Diritto e politica
L'attuale rapporto fra diritto e politica è determinato essenzialmente dalla positivizzazione del diritto, ossia dal processo storico per cui da una validità del diritto fondata sulla consuetudine o su un ordine trascendentale si è passati a una validità basata sulla decisione. Il diritto positivo risultante da questo processo è caratterizzato dal fatto di nascere da una consapevole attività produttiva dell'uomo e di trarre la sua validità da decisioni. Queste ultime non sono prese nell'ambito del sistema giuridico, ma in quello del sistema politico: ciò che è giuridicamente valido viene determinato politicamente, e in tal senso il diritto, non potendo avere un proprio contenuto indipendente dalla politica, è subordinato ad essa. È indubbio che nella produzione del diritto la politica debba sottostare alle esigenze della giustizia; ma poiché vi sono vari modi d'intendere questo concetto, resta da stabilire - anche qui attraverso una scelta politica - quale di essi si debba assumere come normativo. La conformità del diritto alla giustizia è quindi un problema permanente delle società moderne, che non si risolve vincolando il diritto positivo a norme non positive che lo trascendono, ma garantendo in linea di principio la sua modificabilità.
La positivizzazione del diritto ha mutato radicalmente il rapporto fin allora prevalente tra diritto e politica. Alle società premoderne era del tutto estranea l'idea che il diritto potesse essere prodotto: esso traeva piuttosto la sua validità o da una consuetudine antichissima o dalla creazione divina. La società lo trovava dunque già predisposto e lo sentiva come immutabile. In queste condizioni il problema della conformità del diritto vigente alla giustizia non si poneva neppure: il diritto coincideva con la giustizia. Esso non era oggetto di decisione, ma di conoscenza. Né il suo contenuto, né la sua validità dipendevano dalla politica; al contrario, il diritto era sovraordinato al potere politico ed era vincolante per i detentori di questo non meno che per gli altri membri della comunità giuridica. Il compito della politica si esauriva nell'imposizione di un diritto valido indipendentemente da essa; non spettava alla politica dar forma al diritto, bensì essa doveva tutelarlo e ripristinarlo in caso di violazione. Per assolvere questi compiti la politica disponeva del potere, ma la sua legittimità e la sua capacità di esigere obbedienza erano condizionate dal fatto che tale potere fosse messo al servizio del diritto.
Naturalmente non trova riscontro nell'età premoderna l'attuale concezione della politica come sottosistema sociale funzionalmente autonomo, altamente diversificato e permanentemente attivo, specializzato nella produzione di decisioni vincolanti per la collettività: di un sistema siffatto non vi era alcun bisogno in società non ancora funzionalmente differenziate, organizzate su piccola scala e caratterizzate da una scarsa mobilità, da comunicazioni limitate e da ordinamenti fondati su verità non esposte al dubbio. Mancava allora un potere pubblico esteso e attivo su larga scala; vi erano soltanto singoli diritti di signoria, distribuiti fra un gran numero di titolari tra loro indipendenti e relativi non a un territorio, bensì a gruppi ristretti di persone. Ma, soprattutto, l'esercizio di questi diritti, connessi per lo più con proprietà fondiarie o con cariche ecclesiastiche, non costituiva una funzione autonoma e permanente: i loro titolari li consideravano piuttosto come parte di uno status sociale per lo più legato alla proprietà fondiaria o a cariche ecclesiastiche, e non sentivano la necessità di una sottostruttura amministrativa espressamente finalizzata all'esercizio del potere.
Retrospettivamente non è difficile scorgere i limiti connaturati a questo tipo di ordinamento, che si presentava con pretese di validità assoluta. Un sistema giuridico immutabile e non influenzabile dalla politica presuppone una società anch'essa statica, o almeno variabile così lentamente che il mutamento sociale non è percepito come tale e non suscita quindi alcuna istanza di adattamento. Va da sé che anche le società premoderne non erano mai così statiche da non aver bisogno di riforme giuridiche: tuttavia queste rappresentavano un'eccezione e restavano ancorate nei loro contenuti al diritto vigente, che non poteva essere abrogato o emendato, ma poteva solo essere oggetto di specificazioni e integrazioni. Ogni atto di riforma doveva quindi fondarsi sul diritto preesistente immutabilmente valido, ed era inteso come una sua estrinsecazione e non come la creazione di un diritto nuovo. Le norme giuridiche così statuite non traevano la loro validità da decisioni politiche, ma piuttosto dal fatto di essere conformi nei loro contenuti a un diritto consuetudinario o trascendentale; in mancanza di tale conformità, le norme stesse sarebbero state prive di efficacia.
