Diritti dell'uomo
I 'diritti dell'uomo' o 'diritti umani' designano quell'insieme di principî morali che governano il rapporto tra l'uomo e la società: tali principî vennero generalmente accettati nella seconda metà del XX secolo. Il riconoscimento dei diritti umani, e l'impegno a rispettarli, trovano un riscontro nelle costituzioni e nelle leggi di quasi tutte le nazioni del mondo. Il mancato rispetto e la mancata garanzia dei diritti umani ha costituito una delle principali cause di instabilità politica e di sofferenza umana in molti paesi. La garanzia dei diritti umani è diventata una preoccupazione costante della politica internazionale e materia di diritto internazionale.
L'espressione 'diritti umani' viene talvolta usata colloquialmente per designare in modo generico i principî di 'giustizia' o i valori connessi alla 'società buona'. Talvolta, il termine è usato come sinonimo di 'democrazia'. A rigore, tuttavia, l'idea dei diritti umani non è sinonimo di tali valori, anche se presenta importanti affinità con essi. In senso proprio, essa afferma che ogni essere umano ha certi specifici 'diritti' o legittime rivendicazioni nei confronti della società in cui vive. La società deve rispettare e tutelare la vita dell'individuo, la sua integrità fisica e la sua proprietà, oltre a determinate libertà e immunità e ad altri diritti civili o politici. La società deve anche perseguire la soddisfazione dei bisogni fondamentali degli individui e la realizzazione di altri diritti economici e sociali. Le nazioni del mondo si sono formalmente impegnate al rispetto dei diritti umani con la Carta delle Nazioni Unite, e la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, adottata dall'Assemblea generale dell'ONU nel dicembre del 1948, presenta un catalogo autoritativo delle libertà, delle immunità e dei diritti riconosciuti come diritti umani nella seconda metà del XX secolo.
I diritti umani derivano da alcuni principî condivisi relativi ai diritti e alle obbligazioni morali tra gli individui; la società è tenuta a garantire che tali diritti siano rispettati e goduti effettivamente dai cittadini, e che siano inoltre rispettati e applicati dai governi e dai funzionari dello Stato. Il fatto che i diritti umani assurgano al rango di diritti significa che essi non sono una questione di carità o di amore, e non possono dipendere dall'arbitrio dello Stato o del governo; essi spettano a ciascun individuo, e ciascun individuo li ha, 'di diritto'. La loro natura giuridica impone alla società di approntare leggi e istituzioni, o altri strumenti affinché gli individui possano effettivamente esercitarli. Il fatto che si tratti di diritti umani, a sua volta, comporta che essi riguardano ogni essere umano in quanto tale, indipendentemente da qualsiasi altra sua qualità o caratteristica, quali la razza, il colore, il sesso, la lingua, le convinzioni politiche, religiose o di altro tipo, la nazionalità o l'estrazione sociale, la ricchezza personale, la nascita, la cittadinanza, e via dicendo (anche se uno Stato è tenuto a garantire alcuni di questi diritti solo ai suoi cittadini, ad esempio, il diritto di libero accesso al paese o il diritto di voto). Infine, il fatto che questi diritti siano qualificati come diritti umani, implica che si tratta di diritti universali, che devono essere riconosciuti all'individuo in ogni società indipendentemente dalla maggiore o minore disponibilità di risorse, dal livello di sviluppo politico, sociale o economico, dal sistema politico o economico, dalla confessione religiosa o dalle convinzioni ideologiche (anche se la capacità di uno Stato di realizzare i diritti economici e sociali può essere condizionata dalla disponibilità delle risorse).
Secondo la concezione dominante, l'obbligo della società di rispettare e garantire i diritti umani non ha carattere assoluto. I diritti umani sono prima facie diritti, e la maggior parte dei diritti, se non tutti, devono piegarsi di fronte al diritto concorrente degli altri individui, o, spesso, alle esigenze o all'interesse comune della società.
I diritti umani però non si piegano facilmente alle esigenze del bene comune e alla volontà della maggioranza; alcuni di essi sono fondamentali e possono essere compressi solo dinanzi a imprescindibili ragioni di interesse pubblico. Uno Stato può prendere dei provvedimenti in deroga al suo obbligo di rispettare e garantire la maggior parte dei diritti (ma non tutti) solo quando un'emergenza pubblica minacci la vita della nazione, e nei limiti strettamente necessari.
Nella teoria politica moderna, l'idea dei diritti è in contrasto con alcune concezioni di stampo utilitaristico, secondo le quali il principio guida di una buona società è la realizzazione del massimo benessere per il maggior numero di persone o la massimizzazione della felicità. L'idea dei diritti umani è stata messa in discussione in particolar modo dai sostenitori del comunitarismo e da alcune correnti del socialismo, secondo le quali l'enfasi data ai diritti umani si rivela egoistica e atomistica, favorisce la divisione sociale ed è contraria alla democrazia e al benessere generale. L'idea dei diritti umani contrasta anche con alcuni elementi presenti nelle religioni tradizionali, per le quali si tratta di un'idea laica e antropocentrica, e per alcuni suoi contenuti (la libertà religiosa, o l'eguaglianza tra uomo e donna) incompatibile con le loro leggi. Secondo l'ideologia dei diritti umani, tuttavia, il rispetto di ogni individuo rappresenta una condizione essenziale per una comunità fondata sul diritto e pienamente realizzata: ogni singolo individuo ha un suo preciso valore, e non può perdere la propria individualità in nome di un'astratta felicità complessiva o di un altrettanto astratto bene comune. Sia che una società accetti lo Stato liberale e la libertà di iniziativa economica, sia che aderisca a una qualche forma di socialismo o a un'altra ideologia di stampo comunitario (laica o teocratica), la sua scelta ideologica non la esime dall'obbligo fondamentale di rispettare e garantire a ciascun individuo quelle libertà e quei diritti che sono indispensabili per una vita dignitosa.
Non esiste una giustificazione filosofica universalmente condivisa dell'idea di diritti umani. Nel XVII e nel XVIII secolo, molti sostenitori dei diritti umani li considerano come diritti 'naturali', inerenti all'essere umano in quanto tale. Altri, invece, accettano l'idea di diritti umani in quanto rispecchia le concezioni morali condivise dalla nostra epoca. La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo afferma che "il riconoscimento dell'intrinseca dignità e dei diritti eguali e inalienabili di ogni membro del genere umano è il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo".
Naturalmente, la particolare giustificazione filosofica da cui trae origine l'idea dei diritti ne ha modellato il contenuto. Il giusnaturalismo è stato associato a certe concezioni aventi ad oggetto le caratteristiche minime dello 'Stato liberale', secondo le quali esso ha il compito di tutelare il diritto 'negativo' di ogni individuo alla vita, alla libertà e alla proprietà. Questi diritti fondamentali hanno trovato una più precisa espressione e un ulteriore ampliamento a seguito dello sviluppo delle idee liberali e democratiche, e della crescente diffusione dei governi parlamentari e del suffragio universale. L'idea dei diritti si è inoltre arricchita di nuove dimensioni con l'aggiunta di diritti 'positivi' a determinati benefici economici e sociali, in risposta ai processi di modernizzazione, industrializzazione e urbanizzazione, all'avvento del Welfare State e al crescente richiamo esercitato da varie forme di socialismo.
Il contenuto dei diritti venne ampliato e istituzionalmente definito dopo la seconda guerra mondiale. La Dichiarazione universale, che proclama i diritti ritenuti essenziali alla 'dignità umana', include sia diritti civili e politici sia diritti economici e sociali (i primi vengono abitualmente definiti quali diritti 'negativi', benché alcuni di essi richiedano anche un'organizzazione globale e misure concrete da parte della società: ad esempio, per realizzare un'equa amministrazione della giustizia penale o un sistema politico democratico. I diritti economici e sociali, viceversa, sono considerati generalmente come diritti 'positivi', ma secondo la definizione corrente essi includono anche diritti 'negativi', quali la libertà di scegliere il proprio lavoro o di costituire associazioni sindacali).
La Dichiarazione elenca i seguenti diritti: il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona; la libertà dalla schiavitù e dalla servitù; dalla tortura e da trattamenti o punizioni crudeli, inumani e degradanti; il diritto ad essere riconosciuto come persona di fronte alla legge; all'eguaglianza di fronte alla legge e all'eguale protezione di ogni individuo da parte della legge; il diritto a una tutela giuridica in caso di violazione dei diritti fondamentali; il diritto a non subire arresto, detenzione ed esilio arbitrari; il diritto ad un processo pubblico ed equo per gli imputati di un reato, il diritto alla difesa, alla presunzione d'innocenza, e a non essere condannati in base a leggi penali retroattive; il diritto alla riservatezza, ossia la libertà da ingerenze arbitrarie nella sfera privata (famiglia, corrispondenza, casa, ecc.) e alla tutela giuridica contro tali ingerenze; la libertà di movimento e di residenza all'interno di un paese e il diritto di poter uscire da qualsiasi nazione e quello di tornare nel proprio paese d'origine; il diritto d'asilo; il diritto ad avere una nazionalità, a non esserne arbitrariamente privati e a cambiarla; il diritto di sposarsi e di formare una famiglia; il diritto all'eguaglianza tra uomo e donna nel matrimonio e nello scioglimento del matrimonio; il diritto alla proprietà e a non esserne arbitrariamente privati; alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; alla libertà di opinione, di espressione, di associazione (e non associazione). La Dichiarazione afferma inoltre che la volontà del popolo deve essere il fondamento dell'autorità del governo e che ogni persona ha diritto a prendere parte al governo e ad avere eguale accesso ai pubblici uffici.
La Dichiarazione comprende al suo interno anche diritti economici e sociali: il diritto alla sicurezza sociale; il diritto al lavoro, alla libera scelta di un impiego e alla tutela contro la disoccupazione; il diritto ad una retribuzione equa e proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto; il diritto di associazione sindacale; il diritto al riposo e al tempo libero; il diritto ad un tenore di vita atto a garantire la salute e il benessere dell'individuo e della sua famiglia inclusi alimenti, vestiario, abitazione e assistenza medica; il diritto all'istruzione, che a livello elementare deve essere gratuita e obbligatoria; il diritto di partecipare liberamente alla vita culturale. I diritti elencati dalla Dichiarazione non sono soggetti a distinzione di "razza, colore, sesso, lingua, religione, opinioni politiche, religiose e di altro tipo, nazionalità e origine sociale, proprietà, nascita o altra condizione personale" (art. 2). Ogni individuo ha diritto ad un "ordine sociale e internazionale" in cui questi diritti e queste libertà possano essere realizzati (art. 28).
La Dichiarazione non specifica eventuali limitazioni di tali diritti. L'articolo 29, tuttavia, afferma che ciascun individuo "ha dei doveri nei confronti della comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità". Inoltre, aggiunge: "Nell'esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere sottoposto solo a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e delle libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della moralità, dell'ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica".
Tracciare una precisa genealogia dei diritti umani non è facile, ma è possibile rinvenire dei precedenti, se non delle vere e proprie fonti, aventi ad oggetto i punti chiave dell'idea dei diritti umani - sia dal punto di vista dei valori morali interpersonali che ne costituiscono il fondamento, sia per ciò che concerne la concezione secondo la quale i governanti debbano essere sottoposti a limiti di carattere normativo e istituzionale a favore dei governati.
I principali assunti e implicazioni relativi all'idea dei diritti umani - norme morali di ordine universale, eguaglianza a livello giuridico di tutti gli esseri umani, obblighi di equità nelle relazioni interpersonali, principio di legalità, rispetto dei principî di giustizia nell'esercizio dell'autorità di governo nei confronti degli individui - non erano ignoti nell'antichità, e trovano una parte del loro fondamento così nelle fonti bibliche come in quelle classiche. La Bibbia, per esempio, fornisce un fondamento dell'eguaglianza di tutti gli esseri umani in quanto discendenti da un antenato comune, e riconosce alcune norme universali, prescritte da Dio e valide per tutti, quali il rispetto della vita, dell'integrità fisica e della proprietà dell'individuo; impone l'uguaglianza e vieta la discriminazione nell'applicazione della legge; fissa dei principî per l'equa amministrazione della giustizia e per l'istituzione di un giusto processo nella determinazione della colpevolezza penale e della responsabilità civile. Inoltre, la Bibbia prescrive la carità a livello generale e determinate azioni intese ad aiutare i poveri e a soddisfare i loro bisogni fondamentali. Platone sembra accettare l'idea dell'eguaglianza fra i sessi nell'ideare i guardiani della sua Repubblica, Aristotele e altri pensatori greci e romani continuano ancora oggi a ispirare e a informare le moderne concezioni della giustizia e del principio di legalità, mentre alcuni principî e forme di sovranità popolare e di democrazia sono stati prefigurati da Atene e dalla Roma repubblicana. Durante il secondo millennio dell'era cristiana, le idee greche e romane si sono fuse con certe tradizioni religiose, formando il patrimonio ideale da cui è scaturita l'idea dei diritti umani.
