DIPLOMAZIA (per l'etim. v. diplomatica)
Nella sua più larga accezione, significa così l'arte di trattare i negozî di stato, e in ispecie quelli attinenti alla politica estera, come il complesso delle persone (diplomatici o agenti diplomatici) che a quest'arte dedicano la loro attività. Chi vuol farsi un'idea precisa della diplomazia, deve porsi sul terreno storico, che ne crea la necessità, quando con l'età moderna tramonta ogni potere moderatore supremo della vita internazionale, mentre gli stati, che affermano energicamente la loro esistenza autonoma, hanno pur bisogno di regolare tra loro rapporti permanenti sempre più delicati e complessi.
Non già che nel mondo antico mancasse un'arte, e talora finissima, di condurre negoziati tra gente e gente; ma la minore specializzazione delle funzioni politiche e la maggior semplicità dei rapporti internazionali spiega l'assenza d'una classe di persone che di quest'arte facesse studio e professione esclusiva. Il diplomatico più spesso si confondeva col militare o col reggitore di stato. Così, non troviamo nello stato antico un organo corrispondente all'odierno Ministero degli affari esteri. In Atene l'Εκκλησία e in Roma il Senato decidevano promiscuamente della politica interna e di quella estera. Non si mantenevano legazioni permanenti, ma s'inviavano occasionalmente missioni speciali composte di più persone, forse per diffidenza, forse per meglio garantirne l'esito, in paesi pericolosi e lontani, forse per dare alla missione maggiore dignità.
Neppure il Medioevo ci presenta un'organizzazione di diplomazia internazionale. Durante le invasioni barbariche, la Chiesa dovette discutere con nuovi popoli dei proprî interessi e farsi anche intermediaria d'interessi altrui. Molti vescovi diventano così ambasciatori e, per la maggior cultura di cui sono forniti, vengono talora incaricati della redazione di trattati anche da parte degli stati. Si ricordi, p. es., Liutprando da Cremona, al servizio di Ottone I. Per la diplomazia pontificia, v. vaticano.
Esempî di missioni con carattere diplomatico ci sono offerti pure dai Comuni italiani, già in quel periodo di rivalità tra essi e di lotte con l'Impero, che doveva poi culminare nelle due Leghe veronese (1164) e lombarda (1167) e chiudersi con la pace di Costanza (1183), che fissa definitivamente i rapporti tra le città collegate e l'Impero. Questo documento, oltre al contenuto, è notevole perché, mentre si presenta in forma di concessione unilaterale, è sostanzialmente un patto bilaterale giurato dalle due parti, dove ai "principes et nobiles curiae qui praescriptam pacem per se firmam tenere iuraverunt" si contrappongono i "nuntii, qui ex parte Lombardorum pacem praescriptam et concordiam receperunt". Il carattere di plenipotenziarî è pertanto riconosciuto a questi ultimi nel modo più evidente. Dai Comuni e dai signori italiani vennero affidate incombenze diplomatiche a uomini eminenti come il Petrarca. Tuttavia, non si usciva dalla transitorietà e dalla straordinarietà dell'ufficio.
A dar l'esempio di un magistrato residente in permanenza presso un governo estero, comincia qualcuna delle nostre repubbliche marinare o commercianti con popoli lontani: specialmente Venezia, che è il primo stato che mostri di saper organizzare un corpo di funzionarî addetti specificamente a missioni diplomatiche (v. ambasciatore). Inviati di principi, a cominciare dal sec. XIII, appaiono in quello che era il centro della politica europea di allora, la Curia romana. Si chiamano Procuratori, con nome che deriva dalla rappresentanza giudiziaria; benché la funzione di rappresentare il loro sovrano quale attore in giudizio sia presto soverchiata da altre più importanti, quali quelle di ottenere dal pontefice privilegi e concessioni d'ogni sorta, d'essere gl'intermediarî in ogni genere d'affari, anche d'ordine politico.
Una particolare luce sui procuratori aragonesi è venuta dalla pubblicazione degli Acta Aragonensia, ad opera di H. Finke (Berlino 1908 segg.). Da essi si apprende che il procuratore ha un trattamento fisso, resta in carica spesso parecchi anni, il partente è rilevato da un altro, talché non vi ha, si può dire, lacuna nella rappresentanza. Cotesti procuratori sono altresì redattori di relazioni, avvicinandosi per tal guisa agli ambasciatori veneziani. Il re sollecita continuamente perché gli diano notizia dei rumores Curiae e dei fatti che particolarmente lo interessano. A lato di essi, compare in Aragona anche una rappresentanza speciale (ambasciatores, embaxadores) che viene mandata presso la Curia o presso altri stati per un tempo più breve, alla soluzione di uno o più affari politici formulati in istruzioni. Grande è la ricchezza di queste nei registri diplomatici aragonesi, che talora contengono anche abbozzi, senza che l'ambasceria fosse poi espletata. Insieme con le credenziali, che spesso erano accompagnate anche da commendatizie per i personaggi influenti e per i principi attraverso il territorio dei quali l'inviato deve passare, si mostravano e rilasciavano le istruzioni. Per la sicurezza delle carte si provvedeva con custodie metalliche, che impedivano ogni indiscrezione; e per la sicurezza del segreto epistolare si usavano già svariati cifrarî o redazioni concise non decifrabili o interpretabili dagli stranieri.