Per questa sua stretta connessione con un diritto immutabile che consentiva variazioni minime, il sistema giuridico premoderno era straordinariamente rigido, e in ciò consisteva la sua debolezza. Esso poteva sussistere solo fino a quando i rapporti sociali a cui il diritto faceva riferimento non subivano variazioni e le verità religiose su cui esso si fondava non venivano messe in dubbio. Se invece il mutamento sociale subiva un'accelerazione tale da far nascere problemi a cui il diritto vigente non offriva soluzioni, l'intero ordinamento sociale entrava in crisi di legittimità, tanto più se veniva meno il consenso verso il fondamento di verità da cui esso traeva la sua efficacia. Crisi di questa portata potevano essere superate solo mediante un cambiamento del diritto; e poiché quello vigente non era in grado di modificarsi da solo, si rendeva necessario un organo legittimato a prendere decisioni e capace di ristabilire il collegamento tra esigenze sociali e soluzioni giuridiche. Una simile soluzione era peraltro inconciliabile col fatto che la politica fosse vincolata a un diritto prefissato e non modificabile.
La crisi del vecchio ordine si manifestò in seguito allo scisma religioso del Cinquecento. Già in precedenza una serie di mutamenti sociali aveva stimolato una più intensa produzione del diritto, ma non per questo era stata abbandonata la credenza fondamentale nell'origine divina dell'ordinamento giuridico e nella sua conseguente immutabilità. Lo scisma religioso influì proprio su questa credenza: benché in un primo momento non venisse messa in discussione l'idea di un diritto fondato sul volere divino, e quindi non modificabile dall'uomo, pure esso distrusse la certezza, fin allora esistente e in ogni caso imposta autoritativamente, circa il contenuto di quel volere. Quale ordinamento Dio avesse voluto dare al genere umano divenne oggetto di un'accanita contesa tra le diverse fazioni confessionali, contesa che ben presto si allargò fino a diventare guerra civile. Con ciò non andò infranta soltanto l'unità religiosa: in un sistema in cui la rivelazione divina determinava non solo la salvezza personale degli uomini, ma anche l'intero ordinamento civile, venne meno anche la pace sociale, e ad essa subentrò un senso diffuso di minaccia esistenziale.
In questa situazione, il ristabilimento della pace sociale era possibile solo in due casi: che uno dei partiti che si scontravano nella guerra civile riuscisse ad assoggettare completamente l'altro, o che al di sopra di entrambi s'innalzasse un organo neutrale, dotato di pieni poteri e capace d'imporre ai contendenti un nuovo ordinamento secolare. Quest'ultima soluzione poteva essere attuata solo dai principi, che si trovavano al vertice della piramide feudale e che tra i numerosi detentori di singole potestà nobiliari disponevano già di una parte preminente dei diritti di sovranità. A poco a poco questi principi arrivarono a concentrare nelle loro mani una pluralità di diritti territoriali prima dispersi, che finirono col cementarsi in un potere pubblico globale. Sebbene questo processo si sia concluso solo parecchio più tardi, fin dai primi tempi esso diede origine a un sistema politico specializzato, incarnato nel principe; tale sistema, che presto si provvide di proprie sottostrutture amministrative, militari e finanziarie, costituì, in contrapposto alle forme di dominio medievali, quello che si chiamò Stato.
Il sistema politico poteva assolvere i suoi compiti - dapprima porre fine alle guerre di religione e, a lungo termine, adeguare l'ordine sociale ai rapidi mutamenti in corso - solo a condizione di emanciparsi dal vincolo di dipendenza dall'ordinamento preesistente, così che i suoi poteri, invece di rimanere limitati all'imposizione del diritto al corpo sociale, si ampliassero fino a includere anche la potestà di produrlo. Lo Stato monarchico in via di formazione rivendicò quindi a sé un'ampia facoltà di decisione nei confronti del corpo sociale, che ben presto fu designata correntemente col termine di 'sovranità'. Questo termine, che non aveva avuto equivalenti nel Medioevo, indicò inizialmente non tanto l'indipendenza dello Stato verso l'esterno, quanto un potere assoluto e incontrastato all'interno. L'attribuzione di un simile potere al monarca ebbe come conseguenza la completa sottomissione e privatizzazione della società: appellandosi alla propria sovranità, il principe poteva imporre al corpo sociale il diritto, senza dover sottostare da parte sua a vincoli giuridici di nessun tipo.
