Diritti
Il tema dei d. è stato trattato nella Enciclopedia Italiana, nelle voci dichiarazioni dei diritti (XII, p. 760) firmata da G. Solazzi, e diritti umani nell'App. II (i, p. 786), redatta da G. Capograssi. Per completare il quadro, si vedano in questa Appendice le voci bioetica, diritto: Diritto internazionale (in particolare la parte di Diritto pubblico); informatica: Informatica e diritto; migrazioni, multiculturalismo e riservatezza. *
Diritti dell'uomo
di Francesco Riccobono
Teoria dei diritti
L'appellativo dell'epoca attuale come "l'età dei diritti" (Bobbio 1990) rappresenta efficacemente il fenomeno del numero e del valore dei d. rivendicati, riconosciuti, tutelati, conferiti, esercitati nell'ultimo quarto del 20° secolo. Il fenomeno ha un'indubbia radice sociologica e un'evidente matrice etica. I 'diritti' sono, da una parte, aspirazioni al soddisfacimento dei tanti bisogni materiali emergenti in seguito all'imponente sviluppo tecnologico. D'altra parte, essi sono "una pratica sociale ampiamente diffusa", ovvero "il luogo in cui si manifestano le esigenze morali del nostro tempo" (Viola 1997, p. 273). Il riconoscimento di un d. testimonia un'avvenuta intesa etica sul valore da preservare e sul bene da tutelare, intesa quanto mai laboriosa nell'orizzonte multiculturale e multietnico della società contemporanea. Non ogni rivendicazione o aspirazione, per quanto condivisa eticamente e propugnata praticamente da una rilevante moltitudine di persone, costituisce, però, un 'diritto'. Lo straripante uso linguistico dei termini diritto e diritti, sempre più impiegati nel linguaggio ordinario per designare rivendicazioni, esigenze, aspirazioni e, finanche, desideri, incontra un opportuno argine in ambito giuridico nell'effettiva previsione normativa della fattispecie e nella successiva tutela giurisdizionale. Dal punto di vista giuridico va, infatti, sottolineata "la differenza tra il diritto rivendicato e quello riconosciuto e protetto" (Bobbio 1990, 1992², p. xx), cioè tra rivendicazioni espresse nella forma linguistica dei 'diritti', per assumerne la particolare forza persuasiva e suggestiva, e prerogative effettivamente protette dagli ordinamenti giuridici vigenti. Solo a queste ultime compete correttamente nel linguaggio giuridico specializzato il nome di diritti, mentre le prime rimangono al livello dei fattori d'impulso alla legislazione.
'Diritto' - nell'accezione soggettiva (corrispondente all'inglese right) impiegata in enunciati del tipo "ho diritto a...", contrapposta all'accezione oggettiva (corrispondente all'inglese law) impiegata in enunciati del tipo "il diritto italiano prevede...", dove diritto sta per insieme di norme, ordinamento giuridico, complesso di pratiche giuridiche - e, più univocamente, il plurale designano, nel linguaggio giuridico, una prerogativa, una facoltà, una pretesa ovvero l'insieme delle prerogative, delle facoltà, delle pretese d'un soggetto riguardo alla sicurezza della propria persona, all'espressione della propria personalità, alla libertà della propria azione. L'avanzamento di un d. da parte di un soggetto trova necessario completamento nel corrispondente obbligo d'ogni altro soggetto di evitare comportamenti lesivi della prerogativa, facoltà o pretesa in questione, ovvero nel corrispondente obbligo di determinati soggetti di promuovere le condizioni favorevoli alla loro soddisfazione o realizzazione.
Tale relazione intersoggettiva illumina il soggetto attivo del d. - la persona titolare del d. - e il soggetto passivo del d. - il destinatario dell'obbligo corrispondente - come elementi necessari del concetto di 'diritto'. Non v'è definizione di 'diritto' isolata da giurista o filosofo, infatti, che non parta dal soggetto attivo e dal soggetto passivo dei d., per poi considerare altri elementi necessari. Istruttiva al riguardo - ma non esente da critiche (Comanducci 1992, pp. 132-40) - è la lunga lista stilata da L.C. Becker (1977 e 1979) comprendente, tra l'altro, oltre il soggetto attivo e il soggetto passivo: l'azione di tutela dei d., i mezzi coercitivi di sostegno all'azione di tutela, i soggetti titolari dell'azione di tutela e dell'uso dei mezzi coercitivi.
La relazione intersoggettiva chiarisce indubbiamente la struttura e il funzionamento di un d. ma non consente ancora di dedurre il valore giuridico della pretesa e dell'obbligo corrispondente. Si ritiene che la giuridicità della pretesa e dell'obbligo corrispondente possa essere dedotta unicamente in riferimento a una norma giuridica della quale siano il contenuto. I d. avrebbero dunque un fondamento giuridico in una norma giuridica configurabile secondo l'assetto ideologico e materiale del sistema giuridico vigente. In un sistema di diritto ispirato ai principi del positivismo giuridico, i d. sono costituiti solo per via di normazione positiva, dato che ogni altra pretesa non positivizzata non risulta suscettibile di tutela giurisdizionale. In un sistema giuridico ispirato ai principi del diritto naturale, i 'diritti' si fondano sulle norme che sovraintendono all'ordine umano e universale senza alcun altro intervento del legislatore positivo che non sia l'accertamento di un diritto già scritto nel codice della natura. In un sistema giuridico basato sulla consuetudine e sul precedente giurisprudenziale, i d. si fondano sulle norme ricavabili induttivamente dai comportamenti effettivi dei cittadini comuni e dai pronunciamenti delle corti di giustizia.
Solo l'impostazione giuspositivistica consente di procedere a una univoca attribuzione della qualità giuridica ai d., scontando però l'alto costo di una considerazione del fenomeno giuridico artificiosamente ristretta agli aspetti formali della normazione. La giuridicità dei d. rimane altrimenti una qualità problematica, poiché nella costituzione della stessa norma che ne assicura il fondamento giuridico si ripresentano - come in una spirale - rilevanti dubbi etici e spinosi apprezzamenti del costume sociale. La dottrina più recente è, perciò, assai cauta nello sposare una distinzione tra legal rights (d. fondati su norme giuridiche positive) e moral rights (d. fondati su norme morali) quale criterio assoluto per la determinazione della giuridicità dei d., preferendo evidenziare la necessità di una fusione tra il d. costituzionale - luogo d'elezione per il riconoscimento e la statuizione dei d. - e la teoria morale (Dworkin 1977; trad. it. 1982, pp. 263-64), ovvero "l'imprescindibile dimensione etica" dei d. (Peces-Barba Martínez 1991; trad. it. 1993, p. 24).
La questione della giuridicità dei d. va allora più correttamente spostata dal campo d'origine alle condizioni di garanzia e tutela dei diritti. Un 'diritto' non è tale solo se e perché espresso in una norma giuridica. Può dirsi 'diritto' ogni pretesa individuale giustificata grazie all'inserimento in un sistema di norme morali, religiose, consuetudinarie (Guastini 1996, p. 148). L'identificazione di un d. non discende, quindi, inevitabilmente dall'inserimento della pretesa in un sistema di norme giuridiche da cui dipende, invece, necessariamente la protezione e il godimento di tale diritto.
