DEMOGRAFIA
(XII, p. 599; App. III, I, p. 475; IV, I, p. 585)
Demografia storica. - Gli obiettivi della d. storica, che possono essere sintetizzati nella descrizione e nella spiegazione delle grandi tendenze demografiche e nell'interpretazione dei meccanismi che sottostanno alla riproduzione delle popolazioni, collocano in realtà questa disciplina in una posizione di cerniera tra la icerca demografica e la ricerca storica.
Convenzionalmente, si è soliti legare la nascita della d. storica, o quanto meno il suo sviluppo come disciplina autonoma da un lato rispetto alla d. e dall'altro rispetto alla storia delle popolazioni, con l'impiego di un nuovo metodo che presuppone l'utilizzazione nominativa delle fonti storico-demografiche. Tale metodo, pur con vari antecedenti, fu perfezionato e finalizzato a uno studio dettagliato dei meccanismi demografici da L. Henry negli anni Cinquanta. In precedenza gli studiosi delle popolazioni del passato, interessati principalmente a costruire le basi quantitative dell'evoluzione storica, avevano utilizzato le fonti storico-demografiche prevalentemente in forma aggregata, per analizzare le dimensioni, la struttura, la distribuzione della popolazione e le sue variazioni nel corso del tempo. Le possibilità di studio delle vicende demografiche del passato sono d'altra parte limitate, facendo uso delle usuali tecniche della d., dall'incompletezza e imprecisione delle fonti. Fino almeno alla fine del 18° sec. (prima dell'introduzione dello stato civile), l'informazione di base sui fenomeni demografici è fornita dalle fonti ecclesiastiche, e in particolare dai libri dei battesimi, delle sepolture, dei matrimoni e dagli status animarum (liste nominative dei parrocchiani compilate in occasione della Pasqua).
L'esigenza di un nuovo metodo di utilizzazione delle fonti storico-demografiche nacque contemporaneamente (in Francia) nell'ambito della ricerca storica e di quella più propriamente demografica. Gli interrogativi posti dagli storici (J. Meuvret, P. Goubert) riguardavano essenzialmente i legami tra crisi agrarie e crisi demografiche. I demografi (L. Henry) erano principalmente interessati a studiare il processo di diminuzione della fecondità, e dunque a misurare con precisione il suo livello anche in epoca precedente all'inizio del declino.
Più in generale, negli ultimi quattro decenni, all'interesse di storici e demografi per l'evoluzione globale delle popolazioni è venuta ad aggiungersi una spiccata curiosità per il comportamento dell'individuo e del nucleo familiare, e per la variabilità delle vicende individuali in campo demografico.
Nel campo d'interesse della d. storica rientra non solo l'analisi dettagliata del regime matrimoniale, del processo riproduttivo e della selezione determinata dalla mortalità, ma anche lo studio di aspetti particolari quali l'abbandono dei bambini, le pratiche relative all'allattamento in virtù della loro incidenza sulla fertilità, ecc. Un'analisi di questi comportamenti di grande rilevanza sociale non può però farsi attraverso le vie tradizionali, ma richiede una minuziosa analisi resa possibile dalle nuove tecniche nominative.
Il metodo della ''ricostruzione nominativa delle famiglie'' consente infatti di effettuare precise misure demografiche prescindendo sia dalla mancanza di statistiche censuarie che dall'assenza o imprecisione di determinate informazioni negli atti di battesimo, di matrimonio e di sepoltura. Collegando tra loro informazioni tratte da fonti diverse ma relative a uno stesso individuo, è possibile ricavare con esattezza caratteri usualmente non rilevati dai parroci, quali l'età della donna al matrimonio e alla nascita dei figli. La successiva riunione dei dati individuali su schede di famiglia consente di ricostruire il ciclo di vita dei singoli nuclei familiari e di arrivare infine a misure precise e minuziose soprattutto nel campo della fecondità.
Nel corso degli ultimi decenni, l'approccio microdemografico, legato all'impiego di tecniche nominative, ha subito una notevole evoluzione, sia grazie alle nuove possibilità offerte dall'automazione delle procedure di calcolo che in seguito allo sforzo degli studiosi teso ad allargare l'area dell'indagine nominativa anche a fonti non strettamente demografiche. Non sono stati però superati i limiti maggiori dell'approccio microdemografico: l'enorme mole di lavoro necessaria per analizzare aggregati demografici anche di modeste dimensioni; la difficoltà di estendere all'intera popolazione studiata la ricostruzione nominativa; l'impossibilità di conoscere gli eventuali comportamenti differenziali di quella parte dell'aggregato demografico che sfugge a questo tipo di analisi.
Nel corso degli ultimi 10÷15 anni, soprattutto per merito di studiosi anglosassoni, è stata posta maggiore attenzione nell'affinare gli strumenti dell'analisi macrodemografica, ed è stata riconsiderata la possibilità di adattare alle fonti storico-demografiche tecniche di analisi concettualmente simili a quelle utilizzate per studiare le popolazioni dei paesi del Terzo Mondo che non dispongono di sistemi statistici affidabili.
In questo ambito, la prospettiva metodologica più feconda appare quella aperta da R. Lee, che ha coniato il termine di inverse projection (''proiezione inversa'') per la procedura da lui ideata che consente, mediante un'integrazione delle tecniche delle tavole-tipo di mortalità con quelle delle previsioni demografiche, di ricostruire i principali parametri di una popolazione nel corso del tempo partendo (oltre che dalla popolazione iniziale) dalle sole serie storiche annuali delle nascite e dei decessi.
Una versione modificata di tale tecnica, ribattezzata dagli autori col termine di back projection (''proiezione all'indietro''), ha consentito a E. A. Wrigley e R. S. Schofield di ricostruire l'evoluzione della popolazione dell'intera Inghilterra per oltre tre secoli. L'interesse di questo nuovo tipo di analisi sta anche nella possibilità di verificare, su scala territoriale assai più vasta, le indicazioni sul funzionamento del sistema demografico che le ricerche microdemografiche possono fornire solo per piccoli aggregati.