Finalmente, sulla fine del Medioevo col sorgere di stati nazionali, sorge anche il naturale strumento per le loro nuove necessità, soprattutto per quella reciproca sorveglianza che doveva garantire l'equilibrio delle forze. Tuttavia, la necessità d'una politica d'equilibrio, con gli adeguati mezzi all'uopo, s'era fatta sentire già entro i confini d'Italia. In Italia si elaborano quelle istituzioni, quei principî, quelle arti diplomatiche, che diventeranno in seguito europee. In prima linea Venezia, che ha un corpo diplomatico sceltissimo, sparso nelle principali corti italiane ed estere. Seguono subito dopo Firenze e la S. Sede, ma anche le città minori, p. es. Lucca ha diplomatici eccellenti. Le alleanze fatte e disfatte rapidamente spostavano le rispettive egemonie e tendevano a stabilire un sistema d'equilibrio tra le forze della penisola, divisa, verso la metà del sec. XV, in una ventina circa di stati, diversi assai fra loro per estensione, ricchezza, forza e civiltà, ma tutti agguerriti nelle arti diplomatiche. L'Italia ci mostra figure di negoziatori che si chiamano Capponi, Vettori, Guicciardini, Machiavelli, e quella meravigliosa scuola diplomatica veneta, le cui magistrali relazioni sono ancora oggi fonti d'inapprezzabile valore storico. Fuori d'Italia invece, si costituivano su basi nazionali quei grandi stati che dovevano divenire i membri più attivi del futuro sistema politico europeo. La diplomazia allargava così e intensificava la propria azione. Col sec. XVI, si può dire abbia inizio la regolarità dei rapporti diplomatici tra i maggiori stati europei. Francesco I, il ministro inglese Wolsey, Carlo V fecero della diplomazia un mirabile strumento per trarne tutti i vantaggi possibili.
Francesco I fonda su solide basi la diplomazia francese. Esso ha un consiglio segreto, detto degli affari, col quale discute le maggiori questioni di politica estera. Un inviato veneziano ce ne fa conoscere la composizione in un suo rapporto del 1512 (la regina di Navarra, l'ammiraglio, monsignor d'Annebaut, il cardinal di Lorena e il Delfino); gli affari vi sono trattati in gran segreto. Il re organizzò efficacemente il personale diplomatico. Mentre i suoi predecessori immediati si facevano rappresentare presso alcune corti da vescovi, abati o magistrati, sei o sette in tutto, Francesco I aumentò notevolmente il numero dei suoi agenti, ne mandò, per la prima volta, a Costantinopoli, in Ungheria, in Danimarca, in Svezia, ne accreditò presso le diete dell'Impero e anche presso i sovrani di secondo ordine, iniziando per il primo un geniale abbozzo di Weltpolitik per tenere in iscacco Casa d'Austria. Egli utilizzava, soprattutto nelle missioni lontane, l'assistenza anche di stranieri, che talora erano rivestiti di un titolo ufficiale, talora erano soltanto agenti segreti, senza che ciò impedisse loro di rendere egualmente importantissimi servizî. La gerarchia non era ancora ben regolata né i titoli ben definiti ma, a misura che l'istituto si sviluppava, la qualifica di ambasciatore (sappiamo che la parola ambaxador era già apparsa a metà del sec. XIII) era riserbata per le funzioni superiori, mentre per le meno importanti bastava quella di residente.
Come in Francia, così in Inghilterra, l'attività diplomatica si amplia nel sec. XVI. Sotto Enrico VIII, vi è un ministro, il Wolsey, che s'occupa quasi esclusivamente di politica estera. Numerosi gl'inviati; ed una cuiiosa caratteristica è ch'essi non vengono scelti tra i membri di grandi famiglie, forse per timore che la superbia del casato impedisca loro d'essere accomodanti, più probabilmente perché hanno minore pratica degli affari e dei maneggi dei mercanti. Molti di essi, infatti, sono di bassa estrazione o mercanti che ricevono, in Francia ed in Ispagna, mediocre accoglienza ma si mostrano tenaci e prudenti e i loro dispacci si distinguono per esattezza e minuzia. Nell'impero di Carlo V, gli ambasciatori appartengono alle numerose nazionalità che componevano l'impero stesso. Molti, e tra i migliori, sono originarî dei Paesi Bassi: come Luigi de Bruges, inviato a Londra e a Parigi; Adriano de Croy, che ebbe delicate missioni in Italia; Hannaert de Liedekerke, accreditato alla corte di Francia. Del resto, fino a un certo tempo, la pratica diplomatica non richiede requisiti particolari di sorta. Nel 1529, la pace di Cambrai fu detta giustamente pace delle dame, perché conchiusa da Luisa di Savoia, madre di Francesco I e da Margherita zia di Carlo V.
Con tutto ciò, l'istituzione di ambasciate permanenti trova ancora degli ostacoli e da principio occorre un patto esplicito, perché due sovrani le tollerino reciprocamente nei rispettivi territorî. I Turchi poi le accettano come atto d'omaggio, ma non le ricambiano e non riconoscono alle persone alcun privilegio; talché si trovano esempî in Turchia di ambasciatori esteri esposti agli insulti della plebaglia, minacciati e persino imprigionati. Bisogna arrivare fino al sec. XVII, per trovare, in trattati fra il sultano e l'imperatore, disposizioni che garantiscono la libertà dell'ambasciatore e del seguito, anche in caso di rottura dei rapporti diplomatici. Tuttavia, una società europea, sulla base dell'eguaglianza dei membri, andava pur faticosamente formandosi. Da conflitti e solidarietà d'interessi nascevano guerre, alleanze, leghe, equilibrî d'influenze e di forze, affratellamenti di popoli: in una parola, ciò che si poté chiamare internazionalità. Col sorgere di questa, la diplomazia acquista veramente un carattere di stabilità e diventa strumento abituale e permanente nei rapporti fra gli stati.