Tuttavia i principi non utilizzarono subito questo diritto per attuare un riassetto generalizzato e programmato dell'ordinamento sociale. Anche se presto ebbe inizio un'intensa attività legislativa, essa si limitò in genere ad affrontare problemi specifici, nati da occasioni concrete, o a consolidare il diritto esistente. I settori più importanti dell'ordinamento giuridico conservarono invece la loro forma tradizionale, o furono modificati mediante la ricezione - sollecitata non dai legislatori, ma dalla dottrina - del diritto romano, che rispetto alle consuetudini giuridiche locali era dotato di maggiori capacità di adattamento. Anche quando nel Settecento alcuni Stati intrapresero una codificazione generale del diritto, si trattò per lo più di una revisione e sistematizzazione delle norme consuetudinarie. Ciò non toglie che con l'affermarsi dello Stato e del diritto positivo il rapporto fra diritto e politica risultasse sostanzialmente cambiato. Il diritto era diventato oggetto di produzione da parte dell'uomo e poteva essere utilizzato come strumento per conseguire fini politici: veniva così a invertirsi la precedente gerarchia ed era la politica a essere sovraordinata al diritto e a conferirgli contenuto e validità.
A questo punto si poneva naturalmente il problema della giustizia: un diritto prodotto dalla politica, non più vincolato a principî prestabiliti e divenuto contingente nei suoi contenuti, non presentava più nessuna garanzia intrinseca di conformità alla giustizia. Alla positivizzazione del diritto fece quindi seguito il tentativo di riferire di nuovo la produzione del diritto a principî d'ordine superiore; e poiché la rivelazione divina era ormai fuori causa, il punto di riferimento fu cercato nella natura umana. Si trattava di scoprire in che modo degli esseri razionali si sarebbero accordati per organizzare la loro convivenza in un'ipotetica condizione di assenza di autorità: al diritto naturale così identificato avrebbe dovuto essere vincolata la politica nella sua attività di produzione giuridica. Tuttavia, nonostante ci si richiamasse a un 'diritto naturale', il vincolo in questione non aveva carattere giuridico. Dopo la positivizzazione del diritto la validità dei principî di giustizia continuava piuttosto a trascendere il diritto positivo. Dal punto di vista legale il potere di stabilire che cosa fosse giusto spettava anch'esso al monarca. Il diritto prodotto dalla politica rimase orientato verso l'ideale della giustizia; ma quest'ideale non acquistava un carattere giuridicamente vincolante e poteva manifestarsi, come consenso o come critica, solo su un piano teorico.
Il potere decisionale esercitato dalla politica sul diritto incontrò nuovamente dei limiti solo quando la pretesa di controllo globale da parte delle monarchie assolute dovette cedere il passo alle nuove concezioni borghesi dell'ordine sociale. La borghesia partiva dal presupposto che una società affrancata da vincoli esterni sarebbe stata capace di autoregolarsi: il diritto aveva perciò l'unica funzione di garantire a tutti la libertà individuale, mentre doveva essere evitato ogni vincolo giuridico che si opponesse all'autonomia della società. Tuttavia ciò non si poteva ottenere col ritorno a un diritto prestabilito e immutabile; al contrario, l'ordine sociale borghese si fondava piuttosto su un'azione politica di riforma giuridica di grande portata, anche se venne presentata come una semplice positivizzazione del diritto naturale. Ma anche dopo questa radicale riforma l'incessante mutamento della società e la sua crescente diversificazione funzionale escludevano la possibilità di un ordinamento giuridico statico: la positivizzazione del diritto ebbe anzi il suo culmine proprio nell'età borghese, grazie alla creazione di appositi organismi legislativi, la cui attività acquistò ben presto carattere permanente.