L'integrazione e la comparazione dei risultati ''micro'' e di quelli ''macro'' appare in effetti la strada migliore per arrivare alla reale comprensione dei meccanismi riproduttivi delle popolazioni. D'altra parte, il sistema demografico non può essere considerato un sistema chiuso. Le popolazioni del passato hanno infatti operato in un contesto di ''vincoli'' (clima, aggressioni epidemiche, spazio, risorse alimentari ed energetiche) che ne hanno condizionato l'evoluzione. Comprendere le interrelazioni che nel breve e nel lungo termine hanno legato tra loro il sistema demografico, il sistema socio-economico e l'ambiente, e spiegare i meccanismi attraverso i quali le popolazioni europee si sono mantenute per secoli in sostanziale equilibrio, per poi entrare in una fase di crescita intensa e prolungata, sono i principali obiettivi che accomunano attualmente gli studiosi di diversa matrice culturale, impegnati nel campo della ricerca storico-demografica.
Bibl.: Comitato Italiano per lo Studio della Demografia Storica, Le fonti della demografia storica in Italia, 2 voll., Roma 1974; M. Fleury, L. Henry, Nouveau manuel de dépouillement et d'exploitation de l'état civil ancien, Parigi 19762; L. Henry, Techniques d'analyse en démographie historique, ivi 1980; E. A. Wrigley, R. S. Schofield, The population history of England 1541-1871. A reconstruction, Londra 1981; M. W. Flinn, The European demographic system. 1500-1820, Brighton 1981 (trad. it., Il sistema demografico europeo. 1500-1820, Bologna 1983); J. Dupaquier, Pour la démographie historique, Parigi 1984 (trad. it., Per la demografia storica, Torino 1987); M. Livi Bacci, Popolazione e alimentazione. Saggio sulla storia demografica europea, Bologna 1987.
Fenomenologia demografica. - Dati e metodi per l'analisi dei fenomeni demografici. − Generalità. - Ulteriori progressi ha fatto la d. negli ultimi anni sia nella raccolta dei dati (si sono moltiplicati i censimenti nei paesi in via di sviluppo, sono state effettuate per la prima volta indagini di enorme portata, come per es. l'indagine mondiale sulla fecondità), sia nei confronti dei metodi da adoperare nell'elaborazione dei dati (nuovi potenti metodi di analisi statistica messi a punto grazie all'enorme e flessibile potenza di calcolo disponibile nei grandi e piccoli calcolatori elettronici). Tali progressi hanno consentito una migliore conoscenza tanto delle dimensioni e delle caratteristiche delle popolazioni quanto dei loro meccanismi di sviluppo, per i paesi sviluppati − dove l'organizzazione statistica è antica, consolidata e perfezionata − e per i paesi in via di sviluppo − che finora costituivano continenti largamente sconosciuti dal punto di vista demografico.
La situazione nei paesi in via di sviluppo - Nei paesi in via di sviluppo (PVS) l'effettuazione di rilevazioni e di indagini ha permesso innanzitutto di avere stime e valutazioni della popolazione complessiva, della sua struttura per età e dei suoi ritmi di sviluppo. Ha inoltre consentito di iniziare a conoscere con quale intensità e con quali modalità si manifestino collettivamente in una popolazione i due eventi fondamentali della storia degli individui, la vita e la morte; in particolare ha fornito elementi per la determinazione dei modelli di fecondità (cioè dei comportamenti riproduttivi) e dei livelli della mortalità generale e di quella infantile. Si è tentato, fra l'altro, di capire perché alcuni dei modelli occidentali di comportamento demografico − che portano a un sempre più efficace e diffuso controllo della morte precoce e delle nascite involontarie − stentino a diffondersi, anche quando sia proposta e attuata a livello governativo una convinta politica demografica che spinga verso la diffusione e la generalizzazione di tali forme di controllo.
La situazione nei paesi a sviluppo avanzato. - Nei paesi a sviluppo avanzato (PSA), nei quali le conoscenze statistiche sono acquisite e aggiornate da tempo, si è cercato e si cerca soprattutto di capire meglio come una serie di comportamenti demografici individuali o di coppia si combinino per dar luogo all'effetto complesso e collettivo che statisticamente si registra in una popolazione in un certo anno di calendario (ammontare delle nascite, delle morti, dei matrimoni, ecc.). Si tenta di comprendere i meccanismi che stanno alla base di comportamenti che sono sempre più ''voluti'' e sempre meno ''fatalisticamente accettati'', nel senso che matrimonio, nascita e morte sono ormai sempre più frequentemente (o per meglio dire, nella quasi totalità dei casi) eventi su cui si ha un controllo pieno e generalizzato e perciò nuovo nella storia dell'umanità.
Diventa pertanto sempre più importante − sia per scopi scientifici, sia per scopi politici e operativi − tentare di capire come e perché (per ragioni di gusto, di moda, di pianificazione della propria vita, di influenza di fattori esterni intesi in senso lato) ''individualmente'' si tenga un comportamento demografico di un certo tipo, che possa dar luogo o non dar luogo a una determinata età della vita e, in un certo anno di calendario, a un evento demografico.
Si registra infatti nei paesi sviluppati una più grande varietà di comportamenti e una più intensa mobilità individuale che coinvolge tutti gli aspetti della vita (mobilità professionale e lavorativa, mobilità territoriale, mobilità matrimoniale, mobilità sociale, per fare qualche esempio). Alle traiettorie di lunga gittata e ai comportamenti di lunga durata che caratterizzavano i percorsi di vita delle singole persone e delle famiglie si vanno sostituendo percorsi brevi, ripetuti e multipli che rendono la vita straordinariamente più dinamica e quindi gli eventi che la caratterizzano meno stabili. Inoltre gli eventi demografici, e anche quelli sociali, stanno diventando sempre più spesso informali, complessi e diversificati. Gli eventi ''classici'' che si ritrovano nella vita delle persone (nascita, lavoro, matrimonio, divorzio, migrazione, morte) sono stati − in misura più o meno larga e per fare solo qualche esempio − sostituiti da: nascita fuori del matrimonio, unione di fatto, separazione di fatto, lavoro plurimo (sia nello stesso luogo, sia in luoghi diversi; sia nello stesso settore produttivo, sia in settori diversi), lavoro in nero, residenza plurima, migrazione camuffata (quella dei finti studenti, quella dei finti turisti), migrazione clandestina con ingresso illegale, e così via; finanche la morte, per le persone tenute artificialmente in vita, ha perduto una sua precisa e definitiva connotazione. Il tutto comporta che gli eventi, che costituiscono l'unità di base per lo studio dei fenomeni demografici, siano più difficili da rilevare statisticamente, da classificare e da studiare.