In quest'ottica torna utile introdurre la più realistica distinzione tra 'diritti veri' e 'diritti di carta', ovvero tra d. effettivamente godibili e d. fittizi, per constatare come non vi sia coincidenza tra moral rights e d. di carta, da un lato, e legal rights e d. veri, dall'altro lato, potendosi ben dare l'esempio di d. legalmente previsti in norme di rango costituzionale destinate a rimanere lettera morta. Anche un d. legale può, dunque, essere un d. fittizio; un 'diritto' è, però, 'vero' solo grazie a garanzie legali. Da qui la convincente conclusione dottrinale che i d. veri debbano rispondere congiuntamente a tre condizioni giuridiche: esser suscettibili di tutela giurisdizionale; poter essere esercitati o rivendicati nei confronti di un soggetto determinato; prevedere un obbligo di condotta determinato da parte di questo soggetto (Guastini 1996, p. 152).
Il termine diritti è oggi termine riassuntivo e, a volte, sostitutivo per designare quei d. solitamente ricompresi nei classici cataloghi dei 'diritti umani', 'diritti fondamentali', 'diritti della persona' e così via. La caduta dell'aggettivazione indica non tanto la secondarietà dell'esigenza di rispettare terminologie convenzionali, spesso intercambiabili e riguardanti la medesima casistica, quanto la difficoltà di immettere in tali elenchi pretese e fattispecie distanti dai contenuti tipici dei diritti. Il quadro generale dei 'diritti' affermati negli ultimi decenni del 20° secolo presenta, cioè, accanto a un'evoluzione compatibile con l'immagine dei tradizionali d. umani e fondamentali, l'emergere dei cosiddetti nuovi diritti, che definiscono l'immissione di fattispecie e situazioni inedite nel catalogo delle esigenze e pretese soggettive meritevoli di riconoscimento e tutela e comportano, nello stesso tempo, una diversa figurazione dei soggetti attivi dei diritti. Nei nuovi d. rientrano, così, le richieste avanzabili all'interno delle possibilità offerte dalle tecniche genetiche o dalle tecnologie informatiche, nonché le richieste avanzabili da parte di soggetti che si riconoscano nell'appartenenza a particolari generi, gruppi, categorie, comunità di persone o, ancora, i d. ascrivibili a soggetti solo potenziali (embrione, generazioni future). I nuovi d. giocano senz'altro un ruolo di integrazione dei tradizionali d. umani e fondamentali, apportando un contributo di specificazione e concretezza prezioso per l'effettiva realizzazione degli assunti generali di quei d., ma tendono a smarrire, nella rincorsa a precisare situazioni e soggetti determinati, l'impronta universalistica che aveva contraddistinto la lotta per i d. dell'uomo e ne aveva segnato il concetto.
Diritti umani
I diritti umani della terza e della quarta generazione.- Il manifestarsi di nuove pretese o di pretese esclusive di soggetti determinati o l'estensione di vecchie pretese a nuove situazioni interessa, con effetti vistosi, soprattutto la categoria dei d. umani, intesi come quelle garanzie e libertà fondamentali della persona proclamate nelle carte costituzionali contemporanee, nonché oggetto di tutela internazionale attraverso l'organizzazione delle Nazioni Unite. La dottrina ha registrato tali effetti parlando di generazioni di d. umani, dove le generazioni successive non sostituiscono le precedenti ma descrivono l'accrescimento della 'famiglia' dei d. umani.
Al di là della metafora, non v'è esitazione a identificare le prime due generazioni dei d. umani rispettivamente nei d. di libertà (inviolabilità del corpo, libertà di pensiero, coscienza, religione, movimento, residenza ecc.) e nei d. economici e sociali (d. al lavoro, all'assistenza medica, all'istruzione ecc.). I primi pongono dei limiti all'attività dello Stato e all'ingerenza dei pubblici poteri nella sfera privata; postulano l'innalzamento di un sistema di garanzie giuridiche della libertà; sono criteri esterni di legittimazione dell'organizzazione statale. I secondi richiedono, invece, una politica attiva dei pubblici poteri nell'erogazione diretta di prestazioni, nell'amministrazione indiretta di servizi, nella disciplina normativa di attività con vasta ricaduta sociale. È evidente che il maggior impegno nella scoperta, enunciazione e rivendicazione dei d. di prima e seconda generazione appartiene a fasi storiche ed esperienze politico-giuridiche del passato, cosicché le pur importanti vicende attuali di tali d. non mostrano i segni di profondi mutamenti nella struttura concettuale.
Non può sfuggire come la difesa dei d. dell'uomo di prima generazione entri oggi, nella politica internazionale, come motivo di boicottaggio economico e di intervento militare, richiesti dalle Nazioni Unite e convintamente attuati dai governi di ispirazione democratica, contro quegli Stati che abbiano violato i principi solennemente espressi nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (1948), poi ribaditi e accolti in numerose carte e convenzioni (Convenzione europea dei diritti dell'uomo, 1950; Patto sui diritti civili e politici, approvato nel 1966 ed entrato in vigore nel 1976; Convenzione interamericana dei diritti dell'uomo, 1969; Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli, 1981). L'imposizione di sanzioni a regimi responsabili di crimini verso l'uomo, ancorché dettata da una disinteressata volontà di difesa dei d. umani e non strumentale a una politica interventista delle grandi potenze, non può, comunque, non destare perplessità qualora le conseguenze del provvedimento adottato - spedizione militare, boicottaggio commerciale, embargo di viveri e medicinali - siano sofferte prevalentemente dagli strati più inermi della popolazione dello Stato sanzionato. Si ritiene che la strada maestra per neutralizzare tale contraddittoria evenienza e per ovviare, in generale, all'aleatorietà del momento sanzionatorio susseguente alla violazione statale dei d. umani parta dalla tipizzazione giuridica dei crimini contro l'umanità e dalla conseguente istituzione di strutture giudicanti permanenti, capaci di sanzionare il comportamento criminoso e di garantire l'esecuzione della sentenza emessa. In questa direzione va inquadrata l'iniziativa delle Nazioni Unite per la creazione di una Corte penale internazionale (Conferenza di Roma, 1998). Per questi temi v. diritto: Diritto internazionale pubblico, in questa Appendice.
I d. dell'uomo della seconda generazione, cui è dedicato il Patto sui diritti economici, sociali e culturali, approvato dalle Nazioni Unite nel 1966 ed entrato in vigore nel 1976, pur contemplati nella maggior parte delle Costituzioni contemporanee - da ultimo, in Europa, la Costituzione della Repubblica Greca, 1975: artt.16-18, 21-23; e la Costituzione del Regno di Spagna, 1978: artt. 7, 9, 39-50, 128, 129, 131 - vivono a fine secolo una fase di crisi politica e dottrinale. L'abbandono del modello dello stato sociale a seguito della prevalenza d'una politica economica monetarista e della tendenza neoliberale a riaffidare ai privati, nella logica del mercato, la gestione dei servizi essenziali, giudicata troppo onerosa per le casse statali, segna il ridimensionamento fattuale dei d. economici e sociali. Uno scenario siffatto si profila, per es., per l'Europa degli anni Novanta disegnata dai trattati di Maastricht (1992) e di Amsterdam (1997). Un'opzione ideologica liberale sottende, peraltro, anche la contestazione dottrinale che investe i d. economici e sociali, negandone il nome stesso di diritti per un difetto di identificazione e per un difetto di imputazione dell'obbligo correlativo. Non si vede, cioè, quali doveri corrispondano ai d. sociali e, soprattutto, in capo a quale soggetto passivo debbano caricarsi quei doveri, dato che non sembra opportuno che l'unico soggetto abilitabile, lo Stato, assuma volontariamente obbligazioni tali da compromettere l'architettura liberale della società (Hayek 1982; trad. it. 1986, pp. 307-13; su cui Comanducci 1992, pp.141-43). Alcune di queste obiezioni resistono, invero, al di fuori di un contesto dottrinale politicamente orientato, pure nell'ambito di un'esplorazione tecnico-giuridica dei d. sociali, cui si rimprovera l'eccessiva indeterminatezza, ossia lo scadere al livello di norme programmatiche o di mere raccomandazioni rivolte a un legislatore ordinario al quale è concesso, però, di astenersi dal legiferare a compimento della disciplina (Guastini 1996, p. 154).
