renan nel 1885: dopo "molte alternative di anarchia e dispotismo", la d. liberale è riuscita finalmente a imporsi in tutta Europa. Ciò non ha tuttavia posto fine alle preoccupazioni riguardo al suo futuro; al contrario, il 21° sec. si è aperto con il raffreddamento degli entusiasmi suscitati da quella che S. Huntington ha chiamato la 'terza ondata', il processo durante il quale ben 29 Paesi si sono liberati, quasi sempre senza spargimento di sangue, dei governi autocratici ai quali erano assoggettati. Contemporaneamente, si sono moltiplicate le diagnosi pessimistiche sullo stato di salute della d. liberale, il quale è sicuramente molto migliorato rispetto ai decenni in cui la libertà era stata minacciata dai movimenti totalitari di massa, ma, altrettanto sicuramente, è insidiato da nuove sfide strettamente legate all'espansione planetaria della logica catallattica. La 'terza ondata'è stata infatti accompagnata da una vera e propria rivincita del mercato e di tutto ciò che a esso è connesso: la proprietà privata, la libera iniziativa, la concorrenza e lo spontaneo gioco della domanda e dell'offerta. In aggiunta, il mercato è risultato essere un fattore di decisiva importanza per garantire l'articolazione pluralistica della società civile e la sua autonomia di fronte allo Stato: due requisiti senza i quali la d. liberale è impossibile e persino impensabile. Questo perché in un sistema centrato sul controllo monopolistico delle 'sorgenti della vita' - i mezzi di produzione - verrebbe a mancare il prerequisito della competizione politica: il libero accesso alle risorse economiche. In breve, i catastrofici esperimenti compiuti nei Paesi nei quali il marxismo-leninismo si era fatto Stato hanno confermato che la d. liberale esige che la logica pluralistico-competitiva operi non soltanto nella sfera politica, ma anche in quella economica; esige, insomma, l'istituzionalizzazione sia del mercato politico sia del mercato economico.
Mercato
Se è vero che capitalismo e d. liberale sono legati a doppio filo, sia storicamente sia logicamente, è vero anche che la loro convivenza è sempre stata tutt'altro che armonica, e tale continua a essere, dal momento che la libertà economica, attorno alla quale ruota l'universo capitalistico, produce conseguenze che sono in aperto conflitto con il valore centrale della d.: l'eguaglianza sostanziale. Un eccesso di liberismo può minacciare le fondamenta morali della civiltà moderna; questa, quanto meno, è la tesi che è stata espressa in forme sempre più accorate da G. Soros, il quale ha insistito con grande vigore sul fatto che i principi sui quali poggia la 'società aperta' - di cui lo Stato di diritto e la d. liberale costituiscono la naturale cornice politico-istituzionale - sono minacciati dall'imperialismo del capitalismo globale e dalla cieca fiducia nelle sue virtù taumaturgiche, che caratterizza i 'fondamentalisti del mercato'; ciò per varie ragioni. In primo luogo in quanto le multinazionali e i mercati finanziari internazionali hanno usurpato poteri che in passato erano riservati allo Stato e li esercitano con una discrezionalità che non può non suscitare forti preoccupazioni. In secondo luogo, perché l'ossessione per l'efficienza intacca il primato della d. sull'economia e minaccia la possibilità stessa che i governi possano correggere in qualche modo l'iniqua distribuzione delle chances di vita, tipica del mercato autoregolato. In terzo luogo, in quanto l'economia globale è costitutivamente a-morale: non funziona come una comunità, bensì come un sistema dominato esclusivamente dalla caccia al profitto, nel quale i valori sociali - la solidarietà, l'equità, l'eguaglianza, ecc. - sono percepiti come impacci dei quali occorre liberarsi in nome dell'efficienza. Infine, in quanto lo strapotere della logica catallattica ha prodotto - soprattutto negli Stati Uniti e nella Russia postsovietica - un doppio, inquietante fenomeno: la concentrazione della ricchezza nelle mani delle oligarchie plutocratiche e l'espansione dell'area della povertà e dell'esclusione. Non può destare sorpresa, pertanto, che il dominio sempre più incontrastato del mercato autoregolato - a dispetto della scomparsa della possibilità stessa di concepire un modo di produzione alternativo a quello capitalistico, conseguente alla planetaria bancarotta del comunismo - abbia suscitato critiche e opposizioni di varia natura e provenienza; né che siano numerosi gli studiosi impegnati a rivalutare il welfare state, che i 'fondamentalisti del mercato' alla fine del 20° sec. avevano messo sotto accusa, presentandolo come la "via della schiavitù e della miseria".