Da qui l'affiancarsi, per l'analisi dei fenomeni demografici, di nuovi metodi al metodo statistico, che è quello classico e abituale della demografia. Tale metodo (che è nato con e per la d.) era insostituibile per tentare di risalire dall'insieme degli eventi demografici, quali si manifestano collettivamente in una determinata popolazione, alle ''leggi'' statistiche che regolano i comportamenti demografici sia pure solo in senso storicistico. Da qualche tempo si tende a rovesciare il processo logico-conoscitivo: si tenta di partire dall'aggregazione degli eventi e dei comportamenti individuali per arrivare a capire i fenomeni collettivi e le ''leggi'' che li caratterizzano. Da qui l'importanza dei nuovi strumenti di indagine (che vengono ripresi dalla psicologia individuale e collettiva, dall'antropologia culturale, dall'economia) e della più intensa applicazione di alcuni strumenti di analisi statistica (modelli micro, modelli stocastici).
Necessariamente diversi e parzialmente nuovi sono gli approcci che si tendono a seguire per la raccolta dei dati di base, fra cui si possono ricordare le indagini sul ''ciclo di vita'' (life-cycle, nella terminologia anglo-sassone) e sul ''corso di vita'' (life-course) che costituiscono un'estensione e un arricchimento delle indagini longitudinali. Queste tecniche comunque richiedono l'investimento di una grande quantità di risorse umane e di risorse finanziarie il cui ritorno ha ancora margini di incertezza e, in ogni caso, avviene in tempi molto lunghi.
Per ''ciclo di vita'' si intende l'osservazione di una sequenza di eventi demografici e sociali che si verificano nella famiglia oggetto di osservazione (matrimonio, nascita dei figli, migrazioni, uscita dei figli dal nucleo familiare, morte di uno dei coniugi, dissoluzione del nucleo familiare, ecc.), sicché i dati e i vari cicli che attraverso di essi sono individuati diventano uno strumento di analisi per far luce sui complessi intrecci delle relazioni tra i membri del nucleo familiare e dei diversi ruoli dei componenti la famiglia. Questo strumento di analisi conserva però la sua validità soprattutto in presenza di ''famiglie normali'' con percorsi di vita ''normali''. Invece, in una famiglia occidentale dell'epoca nostra, da un lato la grande rarefazione di eventi demografici (nascite e morti che segnavano cadenze e cicli di fondamentale importanza nella famiglia) e dall'altro il forte incremento di altri eventi (unioni di fatto, separazioni, mobilità territoriale congiunta e disgiunta dei coniugi, ecc.) che rendono ''anomali'' i cicli di vita familiare vanno fortemente alterando il quadro complessivo degli eventi e dei cicli introducendo complicazioni metodologiche e interpretative non sempre superabili.
Più importante potrebbe perciò rivelarsi il più recente tipo di analisi, quella legata al corso di vita che sembra superare le incertezze e le limitazioni dell'analisi del ciclo di vita. Si tratta in sostanza di una cronologia di tutti gli ''eventi'' relativi a ogni singolo individuo che vengono raccolti con cadenza molto ravvicinata (ogni mese o ogni semestre) e che, successivamente, vanno messi in relazione con altri eventi della vita familiare in una lettura multidimensionale delle vicende familiari. Le difficoltà tecniche di analisi statistica e di interpretazione sono ancora ragguardevoli.
Il complesso di tutte queste nuove tecniche sta comunque consentendo di capire meglio quali siano le condizioni, le tendenze e i problemi delle popolazioni contemporanee.
Problemi e prospettive nella demografia internazionale. - Le tendenze demografiche di fondo. - Con particolare accentuazione dal secondo dopoguerra, il mondo sta vivendo un periodo di eccezionali mutamenti demografici (cfr. tab. 1) quali mai dovrebbero essersi verificati nella storia dell'umanità. Alla base di questa fase così dinamica di crescita accelerata della popolazione mondiale sono gli strumenti, a lungo ricercati dall'uomo e ora quasi completamente acquisiti, per lottare efficacemente contro la morte prematura e contro la nascita non desiderata. Non si osservano però, nelle diverse popolazioni del mondo, gli stessi atteggiamenti, la stessa volontà, la stessa capacità, la stessa velocità, la stessa sincronia, la stessa efficacia nell'usare i due strumenti e queste differenze provocano le enormi diversità territoriali che si osservano all'epoca nostra nelle tendenze demografiche.
Quando, in epoca pre-moderna, la nascita e la morte dovevano essere fatalisticamente accettate dagli individui e dalle coppie, perché quasi esclusivamente il frutto delle caratteristiche biologiche che si venivano a combinare in misura più o meno larga con le caratteristiche dell'organizzazione sociale, i comportamenti demografici dei vari aggregati umani erano assai meno differenziati di quanto lo siano adesso. Le ''leggi'' che regolavano lo sviluppo di fondo delle popolazioni erano abbastanza uniformi, mentre poi la crescita demografica dei singoli paesi poteva subire alterazioni, anche profonde, derivanti da fenomeni rilevanti come carestie, epidemie e guerre.
Attualmente invece sono proprio i comportamenti demografici di base a essere straordinariamente differenziati. Si hanno paesi dove nel periodo 1985-90 si sono osservati 7,6÷8,3 figli in media per ogni donna (Guinea e Ruanda) e altri dove il valore è risultato di 1,4 (Italia e Germania federale); paesi dove la durata media della vita è stata di 41÷42 anni (Guinea e Sierra Leone) e paesi in cui invece è stata di 77÷78 anni (Giappone e molti paesi europei).