I diritti umani hanno il carattere di 'legge sovraordinata', alla quale devono conformarsi le altre norme e le politiche dei governi. Questa concezione trova dei precedenti nelle culture dell'antichità. Antigone si appella alla legge degli dei per giustificare la sua violazione della legge di Creonte. Nella Bibbia le levatrici timorate di Dio non rispettarono l'ordine del Faraone di uccidere i neonati maschi degli Ebrei (Esodo, 1, 15-17), ed Elia invoca la legge di Dio per condannare il re Achab, che aveva ucciso Naboth per impadronirsi della sua vigna (I Re, 21). Successivamente, il carattere di 'legge sovraordinata' venne attribuito, oltre che alla legge di Dio, anche alla legge naturale: possiamo menzionare in proposito Cicerone, gli stoici, Tommaso d'Aquino e, in tempi moderni, i giuristi e teologi spagnoli della seconda scolastica e Ugo Grozio.
Le società antiche e medievali offrono anche esempi di limiti istituzionali e normativi al potere di governo. Nelle società bibliche e post-bibliche possiamo rinvenire una divisione dei poteri e una qualche forma di checks and balances tra re e profeti, re e sacerdoti; in varie forme e misure una divisione di poteri esisteva anche ad Atene e nella Roma repubblicana. Nell'alto Medioevo si affermarono in Europa una divisione fra la sfera di autorità del papa e quella dell'imperatore, nonché alcuni accordi di carattere politico per limitare il potere della monarchia. Con la Magna Charta (1215), la nobiltà strappò al sovrano il riconoscimento di alcuni diritti per sé e di altri diritti per tutti gli uomini liberi in generale, ponendo le basi per le limitazioni della monarchia assoluta che maturarono in Inghilterra nel XVII secolo con la Petition of right (1628), la Glorious revolution (1688) e il Bill of rights (1689). In Inghilterra la common law garantiva all'individuo una qualche tutela anche nei confronti dei funzionari governativi, e il Parlamento approvò via via altre leggi per la protezione dell'individuo.
Alcuni punti chiave dell'idea dei diritti umani, tuttavia, erano sconosciuti prima dell'età moderna. Le società antiche e medievali non avevano elaborato un concetto di 'diritti', intesi quali legittime rivendicazioni facenti capo a un 'titolare di diritti'. La società biblica, ad esempio, non contemplava diritti ma soltanto doveri; sostanzialmente doveri verso Dio. Tra questi figurava anche l'obbligo di rispettare il prossimo, ma nella concezione biblica il prossimo era soltanto il 'terzo beneficiario' degli obblighi verso Dio. Le garanzie di cui il beneficiario poteva godere erano limitate da questa concezione e dal carattere primitivo dei sistemi di governo dell'antichità. Anche i governanti erano sottoposti alla legge divina che prescriveva loro come comportarsi nei confronti dei sudditi; il sovrano iniquo o corrotto era soggetto al giudizio di Dio; ma praticamente non vi erano forme concrete per porre rimedio alle ingiustizie e per quanti non erano in grado di soddisfare i propri bisogni umani più elementari.
Da un punto di vista contemporaneo, molte società antiche erano carenti soprattutto per quanto riguarda il riconoscimento di alcuni valori fondamentali che oggi sono alla base dei diritti umani. In pratica, queste società erano ben lungi dall'accettare l'idea che tutti gli esseri umani avessero eguale diritto ad una vita dignitosa, e facevano ricorso ad esecuzioni illegali e arbitrarie, alla tortura, a trattamenti inumani e a punizioni crudeli; praticavano o tolleravano la schiavitù e la discriminazione nei confronti delle classi inferiori e degli stranieri; tenevano le donne in stato di subordinazione e negavano la libertà di religione e coscienza agli eterodossi. Il mondo antico e medievale in genere non aveva un forte senso dell'individuo come persona e della sua dignità individuale, e in genere non attribuiva molto valore all'autonomia individuale e alla vita privata. Atene o la Roma repubblicana offrono alcuni esempi di affermazione della libertà di espressione, ma questa libertà non veniva riconosciuta né rispettata a livello generale. Nel complesso, nelle società antiche e medievali mancava l'idea che le autorità politiche fossero soggette a limitazioni fondate sul riconoscimento del valore dell'individuo e della dignità dell'uomo, e non erano previsti strumenti di nessun tipo atti a garantire il rispetto di queste limitazioni né forme di tutela in caso di loro violazione.
Retrospettivamente, potremmo dire che perché si affermasse l'idea dei diritti quale oggi la concepiamo, era necessario che maturassero diversi processi storici: il passaggio dall'idea di una legge divina rivelata come sola fonte delle norme morali all'idea di una legge naturale universale e a quella dei diritti naturali; la nuova importanza attribuita dalla religione all'individuo, al suo valore e al suo benessere in questo mondo (e non solo nell'al di là); l'avvento del pluralismo religioso e l'affermarsi dello Stato laico; l'influenza liberalizzante dell'Umanesimo, del Rinascimento e dell'Illuminismo. Con lo sviluppo del pluralismo i dissidenti cominciarono a rivendicare diritti individuali alla libertà di coscienza contro la legge del sovrano o del parlamento affermandone la supremazia. In Inghilterra, John Locke si pronunciò a favore della libertà di coscienza e della tolleranza, e assieme a John Milton propugnò la libertà di espressione e di stampa. In seguito Montesquieu in Francia, Kant in Germania, e altri autori meno noti, si fecero promotori di idee umanistiche e individualistiche.
Le origini moderne dell'idea dei diritti umani - come legittime rivendicazioni dell'individuo nei confronti del governo, giuridicamente riconosciute e garantite dalle istituzioni politiche - risalgono al XVII e XVIII secolo, e rappresentano uno dei tanti significativi contributi dell'epoca di Galileo e Newton, Descartes e Leibniz, Spinoza e Bacone nonché dei loro successori. Alcuni filosofi - Hobbes, Locke e, più tardi, Rousseau - ipotizzarono uno stato di natura, che precede la società, in cui ogni individuo è titolare di diritti naturali di ordine morale nei confronti degli altri; secondo questa ipotesi, al fine di tutelare tali diritti gli uomini costituiscono le società attraverso un contratto sociale. Per Hobbes e per Rousseau, l'individuo viene sussunto dalla società: secondo Hobbes, egli cede i suoi diritti preesistenti al sovrano in cambio della sicurezza; secondo Rousseau, l'individuo riesce a realizzarsi effettivamente solo nella 'volontà generale', nella quale ognuno è egualmente rappresentato, ma nessuno conserva alcun diritto che sia contrario alla volontà generale stessa, ossia alla società. Locke, invece, riteneva che l'individuo conservasse alcuni importanti diritti anche dopo l'istituzione della società politica; le sue idee vennero riprese nel XVIII secolo e trovarono espressione nella famosa Dichiarazione d'indipendenza americana (1776) e, in Francia, nella altrettanto famosa Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (1789).
Per giustificare le rivendicazioni di indipendenza delle colonie americane (un esempio di quella che in seguito verrà definita 'autodeterminazione'), la Dichiarazione americana proponeva una vera e propria teoria del governo: "Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che il Creatore li ha dotati di certi diritti inalienabili, tra cui quello alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro legittimi poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su quei principî e ad organizzare i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurargli sicurezza e felicità".
Insieme alla vita, il Creatore dona all'uomo anche la libertà e altri diritti naturali. Esercitando la loro libertà, con un atto di libera volontà, gli individui si associano per formare la società e si accordano per istituire un governo che tuteli i loro diritti naturali. Col contratto sociale, essi subordinano alcuni dei loro diritti naturali all'autorità dei loro rappresentanti nel governo a fini di governo, pur conservando tutti gli altri diritti. Un governo legittimo può derivare solo dal consenso dei governati e la sua legittimità è legata al permanere di tale consenso.
Anche la Dichiarazione francese dei diritti dell'uomo e del cittadino sancisce i "diritti naturali, inalienabili e sacri dell'uomo" e dichiara che "l'ignoranza, la noncuranza e il disprezzo dei diritti dell'uomo sono le uniche cause delle pubbliche sciagure e della corruzione dei governi" (Preambolo); afferma che la nazione (non il re) è la fonte della sovranità, che la legge è l'espressione della volontà generale, alla cui formazione tutti i cittadini hanno il diritto di concorrere.
Benché i diritti naturali siano stati propugnati soprattutto da quei pensatori che avevano una qualche convinzione religiosa, l'idea che tutti gli esseri umani siano dotati fin dalla nascita di diritti naturali era una verità che appariva evidente di per se stessa anche a coloro che si professavano atei e ad agnostici, come un dettame della ragione e come il riflesso di una comune intuizione di ordine morale. Anche per i sostenitori non teisti del giusnaturalismo, i diritti naturali non trovano la loro legittimazione nel fatto di essere riconosciuti e accettati da un governo o incorporati all'interno di un ordinamento giuridico. Governanti e governi hanno un obbligo, morale e contrattuale, di riconoscere e rispettare questi diritti e di dare loro veste giuridica per garantirne l'effettivo rispetto.
L'idea di diritti naturali e pre-sociali porta con sé una serie di importanti progressi, non soltanto rispetto a certe usanze barbare ma anche rispetto alle tradizionali concezioni di giustizia e di buona società. Essa offre una giustificazione ai diritti universali e una guida per individuarne i possibili contenuti. In linea di principio, le norme universali che essa prescrive riconoscono a tutti eguali diritti, compreso quello alla vita e all'integrità psicofisica; vietano la schiavitù e altre forme di subordinazione e di ineguaglianza, nonché la discriminazione delle donne e di altri emarginati. Sempre in linea di principio, la libertà comprende la libertà religiosa, anche per gli eretici e gli atei, mentre per consenso dei governati deve intendersi il consenso di tutti i governati, il che ha come necessario presupposto non soltanto la sovranità popolare ma anche il suffragio universale. In via di principio, l'individuo gode dei suoi diritti naturali a titolo individuale, 'di diritto'. L'obbligo del governo di rispettare e garantire tali diritti non è più soggetto soltanto alla sanzione divina ma anche al consenso costante dei governati, ed è una condizione di legittimità del governo stesso.
Locke e Jefferson hanno elencato esplicitamente alcuni diritti naturali, mentre ne hanno indicati altri in modo implicito. Entrambi hanno menzionato il diritto alla vita e alla libertà; alla 'proprietà' evocata da Locke, Jefferson ha sostituito la 'ricerca della felicità', ma la cosa non sembra poi essere così rilevante (infatti, mentre, da un lato, Locke aveva una visione alquanto comprensiva del concetto di proprietà, dall'altro appare indubbio che nel diritto alla felicità di Jefferson fosse ricompreso anche il rispetto della proprietà). I diritti che essi elencano tuttavia non sono specificati nella loro estensione, e non vengono esplicitate le limitazioni dei diritti connaturate all'idea di contratto sociale, cui i governati consentono, perché necessarie a garantire i diritti di tutti. In termini attuali, non è ad esempio del tutto chiaro se il diritto alla vita che ogni individuo possiede escluda necessariamente la pena di morte o la liceità dell'aborto. Né sono specificate le regole inerenti alla libertà o alla proprietà contemplate dal contratto sociale; non è chiaro se in nome del diritto naturale alla libertà il governo debba rispettare i culti religiosi eterodossi o la dissidenza politica, o se si debba astenere dal censurare la libertà di espressione per tutelare la 'morale pubblica'. Fino a che punto e per quali fini il governo è legittimato ad operare distinzioni in base alla razza, al sesso o alla religione? Come si individuano le finalità per le quali il governo è legittimato a togliere all'individuo le sue proprietà, attraverso l'esproprio o la tassazione?
La concezione giusnaturalista comprendeva al suo interno alcuni dei diritti che figurano nel catalogo attuale dei diritti umani, ma non altri. Essa aveva sancito quelle libertà e immunità che ineriscono naturalmente all'uomo nel suo 'stato di natura', ossia quelle libertà e quelle immunità tipiche dello Stato liberale; ma non attribuì lo status di diritti individuali a quella categoria di vantaggi che la società deve realizzare attraverso misure concrete, ad esempio, in primo luogo, attraverso una legislazione che garantisca il benessere a livello economico e sociale.