Culturalismo
L'economia globalizzata, tutta regolata dalla legge, impersonale e amorale, della domanda e dell'offerta, oltre a minacciare le fondamenta morali della società aperta, in quanto fagocita l'eguaglianza sostanziale, sta alterando in modo rapido e profondo la composizione etnica e religiosa della società postindustriale attraverso quella che, utilizzando il lessico di A.J. Toynbee, può essere definita la pacifica invasione del "proletariato esterno" della civiltà occidentale. Ciò ha suscitato reazioni di difesa e di rigetto che hanno assunto le forme della protesta neopopulista. L'esaltazione della 'terra patria' e del 'popolo' di fronte alla presenza di milioni di immigrati portatori di religioni e di culture aliene ha assunto caratteri razzisti o, quanto meno, xenofobi. Quando ciò non è accaduto, la retorica neopopulista ha attinto al serbatoio di idee del culturalismo. Quest'ultimo è un'interpretazione delle differenze di mentalità e di comportamenti che caratterizzano i vari popoli, la quale, prima facie, si pone in netta antitesi al razzialismo: laddove questo presume che l'eredità biologica condanni i popoli a essere quel che sono, il culturalismo sottolinea con il massimo vigore la forza plasmatrice e la cogenza normativa delle tradizioni. Ne deriva una sorta di determinismo culturale. Vero è che, mentre la razza è un fattore rigido e immodificabile, la tradizione è, per definizione, una realtà plastica, che può assumere forme diverse e può persino trasformarsi. Sennonché, dal momento che i mutamenti culturali veramente significativi si collocano sull'asse della lunga durata, nel breve periodo le differenze culturali risultano essere non meno rigide delle 'supposte' differenze razziali. Accade in tal modo che, in nome della propria specifica identità storico-culturale, una determinata collettività possa rivendicare il diritto alla non-contaminazione e, pertanto, esigere che tutti coloro i quali sono portatori di valori, atteggiamenti e comportamenti 'altri' siano tenuti a debita distanza. Ciò significa che non c'è bisogno di richiamarsi alle dottrine razziali per invocare il diritto alla separazione e per giustificare le politiche di rigetto. Il culturalismo offre ai movimenti neopopulisti una base teorica sufficiente per legittimare il rifiuto di convivere con i 'diversi'.
Dal momento che le tendenze demografiche in atto - l'enorme espansione della popolazione dei Paesi in via di sviluppo e la contemporanea riduzione del tasso di natalità nelle società opulente - fanno crescere a vista d'occhio la composizione multietnica e multireligiosa dell'Unione Europea, la protesta neopopulista, che mina alle radici uno dei valori fondamentali della società aperta, ossia l'accettazione dei 'diversi', potrebbe risultare un fenomeno tutt'altro che passeggero. Tanto più che l'integrazione degli 'alieni' nelle comunità ospitanti pone problemi di convivenza inediti, quanto potenzialmente esplosivi. Non di tale avviso sono i fautori del multiculturalismo, secondo i quali le diversità culturali vanno incoraggiate e istituzionalizzate. È tuttavia legittimo chiedersi sino a che punto la società aperta possa accogliere al suo interno etnie portatrici di valori che sono profondamente estranei ai suoi valori di base o, addirittura, incompatibili con essi. A questo interrogativo, che è al centro del dibattito sul futuro della d. pluralistica, G. Sartori ha risposto in termini negativi sostenendo che il multiculturalismo - il quale, oltre a essere una dottrina, è anche un programma - sia una perversione del pluralismo. Nella misura in cui difende il diritto a preservare le identità culturali quali che esse siano, il programma multiculturale potrebbe condurre, una volta che venisse attuato, alla scomposizione della società in una molteplicità di microcomunità ermeticamente chiuse e persino ostili fra loro; dunque, a un neotribalismo. In effetti, ci si può domandare come possa sopravvivere una società frantumata in sottocomunità che rifiutano le regole fondamentali della d. liberale e i suoi valori di base, e se sia inoltre possibile un 'noi' comunitario in assenza di un preciso confine culturale. Certo, la potenza assimilatrice della civiltà occidentale è grande, ma lo è parimenti la resistenza che l'Islam oppone alla secolarizzazione. Nella religione fondata da Maometto non è dato trovare una distinzione tra la sfera del sacro e la sfera del profano; il diritto islamico è kalām Allāh (parola di Dio); come tale, è un diritto sacro e immutabile. È inoltre un diritto che contempla una serie di norme e di doveri che sono in aperto conflitto con le istituzioni della d. liberale. Contempla, soprattutto, il rifiuto della laicità dello Stato e dei diritti fondamentali del cittadino, che percepisce come