Queste poche cifre sugli estremi attuali di fecondità e sopravvivenza consentono di individuare con facilità e immediatezza alcuni degli aspetti salienti delle tendenze della popolazione mondiale:
1) l'accelerata crescita demografica, dovuta prevalentemente all'alta fecondità, dei paesi in via di sviluppo, la cui popolazione di 4,1 miliardi di persone (1990) si accresce a un tasso medio annuo del 2,1 per cento, un tasso elevatissimo (mai sperimentato per popolazioni tanto consistenti) che l'ha portata al livello attuale e che la dovrebbe portare a 5,0 miliardi nel giro di un solo decennio, dal 1990 al 2000. Negli ultimissimi tempi gli organismi internazionali hanno distinto, nell'ambito dei PVS, i paesi meno sviluppati degli altri. I primi, i più diseredati, hanno al 1990 una popolazione di 448 milioni di persone che si accresce a un tasso del 2,8%, mentre è pari a 2,0 il tasso di crescita degli altri la cui popolazione ascende a 3,6 miliardi di persone;
2) gli squilibri territoriali: la popolazione dei paesi a sviluppo avanzato (1,2 miliardi di persone), per effetto della bassissima fecondità e nonostante la crescente longevità, si accresce a un tasso medio annuo ridottissimo (0,5%) il che dovrebbe portarla a 1,3 miliardi nel 2000. Il Nord del mondo, con il 23% della popolazione mondiale, ha contribuito al suo incremento nella misura dell'8% nel decennio 1980-90 e dovrebbe contribuire con il 6% a quello del decennio 1990-2000;
3) le grandi diversità nella struttura per età della popolazione. Il sistema demografico dei PVS è alimentato da molte nascite e da relativamente pochi sopravviventi, sicché il 37% della popolazione ha meno di 15 anni e il 7% ne ha 60 o più; al contrario nei PSA sono poche le nascite e molti i sopravviventi, sicché il 21% della popolazione ha meno di 15 anni e il 17% ne ha 60 o più. Questi valori della struttura per età dimostrano come la tendenza demografica che va fronteggiata − in termini culturali, sociali ed economici − nel Nord del mondo sia quella dell'invecchiamento. Nel Sud invece la preoccupazione deriva dalla circostanza che l'attuale struttura per età comporterà imponenti problemi nella sfera produttiva prima e in quella riproduttiva poi; infatti il 37% dei giovani che hanno adesso meno di quindici anni scaleranno via via nelle età successive alimentando dapprima, in misura massiccia, il mercato del lavoro (che dovrà essere in grado di creare un enorme numero di posti di lavoro per far fronte alla ''abnorme'' offerta di lavoro) e alimentando subito dopo il ''mercato matrimoniale'' con leve molto affollate di genitori, il che assicurerà comunque il perdurare della crescita demografica ancora per alcuni decenni quand'anche si riuscisse ad avere subito una drastica riduzione della loro fecondità. Quest'ultimo effetto − tecnicamente chiamato momentum- testimonia dell'inerzia del ''sistema popolazione'' e dell'inevitabilità di un ulteriore consistente aumento della popolazione mondiale per almeno due o tre decenni.
La grande crescita della popolazione urbana. − Un altro elemento fondamentale che caratterizza le vicende attuali della crescita demografica risiede nella grande crescita urbana della popolazione mondiale. Subito dopo l'inizio del 21° secolo la condizione urbana sarà diventata − in un secolo circa − la prevalente condizione dell'umanità, dopo che per molti millenni la condizione prevalente era stata quella rurale. Anche in questo caso la frattura fra Nord e Sud del mondo è molto profonda.
Nel quinquennio 1985-90, nei PSA la popolazione urbana è cresciuta ad un tasso dello 0,8% l'anno e quella rurale è diminuita dello 0,3% l'anno. Tutto il mondo sviluppato è ormai largamente urbanizzato, con punte del 99÷100% di popolazione urbana, come per es. in Belgio o a Singapore; il processo di urbanizzazione si è svolto in tempi lunghi (a partire dalla rivoluzione industriale), con sufficiente gradualità e, spesso, con il coinvolgimento di diversi centri urbani. Oggi si assiste a un processo intenso e generalizzato di diffusione urbana su tutto il territorio, nel quale non entra più la grande città centrale come punto dominante di aggregazione produttiva e sociale. Si è spezzata la moderna cinta muraria che faceva della città il luogo esclusivo della civiltà contemporanea, sicché molte delle funzioni concentrate fino a qualche tempo fa nella grande città si sono disseminate sull'intero territorio. A questo processo ha fatto seguito una parallela disseminazione della popolazione sul territorio il che ha comportato, in tutto il mondo sviluppato, una perdita demografica da parte delle grandi città e un forte incremento delle città di piccola e media ampiezza funzionalmente legate con la grande città.
Nello stesso periodo nei PVS la popolazione urbana è cresciuta ad un tasso del 3,6% l'anno e quella rurale dell'1,4%. Se il Sud del mondo è ancora largamente rurale (nel Burundi o nel Bhutan è addirittura considerato urbano solo il 5÷6% della popolazione), la crescita dell'urbanizzazione è però rapidissima, a un tasso che nessuna amministrazione, nemmeno la più efficiente e ricca, sarebbe in grado di fronteggiare. La crescita urbana è perciò tumultuosa e disordinata e il risultato non può che essere la proliferazione di larghissime e miserevoli bidonvilles. Fra il 1980 e il 1990 Città di Messico si è accresciuta ogni anno di 540.000 persone, arrivando a 19.370.000 ab., mentre per il 2000 dovrebbe pervenire a 24.500.000; Lagos, in Nigeria, è passata, fra il 1950 e il 1990, da 290.000 ab. a 7.600.000; si stima che per il 2000 arrivi a 12.450.000 (v. tab. 2).
La città è, o appare essere, nei PVS il luogo esclusivo della civiltà contemporanea e quindi il solo luogo ove si possa tentare di trovare lavoro e alimentare la speranza di promozione professionale e sociale. Se la crescita demografica della popolazione del terzo mondo è una sfida per l'intera umanità, la crescita delle città, capace di generare forti tensioni sociali e minacce alla stessa democrazia, è una sfida nella sfida.