L'idea che i diritti umani spettassero ad ogni individuo 'per natura' era congeniale allo spirito illuminista del XVIII secolo; essa venne elaborata e diffusa in maniera espressiva da Thomas Paine nei Diritti dell'uomo. Nello stesso anno della Dichiarazione di indipendenza americana (1776), inoltre, vide la luce anche la Ricchezza delle nazioni di Adam Smith, opera che pose le basi teoriche dell'ideologia della libertà e dell'iniziativa economica individuale. Tuttavia nel XVIII e nel XIX secolo tale idea venne respinta sia dai tradizionalisti che da alcuni eminenti progressisti. Nelle Riflessioni sulla Rivoluzione francese (1790), scagliandosi contro la Rivoluzione, Burke rifiutò anche la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Thomas Paine aveva affermato che la "Dichiarazione dei diritti ha più valore per la società e avrà un effetto di gran lunga più benefico che non tutte le leggi e gli statuti approvati finora", ma Jeremy Bentham, in Anarchical fallacies, dissentiva nel modo più radicale da questa affermazione. A suo avviso, "i diritti naturali sono semplicemente un nonsenso: anzi i diritti naturali e imprescrittibili, sono un nonsenso retorico... ampolloso", nocivo e pericoloso; si tratta di 'fallacie anarchiche', che incoraggiano l'insurrezione e la resistenza contro leggi e governi illuminati, da cui dipende il progresso dell'umanità. Come ebbe a dire in seguito (1947) un autore americano, Jerome Frank, i diritti naturali sono stati spesso sia "lo scudo dell'arciconservatorismo che la spada del radicalismo". I progressisti sostenevano che la legge e il diritto naturali, invocati a sostegno della rivoluzione nelle colonie americane e in Francia, erano anche stati (e potevano esserlo ancora) invocati per ribadire il diritto assoluto dei sovrani, l'inferiorità degli schiavi, la subordinazione delle donne e per giustificare - nel nome del diritto naturale alla proprietà e alla libertà - l'opposizione alla tassazione progressiva e alla legislazione sociale progressista.
Nel XIX secolo sorsero filosofie diverse e antagonistiche rispetto al giusnaturalismo: varie correnti di stampo positivista, che si richiamavano a David Hume; l'idealismo (in Germania con Friedrich Karl von Savigny, in Inghilterra, con F.H. Bradley, ecc.) e l'utilitarismo (Bentham, John Stuart Mill, Herbert Spencer). Anche nella vita politica europea, in Francia ad esempio, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo venne accantonata, e il tentativo di attribuire ai diritti naturali dell'individuo lo statuto di legge superiore venne attaccato sia da destra che da sinistra, dai sostenitori della monarchia e dei valori tradizionali e dai fautori di una legislazione progressista o dagli esponenti di varie forme di socialismo. L'interesse per la dignità e il benessere dell'individuo, comunque, non dipendeva necessariamente dall'adesione all'ideologia dei diritti naturali. Le rivendicazioni di libertà ed eguaglianza, talvolta solidali tra loro, talvolta in contrasto, continuarono a innescare rivoluzioni, spodestare governi e modellare sistemi politici ed economici; le forze progressiste europee, però, perseguivano il benessere dell'individuo, invocando non delle limitazioni da porre al governo, bensì un governo migliore. Anziché propugnare i diritti come una forma di tutela contro il governo, i progressisti aspiravano ad un governo più democratico e più attento alle esigenze degli individui; anziché la libertà dalla legge invocavano una legge migliore; anziché richiamarsi a indefiniti diritti naturali, facevano appello a diritti sanciti dalla legge - droits de créance, - e ad una legislazione progressista che riconoscesse, definisse e garantisse i diritti individuali; anziché esaltare lo Stato liberale cominciavano ad esigere lo Stato sociale. Oltre al diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà, esigevano ora una seconda 'generazione' di diritti: i diritti economici e sociali.
Nel XIX secolo si assistette ad un crescente processo di normativizzazione di alcuni diritti morali generalmente riconosciuti e di determinate rivendicazioni di carattere politico. Questo processo si sviluppò lungo due diverse strade. Da un lato, seguendo l'idea del diritto naturale, i diritti umani vennero trasformati in norme costituzionali di rango sovraordinato alle quali l'autorità governativa e le leggi ordinarie dovevano conformarsi. Dall'altro lato si assistette ad un progressivo sviluppo dei diritti umani per mezzo della legge ordinaria, principalmente attraverso forme di legislazione garantista e progressista. Per quanto riguarda la costituzionalizzazione dei diritti umani gli Stati Uniti hanno avuto una funzione pionieristica e di modello (il loro esempio venne seguito da molti piccoli paesi europei); il Regno Unito, la Francia e altre nazioni dell'Europa occidentale (e alcune dell'America Latina) hanno invece sviluppato e promosso questi diritti attraverso il diritto positivo.
Uno dei maggiori contributi alla realizzazione dell'idea dei diritti è stata la loro inclusione all'interno della Costituzione nella cultura costituzionale nazionale degli Stati Uniti.Gli Stati Uniti furono il primo Stato moderno di nuova formazione, creato in accordo con le ideologie dei diritti naturali e del contratto sociale espresse nella Dichiarazione d'indipendenza. Con l'indipendenza, le vecchie colonie inglesi adottarono una costituzione, un contratto sociale che riflettesse l'adesione all'idea dei diritti umani. Parecchie di queste costituzioni (quelle della Virginia, della Pennsylvania, del Massachusetts) si aprono con una Carta dei diritti. La Costituzione federale degli Stati Uniti, redatta nel 1787, venne concepita nel medesimo spirito. La Costituzione originaria non comprendeva una carta dei diritti, poiché i costituenti pensarono che questa non fosse necessaria per il nuovo governo federale dai poteri limitati. Tuttavia, come era stato promesso per facilitarne la ratifica, nel 1789 il nuovo governo adottò dieci emendamenti - poi noti come Bill of rights - che entrarono in vigore due anni dopo. Il Bill of rights americano, e i suoi successivi emendamenti, hanno lo stesso status di legge sovraordinata riconosciuto agli articoli originari della Costituzione.
Sebbene le ex colonie americane si ispirassero alla storia costituzionale dell'Inghilterra, in America le dichiarazioni in cui venivano riconosciuti alcuni diritti si differenziavano profondamente dalle normative costituzionali britanniche. Gli inglesi rivendicavano "gli antichi diritti e libertà" secondo "le leggi, gli statuti e le libertà di questo regno" (Bill of rights, 1688/1689), ma questi non avevano lo status di legge sovraordinata, non erano 'inviolabili' e potevano essere modificati dal parlamento. L'individuo non aveva diritti che poteva far valere nei confronti del parlamento. La rivendicazione di indipendenza delle colonie americane, tuttavia, prese l'avvio da una serie di doglianze contro il sovrano e il parlamento. La Costituzione statunitense stabilì così la separazione dei poteri e un sistema di checks and balances per limitare il potere sia dell'esecutivo che del parlamento (il Congresso); il Bill of rights statunitense, a sua volta, garantisce protezione all'individuo sia nei confronti del Congresso che dell'esecutivo. La prima clausola della Carta dei diritti americana - ("il Congresso non farà leggi") - rappresenta un fermo rifiuto della supremazia del parlamento, principio che è invece la chiave di volta del costituzionalismo inglese.
La Costituzione degli Stati Uniti e la sua Carta dei diritti riflettono chiaramente l'adesione all'idea di diritti naturali preesistenti, attribuendo loro lo status di legge positiva superiore. La Costituzione statunitense rappresentò il primo riuscito tentativo di dare espressione politica all'idea dei diritti umani, e costituì il primo sistema nazionale di tali diritti. Non si trattava, tuttavia, di un sistema pienamente sviluppato. Il Bill of rights, infatti, non garantiva tutti quei diritti inalienabili che, secondo la Dichiarazione d'indipendenza, Dio avrebbe conferito a tutti gli uomini; non aboliva la schiavitù, non garantiva un'eguale tutela giuridica e non prevedeva il consenso di tutti i governati espresso attraverso il suffragio universale. Fatta eccezione per le libertà tutelate dal I emendamento (di religione, di parola, di stampa, di associazione), il Bill of rights non proteggeva esplicitamente la vita, la libertà e la proprietà da leggi repressive o arbitrarie. Nel IX emendamento si afferma che l'elencazione di determinati diritti non può essere interpretata nel senso di "escludere o discriminare altri diritti che gli uomini detengono"; tuttavia, come venne confermato più tardi, questi altri diritti, non menzionati in forma esplicita, non vennero costituzionalmente riconosciuti e garantiti. La Costituzione non dice in che modo vadano risolti gli eventuali conflitti tra più diritti e non specifica in modo chiaro quali limitazioni ai diritti stessi siano accoglibili in base al contratto sociale, in quanto necessarie per il governo. Essa inoltre tutela i diritti individuali solo dall'"azione dello Stato", mentre per la violazione degli stessi diritti da parte di un altro individuo non è prevista alcuna tutela costituzionale, ma solo quella della legislazione ordinaria.
Col tempo, i difetti più gravi della Carta dei diritti vennero corretti. La schiavitù fu abolita nel 1865. Il XIV emendamento (1868) attribuì all'autorità federale competenza in materia di diritti individuali: le violazioni dei diritti all'interno di ogni singolo Stato dovevano essere giudicate a livello nazionale mentre al Congresso venne attribuita potestà legislativa al fine di tutelare i diritti del singolo da eventuali violazioni dell'autorità. Fu imposto agli Stati (e, secondo un'interpretazione successiva, anche al governo federale) di garantire a tutti i cittadini eguale protezione da parte della legge. Altri emendamenti costituzionali vietarono di negare il diritto di voto in base alla razza (XV emendamento, 1870) o in base al sesso (XIX emendamento, 1920). (Nel 1960 il principio di eguale protezione venne interpretato nel senso di garantire a tutti pari diritto di voto). I poteri conferiti al Congresso vennero interpretati nel senso di attribuire allo stesso la facoltà (ma non l'obbligo) di produrre una estesa legislazione in materia di diritti civili che proibisse la violazione di questi ultimi da parte dei privati e garantisse mezzi di tutela per tali violazioni.
Forse il contributo più significativo apportato dagli Stati Uniti all'idea dei diritti consiste nel 'controllo giurisdizionale', cioè nel potere riconosciuto ai tribunali di rendere effettiva la supremazia dei diritti costituzionali controllandone l'osservanza da parte di tutti i settori del governo, e di garantire al singolo validi mezzi di tutela in caso di violazioni di tali diritti. Il controllo giurisdizionale si è rivelato come lo strumento istituzionale più efficace per rendere effettiva la supremazia costituzionale e per assicurare che i diritti richiamati e promessi dalla Costituzione vengano concretamente applicati. Esso è diventato inoltre lo strumento per fare in modo che le garanzie dei diritti individuali ricevano un'applicazione adeguata al caso concreto e in armonia con i tempi. Le corti di giustizia degli Stati Uniti fondarono la loro autorità legandola al testo della Costituzione scritta e, in linea di principio, si limitarono ad applicare quei diritti naturali, anteriori alla società, che furono successivamente trasfusi in norme di rango costituzionale. Tuttavia, negli Stati Uniti l'elaborazione giurisprudenziale dei diritti naturali a livello costituzionale è stata tale da aver permesso una riformulazione dei diritti stessi in termini più attuali. Ad esempio, la norma secondo la quale "nessuno potrà essere privato della vita, della libertà e della proprietà in assenza di un legittimo processo", è stata interpretata dalle corti di giustizia come norma intesa a tutelare l'individuo non solo dalla detenzione arbitraria, ma anche da ogni limitazione dell'autonomia e della libertà in generale. Tale norma, inoltre, non si limita a stabilire il principio di legalità e procedure eque, ma impone altresì che le leggi che regolano le libertà siano razionali, finalizzate all'interesse pubblico e conformi ai principî di equità accettati dalla società. Altri elementi dei diritti naturali sono stati assimilati dalla giurisprudenza costituzionale per mezzo di specifiche disposizioni, quali quelle che vietano perquisizioni e confische 'irragionevoli' o punizioni 'insolite e crudeli'.
Per un aspetto fondamentale, tuttavia, i diritti tutelati dalla Costituzione risentono del fatto di essere stati concepiti e formulati nel XVIII secolo. Poiché l'idea dei diritti propria degli Stati Uniti si fondava sulla teoria delle libertà dell'uomo nello stato di natura, in questo paese i diritti costituzionali sono sempre rimasti al rango di libertà dalle ingerenze dello Stato, esaurendosi quindi nei diritti negativi alla vita alla libertà e alla proprietà; restano invece esclusi i diritti positivi economici e sociali. Si partiva dal presupposto che i governi istituiti dagli uomini con il contratto sociale non erano intesi ad assicurare il benessere economico e sociale o a soddisfare i bisogni umani fondamentali. In ogni caso i tribunali che si rifacevano al dettato costituzionale non potevano certo rinvenire nel testo settecentesco alcun fondamento per diritti di ordine economico e sociale.