tipiche manifestazioni di una società materialistica e pagana. È per questo che la presenza di milioni di musulmani nella UE costituisce un problema. Tanto più che, a partire dalla rivoluzione iraniana (1979), è apparsa sulla scena mondiale una versione dell'Islam - quella fondamentalista - la quale proclama alto e forte che il suo obiettivo irrinunciabile è non soltanto la restaurazione, nel dār al-islām, della piena vigenza normativa della Legge coranica (šarī̔a), ma anche l'annientamento della 'satanica' civiltà occidentale. La sconvolgente azione terroristica condotta l'11 settembre 2001 dai militanti della guerra santa (ǧihād) contro i simboli del 'Grande Satana', gli Stati Uniti, ha costretto il mondo intero a prendere atto del fatto che il fondamentalismo islamico sia una minaccia per l'Occidente, e che si tratti di una minaccia particolarmente insidiosa per le istituzioni della società aperta. La storia, infatti, ci dice che quando una comunità si sente in pericolo, le libertà civili e i diritti dei cittadini - che costituiscono il cuore assiologico della società aperta - corrono un grave pericolo. Il bisogno di sicurezza diventa talmente intenso da creare le condizioni psicologiche favorevoli al successo della retorica di coloro che, in nome dell'emergenza nazionale, chiedono a gran voce che le forze di polizia siano dotate di poteri eccezionali, allo scopo di poter annientare, calpestando i principi del garantismo, la causa della diffusa ansietà.
Informazione
Il collasso delle grandi ideologie rivoluzionarie, che opponevano all'assetto istituzionale della società aperta - Stato costituzionale, articolazione pluralistica del sistema politico, mercato, proprietà privata, ecc. - modelli di organizzazione sociale radicalmente altri, se, da una parte, ha posto fine allo stato di assedio in cui per generazioni sono vissute le d. liberali del vecchio continente, dall'altra ha contribuito a creare una situazione caratterizzata da una crescente disaffezione per la politica e da un diffuso disincanto. Da ciò è stato originato un processo di declino del voto di appartenenza e di crescita, talvolta massiccia, dell'astensionismo, come anche la crisi dei partiti di massa, i quali, da potenti agenzie di socializzazione e di partecipazione politica, hanno iniziato ad assumere le forme e le funzioni tipiche dei comitati elettorali. Contemporaneamente, la progressiva espansione dell'area di influenza dei mass media, della televisione e di Internet, soprattutto, ha modificato l'habitat della d. liberale in modo talmente radicale che non pochi studiosi hanno ritenuto di poter affermare che il mondo occidentale sia alla vigilia di un 'salto di paradigma epocale'. In realtà, il ruolo dei mass media è stato sempre di decisiva importanza per l'esistenza storica delle d. pluralistiche. Tant'è vero che, già alla fine del 18° sec., A. Hamilton formulava la seguente fulminante previsione: "Questo Paese sarà quello che sarà la sua stampa". A maggior ragione, nella 'società dell'informazione' il futuro della d. liberale è strettamente e indissolubilmente legato ai mezzi di comunicazione di massa, sempre più potenti e sempre più pervasivi. Dire d. liberale significa dire una forma di organizzazione politica nella quale i governanti sono sottoposti al permanente controllo dell'opinione pubblica. Nelle antiche polis il cittadino raccoglieva le informazioni recandosi nell'agorà, la quale, nelle moderne società è stata sostituita dal sistema mediatico. Sistema nel quale la televisione ha assunto un ruolo egemonico di tali proporzioni che si può parlare senz'altro di transizione dal 'mondo delle cose lette' al 'mondo delle cose viste', dominato, da parte a parte, dalla videocultura e dal videopotere. Per la prima volta nella storia dell'umanità, la realtà non è più raccontata, bensì mostrata in presa diretta. Ciò non significa, inoltre, che la realtà mostrata sia la realtà oggettiva, senza alcuna aggiunta estranea; al contrario, quella che scorre davanti allo sguardo del telespettatore è una realtà selezionata, manipolata, costruita; una realtà, insomma, che ha soltanto la parvenza dell'oggettività. È vero che il consumatore di immagini può integrare i messaggi televisivi con altre fonti di conoscenza. Sennonché, a causa della straordinaria onnipervasività della televisione, si può già intravedere all'orizzonte la sostituzione quasi completa di Homo sapiens con quello che Sartori ha chiamato homo videns. Il che annuncia l'avvento di un tipo antropologico la cui vita non è più intessuta di concetti, bensì unicamente di immagini, quindi particolarmente manipolabile: l'esatto contrario del cittadino che partecipa alla vita pubblica con un sufficiente bagaglio di informazioni e, soprattutto, con un adeguato spirito critico.