Anche in questo caso la desiderata limitazione al potere decisionale esercitato dalla politica nei riguardi del diritto poteva ottenersi solo per mezzo di norme giuridiche che fossero sovraordinate alle norme ordinarie, senza tuttavia avere un grado di efficacia diverso o superiore a quello del diritto positivo. La soluzione del problema venne offerta dalle costituzioni. A differenza del diritto naturale, una costituzione faceva parte del diritto positivo; ma con la sua adozione il diritto positivo diventa riflessivo, in quanto venivano a distinguersi in quest'ultimo due complessi di norme, uno dei quali regolava la formazione e le condizioni di validità dell'altro. In tal modo la produzione di norme era a sua volta regolata da norme; il potere politico conservava la facoltà di imporre il diritto alla società, ma nel far questo non disponeva più della libertà del monarca assoluto, ed era esso stesso assoggettato a vincoli giuridici. Per un verso si trattava di regole procedurali da osservare affinché una decisione politica valesse come norma vincolante per le collettività; per un altro verso, invece, sotto forma di diritti fondamentali venivano avanzate al diritto legislativo richieste di carattere sostanziale, che questo doveva rispettare, pena la sua nullità.
La soluzione rappresentata dalle costituzioni rimaneva dunque nell'ambito del diritto positivo: non era infatti possibile per mezzo di una costituzione tornare a vincolare la politica a principî immutabili. In quanto fa parte del diritto positivo, anche una costituzione poggia su decisioni politiche e può quindi essere modificata; tuttavia essa introduce una differenza fra le decisioni politiche e i criteri fondamentali che presiedono alla loro formazione, nel senso che per modificare questi criteri si richiedono in genere un consenso più largo e una procedura più complessa. In tal modo per le norme di maggior rilievo vengono previsti tempi più lunghi, ed è possibile contemperare le esigenze del mutamento con quelle della stabilità. Al tempo stesso, la separazione tra norme costituzionali e norme ordinarie sgrava la politica dalla necessità di continue ricerche e discussioni di principio, che potrebbero ridurre notevolmente le sue capacità di decisione. La suddetta separazione ha infine l'effetto di facilitare a coloro che sono risultati soccombenti nel processo di produzione delle leggi l'accoglimento delle decisioni adottate nonostante la loro opposizione.
Una carta costituzionale, tuttavia, non può mai attuare una completa giuridificazione della politica. Per assolvere la sua funzione di adeguare l'ordinamento sociale alle mutevoli esigenze, la politica ha bisogno di un margine di manovra che la costituzione può delimitare in vario modo, ma non abolire del tutto. La politica trascende necessariamente il diritto positivo, in quanto è essa stessa a produrlo; una costituzione non può quindi eliminare la politica, ma può solo inquadrarne l'attività. Una politica totalmente sottomessa al diritto verrebbe sostanzialmente privata del suo carattere specifico e si ridurrebbe infine ad una funzione meramente amministrativa. In effetti il potere di controllo che una costituzione può esercitare nei riguardi della politica ha un raggio d'azione piuttosto limitato. Una costituzione può infatti stabilire le condizioni delle decisioni politiche, ma non può regolare in anticipo l'input del processo decisionale: alle spalle della formazione della volontà regolata dalla costituzione vi sono opinioni, interessi, problemi e iniziative che il diritto costituzionale canalizza solo a partire da una certa fase, pur potendo esercitare un influsso indiretto anche nelle fasi precedenti.
Oltre a essere di portata limitata, il vincolo giuridico posto alla politica ha sempre un carattere precario, in quanto le norme costituzionali fanno anch'esse riferimento alla suprema istanza impositiva del diritto: il destinatario delle norme coincide in questo caso con il suo garante. Il diritto costituzionale non può contare su un proprio organo impositivo che gli consenta di affermarsi contro eventuali resistenze politiche; l'esistenza di una Corte costituzionale può attenuare questa difficoltà, ma non eliminarla del tutto. La Corte si limita infatti a sottoporre le decisioni politiche al vaglio della costituzione; non avendo la possibilità di imporsi a un potere politico che rifiuti di adeguarsi a questo controllo di costituzionalità, essa deve rimettersi alla disponibilità della classe politica. D'altra parte, non si può escludere che una Corte costituzionale oltrepassi i limiti giuridici ad essa attribuiti ed eserciti in proprio, col pretesto di applicare la Costituzione, un'attività politica effettiva. In tal senso, nel rapporto tra diritto e politica rimane per principio una tensione non eliminabile.