La dottrina è, invece, divisa sulla terza generazione dei d. umani, comprendente, per alcuni, subito i nuovi d. della società contemporanea, per altri, i d. dei cosiddetti soggetti deboli, con slittamento alla quarta generazione dei summenzionati nuovi d. (Pérez Luño 1991, pp. 139-41, 145-46). Quest'ultima scelta produce un migliore effetto conoscitivo, poiché consente di cogliere appieno il valore del mutamento d'orizzonte etico e teorico rappresentato dai d. dei soggetti deboli. 'Soggetti deboli' sono quegli individui che si trovino in stato di difficoltà fisica, psichica o materiale tale da necessitare di una continua assistenza esterna, ovvero quegli individui o classi o generi di individui che siano o siano stati vittime di discriminazione sociale per ragioni d'ordine storico. I d. di tali soggetti sono richiamati in numerose dichiarazioni e convenzioni delle Nazioni Unite, tra cui conviene ricordare le più recenti: Dichiarazione sulla eliminazione della discriminazione nei riguardi della donna (1967); Dichiarazione dei diritti del minorato mentale (1971); Dichiarazione sulla protezione delle donne e dei fanciulli nei periodi di emergenza e di conflitti armati (1974); Dichiarazione dei diritti delle persone handicappate (1975); Convenzione sui diritti del fanciullo (1989).
I d. della terza generazione sono in una linea di continuità con i d. delle generazioni precedenti nella misura in cui esprimono lo sforzo per una generale, concreta affermazione dei d. che proclamano la dignità e la libertà dell'uomo, superando gli ostacoli interposti da limitazioni naturali e sociali sofferte da ben determinate categorie di soggetti. Questo sforzo non è dissimile, nella sostanza, dalla preoccupazione esternata dai d. di seconda generazione di costruire le condizioni reali per l'effettivo, generale godimento dei d. di libertà. I d. della terza generazione interrompono, però, questa linea di continuità, sia perché propongono l'attuazione di un nuovo valore, la solidarietà - da aggiungersi alla libertà, valore guida dei d. di prima generazione, e all'eguaglianza, valore guida dei d. di seconda generazione (Pérez Luño 1991, pp. 147-49) -, sia perché, soprattutto, introducono una diversa costituzione del soggetto dei d., identificabile, in prima istanza, in una pluralità portatrice di determinate caratteristiche e, in seconda istanza, nel singolo individuo, reale fruitore di quei d. solo in quanto facente parte della categoria caratterizzata. Ciò si riflette, dal punto di vista giuridico, nel riconoscimento di un ruolo ufficiale e di uno stato attivo processuale alle associazioni nate per riunire e tutelare i soggetti deboli, rappresentandone all'occorrenza gli interessi. Non è, dunque, completamente esatto dire che i d. della terza generazione siano d. più concessi che rivendicati, poiché l'azione di tali associazioni si è rivelata decisiva sia nel dare voce a quelle categorie di soggetti deboli del tutto incapaci di articolare le proprie richieste, sia nell'organizzare le rivendicazioni di quei soggetti deboli solo perché socialmente emarginati o discriminati. È, invece, corretto constatare come la normazione internazionale dei d. dei soggetti deboli - al di là di ogni possibile opposizione tra d. concessi e d. rivendicati - abbia dimostrato un plusvalore etico del diritto positivo rispetto al diritto naturale, componendo un'immagine di solidarietà umana assolutamente non raggiungibile a partire dall'idea di una natura legislatrice (Frosini 1993, 1998³, pp. 33-38).
Nella quarta generazione dei d. umani confluiscono finalmente i nuovi d. dell'età tecnologica, nella duplice accezione di d. conseguenti al "rafforzamento del dominio della tecnica sulla natura" e di d. come "salvaguardia dai pericoli della tecnica" (Denninger 1991, p. 65). Si tratta, perciò, di un catalogo aperto, dai confini non facilmente tracciabili, il quale comprende pretese eterogenee che vanno dalle garanzie contro la manipolazione genetica al d. di morire con dignità, rifiutando ogni accanimento terapeutico, al d. alla riservatezza contro le intrusioni dell'informatizzazione universale (v. riservatezza, in questa Appendice).
Vi è, però, un nucleo consolidato di d. della quarta generazione, sorretti da risoluzioni internazionali e dal consenso dottrinale. In tale nucleo rientrano senz'altro: il d. alla pace, proclamato solennemente dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite nella risoluzione 39/11 del 12 novembre 1984; il d. allo sviluppo, oggetto di una specifica Dichiarazione sul diritto allo sviluppo del 1986; il d. al patrimonio comune dell'umanità, menzionato, per es., nella Convenzione sul diritto del mare delle Nazione Unite del 1982; il d. all'ambiente, attuato e difeso in numerose direttive e convenzioni su aspetti determinati (scarichi di residui a mare, inquinamento atmosferico, trattamento di scorie tossiche). È evidente la relazione tra questi d. e il progresso tecnologico: al d. alla pace fa da contesto l'avanzatissima tecnologia degli armamenti; il d. allo sviluppo dei popoli presuppone la possibilità di attingere a un fondo aperto di conoscenze tecniche e scientifiche; il d. al patrimonio comune dell'umanità sorge in rapporto allo sfruttamento indiscriminato delle risorse; il d. all'ambiente testimonia una natura degradata dalla civiltà industriale. Ed è pure evidente come l'ampiezza dei fenomeni considerati da questi d. non consenta di riportarli in capo a un soggetto individuale ma ne predichi, più adeguatamente, una titolarità riferita a gruppi, popoli, nazioni, a soggetti sempre più vasti fino alle 'generazioni future', esplicitamente considerate nella Dichiarazione universale dei diritti umani delle generazioni future, adottata dall'UNESCO il 26 febbraio 1994. È qui, però, a ben vedere, il punto problematico di questi d., poiché l'attribuzione della titolarità a soggetti difficilmente definibili e identificabili nella loro responsabilità morale e giuridica ne frena la concreta attuazione, complicando la ricerca della parte legittimata ad agire e del detentore dell'obbligo corrispondente. Per tali motivi la dottrina tende a recuperare nei d. allo sviluppo, all'ambiente e alla pace, dietro alla titolarità dei popoli, delle nazioni e delle generazioni future, dimensioni individuali e aspetti procedurali capaci di donare concretezza alle pretese in questione. Il d. allo sviluppo viene, così, visto come una composizione dei numerosi d. individuali relativi alla soddisfazione, mediata dai pubblici poteri, dei bisogni fondamentali dell'uomo. Per i d. all'ambiente viene sottolineata "la possibilità di azionare gli interessi diffusi, anche quelli di titolari futuri, da parte di associazioni, corporazioni o gruppi, non solo ove risultino lesi, ma anche ove siano giuridicamente abilitati a difendere o a proteggere i diritti". La stessa fonte dottrinale deve, però arrendersi di fronte all'impervietà giuridica del d. alla pace, la cui titolarità, per l'impossibilità di riferire ai popoli o ai gruppi un fondamento morale, "finisce per trasferirsi a ciascun individuo, cosicché risulta poi difficile stabilire la correlazione dell'obbligo degli Stati che - come titolari della sovranità - sono quelli che possono scatenare le guerre nella realtà" (Peces-Barba Martínez 1991; trad. it. 1993, pp. 165, 172).