Un indice della sua crescente importanza è dato dal sorgere di una particolare attività scientifica che ne forma oggetto di studio. È degna di memoria, a questo proposito, soprattutto per noi italiani, la pubblicazione di Alberigo Gentili De legationibus (Londra, 1585), in cui si tratta dei diritti e dei doveri dell'ambasciatore. Su quest'argomento, si svolge poi tutta una letteratura giuridica abbondantissima, che discute la situazione di diritto degli ambasciatori e le prerogative necessarie all'esercizio della loro missione. Ebbero particolare notorietà, nel sec. XVII, il Wiquefort (L'ambassadeur et ses fonctions) e, nel XVIII, il Bynkershoek (De foro legatorum), mentre nel XIX la sola bibliografia riempirebbe parecchie pagine.
La funzione storica della diplomazia si afferma energicamente, in Europa, durante quel periodo che, attraverso la guerra dei Trent'anni e la pace di Vestfalia (1648), conduce a un nuovo assetto internazionale, sulle basi dell'equilibrio politico. La complicatissima situazione europea richiedeva ai varî stati non solo truppe agguerrite, ma una diplomazia altrettanto agguerrita alle più insidiose schermaglie, alle maggiori audacie, alle più abili difese. Essa infatti si rivela ora in tutta la sua potenza con campioni di primissimo valore: quali. il Richelieu, il Mazarino ed il Trautsmandorf.
Nel periodo che corre tra la pace di Vestfalia e la Rivoluzione, la diplomazia diventa strumento di particolare sensibilità per avvertire i mutamenti nella bilancia delle forze, per prevenire sbalzi troppo gravi, per ricostituire nuovi equilibrî. La rappresentanza diplomatica fissa si diffonde anche tra stati di minore importanza e sorgono due nuove categorie di diplomatici: gl'inviati straordinarî e gl'incaricati d'affari: gli uni si affermano al principio, gli altri verso la fine del sec. XVIII. Molte persone si dedicano all'arte diplomatica e ne fann0 specifica professione, perfezionandosi nella conoscenza delle cose pubbliche e altresì del carattere, dei sentimenti, dei pregiudizi degli uomini con i quali debbono trattare. In mezzo a persone serie e dabbene, non mancano avventurieri; ad agenti ufficiali s'uniscono talora emissarî clandestini come il cavaliere de Beaumont che, travestito da donna, fu inviato da Luigi XV a Elisabetta di Russia. Sono in genere gli strumenti di quella politica segreta, che si svolge parallelamente e talvolta in contrasto con la politica ufficiale. Punti di collegamento e di scambio per l'attività diplomatica sono i congressi: tra i quali vanno ricordati quello di Nimega (1678), dove i rappresentanti degli elettori imperiali furono riconosciuti quali ambasciatori, ma i Francesi ottennero la precedenza su tutti gli altri tranne che sul legato del papa; quello di Ryswick (1697), dove si penò molto a mettersi d'accordo sulla lingua di redazione dell'atto; quello di Carlowitz (1699), dove si ripeté l'espediente delle quattro porte, affinché i quattro principali delegati potessero incontrarsi contemporaneamente, ecc. (v. congresso). Sotto la leggerezza di queste suscettibilità, la diplomazia, pure con sforzi contrastanti, era riuscita a tener fermo un principio d'importanza capitale: quel iustum potentiarum aequilibrium, espressamente proclamato nella pace d'Utrecht (1713), che restringe, a vantaggio dell'Inghilterra, la potenza marittima francese, e in nome del quale a Nystadt (1721) si degrada la Svezia e si fa entrare la Russia nel novero delle maggiori potenze, a Vienna (1738) si sopiscono le rivalità per la successione polacca, e ad Aquisgrana (1748) si compongono quelle per la successione austriaca.
La bilancia delle forze era sempre dunque la faticosa preoccupazione della diplomazia europea, quando si levò in Francia e avvolse l'Europa la Rivoluzione francese. Ma l'imperialismo napoleonico non riuscì a vincere la naturale avversione del continente europeo a ogni egemonia nazionale; il sistema di gravitazione europea attorno alla Francia cadde insieme con la fortuna del gran condottiero, e il congresso di Vienna, assemblea di diplomatici paragonabile a quella di Vestfalia per la vastità del riassetto internazionale e per il criterio antimperialistico che l'informa, ristabilì l'equilibrio turbato dal Bonaparte.
Si deve anche rilevare che, se la diplomazia raccolta a Vienna s'era ribellata all'egemonia francese, non volle senz'altro sostituirvi un assoluto individualismo nazionale, ma bensì una collaborazione collettiva da parte delle potenze di maggior peso. L'imperatore Alessandro vagheggiava veramente una società di nazioni cristiane, tra le quali la mediazione obbligatoria doveva tenere il posto della decisione bellica. Concezione, questa, non certo criticabile in sé medesima, ma guastata nelle sue applicazioni da insincerità di intenti e soprattutto dal pregiudizio della legittimità delle restaurazioni monarchiche. La Santa Alleanza (26 settembre 1815), con i successivi congressi di Troppau (1820), di Lubiana (1821), di Verona (1822), rappresenta sforzi ingegnosi ma inutili per il mantenimento di uno statu quo, che lo spirito nazionale doveva fatalmente travolgere. Soprattutto in Italia e in Germania, dopo il 1848, divenne impellente il bisogno di far coincidere la naturale unità nazionale con l'ordinamento politico statale, e i due grandi diplomatici che, con metodi differenti ma con pari avvedutezza ed audacia, interpretano e realizzano i bisogni dei propri paesi sono il Cavour e il Bismarck. L'opera del Cavour ebbe i suoi punti culminanti nel congresso di Parigi (1856), dove per la prima volta fu posta nettamente davanti alla diplomazia europea la questione italiana, e nella preparazione di quell'alleanza franco-sarda che doveva segnare un primo passo decisivo sulla via dell'unificazione. Quella del Bismarck culminò nell'espulsione dell'Austria, paese allora solo in parte tedesco, dalla Confederazione germanica, e nella fondazione dell'Impero.
