dovere
La nozione di dovere è stata elaborata originariamente dagli stoici, che intesero con essa ogni comportamento, dell’uomo come di altri esseri viventi, assunto in conformità al dettato della ragione, principio divino dell’ordine cosmico. Secondo gli stoici sono doverose le azioni che la ragione consiglia di compiere, come onorare i genitori, i fratelli, la patria, e andare d’accordo con gli amici. Cicerone, nel De officiis, ha trasmesso le dottrine stoiche al mondo romano e ha dato una trattazione completa dei doveri dell’uomo, che fa coincidere con l’adempimento delle quattro virtù fondamentali: sapienza (conoscenza del vero), giustizia (attribuire a ciascuno il suo), forza d’animo e temperanza (moderazione). Nella cultura filosofica moderna il concetto di d. riveste un ruolo dominante nell’etica kantiana. Qui il d. diventa specificamente non solo azione conforme alla legge di ragione, ma atto intrapreso unicamente in vista e nel rispetto di tale legge. In tal modo si pone una netta distinzione tra azione legale, o azione estrinsecamente conforme alla legge, e azione morale o d., cioè azione compiuta per rispetto della legge, e cioè prescindendo dalle inclinazioni naturali e spesso in lotta con esse. La capacità di agire per il d. diviene così anche la testimonianza e l’espressione della libertà umana come «autonomia» o obbedienza alla interna legge della ragione. Kant definisce, infatti, il d. morale come autonomo (in quanto non proviene da fonti esterne) e categorico (valido in sé stesso e non per il raggiungimento di altri fini): ogni motivazione o finalità utilitaristica corrompe l’atto morale nella sua purezza. Egli interpreta il d. come libertà di un essere razionale che interroga sé stesso e obbliga sé stesso, legando in questo modo strettamente il d. all’essenza stessa della moralità. Su questa base è possibile stabilire una netta differenziazione tra i d. morali e tutti gli altri doveri. I d. giuridici sono determinati dalle regole del diritto (le leggi dello Stato), investono l’ambito esterno del comportamento interpersonale (cioè l’ambito delle azioni tra me e gli altri uomini) e possono essere muniti di sanzioni e pene per i trasgressori. I d. morali investono invece l’ambito dell’interiorità e non possono essere imposti con la forza. Essi obbligano in virtù di finalità interne che nessuna legislazione di nessuno Stato può imporre e non possono essere giudicati da nessun tribunale. Alla fine dell’Ottocento il concetto di d. è stato sottoposto a una dura critica. Innanzitutto, nell’ambito di una morale utilitaristica, a partire da Bentham, si è sostituito il concetto di d. con quello di interesse, e di conseguenza i d. verso sé stessi o verso gli altri sono diventati atti compiuti in nome di un interesse individuale o sociale. Ma l’attacco principale è venuto da Nietzsche, nelle cui pagine la critica dell’idea di d. coincide con l’esaltazione del superuomo, il quale impone la propria morale di eroe e non accetta un ordine etico precostituito e universale. Alla morale del d., Nietzsche sostituisce la morale del volere (Così parlò Zarathustra, 1892): il superuomo nega i valori tradizionali e universali e afferma la propria libertà e la volontà di potenza, ristabilendo così un nuovo stato di innocenza che dà inizio a una nuova era.