Di fatto gli Stati Uniti divennero uno Stato sociale con il New Deal di Roosevelt (1933-1940), ma ciò non avvenne per impulso dell'ordinamento costituzionale, che anzi oppose una qualche resistenza. Per legittimare il Congresso ad imporre una forma di tassazione progressiva - su cui il Welfare State si fonda - si rese necessario un emendamento alla Costituzione. A tutt'oggi, la Costituzione statunitense non impone la creazione di uno Stato sociale, ed è fallito ogni tentativo di rinvenire nella Costituzione degli Stati Uniti un diritto alla sussistenza o alla casa. Le Costituzioni di alcuni Stati, comunque, garantiscono il diritto all'istruzione pubblica, e nel XX secolo alcuni Stati hanno sancito anche l'obbligo di provvedere a determinati bisogni umani fondamentali. (Nemmeno le Costituzioni di questi Stati, comunque, sono riuscite a garantire forme di tutela efficaci per garantire questo tipo di diritti 'positivi').
Negli Stati Uniti dunque i diritti riconosciuti a livello costituzionale sono rimasti al rango di diritti 'negativi'; i diritti sociali di stampo 'positivo' sono invece frutto di un processo di creazione legislativa. A differenza dei diritti riconosciuti a livello costituzionale, i diritti sociali dipendono dal processo politico, dalla forza e dall'impegno di determinati partiti o leaders politici, dalle risorse e dalla disponibilità dei cittadini ad accettare imposizioni fiscali e dalle scelte della società, che stabilisce le priorità di spesa tra il benessere sociale o altre necessità (quali, ad esempio, la difesa).
Anche nel XIX secolo, altri paesi (tra cui figurano i Paesi Scandinavi e la Grecia) inserirono i diritti umani nei testi costituzionali, accordando ad essi lo status di legge sovraordinata e attribuendo agli organi giurisdizionali un controllo di costituzionalità. Dopo la prima guerra mondiale, anche la Repubblica di Weimar, in Germania, istituì un corpus di diritti costituzionali, non soggetto tuttavia al controllo giurisdizionale.
Alla fine del XVIII secolo, l'idea dei diritti naturali ebbe una certa eco anche in Europa, dove tuttavia non conobbe uno sviluppo paragonabile a quello americano. L'Inghilterra, fiera della Gloriosa rivoluzione e della supremazia del parlamento, restò indifferente all'idea: l'individuo non poteva far valere alcun diritto contro il parlamento, che dal canto suo non era tenuto a riconoscere e garantire i diritti dell'individuo nei confronti dell'autorità o dei privati. In Francia i diritti naturali conobbero una breve storia costituzionale tra il 1791 e il 1793, per esser poi eclissati dalla guerra civile, dal Terrore e da Napoleone. Anche in Polonia i diritti umani ebbero vita breve, e svanirono assieme alle aspirazioni all'indipendenza. Ai diritti naturali si richiamarono, nell'Ottocento e ai primi del Novecento, alcuni slogan delle rivoluzioni e delle lotte per l'unità e l'indipendenza nazionale, anche se la strada intrapresa verso la creazione delle nazioni e l''autodeterminazione' non dipese dall'adesione ad una teoria dei diritti individuali. Le lotte politiche in Europa non avevano ad oggetto i diritti individuali ma il potere politico: le forze progressiste combattevano contro la monarchia, per l'affermazione della democrazia, di una forma di rappresentanza più autentica e di un suffragio più esteso. Persino in Francia, la cui Dichiarazione dei diritti continuava ad avere eco in tutto il mondo, l'idea dei diritti naturali, connaturati all'individuo in quanto tale, rimase in secondo piano. I Francesi seguivano l'insegnamento di Rousseau, non di Locke, guardavano a Westminster, non a Washington, avevano come obiettivo la democrazia parlamentare più che l'istituzione di diritti costituzionali. Con il passar del tempo, come ad esempio sotto la Terza Repubblica, il contratto sociale fece sì che il governo rispecchiasse in modo più adeguato la volontà generale; ma l'individuo non vantava diritti nei confronti della volontà generale poiché non ne aveva bisogno, in quanto la volontà generale non era in grado di violare i diritti individuali. Anche gli orientamenti di stampo socialista che si svilupparono in Francia nel XIX secolo erano per lo più indifferenti ai diritti naturali dell'individuo.
Ma se nel XIX secolo l'idea dei diritti naturali perse gran parte del proprio credito, e i diritti intesi come limitazioni al potere del governo non si affermarono né acquisirono uno status costituzionale, tuttavia in molti paesi europei e in America essi si svilupparono fino ad assumere la forma di diritto positivo. Grazie al progressivo affermarsi del liberalismo e della democrazia, nell'Ottocento crebbe lentamente il rispetto per l'autonomia e la libertà dell'individuo, nonché l'interesse per il benessere individuale. Le idee progressiste e liberali superarono i confini europei sollecitando un'estensione delle libertà per mezzo del diritto. Nei paesi europei vennero abolite la schiavitù e la tratta degli schiavi. (La Francia e la Danimarca avevano già seguito questa strada nell'ultimo decennio del Settecento). La Russia abolì la servitù della gleba mentre la Francia, seguita via via da altre nazioni, emancipò gli Ebrei. Lentamente si diffuse la tolleranza religiosa e vennero progressivamente ridotte le forme più offensive di discriminazione razziale, etnica o religiosa. Alcune forme di discriminazione contro le donne furono attenuate. Il diritto ad un giusto processo per l'accusato, nonché le garanzie contro l'arresto arbitrario, la tortura e altre forme di trattamento inumano si affermarono in via di principio e furono migliorate di fatto. L'istruzione pubblica si diffuse e venne ridotto l'analfabetismo. Si affermarono in misura crescente i governi parlamentari, il suffragio conobbe una estensione, così come i diritti politici e le libertà (di parola, di stampa, di associazione e assemblea). Si estese il diritto di voto. La Francia promulgò leggi per garantire le libertés publiques e istituì determinati organi (in particolare, il Consiglio di Stato) aventi il compito di garantirne l'applicazione. In Inghilterra, il Parlamento ampliò la lista dei diritti tutelati dalla common law e riconobbe ulteriori diritti individuali; John Stuart Mill divenne l'apostolo della libertà e dell'eguaglianza fra i sessi. Per impulso dell'ideologia socialista, dotata di un forte potere d'attrazione, le nazioni europee in via di industrializzazione cominciarono ad occuparsi dei bisogni dei lavoratori, della famiglia, dei minori, degli anziani e delle persone indigenti in generale. Nella Germania di Bismarck, in Francia, in Inghilterra e in altre nazioni europee vide la luce quella che sarà successivamente definita 'seconda generazione di diritti', i diritti economici e sociali del Welfare State. L'idea dei diritti favorì qualche piccolo passo verso la democrazia in paesi (ad esempio la Russia zarista) dove questa non era mai esistita. Dopo il primo conflitto mondiale, la democrazia e l'idea dei diritti si affermarono, seppur per breve tempo, nella Repubblica di Weimar; il principio dell'autodeterminazione dei popoli fu adottato dai governi parlamentari, e un parziale riconoscimento dei diritti si ebbe anche in alcuni piccoli Stati dell'Europa orientale e centrale. Nell'America Latina videro la luce nuovi Stati impegnati nel riconoscimento dei diritti, sotto l'influenza delle idee statunitensi e francesi. In genere gli imperi coloniali europei in Africa e in Asia non rispettarono i diritti delle popolazioni indigene; tuttavia, anche se in larga misura involontariamente, essi contribuirono a diffondere l'idea dei diritti.
Questo processo di crescente attenzione e rispetto per i diritti individuali non si verificò tuttavia in modo uniforme, né ebbe ovunque un andamento progressivo e lineare. Molti dei diritti successivamente riconosciuti come diritti umani non venivano rispettati neanche all'interno delle nazioni più liberali e più democratiche. Certi tipi di comportamento si erano diffusi ovunque. La brutalità con cui operavano le autorità di polizia, le condizioni carcerarie indescrivibili e altre forme di punizioni crudeli e inumane non costituivano affatto un'eccezione. Quasi ovunque persisteva un'odiosa discriminazione contro le minoranze razziali, etniche o religiose e in alcuni Stati i massacri e i pogrom venivano tollerati, e talvolta persino direttamente fomentati dai governi. I diritti di associazione politica ed economica (ad esempio la libertà di associazione sindacale) subivano delle limitazioni, mentre continuavano a sussistere ampiamente le tradizionali restrizioni nei confronti delle donne. La povertà dilagava e solo pochi paesi adottavano misure concrete per soddisfare i bisogni fondamentali dell'individuo. Soprattutto, non veniva riconosciuto il principio del valore e della dignità dell'individuo, né dei diritti individuali come limitazioni al potere del governo. Solo pochi paesi conferirono ai diritti dell'individuo lo status di suprema legge costituzionale o istituirono il controllo giurisdizionale o altre forme di controllo costituzionale per la loro tutela. In pochi paesi, comunque, i diritti riuscirono a radicarsi tanto profondamente nella cultura politica da resistere agli attacchi contro la democrazia e le libertà determinati dalla guerra e dalla crisi economica.
Così, nel ventennio tra le due guerre mondiali, i diritti umani subirono catastrofiche sconfitte. La democrazia parlamentare e i diritti individuali vennero annientati dal fascismo, dallo stalinismo e dal nazismo, e vennero messi in pericolo ovunque dal progetto hitleriano di dominio mondiale.
I diritti umani acquistarono una rilevanza internazionale durante e dopo la seconda guerra mondiale. Accolta nelle dichiarazioni universali, sostenuta dalle istituzioni internazionali, incorporata nelle costituzioni e nelle legislazioni nazionali e riconosciuta negli accordi di diritto internazionale, l'idea dei diritti umani divenne l'idea chiave del nostro tempo.
Tra il diritto internazionale e i diritti umani esistevano già in precedenza dei legami, in quanto entrambi erano stati prefigurati dal giusnaturalismo e da autori quali Grozio, Emmerich de Vattel e John Locke. Il trattamento che in determinate circostanze lo stato riservava ad alcuni degli individui residenti era divenuto ben presto oggetto della diplomazia e del diritto. Il diritto internazionale consuetudinario, ad esempio, dichiarava che ogni Stato aveva l'obbligo di trattare gli stranieri presenti sul proprio territorio secondo un criterio internazionale di giustizia basato sui principî del diritto naturale. Nel XVII secolo, i regnanti cattolici e protestanti decisero di accordare reciprocamente la libertà di culto e alcune immunità civili ai fedeli dell'altra religione. Più tardi, paesi come la Grecia e la Turchia concordarono di rispettare reciprocamente i diritti delle rispettive minoranze etniche. Sia prima che dopo la prima guerra mondiale le grandi potenze, nel tentativo di eliminare una possibile fonte di attriti internazionali, imposero la ratifica di trattati che obbligavano alcuni Stati a rispettare i diritti delle minoranze etniche e religiose. Il trattato istitutivo della Società delle Nazioni stabilì che il sistema dei mandati territoriali dovesse essere governato dal principio che "il benessere e lo sviluppo di questi popoli rappresenta un sacro dovere di civilizzazione" e impose "condizioni atte a garantire le libertà di coscienza e di religione", insieme ad altri diritti. Un maggior sviluppo nella tutela internazionale dei diritti umani si verificò negli anni successivi alla prima guerra mondiale, allorché l'Ufficio Internazionale del Lavoro (in seguito, Organizzazione Internazionale del Lavoro, ILO) promosse una serie di convenzioni con le quali alcuni Stati concordavano di attenersi ad alcuni standard minimi in materia di lavoro e di altre condizioni di carattere sociale.
Questi precedenti dell'attuale impegno internazionale per i diritti umani avevano in gran parte motivazioni di ordine economico e politico. Se la preoccupazione dominante era quella di assicurare la pace internazionale e di stabilire relazioni amichevoli sul piano politico ed economico tra le nazioni, non era neanche del tutto assente un impegno per il benessere di ogni individuo. Considerazioni di ordine umanitario ispirarono senza dubbio anche il progressivo sviluppo di un diritto umano inteso a proibire l'uso di armi particolarmente crudeli e a tutelare i prigionieri di guerra e la popolazione civile. Tuttavia, queste manifestazioni di impegno internazionale per i diritti umani rimasero sporadiche e isolate. In generale, e in linea di principio, si continuava a ritenere che il trattamento riservato da uno Stato ai propri cittadini fosse un problema di politica interna e che pertanto non rivestisse un interesse internazionale. Occasionalmente, eventi particolarmente terribili e sconvolgenti - come il massacro degli Armeni in Turchia, o i pogrom contro gli Ebrei nella Russia zarista - provocarono le proteste degli altri governi, i quali però in generale facevano appello a generici sentimenti umanitari, non a norme internazionali. (I primi esperti di diritto internazionale erano giunti alla conclusione che uno Stato fosse legittimato a intervenire con la forza in un altro Stato per mettere fine a violazioni dei diritti umani tanto massicce e orribili da traumatizzare la coscienza dell'umanità. Ma è assai difficile individuare se e quando tali interventi siano compiuti in buona fede).