Con la positivizzazione del diritto non è più attuabile una separazione tra diritto e politica per ciò che concerne la produzione delle norme giuridiche; né le cose cambiano per effetto dei vincoli che le norme costituzionali pongono a tale produzione giuridica, giacché le norme costituzionali hanno origine nello stesso sistema legislativo e si limitano a formulare i presupposti di legittimità a cui la decisione politica dovrà attenersi nel determinare i contenuti del diritto. La suddetta separazione è invece senz'altro possibile sul piano dell'applicazione del diritto. Il potere politico programma infatti tale applicazione emanando norme di carattere generale, ma l'interpretazione e l'attuazione delle norme nei casi concreti sono sottratte alla sua influenza: esso non può assumersi in proprio questi compiti, né può impartire disposizioni agli organi che vi sono preposti. Le opinioni politiche non recepite nel programma normativo rimangono irrilevanti ai fini dell'interpretazione e dell'attuazione del diritto: una volta che una legge sia stata decisa a livello politico e sia entrata in vigore, diventa indipendente dalla sua origine politica e acquista un'esistenza autonoma. Il potere politico continua a esercitare sulla legge la sua facoltà decisionale, nel senso che può abrogarla o modificarla, ma finché la lascia in vigore non ha modo di controllarne l'applicazione.
La separazione tra politica e diritto, sul piano della applicazione del diritto, non discende peraltro da una necessità di fatto, come accade per la loro connessione sul piano della produzione delle norme; si tratta invece di un principio che si è affermato in tempi piuttosto recenti e che non è ancora universalmente riconosciuto e osservato. Nelle monarchie assolute esso fu escluso in modo esplicito: la produzione delle leggi, la loro attuazione e l'amministrazione della giustizia erano concentrate in un unico potere. Il sovrano era legittimato a dare un'interpretazione autentica delle leggi da lui emanate, con effetti vincolanti sulla loro applicazione, e soprattutto poteva avocare a sé qualsiasi atto giurisdizionale e adottare egli stesso, nelle singole fattispecie, decisioni fondate su una propria interpretazione delle norme. Ancora oggi il principio della separazione non è accolto negli Stati in cui il potere politico trova la sua legittimazione non nella libertà, ma in una verità stabilita politicamente, la cui pretesa di validità incondizionata è incompatibile con l'esistenza di ogni sottosistema autonomo. In questi Stati, perciò, la strumentalizzazione politica del diritto si estende anche alla sua applicazione.
In queste condizioni, la capacità del diritto di creare fiducia e sicurezza nei comportamenti sociali viene fortemente ridotta. Non potendo prevedere se lo Stato osserverà e farà osservare il diritto vigente, l'individuo non è più in grado di programmare con sufficiente sicurezza le proprie scelte, e sente come arbitrario un potere statale che non applica le norme giuridiche in modo uniforme e imparziale: per lui lo Stato diviene una minaccia permanente contro l'autonomia della sua condotta di vita e contro la libera comunicazione. L'esigenza che lo Stato sia vincolato al diritto da esso stesso stabilito e che tale vincolo sia garantito, sul piano organizzativo, soprattutto dall'indipendenza della magistratura era stata avvertita già prima dell'avvento delle costituzioni ed era stata recepita, sotto l'influsso dell'Illuminismo, da alcuni sovrani assoluti. La legalità dell'amministrazione e l'autonomia della magistratura formano tuttora l'essenza del principio dello Stato di diritto. Tenuto conto del fatto che il potere politico tende a rimuovere tutti gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento dei propri scopi, questi due principî sono costantemente in pericolo, e proprio per questo la loro tutela è affidata alla costituzione.
La separazione tra diritto e politica si esprime soprattutto nel principio costituzionale dell'indipendenza dei giudici. In verità il diritto non trova applicazione soltanto nei tribunali, ma dovunque un comportamento sia orientato da esigenze giuridiche o sia valutato nelle sue conseguenze giuridiche; l'applicazione del diritto ha però il suo culmine nell'attività giurisdizionale, perché in caso di controversia sono i tribunali a stabilire in ultima istanza quali siano, in una data fattispecie, il significato e la portata di una norma avente carattere generale. Per questo motivo l'amministrazione della giustizia è particolarmente esposta alle pressioni politiche. D'altra parte le disposizioni costituzionali non si esauriscono nel garantire l'indipendenza della funzione giudiziaria: alla separazione tra diritto e politica concorre anche il divieto di emanare leggi per casi singoli o con efficacia retroattiva. Perché sia possibile comportarsi secondo diritto e prevedere le reazioni dello Stato è necessario che la norma secondo cui viene giudicata un'azione sia già in vigore al tempo in cui l'azione stessa viene compiuta; per la stessa ragione la norma deve indicare chiaramente a quale comportamento ci si debba attenere. In questo senso il principio della certezza del diritto contribuisce alla separazione tra diritto e politica.