Sorvolando sul congresso di Berlino (1878), che non accontentò nessuno e ove pure emersero notevoli figure di diplomatici quali il Gorčakov (che tenne testa a Bismarck per quanto poté) e lord Beaconsfield, gli avvenimenti a noi più prossimi ci fanno assistere a una violenta rottura dell'equilibrio europeo e ad una faticosa ricostruzione. La diplomazia non riesce a dominare gli avvenimenti. Già al principio del nostro secolo la sicurezza internazionale non era garantita né da un ambiente psicologico di mutua fiducia, né da presidî giuridici. La diplomazia credeva d'averla garantita con un sistema di alleanze e intese, ma un delitto individuale contro la persona dell'erede al trono austro ungarico (28 giugno 1914) bastò a provocare la conflagrazione.
Anche questa crisi si chiuse con una grande assemblea diplomatica che mise capo ai trattati di Versailles (28 giugno 1919), SaintGermain (10 settembre), Neuilly (27 novembre), Trianon (4 giugno 1920) e Sèvres (10 agosto). Vi campeggiarono Clemenceau, plenipotenziario della Francia, Lloyd George dell'Inghilterra, Wilson dell'America. Certo è in ogni modo che a Parigi, come un secolo prima a Vienna, le divergenze tra i vincitori si palesarono gravi e profonde e più che un desiderio di pace sincera prevalsero singolari avidità, miopi diffidenze e discordi passioni. Qui come là si vide il tentativo di monopolizzare la vittoria a danno di altri che pure avevano contribuito a conseguirla. Se al principio di legittimità che aveva dominato a Vienna si sostituirono, con maggiore ragionevolezza, quelli di nazionalità e di autodecisione, nella pratica però tali principî vennero applicati con incertezze ed errori. La stessa divisione dell'immenso bottino coloniale dei vinti fu fatta quasi interamente a vantaggio della Francia e dell'Inghilterra. Invece della Santa Alleanza monarchica, compare a Parigi quella Società delle Nazioni che, secondo la concezione wilsoniana, avrebbe dovuto formare la Santa Alleanza delle democrazie.
Si dice generalmente che i diplomatici curano gl'interessi dei rispettivi stati, e questo è vero, ma non è tutto. Quando un diplomatico conchiude un accordo giovevole a tutti i partecipanti, quando dipana una questione arruffata, quando evita una guerra non necessaria, esso non tutela soltanto l'interesse dello stato proprio, ma anche quello di altri. Perciò si deve ritenere ingiustamente pessimistica la vecchia definizione del Watton, rimasta classica, che legatus est vir bonus peregre missus ad mentiendum reipublicae causa. È ben vero che si rimproverano sempre alla diplomazia principalmente due cose, la menzogna ed il segreto, ed una delle ingenuità del Wilson fu appunto quella di volere una diplomazia aperta e senza segreti. In realtà, trattative ed accordi segreti non è possibile escludere dai rapporti internazionali e la diplomazia postbellica non sembra abbia troppo mutato, in questo, i metodi anteriori.
Una larga letteratura s'è occupata delle qualità necessarie per un buon diplomatico. Un Ottavio Maggi, veneziano, che scriveva nel 1596, pretendeva che, oltre a essere buon cristiano, il diplomatico dovesse pure mostrarsi teologo istruito, valente filosofo versato in Aristotele e Platone e capace di esporre in forma dialettica corretta i problemi più astratti, conoscere i classici ed essere esperto in matematica, architettura, musica, fisica, diritto civile e canonico. Avrebbe dovuto saper scrivere e parlare il latino con classica raffinatezza, ma conoscere altresì il greco, lo spagnolo, il francese, il tedesco, il turco; avere una cognizione approfondita della storia, della geografia, della scienza della guerra. Oggi per verità alcune delle conoscenze che il vecchio Veneziano esigeva si potrebbero lasciar da parte, ma bisognerebbe aggiungerne altre attinenti alla padronanza delle questioni economiche, finanziarie e sociali che sono tanta parte della vita moderna. Bisogna pure aggiungere che tutte queste doti di cultura, o strumentali, non bastano a fare il perfetto diplomatico, ché altre ne occorrono di tatto, di avvedutezza, di prudenza, di energia non disgiunta da duttilità.
Il diplomatico deve anche possedere una particolare tecnica per la redazione degli atti unilaterali (note, memorie, rapporti) e bilaterali (convenzioni, trattati, accordi).
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Gli agenti diplomatici.
Sotto il nome comprensivo di agenti diplomatici s'intendono gli agenti di qualunque rango o classe, inviati da uno stato presso un altro, per rappresentarlo ivi, occasionalmente o permanentemente, in determinati affari, o nell'insieme delle reciproche relazioni internazionali. Il carattere diplomatico, di cui sono muniti, fa sì ch'essi impersonano nella sua totalità lo stato inviante presso l'altro e quindi costituiscono giuridicamente un'altra importantissima categoria degli organi permanenti dello stato per le sue relazioni internazionali (anzi la più importante dopo i capi di stato, che hanno - come si dice - il ius omnimodae repraesentationis verso l'estero). Agli agenti diplomatici, inviati permanenti, o d'affari, si contrappongono gli agenti diplomatici, o inviati di cerimonia, mandati in date occasioni di feste, matrimonî, funerali, commemorazioni ecc., e con lo stesso carattere diplomatico agli agenti diplomatici permanenti vengono assimilati i delegati d'uno stato, investiti di qualche missione particolare, come la partecipazione a congressi e conferenze, la negoziazione d'un trattato, ecc.