Una nuova ripresa dell'interesse internazionale per i diritti umani si ebbe durante la seconda guerra mondiale con il 'movimento internazionale per i diritti umani'. In un famoso discorso al Congresso del gennaio 1941 il presidente Franklin D. Roosevelt impegnò gli Stati Uniti alla realizzazione di quattro libertà: libertà di religione, libertà di espressione, libertà dal bisogno e libertà dalla paura. A tali libertà si fece costante riferimento durante la guerra, e gli Alleati dichiararono più volte che uno dei loro principali obiettivi era quello di stabilire un ordine mondiale che contemplasse il rispetto dei diritti umani. La vittoria diede loro la capacità, l'opportunità e la determinazione necessaria per trasformare tale obiettivo in una ideologia politica per il mondo del dopoguerra.
Il movimento internazionale per i diritti umani acquistò nuova forza allorché il mondo ebbe piena coscienza dei misfatti di Hitler e dell'indicibile orrore dell'Olocausto. A Norimberga gli Alleati processarono i nazisti per le violazioni del diritto internazionale tra cui figuravano i "crimini contro l'umanità". Nel 1945, a San Francisco, il problema dei diritti umani fu posto al centro delle discussioni sull'ordine mondiale post-bellico. Gli Alleati vincitori iscrissero l'impegno per la democrazia e per il rispetto dei diritti umani nella Carta delle Nazioni Unite alla quale ci si aspettava che tutti i paesi aderissero. (Furono gli Alleati occidentali - Francia, Inghilterra e Stati Uniti - a fare pressioni in questo senso; l'Unione Sovietica staliniana si adeguò, forse perché riconosceva il richiamo universale esercitato da tali principî, o perché Stalin pensava comunque di poterli interpretare e applicare a modo suo). La Carta dichiarava che la promozione dei diritti umani rappresentava uno dei principali obiettivi delle Nazioni Unite (Preambolo, art. 55), e stabiliva l'istituzione di una Commissione per i diritti umani (art. 68).
Cominciarono così per la comunità internazionale decenni di intensa attività, che portarono al riconoscimento universale dell'idea dei diritti umani e ad un attivo impegno internazionale per la loro attuazione nei singoli paesi. I diritti umani divennero oggetto della politica internazionale e del diritto internazionale consuetudinario nonché di numerosi patti e convenzioni internazionali. Il paragrafo 7 dell'articolo 2 specifica che nessuna disposizione dello statuto "autorizza le Nazioni Unite a intervenire in questioni che appartengono essenzialmente alla competenza interna di uno Stato"; più di quarant'anni di incessante attività hanno dimostrato che l'impegno delle Nazioni Unite per la tutela dei diritti umani non costituisce affatto un'ingerenza nella competenza interna degli Stati. I diritti umani sono stati messi all'ordine del giorno in tutti gli istituti delle Nazioni Unite e sono diventati un elemento basilare dell'attività dell'ONU. Alcuni di questi istituti hanno dedicato anni di ardui sforzi alla promozione dei diritti umani. È stata elaborata e approvata una Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Il Consiglio di sicurezza e l'Assemblea generale, due fra i principali organi delle Nazioni Unite, si sono occupati anche di particolari violazioni dei diritti umani, mentre le violazioni più gravi (c.d. gross violations), come l'apartheid in Sudafrica, sono state costantemente al centro dell'attenzione delle Nazioni Unite.
L'obiettivo principale del movimento internazionale per i diritti umani è stato quello di adoperarsi al fine di ottenere il rispetto a livello universale di tali diritti. Si è cercato di raggiungere tale obiettivo attraverso una internazionalizzazione dei diritti umani, esercitando un'influenza politica e morale, sul piano internazionale, tesa ad ottenere un'adesione universale all'idea dei diritti umani. Lo stesso obiettivo si è cercato di perseguire attraverso l'elaborazione, sul piano internazionale, di un concetto uniforme dei diritti umani e facendo sì che tutti gli Stati lo incorporassero all'interno del proprio ordinamento politico e giuridico e assicurassero in termini reali il rispetto di quei diritti. Sono stati inoltre compiuti dei passi per inserire nella Carta dell'ONU un bill of rights sotto forma di obbligo giuridico internazionale vincolante per tutti gli Stati aderenti alla Carta dell'ONU.
I passi iniziali furono più modesti. Se è vero che ai diritti umani è assegnato un posto di primo piano nella Carta dell'ONU, questa non comprende un catalogo dei diritti o altre normative in materia che abbiano carattere vincolante. Tuttavia, l'impegno per i diritti umani richiesto dalla Carta è inequivocabile. Mentre la Società delle Nazioni si occupava principalmente dei diritti delle minoranze in determinati paesi, la Carta dell'ONU intende affermare i diritti di tutti gli individui in tutti i paesi. (Evidentemente si riteneva che il riconoscimento del diritto all'autodeterminazione e dei diritti umani avrebbe eliminato il problema delle minoranze: alcune di queste avrebbero raggiunto l'indipendenza esercitando il diritto all'autodeterminazione, mentre, negli altri casi, i diritti delle minoranze avrebbero ricevuto eguali garanzie rispetto a quelli delle maggioranze grazie al riconoscimento universale dei diritti fondamentali per tutti gli uomini).
Il Preambolo della Carta dell'ONU riafferma "la fede nei diritti fondamentali dell'uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella parità dei diritti per l'uomo e per la donna" e dichiara che i popoli si impegnano "a promuovere il progresso sociale e migliori condizioni di vita nel contesto di una più ampia libertà". Gli obiettivi dell'ONU includono la realizzazione di una cooperazione internazionale intesa a "promuovere e incoraggiare il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua e religione" (artt. 1 e 55 c). I diritti umani rientrano nella sfera di competenza dell'Assemblea generale (art. 13) e del Consiglio economico e sociale (art. 62,2). Gli Stati membri si impegnano ad assumere iniziative separate o congiunte, in cooperazione con l'ONU, per la realizzazione dei suoi obiettivi in materia di diritti umani (artt. 55 e 56).
La Commissione per i diritti umani istituita in conformità alla Carta si è opposta anche ai tentativi di procedere direttamente alla promulgazione di un bill of rights internazionale giuridicamente vincolante. In un primo tempo, la Commissione preparò un accordo internazionale, la Convenzione per la prevenzione e la repressione dei crimini di genocidio (1948), che era anche un monumento alle vittime di Hitler. Nello stesso tempo, sotto la guida di Eleanor Roosevelt (USA) e di René Cassin (Francia), lavorò alla stesura della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo.
La Dichiarazione universale non fu concepita come un accordo giuridicamente vincolante; e infatti non si tratta di un accordo internazionale che i paesi aderenti devono firmare e ratificare. Secondo il Preambolo, la Dichiarazione rappresenta un "ideale comune da raggiungere da parte di tutti i popoli e di tutte le nazioni, affinché ogni individuo ed ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l'insegnamento e l'educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l'universale ed effettivo riconoscimento, sia fra i popoli degli stessi Stati membri, sia fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione".
Di fatto la Dichiarazione ha assolto il suo compito sotto un duplice profilo: rendendo universale l'idea dei diritti umani e promuovendone l'adozione da parte dei singoli Stati.
La Dichiarazione fu adottata nel 1948 all'unanimità, e anche i principali astenuti (i paesi del blocco sovietico) manifestarono in seguito la loro adesione, che trovò espressione esplicita nell'Atto finale della Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Accordi di Helsinki, 1975). Nei decenni intercorsi tra il 1948 e il 1975 la Dichiarazione è stata accettata da quasi tutti i paesi, indipendentemente dalla loro ideologia o dal loro livello di sviluppo economico, politico e sociale, diventando la definizione e l'elenco ufficiale dei diritti umani, tra i quali include allo stesso titolo sia i diritti politici e civili, sia quelli economici e sociali. La Dichiarazione ha inoltre favorito l'inserzione dei diritti umani in quasi tutte le costituzioni del mondo.
Essa è diventata altresì il punto di riferimento per ciò che riguarda la progressiva internazionalizzazione dei diritti umani, costituendo la base dei principali trattati internazionali sui diritti umani, della rete di altre convenzioni che si sono moltiplicate nei decenni successivi nonché del corpus sempre più consistente del diritto internazionale consuetudinario in materia. La Dichiarazione è rimasta il fondamento e il riferimento essenziale per l'azione politica degli organismi internazionali; essa ha imposto il rispetto dei diritti umani come criterio di comportamento internazionale accettabile, in base al quale il mondo stabilisce di giudicare e di essere giudicato; anche quei paesi che non sono disposti a conformarsi a tale criterio, tuttavia, non osano sfidare il principio dei diritti umani, o i suoi contenuti: se violano i diritti umani, sono infatti costretti a nascondere e dissimulare le loro azioni, e tali violazioni possono essere denunciate.
La fine della seconda guerra mondiale ha inaugurato l'era delle costituzioni. Virtualmente tutte le costituzioni hanno inserito fra le proprie disposizioni la promozione e la tutela dei diritti dell'individuo. Le nazioni sconfitte - la Germania, l'Austria, il Giappone - hanno elevato i diritti umani a rango costituzionale sotto l'egida delle forze di occupazione. Alcuni paesi di antiche tradizioni hanno inserito i diritti all'interno delle costituzioni di nuova formazione, grazie anche all'influenza esercitata dal movimento internazionale per i diritti umani, dalla Carta delle Nazioni Unite e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. L'India, con il raggiungimento dell'indipendenza, riconobbe alcuni diritti all'interno della propria Costituzione (1946), significativamente influenzata dalle idee e dall'esperienza statunitensi. La fine del colonialismo, in Africa e in Asia, ha determinato una proliferazione di nuovi Stati, le cui costituzioni fanno tutte riferimento ai diritti umani, sia attraverso un rinvio alla Dichiarazione universale, sia attraverso l'elaborazione di una vera e propria Carta dei diritti derivata in larga misura dalla Dichiarazione. I diritti umani assunsero un posto di rilievo persino nelle Costituzioni dell'URSS, della Cina e di altri paesi comunisti.
L'Europa occidentale, in particolare, è diventata un baluardo dei diritti costituzionali. I paesi usciti dall'occupazione militare della Germania nazista hanno risposto al proprio passato e al movimento internazionale per i diritti umani con l'elaborazione di nuove costituzioni che danno un posto di rilievo ai diritti umani. In Francia, dopo la disfatta, l'occupazione, Vichy e la successiva ripresa, l'idea dei diritti umani esercitava un richiamo irresistibile. La nuova Costituzione del 1946 incorporò la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 - nonché i "principî fondamentali riconosciuti dalle leggi della Repubblica" - e una serie di principî politici, sociali ed economici "di vitale importanza nella nostra epoca": tra questi, la parità di diritti tra uomo e donna in ogni settore e il diritto al lavoro, all'assistenza sanitaria e all'istruzione. (La successiva Costituzione del 1958 ha a sua volta riconfermato l'adesione della Francia ai diritti costituzionali). Il Regno Unito non modificò la sua costituzione, in larga misura non scritta, sicché i diritti sono rimasti soggetti alla supremazia dell'organo legislativo. Nel Regno Unito i diritti umani si sono sviluppati in maniera significativa sotto l'influenza del movimento internazionale (ed europeo) per i diritti umani, e sono andate aumentando le prese di posizione autorevoli in favore dell'adozione di una carta dei diritti.
Nemmeno gli Stati Uniti rimasero insensibili al richiamo esercitato dall'idea dei diritti umani, e svilupparono - trasformandolo - sia il concetto che il contenuto dei diritti, attraverso una elaborazione del diritto costituzionale ricca di creatività e di inventiva, nonché attraverso la legislazione sui diritti civili. La segregazione razziale divenne reato; molte discriminazioni tra i sessi vennero abolite; il diritto di voto fu esteso ad ogni individuo; le libertà civili sono state sviluppate; è stato riconosciuto il diritto alla riservatezza nella sfera privata, e sono stati ampliati i diritti dei cittadini sottoposti a procedimento penale.
Seguendo l'esempio degli Stati Uniti, anche i paesi dell'Europa occidentale hanno corredato la loro adesione al costituzionalismo e alla costituzionalizzazione dei diritti con l'istituzione di organi di controllo costituzionale. Alcuni, come la Repubblica Federale Tedesca, l'Italia, l'Austria, il Portogallo, hanno istituito all'uopo nuove corti costituzionali. La Francia ha esteso il controllo degli atti amministrativi attraverso il Conseil d'État, e ha creato il Conseil constitutionnel per il controllo preventivo sui progetti di legge.