L'estensione temporale e la specializzazione funzionale dei vari livelli di giurisdizione hanno un effetto stabilizzante e sono garanzia di libertà. Il fatto che il legislatore debba limitarsi a emanare norme di carattere generale, valevoli per un numero indefinito di casi futuri, impedisce che nello stabilire le norme egli miri a ottenere in un caso specifico un dato risultato; inversamente, è vietata istituzionalmente ai giudici la produzione di norme in quanto essi decidono conoscendo già le fattispecie. In generale vige il criterio che una norma giuridica non può essere messa in questione in un procedimento da essa stessa strutturato: non è possibile discutere la costituzione nel corso di una procedura legislativa ordinaria, né le leggi nel corso di un procedimento giudiziario. In tal modo le decisioni programmatiche e quelle programmate vengono rese indipendenti le une dalle altre e si restringe il campo in cui i titolari di uffici politici possono perseguire i propri interessi particolari o esercitare arbitri. L'astensione da questi comportamenti non viene richiesta ai singoli in nome di una moralità individuale, ma è garantita dalla struttura stessa del sistema e può quindi essere assicurata con un maggior grado di probabilità.
La separazione tra diritto e politica sul piano dell'applicazione al diritto ha dunque un carattere istituzionale: essa fa sì che nello svolgimento della loro attività gli organi giurisdizionali non siano soggetti a influenze di natura politica, esercitate specialmente dagli organi dello Stato aventi poteri decisionali e dai partiti che in essi operano. L'unico modo legittimo di orientare nel merito l'attività giurisdizionale consiste nell'emanare norme generali che i giudici sono tenuti ad applicare e da cui non possono prescindere. Se quest'applicazione ha esiti politicamente indesiderati, è possibile evitarli per il futuro modificando le norme, ma non è lecito intervenire sui procedimenti pendenti; viene così escluso che l'applicazione del diritto possa subire influenze politiche esterne. La separazione tra diritto e politica sul piano dell'applicazione del diritto non comporta però che la procedura giudiziaria sia politicamente neutrale anche a livello interno, che cioè non lasci alcun margine per decisioni giudiziarie innovative e non possa avere effetti politici propri, al di là di quelli derivanti dalle leggi.
Una neutralità politica interna alla giurisdizione presupporrebbe infatti che le norme stabilite dal legislatore consentissero di decidere in modo esauriente su tutti i possibili casi particolari, che dovrebbero perciò essere previsti e regolati dalla legge. Un ordinamento giuridico che si proponesse quest'obiettivo dovrebbe essere esente da lacune e contraddizioni, linguisticamente univoco e indipendente dal mutamento sociale; ma già questa elencazione di requisiti mostra che non c'è da fare affidamento su una simile eventualità. Le norme generali possono determinare la soluzione dei casi particolari solo entro certi limiti, la cui ampiezza dipende da vari fattori, soprattutto dalla completezza della normativa, dall'età delle norme e dalla dinamica dei fenomeni che esse regolano. Non vi è comunque nessuna norma giuridica la cui applicazione non sollevi dei dubbi, che i giudici devono risolvere interpretando la norma stessa e riferendola al caso concreto; e su questa loro attività è inevitabile che incidano la forma mentis, l'origine e la formazione, le preferenze politiche e ideologiche di ciascuno di essi.
In ogni atto giurisdizionale si fondono quindi indissolubilmente fattori volitivi e cognitivi. Si possono limitare attraverso il ricorso alla giurisprudenza le influenze soggettive, ma non esiste un metodo d'interpretazione vincolante, né il legislatore può imporne uno a chi deve applicare il diritto: di solito sono compresenti varie concezioni metodologiche, e la scelta fra di esse richiede ancora una volta un atto di decisione. Per di più, il metodo non è un mezzo tecnico e neutro per accertare un significato che sia stabilmente inerente alla norma; al contrario, nella scelta del metodo sono implicite delle decisioni pregiudiziali sull'interpretazione dei contenuti. È quindi inevitabile che l'applicazione del diritto assuma un certo valore politico e che il potere giudiziario costituisca anch'esso, nella stessa misura, un potere politico. Vi sono però delle differenze, in quanto chi applica il diritto prende le sue decisioni in un ambito delimitato dalla legge; non persegue scopi politici propri, e offre così maggiori garanzie d'imparzialità; e infine, essendo indipendente dal consenso politico, non è obbligato a considerazioni e a riguardi estranei alle norme da applicare.