Al nucleo consolidato dei d. umani della quarta generazione appartengono pure i d. relativi alla protezione dei dati personali e alla circolazione delle informazioni che siano oggetto di elaborazione automatica. Anche questi d. trovano sostegno in specifiche normative internazionali e nazionali, e suscitano profonde riflessioni dottrinali. Tra le fonti normative è necessario ricordare: sul versante europeo, la Convenzione per la protezione delle persone in relazione all'elaborazione automatica dei dati a carattere personale, conclusa tra gli Stati membri del Consiglio d'Europa il 28 gennaio 1981; sul versante nazionale, in Germania (Repubblica Federale di Germania), la storica legge del 27 gennaio 1977, Per la protezione contro gli usi illeciti di dati personali (Bundesdatenschutzgesetz), e in Italia la legge 31 dicembre 1996 nr. 675, Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali. In tali fonti normative è ravvisabile lo scopo comune che l'uso del mezzo informatico non costituisca o non faciliti lesioni ai d., alle libertà fondamentali e alla dignità della persona, con particolare riferimento alla riservatezza e all'identità personale. A tal fine si mette l'accento sull'essenzialità del consenso dell'interessato per la trattazione dei dati che lo riguardino e si istituisce la categoria dei 'dati sensibili' ovvero dati personali su convinzioni religiose, opinioni politiche, tendenze sessuali ecc., oggetto di una protezione rinforzata.
La riservatezza e l'identità personale sono senz'altro da annoverarsi tra i valori tutelati dalla prima generazione dei d. umani. L'opportuno inserimento dei d. sull'informazione, che tali valori indubbiamente preservano, nella quarta generazione dei d. si giustifica con il salto di qualità compiuto dalle tecnologie informatiche rispetto ai mezzi tradizionali di controllo e di informazione, con il conseguente sconvolgimento degli usi lessicali, dei significati ideologici e delle aspettative sociali. Si parla, per es., di 'libertà informatica' e di 'diritto all'autodeterminazione informativa' (Recht auf informationelle Selbstbestimmung), dove la libertà in questione trascende sia la libertà negativa d'uno spazio fatto salvo da invadenze, sia la pretesa positiva dell''essere informati', per significare un'attiva partecipazione al circuito informativo, un'inedita mistione di esigenze di controllo e di esigenze di comunicazione di dati informativi riferiti alla propria persona (Frosini 1988, pp. 173-85; Rodotà 1995, pp. 101-22). L'attiva partecipazione sottesa alla libertà informatica schiude finanche le speranze per un diverso rapporto fiduciario tra cittadino e istituzioni, nella prospettiva di una rifondazione della democrazia di massa (Frosini 1997, pp. 68-80).
La quarta generazione comprende, infine, quei d. umani relativi alla protezione della sicurezza, della dignità e dell'identità personale nell'ambito dell'utilizzazione delle nuove tecnologie genetiche, riproduttive, mediche, farmacologiche (v. bioetica, in questa Appendice). La tipologia di questi d. è vastissima: 'diritto di procreare', 'diritto a un patrimonio genetico non manipolato', 'diritto all'unicità', 'diritto all'identità sessuale', 'diritto di morire' e molti altri. Portatori di questi d. sono non soltanto gli individui adulti responsabili ma, secondo i casi considerati, soggetti diversi: embrioni, feti, generazioni future. Ne risulta, quindi, un panorama di complessa e difficile decifrazione, caratterizzato da rivendicazioni incontrollate di d., rivendicazioni esprimenti spesso soltanto un bisogno individuale o un disagio morale che chiede conforto da una regolamentazione giuridica dei fenomeni. S'impone, dunque, una maggiore cautela nell'accettare nella famiglia dei d. umani pretese e richieste, aderenti a queste tipologie, che non abbiano la copertura di un documento normativo o di una pronuncia giurisprudenziale. Normative e pronunce su tali materie si moltiplicano, d'altra parte, in tutto il mondo.
Gli Stati membri del Consiglio d'Europa, Canada, USA, Giappone e Santa Sede, hanno concluso il 19 novembre 1996 la Convenzione per la protezione dei diritti dell'uomo e della dignità dell'essere umano rispetto alla utilizzazione della biologia e della medicina: convenzione sui diritti dell'uomo e la biomedicina. In Europa sono da citare: per la Gran Bretagna, il Surrogacy arrengements act del 1985 e lo Human fertilization and embriology act del 1990; per la Germania, l'Embrionenschutzgesetz del 13 dicembre 1990; per la Francia, la l. 29 luglio 1994 nr. 654. Per gli Stati Uniti è sufficiente ricordare la storica e celebre decisione della "Corte suprema del New Jersey, 31 marzo 1987, Stern v. Whitehead, in favore di Baby M, pseudonimo di una persona vivente (inseminazione artificiale, gravidanza, gestazione, parto e consegna del nato)". In Italia è da segnalare l'acceso dibattito in atto per definire la disciplina legislativa della procreazione assistita e per produrre una normativa in materia di ricerca e tutela del genoma umano. In questa direzione sono da considerare il documento Identità e statuto dell'embrione umano del Comitato nazionale per la bioetica 22 giugno 1996 e i progetti di legge per l'introduzione di norme in materia di inseminazione artificiale e fecondazione assistita, per i quali nel mese di febbraio 1999 è iniziato l'esame in assemblea alla Camera dei deputati.
