dialettica
Dal gr. διαλεκτικὴ (τέχνη), propr. «arte dialogica». In senso generico significa l’arte del dialogare, del discutere, intesa come tecnica e abilità di presentare gli argomenti adatti a dimostrare un assunto, a persuadere un interlocutore, a far trionfare il proprio punto di vista su quello dell’antagonista. In senso più specifico, il termine e il concetto di διαλεκτικὴ τέχνη risale al sec. 5° a.C., a quell’ambiente socratico in cui il metodo del κατὰ βραχὺ διαλέγεσϑαι, cioè del «discutere per brevi domande e risposte», fu contrapposto al sistema sofistico del µακρὸς λόγος cioè del «lungo discorso», con cui l’oratore, adoperando ininterrottamente la sua forza di persuasione, mirava a convincere chi ascoltava.
Nella originaria versione socratica, come osservava Aristotele, il metodo dialettico approdava più alla consapevolezza di «non sapere», che a quella di sapere. La d. assume invece questo secondo significato con Platone, perché diventa soprattutto il metodo ascendente e discendente per cogliere i nessi fra le idee. Abbiamo quindi una prima d. ascendente, che liberando l’anima dai sensi e dal sensibile la conduce verso le Idee e, successivamente, da Idea a Idea, fino all’Idea del Bene che tutte le riassume. Come dice Platone nella Repubblica (VII 533 c-d), solo il metodo dialettico procede per questa via, sgombrando il terreno da ogni conoscenza ipotetica per raggiungere il principio stesso di ogni cosa. La d., facendo uso di arti ausiliarie come le matematiche, solleva e porta in alto l’occhio dell’anima invischiato in un pantano barbaro (la materia e i sensi), e l’aiuta nella conversione verso le realtà superiori. Partendo da questa vetta la d. discendente farà il percorso inverso, e, procedendo per divisione (διαίρεσις), ossia distinguendo le Idee particolari contenute in quelle più generali, giunge alle Idee che non includono in sé Idee ulteriori. In tal modo essa riesce a stabilire il posto che una data Idea occupa nella struttura gerarchica del mondo ideale e quindi a stabilire la trama di rapporti che collega le parti al tutto e viceversa. In Aristotele il termine d. torna invece a essere collegato non con la conoscenza vera, ma con quella probabile, ossia l’opinione, la δόξα. Analizzando le varie forme dell’argomentazione Aristotele collocò la d. tra le forme argomentative imperfette, perché prive di rigorosa necessità. Sillogismo dialettico, dice Aristotele all’inizio dei Topici, è quello che conclude da elementi fondati sull’opinione, ossia elementi che appaiono accettabili a tutti, oppure alla grande maggioranza, oppure ai sapienti. Sotto questo profilo la d., secondo Aristotele, è assimilabile alla sofistica, perché essa è costituita non soltanto per dare a chi interroga la capacità di mettera alla prova una tesi, ma altresì per fornire a chi discute l’apparenza del sapere (Confutazioni sofistiche, 103 b 1 segg.). La storia successiva del termine d. vede la sostanziale riproposizione di queste due accezioni, quella platonica e quella aristotelica, che da questo punto di vista possono essere considerate esemplari. Alla concezione platonica della d. – fatta eccezione per la fase dello scetticismo accademico che va da Arcesilao (4° - 3° a.C.) a Filone di Larissa (2° a.C.) – si collega l’intero sviluppo della tradizione platonica, dal medioplatonismo al neoplatonismo fino al platonismo medievale e rinascimentale. Il moto di una d. discendente e ascendente, già adombrato nel platonismo medio secondo il ritmo ternario di manenza nell’Uno, processione dall’Uno e ritorno verso l’Uno (µονή, πρόοδος, ἐπιστροφή), diventa canonico e assurge a sistema in Plotino. Questo stesso ritmo, seppure all’interno di un sistema enormemente più complicato dalla proliferazione delle ipostasi, viene ripreso dagli ultimi esponenti della scuola platonica, come Proclo e Damascio.
La concezione negativa della d. risorge in Kant, nel quale la d., esaminata nella terza parte della Critica della ragion pura, la D. trascendentale, è sinonimo non già, come in Platone, di conoscenza vera, ma di conoscenza illusoria. La tesi illustrata nella terza parte dell’opera è infatti quella secondo la quale la ragione umana che pretenda di fare a meno dell’esperienza sensibile non produce altro che sogni. Tali infatti sono le tre «idee della ragione», Anima, Mondo e Dio, alle quali non corrisponde nulla di reale nel tempo e nello spazio. Le tre idee della ragione altro non sono che l’ipostatizzazione o sostantificazione di una tendenza insopprimibile della ragione umana, quella di cercare di unificare in una sintesi definitiva le conoscenze ottenute dall’intelletto. Se da un lato, quindi, le idee appaiono un concetto necessario della ragione, dall’altro a esse non può essere assegnato alcun oggetto congruente nei sensi. Nel migliore dei casi la d. trascendentale, nella sua costante aspirazione a una sintesi ultima delle nostre conoscenze, può produrre solo ipotesi, destinate a essere superate da altre ipotesi, e mai nulla di certo.