Un caso sui generis è quello della giurisdizione costituzionale. Anch'essa fa parte istituzionalmente del potere giudiziario, e come questo è al riparo da influenze di natura politica; tuttavia, per la materia che tratta e per i criteri in base ai quali decide, è molto più vicina alla politica di quanto non lo sia la rimanente giurisdizione. Le norme costituzionali sono assai meno dettagliate di quelle ordinarie, sia perché richiedono un consenso più ampio, sia perché è più difficile modificarle. Essendo alla base dell'intero ordinamento giuridico, hanno un carattere più marcatamente di principio e sono meno definite: presentano quindi margini d'interpretazione più ampi e sono connotate da un minor grado di rigidità nel momento dell'applicazione della norma al caso concreto. La differenza sostanziale consiste però nel fatto che la materia regolata dalla costituzione e soggetta al controllo dell'apposita Corte è la stessa attività politica, ivi compresa la produzione del diritto. Pertanto la giurisdizione costituzionale, a differenza di quella ordinaria, non può essere modificata da leggi ordinarie, ma solo da revisioni della costituzione: queste ultime sono attuate peraltro molto di rado per risolvere questioni politiche particolarmente controverse.
La giurisdizione costituzionale opera dunque lungo la linea di confine tra politica e diritto, tra produzione e applicazione delle leggi, col rischio non trascurabile di prendere, sotto veste giuridica, decisioni di natura politica. D'altra parte, si può affermare che con l'avvento di questo tipo particolare di giurisdizione si è ovviato alla carenza di capacità impositiva che ha caratterizzato quasi dappertutto il diritto costituzionale finché esso non ha potuto contare su alcuna sanzione organizzata. In questo campo il fattore preventivo sembra avere un ruolo più importante di quello repressivo: la semplice esistenza del potere di controllo di una Corte fa sì che nelle procedure di decisione politica la questione di legittimità costituzionale sia posta in anticipo e con maggiore imparzialità che nei sistemi privi di essa. Nei sistemi in cui gli eventuali conflitti vengono risolti da una Corte neutrale la costituzione può assolvere la sua funzione di base consensuale comune alle avverse parti politiche meglio che nei sistemi in cui, in occasione di conflitti costituzionali, prevale sempre l'opinione della maggioranza. Spesso è proprio la giurisdizione costituzionale a rendere efficace il vincolo giuridico che la costituzione si propone d'imporre alla politica.
La separazione tra diritto e politica dipende da due condizioni: che gli organi legislativi non possano intervenire nell'applicazione del diritto, e che gli organi giurisdizionali non possano stabilire essi stessi le norme che regolano le proprie decisioni. In uno Stato costituzionale ciò è garantito istituzionalmente dalla divisione dei poteri: la facoltà di legiferare è riservata al parlamento e solo in misura limitata può essere da questo delegata al governo, mentre la giurisdizione non ha alcuna competenza legislativa e può solo prendere decisioni in base a criteri prestabiliti. L'osservanza di questa delimitazione di funzioni presuppone però che il potere politico fornisca effettivamente agli organi demandati all'applicazione del diritto delle norme programmatiche in base alle quali sia possibile decidere i casi concreti di conflitto. Perché vi sia una separazione tra diritto e politica sul piano dell'applicazione del diritto è quindi necessario che vi siano dei principî giuridici capaci di dare un orientamento. L'eventuale mancanza di tali principî non determina un vuoto giuridico: accade piuttosto che gli organi giurisdizionali, mossi dall'impellente necessità di decidere, siano costretti a stabilire da sé, in base al patrimonio giuridico esistente, i propri criteri decisionali.