Il diritto dello stato d'inviare e di ricevere agenti diplomatici è quello che si dice diritto di legazione attivo e passivo. Un tale diritto - come ogni altro diritto internazionale - è basato anzitutto sul consenso degli stati stessi e può mancare a certi stati, o può essere limitato. In tesi ogni stato può diplomaticamente isolarsi dagli stati che crede ed anche da tutti, non inviando né ricevendo rispettivamente agenti diplomatici; ma tale ipotesi giuridica (atta solo a far comprendere il fondamento formalmente consensuale, esplicito o tacito, di questa parte, alla stessa guisa che di tutto il resto, dei rapporti internazionali) è ormai fuori della realtà storica, nella quale gli stati civili di tutto il mondo vivono fra loro in tale necessaria colleganza di rapporti materiali (cui i rapporti diplomatici servono d'indispensabile tramite) che una sospensione o rottura di essi non può avere che carattere meramente temporaneo e di crisi. Accanto però agli stati sovrani - cioè agli stati che hanno la pienezza dei diritti internazionali e del loro esercizio - vi sono gli stati a vario titolo non sovrani (o anche detti, con espressione ormai generalmente ricusata, semi-sovrani), i quali mancano in parte, o in tutto, del diritto di legazione, secondo che abbiano o no certe relazioni internazionali indipendenti da quelle dello stato cui sono subordinati (p. es. stati-vassalli, stati-membri d'uno stato federale), o gli stati che vi abbiano per convenzione rinunziato, o a pro' d'una rappresentanza collettiva (come gli stati stretti nel vincolo d'una unione reale, o d'una confederazione), o a pro' della rappresentanza di un altro stato, che li sostituisce (come per certi autori è il caso degli stati protetti, in quanto si considera il protettorato un rapporto di natura obbligatoria, non intaccante la capacità giuridica internazionale dei detti stati).
Gli agenti diplomatici sono distinti in classi, distinzione che cominciò a determinarsi con l'uso delle legazioni permanenti fra inviati d'eccezione, detti ambasciatori (pretendenti a più alti onori e alla precedenza sugli altri), ed inviati ordinarî, detti residenti, ai quali si vennero opponendo, nella pratica del principio del sec. XVIII, gl'inviati detti straordinarî (envoyés extraordinaires), anche se non avevano nessuna missione straordinaria da compiere, con la pretesa (ad immagine degli ambasciatori) della precedenza sui residenti e finalmente si aggiunsero, verso la fine del sec. XVIII, gl'incaricati d'affari (chargés d'affaires). Il conflitto sul rango degli stati stessi e dei loro capi divenne conflitto per il rango dei loro rappresentanti diplomatici, da quando appunto le legazioni permanenti e i grandi congressi dell'epoca moderna misero accanto, o di fronte, i rappresentanti di tanti stati diversi in titoli e potenza. Al congresso di Vienna, rinunziandosi alla progettata classificazione degli stati, si volle definitivamente provvedere a quella dei loro rappresentanti e il noto regolamento (in 7 articoli) 19 marzo 1815, allegato d, pose la distinzione (art.1) delle tre classi: a) ambasciatori, legati (a latere), e nunzî pontifici; b) inviati, ministri (detti più tardi comunemente inviati straordinarî, ministri plenipotenziarî) e internunzî; c) incaricati d'affari. Il protocollo di Aquisgrana, 21 novembre 1818, in aggiunta, stabilì che i ministri residenti formassero, in rapporto al loro rango, una classe intermedia fra i ministri del 2° ordine e gl'incaricati d'affari. Sicché in definitiva le classi furono quattro e, accettato tale regolamento dapprima dalle poche potenze partecipi a quegli atti, è venuto a mano a mano, esplicitamente o tacitamente, ammesso dalla generalità degli stati. All'interno d'ogni classe gli agenti diplomatici prendono rango secondo la data del loro accreditamento ufficiale (art. 4). Tale classificazione non ha effetti di sorta sulle funzioni e sulla condizione giuridica degli agenti diplomatici, bensì sulla parte di mera etichetta-cerimoniale e precedenze. La sola differenza rilevabile è che gli agenti delle tre prime classi sono accreditati dal capo del loro stato presso il capo dell'altro stato e quelli della quarta dal ministro degli Esteri presso l'altro ministro degli Esteri. Quanto a questi ultimi bisogna notare che oltre agl'incaricati d'affari capi d'una legazione e appartenenti alla classe di cui si occupa il detto regolamento di Vienna, vi sono gl'incaricati d'affari ad interim per conto dell'agente diplomatico, di qualunque classe, assente, che confida, durante la sua assenza, ad una persona della missione (consigliere o segretario) gli affari del suo ufficio, dopo averlo presentato per la circostanza al ministro degli Esteri; tali incaricati (che, secondo il Rivier, meglio dovrebbero chiamarsi ad evitare equivoci chargés des affaires) prendono rango dopo gli ordinarî chargés d'affaires di categoria. Il regolamento di Vienna aggiungeva all'art. 2 che solo gli ambasciatori, i legati o nunzî hanno carattere rappresentativo; col che s'intese dire ch'essi rappresentassero pure la persona del capo dello stato e avessero diritto agli stessi onori; ed una conseguenza molto importante di ciò, nel regime delle monarchie assolute, era appunto il diritto di trattare direttamente col capo dello stato presso cui erano accreditati, cosa che ha perduto ogni valore nei regimi costituzionali, oltre a dire che la stessa questione di cerimoniale non ha certo più l'importanza di quel tempo. Per il principio di reciprocità gli stati usano scambiarsi agenti della stessa classe, ciò che del resto non è senza eccezione. Tutti gli agenti diplomatici dei diversi stati accreditati presso un dato stato formano ciò che si chiama il corpo diplomatico, che costituisce un'unità di mero carattere politico-morale e cerimoniale, senza perciò funzioni legali, alla cui testa come decano sta l'agente diplomatico di rango più alto e nello stesso rango di maggiore anzianità (computata l'anzianità secondo la norma già ricordata del regolamento di Vienna), mentre presso le grandi corti cattoliche, secondo l'uso riservato pure nello stesso regolamento di Vienna, la carica di decano è conferita senz'altro al nunzio (non all'internunzio). Si parla poi anche di corpo diplomatico italiano, francese ecc., per significare l'insieme del personale diplomatico d'un dato stato.