I d. umani sorti in relazione all'utilizzo delle tecnologie riproduttive, genetiche, mediche e farmacologiche sono, spesso, interpretabili come un'estensione dei d. e delle libertà di prima generazione di fronte a nuovi pericoli. Ciò appare soprattutto nella difesa della libertà di scelta dell'individuo, che si esprime nel 'consenso libero e informato' ai trattamenti sanitari e alle terapie genetiche cui sottoporsi. E appare analogamente - come una specificazione del principio di uguaglianza e dei valori di libertà che impongono il rifiuto di ogni forma di predeterminazione - nei divieti di discriminazione a causa del patrimonio genetico e nei divieti di interventi con finalità eugenetiche o selettive del sesso dei nascituri. Vi è, però, un elemento di crisi dell'elemento soggettivo di tale tipologia dei d. che ne costituisce la differenza specifica rispetto alle altre generazioni di d. e, insieme, innesca un processo di stravolgimento nel concetto dei diritti umani. Il soggetto tipico dei d., il 'portatore' dei d., non è più soltanto un individuo attivo, conoscente, cosciente, responsabile e in lotta per contrastare la lesione del 'suo' diritto. Portatori di d. vengono considerati - come si è detto - anche embrioni, feti, generazioni future, cioè portatori, a stretto rigore, non predicabili della soggettività e, quindi, neanche della capacità giuridica. L'essere portatori di d. assume allora un significato slegato dall'attività del soggetto e dal ruolo assegnatogli nel procedimento giuridico, per designare più debolmente l'essere in una situazione investita da un valore, sulla cui difesa e protezione vi è una convergenza etica. Nei d. umani della quarta generazione - con esclusione dei d. riguardanti le tecnologie informatiche - è generalmente avvertibile questa crisi del 'soggetto dei diritti', tant'è che, da un punto di vista eminentemente giuridico, sembra più proficuo spostare l'asse visivo del fenomeno, concentrando la propria attenzione sui doveri che la salvaguardia di determinati valori impone ad altrettanto determinati soggetti. Al posto di uno sfuggevole d. all'ambiente o di un problematico d. dell'embrione umano sembra, quindi, sempre da un punto di vista giuridico, più fruttuoso parlare di un dovere di non inquinare o di un dovere degli operatori sanitari di evitare pratiche quali la produzione di ibridi o chimere o la scissione embrionaria precoce, rimanendo comunque la motivazione profonda di questi doveri appannaggio prevalente dell'etica.
'Nuovi diritti' e diritti fondamentali
Alcuni dei 'nuovi diritti' sono stati già accolti nelle carte costituzionali più recenti al livello dei d. fondamentali, ovvero di quei d. che, ritenuti inviolabili, per un verso "danno fondamento al sistema giuridico", per un altro verso "non richiedono fondamento nel sistema giuridico" (Guastini 1996, p. 152). È il caso del d. all'ambiente, contemplato per es. nella Costituzione del Regno di Spagna del 1978 all'art. 45: "1) Tutti hanno diritto a fruire di un ambiente adeguato per lo sviluppo della persona, nonché il dovere di mantenerlo". Altri vengono ricevuti negli ordinamenti nazionali, come norme di rango costituzionale, dal d. internazionale attraverso la ratifica di convenzioni, dichiarazioni, accordi concernenti tali d. emergenti. In questi casi il processo di positivizzazione - diretto o indiretto - dei nuovi d. al livello dei d. e delle libertà fondamentali ne assicura la tutela, anche senza l'intervento di un'ulteriore, esplicita disciplina legislativa.
La parte più problematica dei casi riguarda, però, d. emergenti che non abbiano subito un processo di positivizzazione in alcun grado del sistema delle fonti di diritto o che lo abbiano subito in misura insufficiente. Qui la dottrina e la giurisprudenza hanno tentato di accogliere egualmente i contenuti dei nuovi d. negli ordinamenti nazionali attraverso una complessa e discussa operazione ermeneutica, al fine di assicurarne la tutela. Gli articoli delle rispettive Costituzioni (rigide) dedicati al riconoscimento e alle garanzie generali dei d. inviolabili dell'uomo - nella Costituzione italiana, l'art. 2 - vengono, cioè, interpretati come clausole aperte o fattispecie aperte, riempibili all'occorrenza con quei d. emergenti dall'evoluzione sociale che non siano contemplati nei cataloghi dei singoli d. e delle singole libertà fondamentali presenti nelle medesime costituzioni. Tale operazione è teoricamente lecita in virtù dei caratteri di continuità e compenetrabilità delle generazioni dei d. umani, per cui le generazioni successive sono in un rapporto deduttivo di specificazione con quelle precedenti e, conseguentemente, i d. di prima generazione evolvono, in certa misura, proprio nella direzione dei d. di terza e quarta generazione. La medesima operazione è, però, giuridicamente dubbia, poiché trascura con eccessiva disinvoltura la rilevanza giuridica dell'esplicita enumerazione dei d. fondamentali, lasciando altresì ampi margini di incertezza sulla selezione tra d. emergenti da accogliere e d. emergenti da respingere, condotta di fatto secondo criteri prevalentemente extragiuridici. Tali rilievi alla tesi della 'clausola aperta' o della 'fattispecie aperta' non sono, peraltro, segno di un favore per l'opposta interpretazione degli stessi articoli dedicati al riconoscimento e alla garanzia generale dei d. fondamentali come clausole chiuse o fattispecie chiuse, norme soltanto sintetizzatrici dei d. subito dopo enumerati, con assurda, conseguente chiusura dell'ordinamento costituzionale a ogni immissione di nuovi d. che non segua le gravose vie delle innovazioni costituzionali. L'alternativa non è tra queste due tesi, accomunabili in una critica che così dissolve la controversia: "Se la concezione della fattispecie chiusa mi appare 'cieca' di fronte alla realtà; quella della fattispecie aperta mi sembra 'vuota' di criteri e di contenuti giuridicamente accettabili" (Modugno 1995, p. 4).
La soluzione per l'inserimento dei nuovi d. nell'ordinamento interno non risiede, dunque, nella messa a punto di una tecnica giuscostituzionalistica che preservi l'impianto formalistico del sistema delle fonti. I nuovi d. esprimono, anzi, un'energia dirompente nei confronti della tradizionale struttura gerarchica e delle tradizionali competenze normative del sistema delle fonti. Da un lato, essi appaiono come d. fondamentali bisognosi di determinazione legislativa per poter usufruire dell'esecuzione amministrativa; da un altro lato, il bagaglio di conoscenze tecniche e scientifiche, che essi presuppongono - basta pensare al d. all'ambiente e ai d. relativi alla sperimentazione genetica e farmacologica -, sottrae tali d. alla determinazione piena del potere legislativo, per esaltare la figura dell'esperto e il ruolo dell'amministrazione quale più duttile e dinamica recettrice delle esigenze collegate al progresso tecnologico. Per un verso, essi necessitano della medesima disciplina legislativa per poter essere azionati in giudizio; per un altro verso, essi costituiscono, pur nella loro novità, un patrimonio comune di valori, cui possono accedere tanto il legislatore quanto il giudice ordinario come destinatario e interprete delle più immediate aspettative di giustizia. Se questo è il quadro dei luoghi e delle funzioni dei nuovi d. nell'ordinamento interno, può allora concludersi che il loro inserimento nel sistema delle fonti e la loro tutela nella quotidianità giuridica dipendano meno dalle regole di una procedura giuridica che dai dettami di un'argomentazione orientata sull'universo dei valori che dà vita alla norma di d. ma che sempre la eccede.
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Diritti degli animali
di Silvana Castignone
l rapporto uomo-animali
Per affrontare il problema del rapporto uomo-animali dal punto di vista etico-giuridico, appare opportuno dividere gli animali in quattro grandi categorie di carattere non biologico o morfologico bensì culturale.