Problemi e prospettive nella demografia italiana. - L'intensa denatalità. - L'Italia detiene da qualche anno il record mondiale della denatalità, con un valore pari a 1,3 figli per donna (1989), che è di gran lunga inferiore a quello che assicurerebbe la crescita zero della popolazione (tale valore è di 2 figli per donna circa, perché in tal caso i due figli sostituirebbero, nel ciclo delle generazioni, i due genitori). Se un valore così basso non ha ancora dispiegato tutti i suoi effetti portando la popolazione italiana a un rapido decremento, è perché la massa dei genitori di questo periodo è costituita dalle non ridotte leve dei nati negli anni 1955-70 e perché le persone anziane e vecchie sono ancora relativamente poche derivando da leve assai sfoltite dall'antica alta mortalità e dalle forti emigrazioni. Ma, ove il tasso di fecondità dovesse perdurare ai livelli attuali ancora per uno o due decenni, nella popolazione italiana si avrebbero ogni anno due morti per ogni nascita e si sarebbe perciò in piena ''implosione'' demografica. Nel Centro-Nord del paese, dove il calo della fecondità (peraltro ormai largamente generalizzato a tutte le regioni) è stato più anticipato e veloce, già a partire dal 1979 le morti superano le nascite. La fecondità del Centro-Nord è così bassa (1,1 figli per donna) che ove si stabilizzasse su tali livelli si arriverebbe a un rapporto costante fra nascite e morti di 1 a 5, a un saldo negativo del 2% all'anno e quindi a un dimezzamento della popolazione ogni 35 anni. La prospettiva, in qualche zona, è già realtà: per es., già da alcuni anni il rapporto fra nascite e morti in Liguria è di 1 a 2 e nella provincia di Trieste di circa 1 a 3.
Gli effetti più immediati e diretti di tali tendenze si hanno sull'organizzazione scolastica (la denatalità è una delle ragioni per cui nelle elementari si è arrivati a 3 insegnanti per ogni 2 classi) e sul mercato del lavoro (la cui contrazione ha contribuito ad alimentare una consistente immigrazione dall'estero). Ma effetti sensibili, magari meno immediati e diretti, si hanno su tutti gli aspetti dell'organizzazione sociale e della vita individuale; si consideri, per fare un esempio lontano, il problema dell'equilibrio nella convivenza fra le generazioni: in Liguria già attualmente ogni bambino con meno di dieci anni ha intorno a sé 4 persone ultrasessantenni e nel giro di venti anni se ne potrebbe ritrovare 6; la dimensione media della famiglia è di 2,3 componenti e potrebbe scendere a 1,8 nel 2010.
Nel contempo i guadagni registrati nella sopravvivenza sono così forti che la durata media della vita è arrivata a 73 anni per i maschi e a 80 anni per le donne (stime 1988), a valori cioè che sono fra i più elevati del mondo e che erano inimmaginabili solo pochi anni fa. La combinazione di una fecondità tanto bassa e di una vita tanto prolungata va perciò provocando un intenso e veloce invecchiamento della popolazione.
Del tutto rivoluzionaria, tale da alterare equilibri millenari, risulterà perciò la trasformazione che si dovrebbe avere in soli sessanta anni (dal 1960 al 2020 circa) nella struttura per età della popolazione italiana.
Il processo di invecchiamento. - Mentre il 20° secolo è stato il secolo della crescita demografica, il 21° secolo sarà inevitabilmente quello dell'invecchiamento della popolazione: infatti le popolazioni o sono crescenti − ma non possono esserlo indefinitivamente − o invecchiano. Il problema perciò non è quello dell'invecchiamento in sé, fenomeno scontato e per certi versi necessario: il problema è quello della velocità e dell'intensità dell'invecchiamento; ma non solo, è anche quello di saperlo prevedere e gestire.
Le tendenze dei vari segmenti della popolazione italiana nel recente passato e nel prossimo futuro sono molto nette (v. tab. 3): forte il decremento della popolazione giovane, che prosegue la tendenza già in atto, e inversione di tendenza per la popolazione in età lavorativa che tenderà a calare specie nella seconda parte del prossimo trentennio. L'unico segmento crescente resta quello della popolazione anziana e vecchia, anche se con un ritmo un po' smorzato. Ancora al 1958 si avevano 28 giovani con meno di venti anni per ogni 10 ultrasessantenni, mentre al 2017 di giovani se ne dovrebbero avere 6 per ogni 10 persone con 60 anni o più: un rapporto completamente rovesciato. Gli ultrasessantenni dovrebbero passare dagli 11,2 milioni del 1987 (il 19,4% del totale della popolazione) ai 15,5 del 2017 (per una quota del 29%).
In particolare, fortissimo in Italia è l'aumento della popolazione ultraottantenne che nel giro di sessanta anni si sarà sestuplicata, passando da 618.000 persone a 3.640.000: ad avere 80 anni e più era 1 persona su 79 e lo sarà 1 su 14. Il generale invecchiamento della popolazione sarà perciò accompagnato da un invecchiamento della popolazione anziana al suo interno. Ecco perché in Italia − come in tutto il mondo sviluppato − è questa parte della popolazione anziana che desta le maggiori preoccupazioni come conseguenza del fatto che è questa la frazione di popolazione con il più alto tasso di crescita e del fatto che con l'avanzare dell'età si ha un minore e decrescente grado di autonomia psico-fisica e conseguenti e crescenti costi umani, sociali e sanitari.
I prossimi quindici anni saranno quelli in cui l'incremento, tanto assoluto quanto relativo, della popolazione ultraottantenne sarà il maggiore: l'aumento sarà tale che per ognuno degli anni a venire i ''nuovi'' ultraottantenni − circa 75 mila − riempirebbero una città di media dimensione. L'Italia sarà seconda solo al Giappone per velocità di accrescimento della popolazione anziana e vecchia e fra trenta anni si troverà a essere fra le primissime nazioni al mondo per percentuale di ultrasessantenni e di ultraottantenni sul totale della popolazione (intorno al 29 e al 7% rispettivamente a fronte degli attuali 19 e 3%).
Tutta l'organizzazione delle società occidentali dovrà essere ridisegnata per tener conto di questa profondissima trasformazione della struttura per età e per evitare quindi che l'inevitabile invecchiamento della popolazione si trasformi in invecchiamento della società. Uno dei problemi principali al riguardo è legato alla velocità della trasformazione, che corre rapida ma silenziosa, e alla capacità della collettività e delle singole persone di riuscire ad adeguarsi tempestivamente e dinamicamente sotto ogni profilo − istituzionale e normativo, psicologico e culturale − a tale trasformazione.