La nomina dell'agente diplomatico - come d'ogni altro funzionario - riguarda esclusivamente il diritto interno dello stato che lo invia, come da esso è regolato tutto ciò ch'attiene all'ordinamento della carriera (vedi p. es. legge italiana 2 giugno 1927, n. 862 sull'ordinamento della carriera diplomatico-consolare, agli art. 2,5,14). Ma nessuno stato d'altra parte può essere costretto a ricevere presso di sé una persona che non gradisca; donde l'uso della così detta domanda di gradimento (demande d'agréation), preventiva alla nomina d'ogni agente diplomatico (trasmessa verbalmente per solito attraverso l'agente diplomatico richiamato, o l'interinale incaricato d'affari). Il rifiuto d'una persona non gradita non ha bisogno d'essere accompagnato da motivi, secondo la pratica generale degli stati (ad eccezione dell'Inghilterra e degli Stati Uniti d'America, che esigono di conoscere i motivi e si riservano d'aderirvi o no). Con la consegna, in apposita udienza, delle lettere credenziali (literae credentiales, lettres de créance), documento di cui l'agente è provvisto in un originale sigillato (ch'è quello da consegnare personalmente) e in una copia aperta (ch'egli giunto a destinazione trasmette al ministro degli Esteri per dar conoscenza di sé, del suo arrivo), documento indicante il suo nome e la qualità ufficiale, lo scopo della sua missione, l'agente diplomatico assume ufficialmente la sua condizione giuridica internazionale, che a stretto diritto (altrimenti secondo gli usi di cortesia) gli spetta solo di fronte allo stato di recezione e che - giova ben mettere in chiaro - non gli è conferita dal diritto internazionale come individuo, bensì come organo rappresentativo del suo stato. Per gli agenti diplomatici, incaricati d'una speciale missione, come per i delegati a congressi e conferenze, invece delle lettere credenziali si dànno i pieni poteri, la cui verifica costituisce una formalità preliminare indispensabile all'accertamento della qualità ufficiale nella persona indicata. Ogni inviato, permanente o no, è poi provvisto di istruzioni a guida della condotta da tenere e che, riguardando esclusivamente lui ed il suo stato, non hanno importanza per il diritto internazionale. Infine ogni agente permanente riceve per sé e per il suo seguito i passaporti, ch'egli consegna al suo arrivo al ministro degli Esteri del luogo, che li conserva fino alla riconsegna. L'accreditamento dell'agente diplomatico, avendo stretto carattere personale sia nei riguardi dell'agente stesso, sia nei riguardi della persona del capo dello stato inviante e di quello ricevente, la pratica richiede generalmente un nuovo accreditamento quando il rango dello stesso agente viene mutato, o muta la forma di governo in uno dei due stati, od anche la persona del capo dello stato (almeno nelle monarchie e per gli agenti delle tre prime classi) non si rinnova nel caso di mutazione dei ministri degli Esteri, nell'elezione del nuovo papa (v. ora Codex iuris canonici, 268) e in Svizzera per il cambiamento del presidente, poiché quivi capo dello stato è considerato il Bundesrath. Agli effetti dell'anzianità poi il nuovo accreditamento non importa interruzione nel computo del primo. La missione dell'agente diplomatico finisce in tutti i casi sopra ricordati, nei quali occorra un nuovo accreditamento (ma la durata delle sue prerogative ed immunità lo assiste finché si trova sul territorio dello stato). Altri casi (oltre quelli ovvî della fine della missione negli agenti nominati ad hoc, dell'estinzione dell'uno o dell'altro stato, della morte dell'agente) sono: a) il richiamo dell'agente: in questo caso l'agente presenta in apposita udienza di congedo la lettera di richiamo (lettres de rappel) e ne riceve in cambio (dal capo dello stato, o ministro degli Esteri, secondo la classe) la lettera di riaccreditamento (lettres de recréance), la quale contiene per solito, insieme con la presa d'atto del richiamo, un riconoscimento laudativo dell'attività dell'agente; b) lo scoppio d'una guerra fra i due stati, o la rottura delle loro relazioni diplomatiche indipendentemente dalla guerra (nei quali casi vengono all'agente rimessi semplicemente i suoi passaporti e lo stato di residenza può anche fissargli un termine entro cui lasciare il paese).
Le funzioni dell'agente diplomatico si riassumono essenzialmente nel compito generico di coltivare le relazioni fra il proprio stato e l'altro, di curare nei limiti del possibile che la buona intelligenza fra loro non venga turbata: compito variamente complesso e contingente, in cui si capisce quanta parte possano avere il tatto e l'abilità personale dell'agente e in cui poco valgono le istruzioni. Oltre a ciò varî e definiti compiti sogliono essere affidati all'agente diplomatico di volta in volta dal suo governo (come condurre negoziazioni, fare e ricevere comunicazioni, riferire su avvenimenti che possano toccare gl'interessi del proprio stato, ecc.) nonché alcune funzioni - e in alcuni luoghi anche di stretto carattere giuridico - in concorrenza con quelle consolari. Come grave violazione del diritto internazionale però è considerato ogni tentativo dell'agente diplomatico d'immischiarsi negli affari interni dello stato di residenza, qualunque ne siano il movente e i mezzi (la storia ricorda molti esempî del genere).