Nella prima categoria rientrano gli animali selvatici, come uccelli, camosci, cervi, lepri, volpi e altri ancora che circolano nelle nostre campagne e nei nostri boschi, e tutta la folta (ma sempre meno folta) schiera degli animali selvaggi nel vero senso della parola, quali leoni, tigri, scimmie, elefanti, balene e altri ancora che vivono nei grandi parchi naturali, oppure che popolano le poche zone lontane dalla civiltà - si pensi alla foresta amazzonica o alle profondità degli oceani. Alla seconda categoria appartengono gli animali da allevamento, destinati per lo più all'alimentazione umana, come galline, mucche, cavalli, maiali, pecore. Alla terza gli animali da laboratorio, usati per la sperimentazione scientifica: topi, ratti, cani, gatti, primati, conigli e altri, i quali abitualmente provengono da allevamenti appositi. Infine, la quarta categoria annovera gli animali da affezione, ovvero domestici in senso stretto, giacché anche quelli da allevamento possono venire considerati domestici in quanto abitano la casa - domus - dell'uomo o vivono sotto il suo controllo: essi sono in special modo i cani e i gatti, anche se si va sempre più diffondendo l'uso di tenere altri tipi di animali, persino i serpenti, come animali da compagnia o pets, secondo la denominazione inglese.
La suddivisione proposta riflette il diverso tipo di rapporto che si è andato instaurando nel corso del tempo tra l'uomo e le categorie indicate e aiuta a dar conto della diversità dei d. degli animali e dei doveri degli uomini nei loro confronti a seconda della differente collocazione degli animali medesimi, all'interno di un quadro più generale di riferimento in cui si sta sempre più affermando il principio del rispetto verso le specie 'altre' dalla nostra, verso gli animali, non umani ma egualmente dotati di sensibilità.
Tale atteggiamento di considerazione e di tutela ha radici lontane, ma ci limiteremo a ricordare un testo della fine dell'Ottocento dell'inglese H. Salt, Animals' rights (1892), che prefigura, sia pure soltanto nelle linee generali, le argomentazioni del dibattito contemporaneo. Sempre nello stesso periodo cominciò a risvegliarsi anche l'attenzione dell'opinione pubblica verso i problemi animalisti, e vennero fondate le prime società per la protezione degli animali, a iniziare dalla Royal Society for the Prevention of Cruelty on Animals, istituita a Londra nel 1924.
In tempi più recenti, una grossa svolta si verificò negli anni Settanta con lo scritto del filosofo australiano P. Singer, Animal liberation (1975): esso diede origine a una discussione molto accesa, che dura tuttora, con argomentazioni etico-filosofiche sul problema "diritti animali e obblighi umani", come avrebbero poi intitolato un libro immediatamente successivo (1976) Singer e T. Regan, l'altro autore di spicco, questa volta americano, del movimento animalista. Da quel momento vi è stato su questo tema un susseguirsi di volumi e articoli, anche su prestigiose riviste di filosofia, quali Ethics e Inquiry.
Singer, ispirandosi a Bentham, propone il principio dell'uguale considerazione degli interessi. "Tutti gli animali sono uguali", scrive: il che non significa che tutti, uomini e animali, vadano trattati in modo uguale, ma che la stessa quantità di sofferenza deve avere uguale peso, sia che a sperimentarla si trovi un bianco o un nero, un uomo o una donna, un intelligente o uno stupido, e, infine, un essere umano o un animale. È l'inizio della battaglia contro lo 'specismo', vale a dire contro la discriminazione sulla base della specie di appartenenza. La posizione di Singer ruota attorno al dovere di non provocare sofferenza, che costituisce uno dei principi fondamentali di tutte le teorie etiche, religiose o laiche che siano: ma tale principio non dev'essere limitato agli uomini, bensì esteso a tutti gli esseri senzienti. La linea di demarcazione tra gli esseri che rientrano nella sfera morale e quelli che ne sono esclusi non passa più attraverso la ragione e la capacità di usare il linguaggio, ma attraverso quella di provare dolore e piacere. In caso contrario, avverte Singer, ci troveremmo nella necessità di escludere dalla morale anche quegli umani che non sanno usare la ragione e il linguaggio, come tanti minorati mentali o psichici: si tratta dell'argomento detto 'dei casi marginali', o anche degli umani marginali, molto adoperato nella discussione animalista contemporanea.
La prospettiva di Regan si orienta decisamente verso l'affermazione di veri e propri d. degli animali: l'autore elabora una teoria del valore intrinseco di tutti gli esseri viventi e senzienti, basata sul concetto di 'soggetto di una vita'.
È soggetto di una vita qualunque essere dotato di percezioni, emozioni, pulsioni, credenze, di una sia pur minima capacità di autodeterminazione, di modo che sia in grado di condurre una vita migliore o peggiore per se stesso e, almeno in una certa misura, di rendersene conto. La massima espressione dei soggetti di una vita è rappresentata, ovviamente, dagli esseri umani adulti e razionali, ma non si esaurisce in essi: si allarga fino a comprendere non solo tutti gli esseri umani, ma anche buona parte degli animali, quanto meno i Mammiferi e gli animali cosiddetti superiori. Tutti i soggetti di una vita possiedono valore intrinseco e, di conseguenza, sono titolari di d. naturali inalienabili, quali il d. alla vita, alla libertà, alla non-sofferenza. Verso gli animali esclusi da tale qualifica, vale il dovere generale di non provocare sofferenza. Siamo di fronte a una posizione fortemente garantista nei confronti degli esseri non-umani: d'altra parte, secondo Regan, solo partendo dall'idea di un valore oggettivo si può costruire una barriera protettiva attorno agli animali, tale da poter essere infranta solo in casi del tutto eccezionali e ampiamente motivati.
Una posizione che tende a sottolineare l'importanza della collaborazione e dei legami tra le varie specie, umane e non-umane, è quella della filosofa inglese M. Midgley, la quale, coniugando animalismo ed ecologismo, vede la salvezza dell'uomo come indissolubilmente legata a quella delle altre specie e inserita in una prospettiva di protezione dell'ecosistema globale: "nessuna specie è un'isola", scrive (1983), neppure quella umana, nonostante tutto il suo sviluppo scientifico e tecnologico.
Del tutto recente è il Progetto grande scimmia, sottoscritto da numerosi autori e scienziati di ogni parte del mondo, che intende proporre l'ingresso dei grandi primati, gorilla, scimpanzé e oranghi, nella 'società degli uguali', assicurando loro, a causa della fortissima rassomiglianza con l'uomo, uno status morale e giuridico di base pari a quello umano (The great ape project, 1993).
Quali diritti a quali animali?
Il d. fondamentale, e che non può essere disconosciuto a nessun animale, è quello di non venir sottoposto inutilmente a sofferenze: inutilmente per l'animale stesso, s'intende. In quanto ai d. alla vita e alla libertà, occorre distinguere tra un piano etico-teorico generale, in cui tali d. devono essere riconosciuti a tutti, e un piano concreto, condizionato dal tipo di rapporto che si è instaurato nel corso dei secoli tra uomo e animale, su cui si può intervenire operativamente nel breve periodo. Ripercorrendo la classificazione fatta all'inizio, per gli animali selvatici si possono rivendicare anche i d. alla vita e alla libertà: la caccia, la cattura degli animali da pelliccia, la cattura per gli zoo e per i circhi non appaiono affatto legate a esigenze primarie dell'uomo, quanto piuttosto alla sfera del superfluo.