Di segno opposto sono le prognosi sul futuro della d. quando l'analisi si concentra sulla 'rivoluzione digitale'. Di fronte all'esplosione della information technology, a seguito della quale è sorta quella intricata rete di canali elettronici chiamata cyberspazio, numerosi studiosi hanno avanzato la tesi che, con la formazione dell''agorà informatica', è alle porte un inedito tipo di d., basato sulla possibilità che le telecomunicazioni interattive offrono ai cittadini di intervenire in tempo reale nelle varie fasi del processo di decision making. Il risultato sarà che i cittadini avranno l'opportunità di partecipare in modo diretto alla politica, determinando essi stessi l'agenda del governo e persino il contenuto delle leggi. Pertanto, nella d. elettronica, il 'quarto potere' non sarà più il sistema dei mass media, bensì il demos.
La cittadinanza, secondo questa lettura delle potenzialità democratiche della rivoluzione digitale, ne risulterà arricchita, se non proprio trasfigurata. La comunicazione verticale cederà progressivamente il passo alla comunicazione orizzontale e i governati, da spettatori silenziosi e passivi, diventeranno interlocutori attivi delle istituzioni e protagonisti permanenti della vita politica. Cesseranno, in altre parole, di essere semplici consumatori di ciò che viene offerto dalle élites sul mercato politico e assumeranno il ruolo di produttori di proposte. L'ideale della d. degli antichi - il governo dei governati - diventerà una corposa realtà e la distanza tra i semplici cittadini e i professionisti della politica si ridurrà ai minimi termini. Conseguentemente, il concetto di rappresentanza perderà il suo significato, dal momento che i tradizionali intermediari fra il demos e lo Stato - i partiti politici - vedranno scemare velocemente il loro potere di decisione autonoma, e dovranno, per forza di cose, muoversi in sincronia con i desiderata della comunità, costituita da cittadini informati, attenti e attivi. Tant'è che sono già numerosi i casi nei quali, utilizzando la posta elettronica e Internet, un esiguo numero di cittadini è riuscito ad attivare azioni collettive di dimensioni nazionali e persino planetarie, capaci di esercitare una forte pressione sui decision makers.
L'ideale della d. diretta è anche al centro delle proposte che sono state avanzate in tempi recentissimi dai teorici della deliberation, cioè di quel processo attraverso il quale si esamina una questione, una proposta, un progetto e se ne ponderano con attenzione i vantaggi e gli svantaggi prima di pronunciarsi. L'idea di fondo è che sia possibile, estraendo un campione casuale che rispetti le proporzioni esistenti a livello socio-demografico della popolazione, creare un microcosmo selezionato composto da cittadini convenientemente informati che, grazie a un intenso confronto intersoggettivo, pervengano a decisioni razionali. In tal modo, la d. moderna si avvicinerebbe significativamente al modello degli antichi, basata sulla partecipazione diretta dei cittadini al processo di decision making, e assumerebbe le forme e i contenuti della 'd. deliberativa': un sistema politico non più centrato sulla rappresentanza e la delega, bensì sull'esercizio del potere di decisione da parte di un microcosmo che sia pervenuto, attraverso la discussione, a un'opinione consapevole e informata. Il modello della d. deliberativa può essere considerato un dispositivo istituzionale volto a neutralizzare i rischi connessi alla spettacolare crescita della information technology. Infatti, sono molti gli studiosi che si chiedono se la d. elettronica non risulterà essere una d. plebiscitaria, nella quale i demagoghi di ogni specie la faranno da padroni in virtù della loro disponibilità ad assecondare gli umori della 'gente'; o, addirittura, una torre di Babele di richieste frammentate e contraddittorie, contro la quale si infrangeranno tutti i tentativi di sintesi, trasformando così la politica in un 'gioco a somma zero'. Altri, pur non condividendo il pessimismo degli 'apocalittici', hanno messo in evidenza la natura bifronte dell'agorà informatica. Dopo aver sottolineato le grandi potenzialità democratiche dell'electronic commonwealth, hanno attirato l'attenzione sui pericoli che lo minacciano: la corruzione della politica del bene comune in politica di conformismo di massa; la corruzione della politica del pluralismo e della diversità in politica di fazioni e di balcanizzazione; la corruzione della politica dell'individualismo in politica di isolamento.
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