La condizione giuridica fatta dal diritto internazionale agli agenti diplomatici si esprime in sintesi nella prerogativa comunemente detta della extraterritorialità, o immunità dai poteri di comando e di coazione dello stato di residenza. Fonte quasi esclusiva di tale stato di diritto sono secolari consuetudini internazionali, il cui insieme ha concorso a costituire quella parte del diritto internazionale, che s'intitola appunto diritto diplomatico e che oltre ad esserne una delle parti più vetuste è pure una delle più salde (la sua codificazione, progettata nel Règlement sur les immunités diplomatiques adottato nel 1895 dall'Institut de Droit imernational - Annuaire, XIV, è stata ultimamente compresa nel programma del comitato d'esperti nominato dalla Società delle Nazioni nel 1924 per la codificazione progressiva del diritto internazionale). Ragioni che spiegano tale condizione giuridica degli agenti diplomatici sono: il carattere rappresentativo dello stato e della sua dignità, di cui essi sono investiti e la necessità che le loro funzioni si svolgano in piena indipendenza dal governo locale, mentre se fossero passivi, come ogni altro individuo, della comune soggezione giuridica e politica, personali ćonsiderazioni di quieto vivere o tornaconto potrebbero turbarli nel compimento della loro missione, la quale, se non avesse anche l'altra prerogativa del segreto della corrispondenza, in molte circostanze non potrebbe neppure essere attuata. La detta extraterritorialità conferita all'agente diplomatico capo della missione si estende pure: 1. ai membri della sua famiglia conviventi con lui; 2. ai membri della missione, compresi i varî attachés tecnici, come alle loro famiglie; 3. al personale della missione (gens d'uniforme), non però alle loro famiglie; 4. al personale di servizio (gens de livrée) in quanto queste persone non siano sudditi dello stato di residenza (tuttavia questo punto non è pacifico). Le legislazioni interne dei varî stati o sanciscono espressamente disposizioni del genere (v. p. es. il Deutsches Gerichtsverfassungsgesetz, §§ 18,19 e nella misura più larga l'Österreichische Hofdekret, 2, IX, 1839), o, tacendo, fanno presupporre un implicito richiamo alle corrispondenti consuetudini internazionali (espressamente per una simile considerazione fu soppresso dal primo progetto del codice civile francese un articolo apposito, per quanto la dottrina oggi trovi qualche seria difficoltà a spiegare teoricamente l'efficacia tacita o consuetudinaria di tale richiamo presso quelle legislazioni che non ammettono la consuetudine se il legislatore non vi si richiama esplicitamente). L'esenzione degli agenti diplomatici dai poteri dello stato locale si desume principalmente, come abbiamo detto, dal carattere rappresentativo di essi. Da ciò consegue che l'agente né per sé, né per gli altri, che godono la detta immunità, possa ad essa completamente rinunziare.
L'espressione extraterritorialità usata a definire la detta situazione (e che presuppone la finzione di considerare quasi extra-territorium la persona o cosa cui si riferisce) non è certo, a giudizio unanime, felice, prestandosi ad accreditare errori ed è stata perciò, specie nel nostro tempo, prevalentemente rigettata (pur non mancando ancora qualche autorevole voce in difesa del suo concetto). Sotto il termine tradizionale di extraterritorialità si comprendono le singole immunità seguenti:
A) Dal punto di vista personale. - L'inviolabilità di persona storicamente è stata la prima prerogativa degl'inviati e fu di grande importanza finché lo straniero fu considerato fuori del diritto. Con la mutata condizione giuridica degli stranieri nel corso del tempo, la detta prerogativa - come fu già accennato fin dal Bynkershoek (De foro legatorum, V) - scade essenzialmente dal primitivo significato, ed oggi si estrinseca soltanto nell'obbligo da parte dello stato di residenza d'una più alta protezione, applicando - insieme con l'attuazione di misure preventive di polizia adeguate - pene maggiori ai reati contro gli agenti diplomatici (vedi p. es. art. 298 del cod. pen. italiano 1930). Di ben altro rilievo è invece la inviolabilità che si estrinseca nell'esenzione dell'agente diplomatico dalla giurisdizione civile e penale dello stato di residenza. Importa tale esenzione anche quella dai precetti del diritto sostanziale civile e penale? Certo la soggezione ai precetti del diritto sostanziale senza possibilità di coazione sarebbe una mera parola e perciò l'opinione prevalente nella dottrina è nel senso dell'affermativa. A favore di tale soluzione sta l'impossibilità di perseguire l'agente diplomatico - dopo l'abbandono del suo ufficio a causa di un'azione allora compiuta - secondo le leggi e davanti ai tribunali dello stato di residenza ed inoltre l'altro fatto incontestabile dell'irresponsabilità dello stato di residenza per le azioni degli agenti diplomatici accreditati presso di sé. Contro l'agente diplomatico dunque non può essere promosso nessun giudizio civile o penale; egli non può neppure essere obbligato a deporre come testimonio (lo può fare spontaneamente, per lo più dietro autorizzazione del suo governo). Circa le azioni reali, in rapporto a beni immobili posseduti entro il territorio dello stato di residenza (all'infuori della casa d'abitazione e della sede dell'ambasciata o legazione) e le azioni concernenti operazioni commerciali dell'agente, la dottrina è quasi unanime nell'escludere la prerogativa dell'esenzione per quanto la giurisprudenza lasci qualche dubbio al riguardo.