Per gli animali da allevamento, come pure per i pesci destinati all'alimentazione umana, appare invece impossibile rivendicare subito se non in via di principio i d. alla vita e alla libertà. Per il momento si può parlare del d. di non essere sottoposti a sofferenze e di avere un minimo di libertà di movimento. Devono quindi essere vietati: le gabbie ristrettissime per i polli, dove ciascun esemplare nella migliore delle ipotesi ha a disposizione una superficie di 450 cm², vale a dire più o meno quella di un foglio di carta per scrivere; i 'cassoni' per i vitelli, dove questi non possono nemmeno stare sdraiati; le sbarre di contenimento per i bovini, che impediscono loro di muoversi. Gli allevamenti intensivi, tesi nello sforzo di minimizzare i costi, vanno piuttosto nella direzione opposta. La Comunità Europea ha emanato una serie di direttive volte a eliminare gli abusi più gravi, anche in materia di trasporto e di macellazione.
La terza categoria comprende gli animali destinati alla vivisezione, attività non certo sconosciuta nel passato, ma che ha avuto un impulso notevole a partire dal 19° secolo. Praticamente tutto viene ormai testato su animali: metodi chirurgici, farmaci, cosmetici, alimenti, vernici, detersivi, giocattoli, e anche armi, sia tradizionali sia chimiche e biologiche. Numerose e fondate sono le critiche che a livello etico e a livello di utilità scientifica vengono mosse a tale pratica: tuttavia, la tesi favorevole al suo mantenimento è ancora prevalente, e i d. alla vita e al benessere degli animali vengono posti in secondo piano dalle esigenze della ricerca. Vi sono comunque delle richieste minime che devono essere avanzate: diminuire il numero degli esperimenti e degli animali adoperati; impiegare procedimenti, quali l'anestesia, che riducano il più possibile le sofferenze; sviluppare i metodi alternativi o sostitutivi, come la simulazione al computer, le colture cellulari, l'utilizzo di tessuti od organi isolati. Recentemente, alle questioni poste dalla vivisezione si sono aggiunti i problemi relativi all'ingegneria genetica, o manipolazione del DNA, che ha portato alla creazione di animali transgenici, come l'oncomouse, il topo predestinato ad ammalarsi di tumore, la pecapra, la quallina, la mucca che produce più di cento litri di latte al giorno e naturalmente si ammala, e così via.
Per gli animali da compagnia, infine, oltre al d. alla vita e alla non sofferenza ve n'è un altro del tutto particolare ormai riconosciuto: quello a non essere abbandonati.
Gli animali e il diritto
Nel 1978 fu presentata presso l'UNESCO, a opera di un gruppo di associazioni protezionistiche, la Dichiarazione universale dei diritti degli animali, avente però una rilevanza esclusivamente etico-politica.
Sul piano giuridico, la tutela degli animali in Italia ruota attorno all'art. 727 del c.p., riformulato nel novembre 1993 dopo anni di discussioni e proposte. La prima normativa in materia risale al codice Zanardelli del 1889, seguito nel 1930 dal codice Rocco.
Il testo dell'articolo del 1993 così recita: "Chiunque incrudelisce verso animali senza necessità o li sottopone a strazi e sevizie o a comportamenti e a fatiche insopportabili per le loro caratteristiche anche etologiche o li detiene in condizioni incompatibili con la loro natura o abbandona animali domestici o che abbiano acquisito abitudini della cattività è punito con l'ammenda da L. 2.000.000 a L. 10.000.000". Seguono altri commi che specificano meglio le circostanze che concorrono a configurare il reato di maltrattamento; la pena è aumentata se il fatto è commesso con mezzi particolarmente dolorosi, per es. nelle modalità del trasporto e della macellazione, se è commesso nel corso di spettacoli e se provoca la morte dell'animale. Sono vietati gli spettacoli che comportino strazio e sevizie di animali, nonché le scommesse clandestine aventi per oggetto gli animali. La dizione 'senza necessità' tuttavia apre la strada a innumerevoli problemi d'interpretazione e di diversa valutazione delle circostanze, rischiando di compromettere la sostanza stessa dell'articolo.
Un elemento positivo del nuovo art. 727 è costituito dalla scomparsa delle formulazioni precedenti, secondo le quali i maltrattamenti venivano puniti solo se inflitti in pubblico o in luogo aperto al pubblico. E questo stava a significare che il bene giuridico tutelato non era il benessere dell'animale, bensì il comune senso di pietà. Con la nuova dizione si è fatto un deciso passo avanti verso la tutela diretta dell'animale, anche se il reato di maltrattamento rimane inserito tra i "delitti contro la moralità pubblica", e se l'art. 638 del c.p. continua a considerare l'animale come un bene oggetto di proprietà, in quanto punisce l'uccisione o il danneggiamento di animali altrui come reato contro il patrimonio. Siamo pertanto ancora abbastanza lontani dall'attribuzione agli animali di veri e propri d., anche se il riferimento fatto dall'art. 727 alla loro "natura" e alle loro "caratteristiche etologiche" spinge nella direzione di un riconoscimento se non di una compiuta soggettività giuridica, quanto meno di una sorta di individualità e dell'ammissione che si tratta di esseri sensibili e autocoscienti, i quali pertanto non possono venire trattati come 'cose'. Molto importante a questo proposito è la l. 14 ag. 1991 nr. 281 sul randagismo, che parla di "corretta convivenza tra uomo e animale", vieta la soppressione dei cani randagi catturati e contiene norme per la salute e la sopravvivenza dei gatti che vivono in libertà, sottintendendo quindi un d. alla vita per i primi e anche alla libertà per i secondi. Viene punito l'abbandono, e per combatterlo è stata istituita l'anagrafe canina.
L'attività venatoria continua a essere consentita, ed è regolata dalla l. 25 febbr. 1992 nr. 157, la quale peraltro, essendo una legge quadro, delega poi alle Regioni il compito di emanare le normative specifiche. Occorre rilevare che il numero dei cacciatori è in costante diminuzione: si è passati dal milione e mezzo di qualche anno fa a circa 800.000 tesserini per il 1996.
La sperimentazione scientifica è regolata dal d. legisl. 27 genn. 1992 nr. 116, che si è adeguato alla direttiva CEE nr. 86/609, in materia di protezione degli animali utilizzati a fini sperimentali o altri fini. Si tratta di una legge che nella lettera appare abbastanza garantista nei confronti degli animali da esperimento. Infatti essa vieta l'impiego di cani, gatti, scimmie; prescrive l'obbligatorietà dell'anestesia e l'immediata soppressione dell'animale oggetto dell'esperimento nel caso di effetti molto dolorosi; e infine prevede una procedura molto dettagliata per l'autorizzazione di esperimenti in deroga alle prescrizioni testé elencate. Tuttavia, le circolari interpretative che hanno fatto seguito alla legge ne hanno limitato fortemente il significato innovativo. Vi è da segnalare peraltro la l. 12 ott. 1993 nr. 413, che consente ai medici, ai ricercatori, al personale sanitario, agli studenti universitari di esercitare il diritto all'obiezione di coscienza nei confronti della vivisezione.