In alcuni paesi europei, così come negli Stati Uniti, il controllo di costituzionalità è demandato alla giurisdizione ordinaria (è il caso dei Paesi Scandinavi e della Grecia). Il Regno Unito non ha istituito organi cui è demandato il compito di controllare se l'attività del parlamento tuteli concretamente i diritti umani; tuttavia, l'adesione alla Convenzione europea sui diritti dell'uomo ha dato luogo a una forma di controllo giurisdizionale di carattere esterno per l'applicazione dei diritti nel Regno Unito. In altre parti del mondo si è affermata, quale modello tradizionale, una forma di controllo costituzionale condotta per mezzo dei tribunali, come è accaduto anche in paesi precedentemente sottoposti alla tutela coloniale britannica. I paesi socialisti si sono anch'essi adeguati a questa tendenza: la Polonia ha istituito una corte costituzionale; l'Unione Sovietica ha accordato ai tribunali limitati poteri di controllo in caso di presunte violazioni dei diritti umani. (I diritti economici e sociali, anche nei casi in cui hanno ottenuto lo status di diritti costituzionali, non vengono normalmente sottoposti ad un controllo di costituzionalità. L'India, per esempio, li ha espressamente esclusi da questo tipo di controllo benché i tribunali ordinari a volte abbiano trovato il modo di fornire una qualche forma di tutela).
L'impegno relativo ai diritti umani, attuato attraverso lo strumento del diritto costituzionale, anche quando sia accompagnato dall'istituzione di organi di controllo costituzionale, non è sufficiente a garantirne il rispetto. Il rispetto dei diritti umani non è un'ideologia facile da trapiantare, soprattutto in terreni poco ricettivi. La cultura costituzionale si sviluppa lentamente, e richiede stabilità politica, sociale ed economica. Nonostante le garanzie contenute nella loro costituzione, molti paesi sono diventati Stati governati da un unico partito che spesso non tollerano nessun tipo di opposizione, limitano le libertà politiche e si rendono a volte responsabili di gravi violazioni dei diritti umani, come nel caso dell'arresto arbitrario e della tortura. In alcuni paesi, le costituzioni contengono al loro interno una clausola di salvaguardia che consente di derogare all'obbligo di rispettare i diritti umani e di autorizzare la sospensione o la soppressione del controllo giurisdizionale e di altre istituzioni di tutela. In troppi paesi le autorità militari hanno fatto in modo di sospendere l'efficacia della costituzione sostituendosi nel corso di parecchi anni ai governi civili democratici e rendendosi responsabili non solo della repressione politica, ma anche di torture, esecuzioni arbitrarie, detenzioni prolungate illegalmente e di 'sparizioni' di migliaia di persone.
La Carta dell'ONU ha inoltre introdotto una nuova normativa internazionale in materia di diritti umani. Tale normativa è penetrata oltre i confini delle singole nazioni oltrepassando le barriere della sovranità nazionale in una misura che non ha precedenti e ha seppellito definitivamente il dogma tradizionale secondo il quale l'individuo non sarebbe un 'soggetto' di diritto internazionale; ha posto fine all'identificazione - pressoché totale - dell'individuo con il suo governo, riconoscendogli dei diritti (e delle forme di tutela) a livello individuale nell'ambito del diritto internazionale. L'individuo di conseguenza non è più tutelato solo dal singolo governo, ma può contare anzi su forme di protezione e di tutela contro quel governo stesso.
Le norme di diritto internazionale in materia di diritti umani non intendono prendere il posto degli ordinamenti giuridici e delle istituzioni nazionali, dai quali invero dipendono, ma ne costituiscono un supplemento, nel senso che prescrivono agli Stati di rimediare alle carenze del proprio sistema normativo, che pure devono rispettare. Le forme di pressione esercitate sui governi affinché questi si adeguino alla normativa internazionale sui diritti umani differiscono da quelle che promuovono l'osservanza di altre norme di diritto internazionale; gli obblighi giuridici vengono infatti assunti dagli Stati ma i beneficiari delle norme sono i singoli individui degli Stati che quegli obblighi stessi hanno assunto. Comunque le norme internazionali in materia di diritti umani hanno lo stesso tenore di legge che è proprio delle altre norme del diritto internazionale, in quanto creano obblighi giuridicamente vincolanti e prevedono sanzioni in caso di loro violazione.
Al pari di altri settori del diritto internazionale, anche quello relativo ai diritti umani può essere di origine pattizia ovvero consuetudinaria. La Carta dell'ONU - un trattato al quale hanno aderito la quasi totalità degli Stati - ha proceduto alla creazione di obblighi di carattere tendenzialmente universale, anche se le sue disposizioni normative in materia di diritti umani sono modeste. La Dichiarazione universale è stata anch'essa quasi universalmente accettata, ma non ha natura di trattato, in quanto venne concepita come un "ideale comune da raggiungere", non come fonte di obblighi giuridici. La Dichiarazione tuttavia è stata da più parti vista come una interpretazione e una specificazione dei principî contenuti nella Carta, e in quanto tale partecipe del carattere giuridicamente vincolante di questa. In seguito, alcune risoluzioni dell'Assemblea generale dell'ONU hanno affermato l'"obbligo", da parte degli Stati, di "osservare pienamente e fedelmente" le disposizioni contenute nella Dichiarazione universale, e nello stesso senso si sono pronunciate altre assemblee e conferenze internazionali. La Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Helsinki 1975) ha inserito l'osservanza della Dichiarazione tra i principî che devono regolare le relazioni tra gli Stati partecipanti. Con il passare del tempo, tuttavia, si è cominciato ad attribuire alla Dichiarazione un valore normativo. Questa conclusione, probabilmente, non sarà ben accetta ai tribunali e ai giuristi di stampo conservativo: a questi tuttavia non potrà sfuggire che alcune disposizioni della Dichiarazione sono diventate vincolanti come norme di diritto consuetudinario.
Trattati e convenzioni internazionali sui diritti umani. - Il corpus essenziale del diritto internazionale in materia di diritti umani consiste di due trattati principali e di un numero crescente di altri accordi internazionali. Dopo l'approvazione della Dichiarazione universale nel 1948, alcuni pensarono che le Nazioni Unite avrebbero dovuto fermarsi ad essa, concentrando i propri sforzi per cercare di far sì che gli Stati adattassero i loro sistemi normativi e i loro comportamenti nazionali ai principî contenuti nella Dichiarazione. Le Nazioni Unite invece hanno cercato di convertire tali principî in norme giuridiche vincolanti. Tale processo si è protratto per diciotto anni, in parte perché complicato dall'ingresso di nuovi paesi nell'ONU, ma soprattutto per la necessità di conciliare le differenze tra paesi liberali e democratici e paesi socialisti e rivoluzionari, in particolare per quel che concerne i diritti economici e sociali. Gli Stati occidentali insistevano sul fatto che - sebbene riconosciuti dalla Dichiarazione universale - i diritti economico-sociali non potevano costituire oggetto di obblighi giuridici vincolanti e che pertanto inserirli in un trattato avrebbe contribuito unicamente ad attenuare il carattere vincolante delle norme sui diritti politici e civili indebolendo gli strumenti e le forme di tutela per renderli effettivi. Gli Stati pronti ad assumere determinati obblighi per il rispetto dei diritti politici e civili, si sosteneva, sarebbero stati scoraggiati dal farlo se si fossero imposti loro impegni impossibili da rispettare in materia di diritti economici e sociali. Le obiezioni alla proposta di rendere vincolanti gli impegni di carattere economico e sociale non vennero ascoltate, ma le nazioni occidentali riuscirono a ottenere due distinti patti internazionali, un Patto internazionale sui diritti civili e politici, e un Patto sui diritti economici, sociali e culturali.
Si tratta in entrambi i casi di accordi internazionali da cui nascono obblighi di carattere giuridico per i paesi che vi aderiscono. Nel Patto sui diritti civili e politici ogni Stato firmatario si impegna "a rispettare e garantire a tutti gli individui [...] i diritti riconosciuti dal Patto". In base al Patto sui diritti economici, sociali e culturali, ogni Stato si "impegna a compiere dei passi [...], con il massimo delle risorse a sua disposizione, al fine di conseguire progressivamente la piena realizzazione dei diritti riconosciuti dal presente trattato". Gli Stati che aderiscono a questo trattato si impegnano quindi a realizzare tali diritti solo 'progressivamente' e 'proporzionalmente alle loro possibilità economiche', ma va notato che il documento parla esplicitamente di diritti, non di semplici speranze; di "impegni" da parte dei governi, non semplicemente di aspirazioni e di finalità. C'è chi continua a chiedersi se abbia senso in questo caso continuare a parlare di diritti, visto che gli impegni non hanno carattere rigido, sono a lungo termine e inoltre non sono giuridicamente sanzionabili; non fosse altro perché richiedono una pianificazione e una programmazione imponenti da parte dei governi, e sono condizionati dalla disponibilità di risorse economiche. Sul piano del diritto internazionale però si tratta di veri e propri diritti, e in molte società tali vantaggi economici e sociali si affermano sempre più come diritti individuali fondamentali.
La distinzione tra diritti politici e civili e diritti economici e sociali non è netta. Per esempio, alcuni dei diritti riconosciuti dal Patto sui diritti economici, sociali e culturali sono diritti 'negativi', tutelati come diritti costituzionali: ad esempio il diritto d'associazione sindacale, come aspetto della libertà di associazione, o il diritto alla libera scelta del lavoro come aspetto del diritto alla libertà.In generale, presi insieme, i due Patti ricalcano le direttive della Dichiarazione universale, tranne qualche differenza di scarso rilievo. L'articolo della Dichiarazione universale che sancisce il diritto alla proprietà e a non esserne arbitrariamente privati non trova ad esempio alcun riscontro in nessuno dei due Patti, in quanto gli Stati non sono riusciti a raggiungere un accordo sulla definizione di questo diritto (all'epoca della stesura dell'articolo era oggetto di accesa controversia la questione se il diritto internazionale imponesse agli Stati di corrispondere un indennizzo in caso di espropriazione di beni appartenenti a soggetti stranieri). Tale omissione non equivale però a una negazione del diritto alla proprietà; l'obbligo di rispettare tale diritto, ancorché non contemplato esplicitamente in nessun accordo internazionale, può essere considerato come obbligo giuridico vincolante in base al diritto consuetudinario. D'altro canto, il Patto sui diritti civili e politici include alcuni diritti non presi in considerazione dalla Dichiarazione: per esempio, l'abolizione della detenzione per debiti, i diritti dell'infanzia, i diritti delle minoranze etniche, religiose e linguistiche.
I due Patti comprendono anche disposizioni aventi un carattere non contemplato dalla Dichiarazione. Essi vennero elaborati tra il 1948 e il 1966, cioè nel periodo in cui la maggior parte degli Stati insisteva sul valore primario dei principî dell'autodeterminazione dei popoli e della loro sovranità sulle risorse nazionali. I nuovi Stati, i quali avrebbero formato quello che in seguito sarà definito Terzo Mondo, riuscirono a fare inserire questi principî in entrambi i Patti, superando le obiezioni di quanti sostenevano che non si trattava propriamente di 'diritti', certamente non di diritti umani individuali pari a quelli inclusi nei due Patti, e che a differenza di questi ultimi, essi non facevano nascere obblighi giuridici vincolanti per gli Stati firmatari. I principî dell'autodeterminazione dei popoli e della sovranità sulle proprie risorse economiche sono enunciati nell'art. 1 di ciascun Patto, ma non sono stati inseriti nel sistema di obblighi giuridici facenti capo ai singoli Stati e di strumenti di attuazione internazionale in essi previsti.
Il Patto sui diritti civili e politici in particolare esplicita le limitazioni dei diritti cui fa riferimento l'art. 29 della Dichiarazione. I redattori del Patto hanno cercato di definire tali limitazioni nel modo più rigoroso possibile, ma inevitabilmente hanno dovuto esprimersi in termini generali. Leggiamo per esempio che la libertà di movimento all'interno di un paese o il diritto a lasciarlo "non saranno soggetti ad alcuna restrizione, salvo quelle previste dalla legge per ragioni di sicurezza, di ordine pubblico, di salute e di morale pubblica o per garantire i diritti e le libertà altrui, e purché siano compatibili con gli altri diritti riconosciuti" dal Patto (art. 12). O ancora: "la stampa e il pubblico possono essere parzialmente o totalmente esclusi dall'assistere ad un processo penale per ragioni di morale, di ordine pubblico, o per la sicurezza nazionale di una società democratica; oppure quando lo richieda la salvaguardia della vita privata delle parti, o ove si diano speciali circostanze in cui la pubblicità possa nuocere agli interessi della giustizia, nella misura strettamente necessaria secondo il giudizio della corte" (art. 14,1). Resta comunque inteso che tali limitazioni devono essere regolate dalla legge, non dall'arbitrio degli Stati. Se una determinata limitazione sia lecita in base al Patto è una questione che va risolta in base al diritto internazionale; in ogni caso possono essere effettuati dei controlli sulle limitazioni ai diritti poste in essere dagli Stati e quelle che risultano ingiustificate possono essere impugnate come violazioni dei Patti.