Il calo demografico come possibile tendenza positiva. - Si va aprendo un largo dibattito in Italia sull'opportunità di lasciare che le tendenze demografiche proseguano per favorire un sostanzioso decremento della popolazione anche se questo comporterà necessariamente un suo più intenso e veloce invecchiamento. Uno degli argomenti che più frequentemente si porta a favore di questa tesi è che diminuendo la popolazione si rallenterebbe la sua pressione sull'ambiente in un paese densamente popolato qual è l'Italia. Ma l'argomento è controverso. In primo luogo perché il sistema produttivo è strutturato in maniera tale che potrebbe non ridimensionarsi proporzionalmente e potrebbe quindi richiamare popolazione dall'estero quando quella locale non fosse sufficiente ai suoi fabbisogni; in secondo luogo perché la velocità di aumento dei consumi ecologicamente dannosi potrebbe essere ugualmente molto elevata; in terzo luogo perché l'Italia, come del resto tutta l'Europa, non ha da tempo un ambiente naturale, ma un ambiente largamente antropizzato che abbisogna della presenza dell'uomo proprio per evitare guasti e degradi ambientali che puntualmente si sono verificati in montagna, nelle zone boschive, nei bacini imbriferi o nei centri storici delle grandi città, quando il deflusso della popolazione e il suo invecchiamento sono stati massici e troppo veloci.
Le relazioni tra popolazione e ambiente e le relazioni nordsud. - I rapporti fra popolazione e ambiente. - Preoccupazioni ecologiche vanno risvegliandosi con sempre maggiore frequenza e vengono enunciate con sempre maggiore intensità. Qualcuno le fonde con le preoccupazioni demografiche per delineare un quadro ''catastrofista'' che fa intravvedere pericoli grandissimi per l'umanità fino a lasciare paventare la possibile sua scomparsa.
Nello stesso filone di pesante pessimismo sulle sorti dell'umanità si poneva nel 1972 la famosissima ricerca I limiti allo sviluppo, promossa dal Club di Roma e curata da studiosi del prestigioso MIT che ebbe il gran merito di richiamare l'attenzione di tutti sulle fondamentali interrelazioni fra sviluppo demografico, sviluppo economico e consumo delle risorse, ma che ebbe il torto di non sapere, o non volere, valutare la portata delle scoperte e delle innovazioni tecnologiche e i processi dinamici di adattamento sociale ed economico che si sarebbero avuti.
A quell'epoca gli abitanti della Terra erano 3 miliardi e 850 milioni, vivevano mediamente 56 anni e mezzo e il numero medio di figli per coppia era pari a 4,5. Ma in soli 18 anni una piccola rivoluzione si è consumata: attualmente gli abitanti sono arrivati a 5 miliardi e 290 milioni, la vita media è salita a 60 anni e il numero medio di figli per coppia è sceso a 3,4. Due grandi paesi per la cui popolazione si temeva la fame assoluta sono riusciti in un'impresa che si riteneva impossibile: la Cina riesce a dar da mangiare a tutti i suoi abitanti (1 miliardo e 139 milioni) e l'India (853 milioni) riesce addirittura a esportare cereali.
Ma non tutto il quadro è così positivo. Mai nella storia dell'umanità gli squilibri demografici territoriali sono stati così estesi e così accentuati e, per di più, vanno dilatandosi. Per fare un solo esempio, all'inizio degli anni Settanta la popolazione dell'Africa cresceva a un ritmo del 2,72% l'anno e quella dell'Europa dello 0,64% con un rapporto perciò di 4 ad 1. Attualmente l'Africa cresce a un tasso del 3% e l'Europa a un tasso dello 0,2% con un rapporto di 15 a 1.
Ancora più intensi sono gli squilibri economici, né meno importanti sono gli squilibri se si prendono in considerazione altri indicatori fondamentali come per esempio il livello di mortalità infantile o l'accesso diretto all'acqua potabile. Inoltre il meccanismo dei rapporti politico-economici è tale da lasciare ritenere che rebus sic stantibus tutti gli squilibri territoriali fra Nord e Sud del mondo siano destinati ad accrescersi.
Fra il 1900 e il 1987 la popolazione mondiale è passata da 1,6 a 5 miliardi con un fattore moltiplicativo pari a 3, mentre il consumo di combustibili fossili in miliardi di t equivalenti di carbone è passato da 1 a 12. L'assoluta maggioranza della crescita demografica si è concentrata nei paesi in via di sviluppo (cfr. tab. 4), mentre l'assoluta maggioranza della crescita dei consumi si è concentrata nei paesi sviluppati del Nord del mondo. Molto spesso si parla di eccesso di velocità nella crescita demografica, ma non altrettanto spesso viene ricordato l'eccesso di velocità di crescita nei consumi, in una certa misura inutili e qualche volta insensati dal punto di vista ecologico. Quando si propone di limitare la crescita si dovrebbe guardare ai due aspetti del problema e agire quindi su entrambe le variabili; in questo senso va inteso il concetto molto moderno, ma non ancora sufficientemente recepito, di ''sviluppo sostenibile''.
La responsabilità, in positivo e in negativo, dei due eccessi è tutta del mondo sviluppato; non solo quella della grande crescita economica, tecnologica, di uso delle risorse naturali, ma anche quella della grande crescita demografica del Sud del mondo dovuta al risultato della diffusione delle cure sanitarie di base (soprattutto vaccini e antibiotici) che hanno contribuito a ridurre fortemente la mortalità infantile e ad allungare la vita media. Se questi risultati sono da considerare un successo per l'umanità in generale e per i paesi che più hanno contribuito a realizzarlo, sono per essi anche necessariamente una sfida giacché non ci si può limitare a fornire gli strumenti per controllare la morte e non anche tutti gli strumenti necessari per migliorare la vita e controllare quindi le nascite.
C'è comunque da considerare che in base alle conoscenze attuali non pare pensabile che si possa avere nel Sud un processo di modernizzazione che porti le popolazioni di quei paesi ai livelli di benessere e di consumi pari a quelli del Nord, perché prescindendo da tutte le straordinarie e forse insormontabili difficoltà oggettive in termini economici, politici e culturali, si avrebbe un tracollo del sistema dal punto di vista ecologico.