Guardando alle altre legislazioni europee, dall'inizio dell'Ottocento l'Inghilterra risulta il primo paese ad avere una legge per la tutela degli animali, relativa però al solo trattamento del bestiame: l'Ill treatment of cattle act del 1822, detto Martin's act. Nel 1911 fu emanato il Protection animal's act, che costituisce tuttora la base della tutela normativa in Inghilterra, per quanto sia stato successivamente integrato da numerosi provvedimenti e dall'evoluzione costante della giurisprudenza (molto importante nei paesi di common law). Secondo l'Act del 1911 viene punito chiunque commetta "offence of cruelty" nei confronti dell'animale, e tale offence comprende una grande quantità di comportamenti, dalle bastonature al sovraccarico, alle torture, alle omissioni che causano "sofferenza non necessaria": proprio quest'ultima nozione (analoga al "senza necessità" del nostro codice) è stata ed è origine di discussioni e interpretazioni diverse. Gli animali protetti sono quelli domestici o addomesticati, o comunque tenuti in cattività. Tra gli emendamenti più importanti ricordiamo l'Abandonment of animals act del 1960, con cui si punisce l'abbandono sia permanente sia temporaneo purché suscettibile di provocare sofferenza; l'Agricolture (miscellaneous provisions) act del 1986, emanato per migliorare le condizioni degli animali d'allevamento; e l'Animals (scientific procedures) act del 1986, sulla vivisezione.
In Francia, la prima legge di tutela, la legge Grammont, risale al 1850. Essa era costituita da un solo articolo, in base al quale venivano puniti coloro "che avessero inflitto pubblicamente e abusivamente maltrattamenti ad animali domestici". Nel 1959 scomparve l'elemento della pubblicità, ma rimase la limitazione agli animali domestici o addomesticati o tenuti in cattività. A partire dal 1963 vengono puniti con pene più gravi quei maltrattamenti, eseguiti in pubblico e in privato senza necessità, che possono configurarsi come sevizie gravi o atti di crudeltà. Questa duplice possibilità di qualificare diversamente un atto di maltrattamento, senza che sia stata data nessuna definizione precisa delle nozioni di 'maltrattamento', 'sevizie', 'crudeltà', suscita continui problemi interpretativi e di disparità di trattamento. Comunque, le disposizioni relative sia ai maltrattamenti sia alle sevizie e alla crudeltà non si applicano alle corse dei tori o ai combattimenti dei galli, quando vi siano delle tradizioni locali consolidate. Da sottolineare per contro che con la legge del 1976 sulla protezione della natura l'animale è stato riconosciuto come "essere sensibile". Le associazioni protezioniste possono costituirsi parte civile nei casi di maltrattamento, sevizie, crudeltà o attentato volontario alla vita di un animale. Gli attentati, volontari o involontari (per negligenza, imperizia o altro), alla vita di un animale sono puniti con ammende di varia entità.
Per quanto riguarda la Germania, dopo alcune regolamentazioni ottocentesche, nel 1933 uscì il Rechtstierschutzgesetz, in cui si enunciava l'idea che l'animale va protetto per se stesso. Attualmente è in vigore il Tierschutzgesetz del 1993, formulato nel 1972, successivamente novellato nel 1986 e poi nel 1993, e continuamente aggiornato, soprattutto per seguire la normativa comunitaria. Nel 1990 è stata inoltre emanata una legge per il miglioramento dello status giuridico dell'animale, il punto più rilevante della quale consiste nell'aver introdotto nel paragrafo 90 del codice civile (Bürgerliches Gesetzbuch) un comma secondo cui "gli animali non sono cose. Essi sono tutelati da leggi specifiche". Una disposizione analoga era già stata enunciata in Austria nel 1988 dalla Legge federale sulla posizione giuridica dell'animale, a dimostrazione del fatto che anche nell'area tedesca si va nella direzione di attribuire una sorta di soggettività giuridica all'animale, o quanto meno di collocarlo a un livello più alto delle semplici cose. Qualche autore parla di "creatura giuridica". Nel Tierschutzgesetz l'animale viene definito "concreatura" dell'uomo, il quale è responsabile della sua vita e del suo benessere. Vi sono contenute prescrizioni dettagliate sui modi in cui devono venire trattati gli animali allevati dall'uomo o che comunque vivono con lui: è proibito l'abbandono, nonché il doping durante le gare, non ai fini della correttezza sportiva bensì per tutelare il benessere dell'animale stesso; è altresì proibita l'usanza, permessa invece in Francia e in Italia, di ingrassare con metodi innaturali le oche per ottenere il foie gras.
Numerose sono le direttive e le convenzioni internazionali per la tutela degli animali. In materia di sperimentazione, oltre alla già citata direttiva del 1986, la direttiva europea nr. 93/35 ha stabilito che a partire dal 1° genn. 1998 siano banditi in tutta Europa i cosmetici testati su animali (termine prorogato al 30 giugno 2000). Di particolare importanza è la Convenzione europea sugli animali da allevamento, adottata a Strasburgo il 10 marzo 1976 e ratificata dall'Italia a seguito della l. 14 ott. 1985 nr. 623 (e successive modificazioni), nella quale vengono date disposizioni per migliorare le condizioni ambientali in cui gli animali devono essere tenuti (spazio, libertà di movimento, aerazione, illuminazione). La direttiva nr. 97/2 CE del 20 genn. 1997 stabilisce le norme minime per la salvaguardia dei vitelli da allevamento, soprattutto per quanto riguarda la struttura e le dimensioni dei recinti. Tale direttiva deve essere applicata nell'ambito della UE a partire dal 1° genn. 1998 per le aziende nuove, e a partire dal 31 dic. 2006 per tutte le aziende. Occorre notare come queste direttive fissino dei parametri minimi: nulla impedisce che le singole legislazioni nazionali stabiliscano degli standard di protezione più alti. La Convenzione europea sulla protezione degli animali da macello, adottata a Strasburgo il 10 maggio 1979 e ratificata dall'Italia a seguito della l. nr. 623 del 1985, regola i metodi di abbattimento, prescrivendo per solipedi (cavalli, asini, muli), ruminanti e suini lo stordimento prima della macellazione. Sono concesse deroghe per la macellazione rituale, consistente nel dissanguamento, pratica che non prevede alcun tipo di stordimento. Per quanto riguarda le galline ovaiole, vi è il d.p.r. 24 maggio 1988 nr. 233, che fissa la misura minima delle gabbie. La direttiva CEE nr. 77/489, attuata con d.p.r. 5 giugno 1982 nr. 624 a seguito della Convenzione europea stipulata a Parigi nel 1968, contiene la normativa concernente il trasporto internazionale di animali: tuttavia la sua applicazione nel territorio nazionale è ancora molto approssimativa. Per gli animali transgenici, nonché per la loro eventuale brevettazione, si può citare la Proposta modificata di direttiva del Consiglio delle Comunità Europee del 1992. Infine occorre menzionare la Convenzione sul commercio internazionale di specie in pericolo di estinzione, firmata a Washington il 3 marzo 1973 e ratificata dall'Italia a seguito della l. 19 dic. 1975 nr. 874, anche se solo con la l. 7 febbr. 1992 nr. 150 sono state stabilite le relative sanzioni.
Va segnalato che la normativa europea comunitaria, nonostante la richiesta più volte avanzata di qualificare gli animali come 'esseri sensibili', continua a etichettarli come 'prodotti agricoli'.
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