Inoltre una distinzione, nei confronti dell'immunità dalla giurisdizione civile, fra atti compiuti dall'agente nella sua veste ufficiale ed atti compiuti come privato - distinzione apparsa in due recenti sentenze della Cassazione italiana (Roma 20 aprile 1915, 31 gennaio 1922) - non pare che sia sostenibile. L'esercizio di azioni o di azioni in riconvenzione avanti i tribunali del luogo e l'ammissione di esse da parte dell'agente diplomatico si considerano in teoria come una rinunzia (con la seguita autorizzazione del suo governo) all'esenzione per il singolo caso. Non si può contestare seriamente oggi la validità d'una rinunzia volontaria del genere. Come corrispettivo dell'esenzione sta il principio generalmente riconosciuto che l'agente diplomatico, durante la sua permanenza all'estero ha il suo domicilio legale nella capitale dello stato patrio e là può esser convenuto a render conto civilmente e penalmente. Lo stato di residenza però può sempre prendere occasione dalla condotta dell'agente per domandare il suo richiamo, o nei casi più gravi invitarlo senz'altro a lasciare il paese, consegnandogli i suoi passaporti. Una questione, che ancora la dottrina non trascura, riguarda l'eventuale giurisdizione dell'agente sul personale del suo seguito, ma unicamente per dire dei casi ovvî di esercizio della giurisdizione volontaria e di quegli atti preparatorî d'istruzione o inchiesta a carico dalle suddette persone per conto del proprio stato ed escludere invece, conformemente alla pratica moderna, ogni titolo all'esercizio della giurisdizione contenziosa.
L'agente diplomatico è inoltre esente da tutte le imposte dirette, statali e comunali, come dalle prestazioni personali; non però dall'imposta fondiaria, dalle imposte sulle industrie, dalle imposte indirette, dai dazî: tuttavia anche qui non mancano le esenzioni per via d'accordi speciali, o della legislazione del luogo.
B) Dal punto di vista reale. - La libertà di quartiere (franchise de l'hôtel) e con ciò l'intangibilità di tutto ciò che vi si trova è la manifestazione precipua di quest'altro aspetto dell'extraterritorialità. La prerogativa si estende a tutti quei locali, che notoriamente sono compresi nell'ambito d'azione d'una data sede diplomatica. Fino al sec. XIX tale immunità dava luogo a un vero diritto d'asilo (sebbene non senza contrasti riconosciuto) e nei tempi di sua maggiore estensione arrivava pure ad abbracciare tutto il quartiere della città dove la casa dell'agente era situata (vero ius quarteriorum o franchise des quartiers). Oggi l'immunità di luogo si riduce alla formalità di non potere le autorità locali accedere e procedere ad atti del loro ufficio nella sede dell'agente diplomatico senza avere domandato la sua autorizzazione. La finzione che l'edificio in discorso sia territorio dello stato dell'agente è insostenibile; i reati ivi commessi sono commessi nello stato territoriale e giudicabili dai suoi tribunali e l'agente diplomatico, anche senza l'esistenza d'un trattato d'estradizione, è obbligato a rimettere alle autorità locali il reo. Gli stati dell'America Latina concedono ancora agl'inviati stranieri il diritto d'accordare asilo ai rifugiati politici in tempo di rivoluzione; ma si tratta di mero uso locale, che anche altrove, in tempo di rivoluzioni e persecuzioni, è talvolta osservato, senza che perciò il contrario principio di diritto internazionale possa dirsi menomato. Un tempo anche il diritto di cappella (droit de chapelle, droit de culte), cioè il diritto all'esercizio della propria religione, aveva un'importanza che negli stati moderni non ha più, meno che, in parte, nei rapporti con gli stati orientali e in genere di civiltà non europea. Disposizioni convenzionali, che non mancano in alcuni trattati, riconoscono espressamente il diritto dell'agente diplomatico di far celebrare gli uffici divini nella cappella della sua sede non solo per il personale appartenente alla missione diplomatica, ma anche per gli altri credenti che non siano sudditi dello stato territoriale. Anche qui è da guardarsi dall'errore di considerare la detta cappella come territorio dello stato estero; il matrimonio celebrato in essa fra sudditi dello stato dell'agente è matrimonio celebrato nel territorio dello stato locale. Agli agenti diplomatici infine spetta l'illimitato segreto epistolare e telegrafico; cioè la loro corrispondenza è esente in ogni caso da esame, censura e fermi (ciò che comprende la valigia dei corrieri all'entrata e uscita dallo stato; anche nel passaggio di tali corrieri attraverso i terzi stati è uso generale che le parti del loro bagaglio contenenti la corrispondenza diplomatica e che sono munite di sigilli ufficiali, non siano aperte e visitate).
Bibl.: Si veda innanzi tutto la bibliografia citata dopo la storia della diplomazia. Come opere classiche del Diritto diplomatico vanno per la loro rinomanza citate: A. Gentili, De legationibus libri tres, Hannover 1612; A. Wicquefort, L'ambassadeur et ses fonctions, voll. 2, L'Aia 1680-81; C. van Bynkershoek, De foro legatorum, in Opera omnia, vol. II, Leida, 1767 (per conoscenza della letteratura antica, cfr. V. Hrabar, De legatis et legationibus tractatus, 1905). Fanno ancora testo in materia: Ch. de Martens, Le guide diplomatique, voll. 2, 1832, 5ª ed. (a cura di F. Geffcken), Lipsia 1866; G. de Graden, Traité complet de Diplomatie, voll. 3, Parigi 1833; P. Pradier-Fodéré, Cours de droit diplomatique, 1881, 2ª ed., voll. 2, Parigi 1899. Trattazioni più recenti: E. Lehr, Manuel théorique et pratique des agents diplomatiques, Parigi 1888; J. W. Foster, The practice of Diplomacy, Boston e New York 1906; E. Satow, A guide to diplomatic Practice, voll. 2, Londra 1917, 2ª ed. 1922.
Per questioni particolari, v. anche K. Strupp, Zur Frage der Reform der Ausbildungsvorschriften für deutsche Diplomaten, in Niemeyers Zeitschrift für internationales Recht, Kiel 1915; H. Wehberg, L'exterritorialité du personnel non officiel des légations, in Revue de droit international et de legislation comparée, Gand 1926.