Un mutamento profondo nelle tendenze dello sviluppo viene perciò ritenuto necessario, il che comporta una risposta politica integrata per la gestione della popolazione e delle risorse, per stabilire una relazione sostenibile ed equilibrata tra ammontare della popolazione e disponibilità e uso delle risorse e dell'ambiente. In questo quadro, dopo molti decenni di dibattiti e di posizioni contrapposte, l'assoluta maggioranza dei governi di tutto il mondo ritiene che siano indispensabili sia il rallentamento e la successiva stabilizzazione della tanto rapida crescita demografica, sia la creazione di valide alternative a quello che sembra essere il problema dei problemi in campo demografico, ecologico e socio-economico: la crescita delle megalopoli del Terzo mondo.
Le relazioni fra Nord e Sud del mondo e le migrazioni internazionali. - Una più lenta crescita demografica dei paesi del Sud del mondo (avendo come obiettivo finale la crescita zero) appare comunque necessaria, anche se è difficile da realizzare se non si accompagna a una loro crescita socio-economica, soprattutto a un'istruzione generalizzata e a un forte miglioramento nella condizione della donna. In questo quadro l'unica soluzione possibile sembra essere quella che il Nord del mondo conceda aiuti allo sviluppo del Sud molto più intensi, produttivi ed efficaci, anche se questo dovesse comportare una specifica contribuzione da parte delle singole persone nei paesi economicamente più avanzati. Una riuscita azione in questo senso, oltre che essere condizione necessaria per lo sviluppo economico e occupazionale dei PVS, potrebbe anche perseguire il risultato positivo di trattenimento di possibili emigranti nei loro paesi di origine e quello di facilitare una più veloce diminuzione della fecondità.
Qualunque siano però l'intensità e l'efficacia dell'intervento e della cooperazione, lunghe e complesse analisi economiche concludono affermando che sarebbe imprudente aspettarsi un totale assorbimento delle forze di lavoro nei PVS e, quindi, un significativo rallentamento della pressione all'emigrazione per la fine di questo secolo, anche nel caso in cui dovessero risultare ottimali le condizioni dell'economia internazionale.
Lo scenario migratorio che viene sempre più frequentemente disegnato per i paesi occidentali − Italia compresa − si articola su tre piani:
1) sempre che si riesca a mettere ordine nei mercati del lavoro, soprattutto europei (perché si possano incontrare sotto il profilo quantitativo e qualitativo domanda e offerta di lavoro), una più o meno moderata immigrazione legale in Occidente è da mettere in conto non fosse altro che per far fronte a lavori e mansioni particolarmente sgraditi ai lavoratori locali e per ragioni umanitarie;
2) qualunque siano le politiche e i controlli messi in atto dai paesi di destinazione, ci si aspetta una certa quota di immigrati clandestini essendo troppo forti i differenziali nelle possibilità di lavoro, nei guadagni, nelle condizioni socio-politiche fra intere popolazioni. L'immigrazione clandestina nei paesi occidentali sarà più o meno forte in relazione alla intensità dello sviluppo dei PVS;
3) la crescita economica e, quindi, la capacità di assorbimento delle forze di lavoro nei PVS saranno molto differenziati quanto a intensità, rapidità e durata. Tale assorbimento non potrà comunque che essere parziale; dall'ampiezza della frazione non assorbita dipenderà l'intensità della spinta all'emigrazione. L'intensità dei flussi migratori dovrebbe essere in futuro, al contrario di quello che è successo in passato, regolata molto di più dalla forza espulsiva dei paesi di origine che dalla volontà e dalla capacità di accoglimento dei paesi di destinazione.
I paesi economicamente avanzati dell'area occidentale saranno chiamati a mettere in atto politiche coerenti con questo scenario e tali da favorire una piena integrazione − dimostratasi difficile, complessa e lunga anche nei paesi di più antica immigrazione − degli immigrati che eviti le manifestazioni di emarginazione, sfruttamento e rigetto e consenta il mutuo adattamento fra la popolazione locale e quella immigrata.
Bibl.: O. Vitali, L'evoluzione rurale-urbana in Italia, Milano 1983; AA. VV., Population growth and economic development in low income countries, Washington 1986; Conseguenze economiche dell'evoluzione demografica, a cura di G. Fuà, Bologna 1986; J. Vallin, La population mondiale, Parigi 1986; AA. VV., L'invecchiamento della popolazione in Italia e nelle società occidentali, Istituto di ricerche sulla popolazione del C.N.R., Roma 1987; A. Golini, C. Bonifazi, Tendenze demografiche e migrazioni internazionali nell'area occidentale, ivi 1987; AA. VV., Secondo rapporto sulla situazione demografica italiana, ivi 1988; A. Golini, La popolazione italiana. Una visione d'insieme, ibid., pp. xi-lxi; M. Livi Bacci, Storia minima della popolazione mondiale, Torino 1989; Demografia e società in Italia, a cura di E. Sonnino, Roma 1989; United Nations, World population at the turn of the century, New York 1989; Le risorse umane del Mediterraneo. Popolazione e società al crocevia tra Nord e Sud, a cura di M. Livi Bacci e F. Martuzzi Veronesi, Bologna 1990.
Politiche demografiche. - Tutte le azioni politiche possono essere intese come politiche demografiche in quanto direttamente o indirettamente esercitano un'influenza sulle vicende della popolazione. Così la politica della salute per quanto attiene alla morbosità o alle cause di morte; la politica del lavoro per quanto influisce sull'occupazione e la disoccupazione; la politica fiscale in quanto influisce sui processi di costituzione della famiglia; e ancora il servizio di leva, il diritto di famiglia, lo statuto dei lavoratori, la politica delle aree metropolitane e così via. Da questo punto di vista, una politica demografica non viene perseguita per se stessa ma per obiettivi più generali di bene comune che lo stato si propone di raggiungere. La politica della popolazione non può avere successo a meno che non sia integrata con la politica dello sviluppo.
Più specificamente, per politica demografica s'intende quell'insieme di principi espliciti o impliciti che guidano l'azione dei pubblici poteri nel campo strettamente demografico o in quelli strettamente ad esso collegati. Così le politiche demografiche saranno costituite da quelle azioni dei pubblici poteri che si propongono di esercitare un'influenza diretta sulla consistenza, sulla struttura e sull'evoluzione della popolazione. Alcuni interventi possono avere un obiettivo e un'efficacia diretta, come le restrizioni sull'immigrazione; altri solo mediata, come la legislazione sugli anticoncezionali; o indiretta, come la politica della casa o quella sull'attività professionale della donna.