Un'altra eccezione consente agli Stati firmatari, in caso di pubblica emergenza in cui "sia minacciata la sopravvivenza della nazione", di derogare agli obblighi contenuti nella maggior parte delle disposizioni del Patto (ma non in tutte), "nella misura strettamente necessaria richiesta dalla situazione" (art. 4). Se in date circostanze sia lecita o meno una deroga dipende ovviamente dall'interpretazione che viene data del Patto; di conseguenza diventa una questione che deve essere risolta in base al diritto internazionale.
I due Patti rappresentano i principali e più completi accordi di diritto internazionale sui diritti umani, e insieme alla Dichiarazione costituiscono quello che è stato definito il bill of rights internazionale. L'ONU ha promosso inoltre una serie di convenzioni aventi un contenuto particolare, come quelle sul genocidio, sulla schiavitù, sullo statuto dei rifugiati e degli apolidi, sui diritti politici delle donne, sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, sull'apartheid, sulla tortura, ecc. In genere, queste convenzioni ampliano, specificano e integrano le forme di tutela previste nei trattati principali. In alcuni casi esse hanno consentito di pervenire alla stipulazione di accordi giuridicamente vincolanti su determinate materie da parte di governi che non erano preparati a sottoscrivere la totalità delle obbligazioni presenti nei trattati generali.
Alla data del 1° maggio 1989, al Patto sui diritti civili e politici avevano dato la loro adesione 87 Stati; al Patto sui diritti economici e sociali 32 Stati. 101 Stati avevano sottoscritto la Convenzione sulla prevenzione e punizione del crimine di genocidio; 128 la Convenzione su tutte le forme di discriminazione razziale; 97 la Convenzione sulla eliminazione della discriminazione delle donne; 102 quella sullo status e sulla condizione dei rifugiati (in ognuno di questi trattati alcune adesioni sono accompagnate da riserve più o meno significative). Ai Patti e alle Convenzioni hanno aderito Stati diversi per estensione territoriale, ideologia politica, livello di sviluppo. È rilevante, naturalmente, anche la maggiore o minore densità di popolazione dei paesi firmatari, e la loro disponibilità a mantenere gli impegni assunti. D'altra parte alcune nazioni, in particolare gli Stati Uniti, pur non avendo aderito ad alcuni importanti accordi, si conformano tuttavia in larga misura alle disposizioni in essi contenute.
Alcuni Stati hanno continuato a porre l'accento sulla differenza tra diritti politico-civili e diritti economico-sociali. I paesi socialisti e parecchi Stati del Terzo Mondo hanno ripetutamente affermato che gli Stati liberali dell'Occidente tendono a privilegiare i diritti politici e civili, e non prestano sufficiente attenzione a quelli economici e sociali. Per sostenere la propria campagna in favore di una trasformazione dell'ordine economico internazionale, inoltre, essi hanno messo in risalto il proprio obbligo di soddisfare i bisogni essenziali della popolazione presente sul loro territorio. A loro volta, gli Stati occidentali hanno talvolta accusato i paesi del Terzo Mondo di servirsi pretestuosamente dell'esigenza di soddisfare i bisogni economico-sociali per praticare la repressione politica e civile e di essere inoltre venuti meno all'impegno di garantire i diritti economico-sociali destinando le proprie risorse ad altri obiettivi non essenziali, militari e di altro tipo.
Appare chiaro che gli accordi di diritto internazionale non forniscono nessun elemento per istituire un ordine preferenziale o gerarchico tra le due categorie di diritti, e che in generale non vi è nulla che giustifichi la violazione di una categoria di diritti per realizzare quelli dell'altra. Come ha affermato Julius Nyerere, ex presidente della Tanzania: "senza libertà non c'è sviluppo, e senza sviluppo la libertà si perde presto" (Freedom and development, in Man and development, London-New York 1974).
Altre generazioni di diritti. - Non sono mancate le sollecitazioni in ordine alla definizione e al riconoscimento di altre 'generazioni' di diritti, oltre a quelli politico-civili ed economico-sociali; in particolare, dei diritti collettivi o di gruppo. In special modo i paesi in via di sviluppo, desiderosi di trarre vantaggio dalla 'copertura' offerta dai diritti umani, hanno insistito per il riconoscimento di un diritto allo sviluppo, inteso come base per l'effettiva realizzazione della prima e della seconda generazione di diritti individuali precedentemente riconosciuti. I paesi sviluppati hanno obiettato che il diritto allo sviluppo individuale non ha vita propria ma dipende dal rispetto e dalla tutela accordata ai diritti civili e politici e dalla piena attuazione dei diritti economico-sociali, mentre lo sviluppo politico, sociale ed economico di una società non assurge al rango di diritto individuale, e non può essere ricompreso nel concetto dei diritti umani. Soprattutto, esso non può essere collocato sullo stesso piano dei diritti dell'individuo né può essere utilizzato come pretesto per procedere ad una violazione dei diritti umani o per collocare questi ultimi su un piano inferiore. Nel 1986, tuttavia, l'Assemblea generale dell'ONU ha adottato una Dichiarazione sul diritto allo sviluppo.
Vi sono state anche delle proposte in merito al riconoscimento di un diritto dell'individuo alla pace e ad un ambiente salubre. Il diritto internazionale proibisce il ricorso alla forza salvo che per legittima difesa in caso di un attacco armato, e impone ad ogni Stato di astenersi dall'inquinare l'ambiente. La Dichiarazione universale dal canto suo riconosce poi il diritto dell'individuo ad un 'ordine internazionale' che consenta la realizzazione degli altri diritti. Si è tuttavia obiettato che mentre i diritti umani sono diritti che ogni individuo vanta nei confronti della società, il diritto alla pace e all'ambiente salubre esulano invece dal potere che la singola società ha di rispettarli, garantirli o realizzarli. Probabilmente uno Stato che compia un'aggressione o si renda responsabile di un grave degrado ambientale viola, così facendo, molti diritti umani sia dei propri cittadini che dei cittadini degli altri paesi; ma gli Stati non hanno riconosciuto il diritto alla pace e il diritto ad un ambiente salubre come diritti distinti e autonomi, e questi non sono stati introdotti in nessuna dichiarazione formale dei diritti.
La tutela dei diritti umani nel diritto consuetudinario. - È tuttora oggetto di discussione se la Dichiarazione universale abbia acquisito o meno lo status di diritto internazionale consuetudinario. Sarebbe difficile dimostrare che tutte le sue norme siano attualmente vincolanti come norme di diritto consuetudinario, ma è opinione concorde che la Dichiarazione universale, insieme ad altre dichiarazioni, patti, convenzioni, risoluzioni e prassi degli Stati, abbiano contribuito a creare un corpus di diritto consuetudinario perlomeno per quanto riguarda alcune norme sui diritti umani. Autorevoli interpreti del diritto sono giunti alla conclusione che uno Stato viola il diritto internazionale se pratica, favorisce o tollera il genocidio, la schiavitù o la tratta degli schiavi, l'assassinio o la 'sparizione' di persone, la tortura o altri trattamenti e punizioni crudeli, disumani e degradanti, la detenzione arbitrariamente prolungata, la discriminazione razziale sistematicamente attuata, e altre gravi violazioni dei diritti umani riconosciuti dalla comunità internazionale. L'elenco, tuttavia, non è completo, e alcuni hanno proposto di considerare anche la violazione di certi altri diritti umani come una violazione del diritto consuetudinario internazionale: ad esempio la discriminazione sistematica in base alla religione o al sesso, o la privazione di una parte essenziale dei diritti di proprietà.
I trattati internazionali aventi ad oggetto i diritti umani sono vincolanti solo per gli Stati firmatari mentre il diritto consuetudinario ha efficacia vincolante per tutti gli Stati della comunità internazionale. L'obbligazione infatti vale erga omnes, e ogni paese può fare un ricorso in caso di violazione (v. American Law Institute, 1987, § 702).
I trattati e le convenzioni, nonché in generale il movimento internazionale per i diritti umani, si sono battuti affinché fossero creati strumenti e metodi appropriati per l'applicazione delle norme sui diritti umani stabilite dalla comunità internazionale.
In linea di principio l'attuazione di norme è affidata a quegli stessi meccanismi che assicurano l'applicazione delle norme del diritto internazionale in generale. La ratifica di un trattato avente ad oggetto i diritti umani conferisce infatti a ciascuno dei firmatari il diritto di esigerne l'osservanza da parte degli altri Stati aderenti, e di reagire nel modo appropriato in caso di violazione; per le violazioni dei diritti umani che ledono il diritto internazionale consuetudinario, inoltre, a ogni Stato è riconosciuto un diritto di ricorso. Diversamente da quanto accade per altre norme del diritto internazionale, tuttavia, in questo caso la vittima effettiva di una violazione non è un altro Stato, ma sono i singoli individui presenti nello Stato che ha commesso la violazione e di conseguenza non si può presupporre che siano gli altri Stati a reagire a tali violazioni (solo alcune delle convenzioni speciali - quelle sul genocidio, sulla discriminazione razziale, sulla discriminazione sessuale, sulla tortura - prevedono che le controversie tra le parti siano decise dalla Corte internazionale di giustizia, ma finora nessun caso del genere è stato portato all'attenzione della Corte). Questa, insieme ad altre caratteristiche peculiari della normativa sui diritti umani, ha fatto avvertire l'esigenza di ricorrere a strumenti supplementari per permetterne l'attuazione e l'effettiva applicazione all'interno degli Stati.
Il movimento internazionale per i diritti umani ha stabilito che il rispetto dei diritti umani nell'ambito dei singoli Stati concerne il diritto internazionale, anche se gli orientamenti tradizionali (che si riflettono a volte in una retorica della 'sovranità' nazionale) hanno continuato ad opporre resistenza all'idea che vi potesse essere una procedura di controllo 'esterna', condotta attraverso accertamenti e giudizi imparziali ma allo stesso tempo 'invadenti'. I principali trattati e convenzioni prevedono, di conseguenza, soltanto un sistema di comunicazioni che gli Stati firmatari sottopongono a commissioni di esperti, quali ad esempio la Commissione per i diritti umani prevista dal Patto internazionale sui diritti civili e politici, e la Commissione per l'eliminazione della discriminazione razziale, prevista dalla Convenzione sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale. Inevitabilmente, tuttavia, le forme di accertamento effettuate da queste commissioni, che pure sono costituite da esperti, e non da rappresentanti dei governi, non hanno rivelato tutte la stessa efficacia.
Oltre a richiedere relazioni periodiche, la Convenzione per l'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale prevede la possibilità che uno Stato presenti un ricorso contro un altro Stato. Anche nel Patto sui diritti civili e politici e nella Convenzione sulla tortura esistono disposizioni in questo senso, che però hanno carattere facoltativo. Poiché le obbligazioni relative ai diritti umani sono essenzialmente a beneficio dell'individuo, alcune convenzioni contengono delle disposizioni (per lo più facoltative) in base alle quali la commissione designata può ricevere i ricorsi presentati da singoli individui o da organizzazioni non governative che agiscano per loro conto, una volta esaurite le vie di ricorso presenti all'interno del singolo Stato (al 1° maggio 1989, il Protocollo facoltativo allegato al Patto sui diritti politici e civili, che contiene le disposizioni relative ai ricorsi individuali, contava 43 Stati firmatari).
In base al Patto sui diritti economici, sociali e culturali gli Stati sono tenuti a inviare rapporti periodici al Consiglio economico e sociale dell'ONU, che nel 1985 ha creato una Commissione per i diritti economici e sociali - parallela alla Commissione per i diritti umani - incaricata di ricevere ed esaminare le relazioni degli Stati. Almeno nei suoi primi anni di attività, la Commissione per i diritti economici a quanto pare non ha ritenuto che la sua funzione fosse quella di effettuare un controllo sull'applicazione dei diritti, ad esempio attraverso inchieste volte ad appurare se uno Stato facesse effettivamente il possibile per realizzare "progressivamente" i diritti economici e sociali, o se impiegasse "tutte le risorse a sua disposizione", o se si adoperasse ad accrescere tali risorse (aumentando le tasse, migliorando la gestione delle risorse, o stornandole da altro impiego).