Non si può certo affermare che vi sia scarsità di leggi; al contrario, la mole del diritto vigente è in continua crescita, superando di gran lunga gli effetti della pur esistente deregulation. Il fenomeno si spiega da un lato col parziale fallimento dell'autoregolazione sociale mediante il mercato, che ha dovuto essere integrata da apposite normative statali, e dall'altro coi rischi connessi alle sempre più vaste possibilità di dominio della natura, rischi che implicano un eccezionale fabbisogno di norme giuridiche. L'effetto congiunto di questi due fattori accresce la dipendenza degli individui dallo Stato o dalla società, nel senso che anche la soddisfazione delle loro esigenze primarie di vita deve diventare oggetto di garanzia giuridica. Infine, con l'accelerazione del mutamento sociale aumenta la rapidità con cui il diritto vigente invecchia e dev'essere sostituito. L'elevata produzione di norme giuridiche dipende dunque in massima parte da motivi strutturali: in una società che vede aumentare continuamente sia le sue possibilità d'azione che la propria vulnerabilità, non ci si può aspettare che risultino sufficienti poche e semplici norme giuridiche.
Il fatto che vi sia un gran numero di leggi non implica tuttavia che esse abbiano sempre una reale efficacia. Appare anzi sempre più chiaro che proprio nei settori di attività più avanzati (programmazione dello sviluppo, controllo dell'economia, prevenzione dei rischi) è molto difficile stabilire una normativa giuridica vincolante. Mentre le attività tradizionali dello Stato miravano a proteggere da eventuali turbative l'ordine sociale costituito, i compiti del moderno 'Stato del benessere' (Welfare State) consistono soprattutto nel modificare i rapporti sociali in vista di determinati scopi fissati dalla politica. Gli interventi del primo tipo incidono a posteriori su singole situazioni; quelli del secondo tipo sono orientati invece verso il futuro e coprono in modo generalizzato i rispettivi settori. Nel primo caso gli interventi dello Stato riguardano materie già note, da esso controllate e quindi regolabili con relativa precisione mediante norme giuridiche. Nel secondo caso, invece, le attività statali procedono nell'incertezza e dipendono da un gran numero di fattori e di risorse, che lo Stato è in grado di controllare solo in parte: esse risultano talmente complesse che non è più possibile prevederle in ogni loro aspetto e regolarle con norme in modo esauriente.In questi settori dell'attività statale il modello tradizionale di regolamentazione giuridica viene quindi soppiantato sempre più spesso da un altro modello. Mentre le norme classiche regolavano l'applicazione del diritto in conformità di uno schema programmatico 'condizionale', che dal verificarsi di determinate fattispecie faceva discendere conseguenze giuridiche esattamente definite, le norme del nuovo tipo devono limitarsi a prescrivere alle istanze applicative del diritto gli scopi della loro attività, in conformità di uno schema programmatico 'finalistico', e a indicare i vari aspetti da tener presenti nel perseguire tali scopi. Le norme di questo secondo tipo hanno una capacità assai minore di regolare l'applicazione del diritto rispetto a quelle appartenenti allo schema programmatico tradizionale; a ben vedere, si tratta spesso di una capacità di orientamento giuridico solo apparente, in quanto i destinatari delle norme vengono esortati a seguire un comportamento orientato verso certi scopi, ma sono lasciati liberi di decidere le modalità esecutive del loro comportamento. Il criterio d'azione non si trova già indicato nella norma, ma viene stabilito dal destinatario di questa durante la sua applicazione, in un continuo adeguamento al mutare delle situazioni.
Ciò nuoce alla separazione tra diritto e politica, giacché le norme aventi a oggetto l'applicazione del diritto vengono così necessariamente prodotte dai loro stessi destinatari: il compito politico di adottare decisioni programmatiche viene trasferito agli organi destinati ad attuare i programmi adottati e che sono legittimati e organizzati per questo compito. Il problema non riguarda solo il vincolo giuridico posto alla pubblica amministrazione: in mancanza di criteri giuridici che determinino con sufficiente precisione il comportamento dei destinatari della norma, per i giudici non sarà più possibile applicare dei criteri prestabiliti, ma faranno valere le proprie concezioni di ciò che è giusto, e tenderanno perciò a diventare sempre più un potere politico che si assume compiti di produzione del diritto. Le decisioni politiche vengono allora trasferite a organi non soggetti a responsabilità di ordine politico, mentre alla responsabilità dei politici non corrisponde più un potere decisionale. In questo senso, sul piano dell'applicazione del diritto rischia di affermarsi un nuovo tipo di commistione tra i due ambiti funzionali del diritto e della politica; né è dato finora di scorgere modi convincenti per risolvere tale problema. (V. anche Diritto; Legalità, principio di; Politica).
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