Fra le politiche demografiche dirette oggi hanno particolare evidenza quelle relative alla riproduzione umana e quelle legate alle migrazioni: ivi comprese le politiche relative alla mobilità interna della popolazione, quando questa sia diretta a orientare, trasformare o ricostituire la dimensione quantitativa degli insediamenti umani.
La politica demografica di uno stato è definita ''popolazionista'' quando tende a favorire la crescita della popolazione, oppure a contrastarne la contrazione o la diminuzione; è detta invece ''antipopolazionista'' o ''malthusiana'' quando ha come obiettivo prevalente il far diminuire la crescita della popolazione. In questo contesto saranno chiamate nataliste e antinataliste le politiche che mirano a far crescere e rispettivamente a far diminuire la natalità.
Fra i provvedimenti che possono favorire la crescita della natalità o frenarne la diminuzione, vanno menzionati gli assegni familiari e le indennità speciali per questo fine. Gli assegni familiari sono versamenti monetari in favore del capofamiglia erogati in funzione del numero dei figli a carico. Le indennità speciali invece sono somme corrispondenti a un ammontare monetario predeterminato, erogate in una o più soluzioni in favore del beneficiario. Anche gli sgravi fiscali costituiscono misure previste in favore dei contribuenti con uno o più figli a carico. Altri benefici monetari previsti dalle legislazioni di tipo natalista sono costituiti dai premi in occasione della nascita di un figlio, normalmente di carattere fortemente progressivo con il crescere del numero delle nascite; dagli assegni in favore delle donne in stato di gravidanza; dai mutui matrimoniali a condizioni di particolare favore, disposti per favorire la costituzione di nuove famiglie. Altri benefici indiretti sono ancora previsti da queste legislazioni, fra cui i congedi di paternità o di maternità e soprattutto i servizi di assistenza prenatale e infantile destinati ad assicurare alle donne incinte, alle madri e ai bambini particolari prestazioni in natura.
Le politiche malthusiane o antinataliste hanno naturalmente obiettivi e strumenti completamente opposti ai precedenti. Anche in questo caso i mezzi di azione più comunemente impiegati sono quelli monetari e fiscali da una parte, e dall'altra quello di scoraggiare la compatibilità fra l'occupazione professionale, specie della donna, e le funzioni proprie dell'attività parentale. Alla radice di queste politiche vi è soprattutto una concezione qualitativa della vita che tende a privilegiare le condizioni socio-sanitarie della riproduzione umana, e che non esclude, nelle sue manifestazioni più accentuate, anche obiettivi di politica demografica di carattere decisamente quantitativo.
Fra i paesi che in epoca contemporanea praticano politiche nataliste e popolazioniste si ricorderà certamente il caso della Francia; anche Belgio, Lussemburgo, Germania e Olanda si muovono più cautamente nella stessa direzione. Fra i paesi invece che praticano le forme più accentuate di politiche antinataliste bisogna ricordare la Repubblica popolare di Cina. Anche l'India e molti altri paesi asiatici e africani si orientano, sia pure in modo meno accentuato, nella medesima direzione.
Fra le politiche demografiche in senso stretto si comprendono anche le politiche migratorie. Le normative sull'immigrazione tendono normalmente a essere restrittive e selettive in modo esplicito o implicito. Ciò avviene sia ponendo ostacoli all'immigrazione di alcune categorie di migranti giudicati non desiderabili, sia accordando una preferenza al momento dell'ammissione a categorie di immigranti giudicate più interessanti. Un caso particolare fra questi ultimi è costituito dai cosiddetti ricongiungimenti familiari che vengono, in epoca contemporanea, sempre più riconosciuti, nel quadro di nuove politiche d'integrazione disposte per contingenti ridotti e selezionati di lavoratori migranti già ammessi a entrare nel paese. Queste politiche si contrappongono alle politiche migratorie della rotazione che tendono ad avvicendare più rapidamente contingenti più numerosi di migranti normalmente meno qualificati. Conosciute sono anche le politiche dette delle ''quote''; il procedimento del contingentamento dei migranti si fonda in questo caso sull'attribuzione di una quota prefissata a determinate categorie di persone rispetto a un contingente globale di immigranti ammessi a entrare nel paese. L'utilizzazione più diffusa delle politiche delle quote è quella che si riferisce alla nazionalità d'origine dei migranti accettati in un paese.
Quasi tutti i paesi sviluppati, tradizionalmente destinatari di flussi migratori, hanno adottato politiche migratorie più o meno esplicite, in alcuni casi accompagnate da corrispondenti normative concernenti il diritto alla naturalizzazione e alla cittadinanza. Nei tempi recenti queste politiche sono divenute ovunque più restrittive. Allo stesso tempo, si è anche assistito alla graduale modificazione di alcuni paesi tradizionalmente di origine di flussi migratori, come l'Italia, in paesi d'immigrazione per importanti flussi migratori da paesi meno sviluppati.
Secondo la Raccomandazione n. 12 della Conferenza mondiale sulla popolazione delle Nazioni Unite, per essere efficaci e avere successo, le attività di programmazione e di sviluppo demografico dovranno essere sensibili ai valori e ai bisogni locali; coloro che ne sono direttamente interessati vanno coinvolti nel processo decisionale a tutti i livelli. Inoltre, in queste attività, va incoraggiata la piena partecipazione della comunità e delle organizzazioni non governative interessate.
Infine le politiche demografiche dovranno rispettare i diritti dell'uomo, i credo religiosi, le convinzioni filosofiche, i valori culturali e i diritti fondamentali di ogni individuo e di ogni coppia di determinare la dimensione della propria famiglia.
Bibl.: J. C. van den Brekel, Population policy in the Council of Europe region, Strasburgo 1982; Nazioni Unite, Final report of the international Conference of population, Città di Messico 1984; L. Tabah, Preparations for the 1984 international Conference on population, in Population and Development Review 10, 1 (marzo 1985); R. Colombo, Rapporto sulla popolazione italiana, Roma 1988.