Oltre che attraverso i meccanismi speciali previsti da particolari trattati e convenzioni, la comunità internazionale ha accertato il rispetto e la concreta applicazione dei diritti umani attraverso una serie di organi politici facenti direttamente capo al Consiglio economico e sociale dell'ONU, in particolare la Commissione per i diritti umani, la Sottocommissione per la prevenzione della discriminazione e per la tutela delle minoranze e, in certa misura, la Commissione per le donne. La Sottocommissione, in particolare, ha per anni esaminato le comunicazioni inoltrate alle Nazioni Unite "che sembrano rivelare gravi e comprovate violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali" (risoluzione 1.503,8 del Consiglio economico e sociale). L'efficacia di questa procedura è discutibile, specialmente per il fatto che alla Sottocommissione è stato imposto di operare in via confidenziale e solo per periodi limitati, e anche i suoi rapporti alla Commissione sono stati discussi in sessioni riservate. Negli ultimi anni, tuttavia, la Commissione ha segnalato pubblicamente i paesi contro i quali sono stati presentati ricorsi in base a tale procedura. Inoltre, la Commissione ha operato sempre più frequentemente in base alla risoluzione n. 2.535 del Consiglio economico e sociale, la quale consente ai membri della Commissione di discutere pubblicamente i casi di gravi violazioni dei diritti umani.
Alcuni istituti specializzati delle Nazioni Unite hanno fissato dei principî e dei sistemi di controllo sull'effettivo adeguamento a tali principî. L'ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) ha creato un'ampia rete di convenzioni, le quali hanno ricevuto ampia adesione da parte degli Stati; l'UNESCO e in certa misura la FAO (Food and Agricultural Organization), nonché l'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) si sono impegnate per la promozione dei diritti umani nei settori di loro competenza.
Anche i singoli Stati hanno preso l'iniziativa di controllare l'osservanza delle norme sui diritti umani stabilite dalla comunità internazionale. Gli Stati Uniti, in particolare, benché non siano parti contraenti dei principali patti e convenzioni, pubblicano ogni anno una serie di rapporti sullo stato dei diritti umani in tutti i paesi. La legislazione degli Stati Uniti prevede la cessazione degli aiuti economici e di altri sussidi, nonché della vendita di armi ai paesi che si siano resi responsabili di gravi violazioni dei diritti umani riconosciuti dalla comunità internazionale. In qualche caso eccezionale, i tribunali degli Stati Uniti hanno fornito tutela giuridica a cittadini stranieri contro pubblici funzionari di altri paesi, per violazioni del diritto internazionale consuetudinario in materia di diritti umani (Filartiga vs. Pena-Irala, 630 Federal reporter, 2d, 867, II Circuit, 1980), ma si possono citare solo pochi casi del genere.
La scarsa efficacia del controllo governativo e intergovernativo sull'applicazione dei diritti umani ha fatto sì che le organizzazioni non governative acquisissero un ruolo sempre più importante nel movimento per i diritti umani. Nelle società 'aperte', le organizzazioni non governative locali (gruppi per le libertà civili, commissioni di giuristi, società di assistenza legale, ecc.) hanno riportato notevoli successi nell'opera di promozione e tutela dei diritti umani. Organizzazioni non governative trans-nazionali come Amnesty International, la stampa e altri media internazionali hanno contribuito a mobilitare le 'forze dell'indignazione' per far cessare o almeno per scoraggiare le più gravi violazioni dei diritti umani, e per indurre i governi a reagire contro di esse.
Alcuni raggruppamenti regionali di Stati, creati per finalità politiche ed economiche, hanno elaborato dichiarazioni e prodotto convenzioni sui diritti umani, istituendo nel contempo una serie di organi per controllarne l'applicazione concreta.
Gli Stati dell'Europa occidentale compresero presto che l'impegno per i diritti umani poteva costituire una risposta a Hitler e un passo importante verso l'integrazione comunitaria. Le istituzioni e i valori nazionali di questi paesi hanno favorito lo sviluppo dei diritti umani, e le relazioni che intercorrono fra loro erano abbastanza solide per far fronte alle tensioni che potevano derivare da un controllo reciproco. Di conseguenza, quando apparve chiaro che ci sarebbero voluti degli anni per convertire i vari punti della Dichiarazione universale in norme giuridiche vincolanti, sotto l'egida del Consiglio d'Europa venne adottata una Convenzione europea dei diritti dell'uomo; integrata da successivi protocolli, questa ha inserito al proprio interno la maggior parte dei diritti politici e civili riconosciuti nella Dichiarazione universale. Ulteriori protocolli hanno poi abolito la pena di morte e hanno inoltre stabilito il principio che ogni decisione in merito all'espulsione degli stranieri dal paese di residenza debba essere preceduta da un regolare processo. La Convenzione è riuscita a istituire un sistema particolarmente efficace di attuazione dei diritti in essa riconosciuti, con la creazione di una Commissione per i diritti umani e di una Corte europea dei diritti dell'uomo. Questo complesso meccanismo amministrativo, politico e giudiziario, che prevede la possibilità di ricorso da parte dei singoli così come da parte degli Stati si è rivelato particolarmente efficace, e ha sviluppato una ricca giurisprudenza in materia di diritti umani. Molti dei membri del Consiglio d'Europa fanno altresì parte della Carta sociale europea, a norma della quale le parti contraenti si impegnano a promuovere i diritti sociali ed economici, pur senza prevedere alcuno strumento per garantirne l'applicazione, se non il sistema delle relazioni periodiche da presentare al Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa.
Le nazioni delle Americhe, caratterizzate anch'esse da comuni tradizioni occidentali e dalla solidità dei rapporti tra i due emisferi, hanno elaborato un sistema di diritti umani rivelatosi notevolmente efficace. La Dichiarazione americana dei diritti dell'uomo fu adottata nel 1948, ancor prima della Dichiarazione universale. L'Organizzazione degli Stati Americani istituì nel 1960 una Commissione interamericana per i diritti umani, più tardi incorporata nella Convenzione americana sui diritti dell'uomo, che ne ampliò le funzioni e istituì inoltre la Corte interamericana per i diritti umani. La Convenzione americana ricalca il Patto sui diritti civili e politici, ma con l'art. 26 gli Stati si impegnano ad adottare misure per la progressiva realizzazione dei diritti economici, sociali e culturali previsti dalla Carta dell'Organizzazione degli Stati Americani. La Commissione è stata assai attiva e ha assolto funzioni di carattere sia istruttorio che giudiziario. La Corte è entrata in funzione nel 1980 ed è già intervenuta in casi particolarmente delicati. L'ampia competenza di carattere consultivo attribuita alla Corte, di interpretare non solo la Convenzione americana ma anche altri trattati relativi alla protezione dei diritti umani negli Stati americani, eserciterà presumibilmente una grande influenza sulla giurisprudenza in materia.
Sotto gli auspici dell'Organizzazione per l'Unità Africana, gli Stati dell'Africa hanno elaborato e adottato il testo di una Convenzione dei diritti degli uomini e dei popoli, che nel complesso si ispira alla Dichiarazione universale e ai Patti internazionali, piuttosto che ad altre convenzioni aventi carattere locale. La Convenzione africana comprende al suo interno i diritti collettivi dei popoli oltreché quelli degli individui, e i doveri dell'individuo oltreché i suoi diritti; alcuni dei diritti riconosciuti (come la libertà di religione, di associazione, di espressione) risultano soggetti a limitazioni da parte della legge. I diritti dei popoli comprendono l'autodeterminazione, la libera disponibilità delle risorse nazionali, il diritto allo sviluppo, alla pace, nonché il diritto a un "ambiente soddisfacente, favorevole allo sviluppo di questi diritti" (art. 24). Fra i doveri sono ricomprese le limitazioni imposte dal rispetto dei diritti altrui e della " 'sicurezza collettiva', dalla morale e dall'interesse comune" (art. 27,2). Viene menzionato altresì il dovere di "preservare e rafforzare i valori positivi della cultura africana". Nel 1988 è stata istituita una Commissione africana per i diritti umani alla quale sono affidati compiti di promozione e di protezione dei diritti umani; essa è competente a risolvere le controversie che riguardano pretese violazioni dei diritti umani.
I diritti umani hanno inoltre costituito un ampio capitolo dell'Atto finale della Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Helsinki 1975) e sono stati al centro delle conferenze biennali di aggiornamento - da quella di Belgrado (1978) a quelle di Madrid (1980) e Vienna (1986-1988) - che sono state un elemento fondamentale nelle relazioni Est-Ovest.
Il controllo internazionale sull'attuazione dei diritti umani risente degli alti e bassi delle altre attività politiche in un mondo diviso in Stati. Nel secondo dopoguerra vi fu senza dubbio chi ripose delle speranze nel fatto che i diritti umani potessero essere isolati dagli altri interessi nelle relazioni tra gli Stati e dalle altre attività delle organizzazioni internazionali. Si sperava che ogni nazione fosse pronta a conformarsi ai principî internazionali in materia di diritti umani, a sottoporre a un controllo esterno l'applicazione dei diritti umani nel proprio territorio e a controllarne a sua volta l'applicazione negli altri paesi.
Forse perché la concezione tradizionale della sovranità nazionale è dura a morire, tali speranze si sono rivelate sostanzialmente illusorie. I principî adottati in ambito internazionale sono indubbiamente eccellenti, ma diversi Stati si sono mostrati riluttanti ad accettare un controllo esterno e ancor più ad adoperare le proprie risorse politiche e diplomatiche in favore di coloro che rimangono vittima di violazioni dei diritti umani negli altri Stati. Il complesso gioco politico fra blocchi contrapposti all'interno delle Nazioni Unite ha impedito un interesse imparziale nel settore dei diritti umani. Mentre, sotto la spinta dei paesi del Terzo Mondo, si giungeva alla condanna unanime dell'apartheid e di altre gravi violazioni, come i massacri perpetrati nell'Uganda di Idi Amin e il genocidio nella Cambogia di Pol Pot, per vari anni si è presa in considerazione solo la situazione di determinati Stati, ignorando volutamente altri paesi pur responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. La politica internazionale ha altresì ostacolato un controllo più incisivo, ad esempio attraverso l'istituzione di un Alto commissario per i diritti umani. In generale, i diritti umani sono stati maggiormente politicizzati negli organismi più estesi e con una più alta rappresentatività, come l'Assemblea generale. Organi più ristretti, come la Sottocommissione per la discriminazione facente capo alla Commissione ONU per i diritti umani, hanno potuto effettuare un controllo più imparziale.
La politica di controllo internazionale ha indotto alcuni paesi, in particolare gli Stati Uniti, a cercare di esercitare un'influenza bilaterale, soprattutto attraverso la minaccia di sanzioni bilaterali contro i paesi responsabili di gravi violazioni. Indubbiamente programmi di questo genere hanno avuto una certa efficacia, ma nemmeno essi hanno ricevuto una completa attuazione per una serie di condizionamenti politici a livello sia nazionale che internazionale. Anche le sanzioni contro il Sudafrica sono state applicate con discontinuità, e pertanto hanno avuto una minore efficacia.
A circa mezzo secolo dagli orrori hitleriani, l'idea dei diritti umani è oggi universalmente accettata. La comunità internazionale ha elaborato un corpus di norme e principî di ordine superiore - non inferiore a quello presente nelle costituzioni e nelle carte dei diritti nazionali più illuminate - recepito da un gran numero di ordinamenti costituzionali e giuridici. Il sistema di controllo internazionale sull'applicazione dei diritti umani è ancora imperfetto, ma può migliorare. Le istituzioni regionali per la tutela dei diritti umani hanno dimostrato una forza sempre crescente.
Tuttavia, nonostante le costituzioni sofisticate, nonostante gli impegni e le istituzioni internazionali, la condizione dei diritti umani lascia a desiderare un po' dovunque, e in diversi paesi è addirittura deplorevole. L'efficacia delle costituzioni viene sospesa o del tutto soppressa da giunte militari; vengono proclamati con la massima facilità stati d'emergenza al solo scopo di giustificare deroghe ai diritti fondamentali; i diritti politici vengono sospesi aprendo la strada ad altre violazioni: torture, assassini, 'sparizioni', detenzioni arbitrarie, ecc. L'apartheid continua ad essere praticata.
Il fascino di un'idea - quella dei diritti umani - non basta a garantire che sarà accettata. Dare veste giuridica al concetto dei diritti umani non serve a garantire che questi verranno rispettati. Il sistema politico internazionale non è ancora riuscito a mettere a punto strumenti di attuazione efficaci. Ma il rispetto e la tutela dei diritti umani non possono essere raggiunti una volta per tutte. L'idea si è affermata, e - credo - in modo irreversibile. Ad essa possono appellarsi le forze interne e le istituzioni internazionali, i governi e le organizzazioni non governative, nella lotta costante per mettere fine, scoraggiare e prevenire le violazioni e sollecitare la realizzazione della dignità umana per ogni individuo. (V. anche Costituzionalismo; Costituzionalità delle leggi, controllo di; Costituzioni; Giusnaturalismo e giuspositivismo; Giustizia).
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