In aperta opposizione a Kant, l’idealismo classico tedesco recuperò il concetto platonico di dialettica. Fichte fece corrispondere il processo dialettico, articolato nei tre momenti della tesi, dell’antitesi e della sintesi, allo sviluppo teleologico dell’Io che, essendo un atto, deve limitarsi distinguendosi dal non-Io, e poi superare via via le contraddizioni che incontra, determinando esso stesso il non-Io, in modo pratico. Schelling, che in un primo tempo aveva ripreso il metodo di Fichte, affermò l’importanza della d. per il superamento dell’antinomia tra l’assoluto e le forme finite. Il contatto con la tradizione platonica è evidente soprattutto nella d. hegeliana, che, scandita secondo il ritmo di tesi, antitesi e sintesi, viene ricollegata esplicitamente da Hegel al ritmo triadico µονή, πρόοδος, ἐπιστροφή di Plotino e Proclo. Anche nel caso di Hegel, infatti, ci troviamo di fronte a una d. che è insieme discendente e ascendente. Attraverso il processo di alienazione, l’Idea esce fuori di sé e diventa Natura, per poi tornare a sé come Spirito. Uscendo fuori di sé l’Idea si articola e si moltiplica, per poi tornare all’unità con sé stessa arricchita di tutta l’esperienza vissuta nel tempo e nello spazio. Anche in questo caso, scopo precipuo della d. è quello di riconnettere l’uno al tutto e il tutto all’uno, secondo la formula usata da Hegel fin dagli anni giovanili, «unione dell’unione e della non unione», ossia «identità dell’identità e della non identità», che richiama esplicitamente, ancora una volta, la formula neoplatonica ἓν τὸ πᾶν, l’uno-tutto o l’unità nella molteplicità. Rispetto a Platone la d. hegeliana sembrerebbe fare posto alla temporalità e alla storia, ma occorre precisare che la dimensione spazio-temporale in Hegel è apparente, perché è interna al movimento dello Spirito. La d. hegeliana venne coniugata al materialismo da Engels e da Marx. La versione engelsiana ispirò il materialismo dialettico sovietico, il cosiddetto Diamat, che cercava di rinvenire la d. soprattutto nella natura. La seconda versione, quella di Marx, benché filosoficamente più raffinata e incentrata soprattutto sull’analisi della società e della storia, non riuscì mai a staccarsi completamente dalla sudditanza verso il modello hegeliano, che benché criticato, soprattutto negli anni giovanili, restò per Marx un costante punto di riferimento anche nelle concrete analisi del processo capitalistico e in partic. nel 1° libro del Capitale.
In Italia, dopo la revisione che Spaventa fece di alcune categorie della logica hegeliana, Croce distinse una «d. dei distinti», per cui lo spirito, secondo un processo circolare, passa da un grado all’altro senza annullare il precedente, dalla «d. degli opposti» che sintetizza la tesi e l’antitesi nella sfera concreta di ogni grado. Gentile trasferì la d. dal logos ipostatizzato e contemplato come oggetto di pensiero (quale era in Hegel) all’atto del pensare, o processo di reale formazione dell’individuo, il quale in tanto è, in quanto non è, e diviene, ossia si attua.
Il concetto di d. è presente a vario titolo in molti filosofi contemporanei. In Gadamer (Verità e metodo, 1960) la d. viene riproposta come la ‘logica’ dell’esperienza ermeneutica (➔), in un senso più socratico che platonico. La d. – dice Gadamer – si attua come domandare e rispondere, o meglio come passaggio di ogni sapere attraverso il domandare. In Merleau-Ponty (Le avventure della dialettica, 1955) e in Sartre (Critica della ragione dialettica, 1960) l’istanza della concretezza contro le astrazioni della d. hegeliana si lega, più che a Marx, al richiamo della fenomenologia (➔) e dell’esistenzialismo (➔) alla effettività dell’esistenza. Anche l’opera di Adorno, Dialettica negativa (1966), fa appello ai diritti del ‘particolare’ e del ‘diverso’ contro il ‘totalitarismo’ della d. hegeliana, proponendo una d. «senza sintesi». Tuttavia, continuando a presentare il diverso e il particolare come il ‘negativo’ e il ‘contraddittorio’, essa resta ancora all’interno del concetto hegeliano di dialettica.