Economia e politica del lavoro
L'economia del lavoro è uno dei campi specialistici in cui si divide l'economia politica. Due filoni di pensiero si contendono, da sempre, il predominio in questo campo: quello di origine neoclassica, che oggi è decisamente dominante, e quello di origine istituzionale, che era dominante alcuni decenni or sono e che ancora oggi comunque riscuote, da parte degli specialisti, notevoli simpatie. La controversia tra le due scuole e la differenza fra i due approcci non sta tanto o solo nei contenuti e nell'oggetto di studio, quanto nella metodologia utilizzata. Ricordare come questa diversità di approccio è nata e si è evoluta nel tempo è fondamentale per capire come vengono affrontati oggi i problemi del lavoro e quali sono le politiche del lavoro che vengono suggerite da economisti che appartengono a diverse scuole di pensiero.
Gli economisti classici studiavano soprattutto la crescita del reddito nazionale e la sua distribuzione fra le diverse classi sociali: i proprietari di terra, i capitalisti e i lavoratori. L'approccio ai problemi economici era di tipo aggregato. Vi fu un intenso dibattito sulle determinanti del livello generale dei salari e sulla loro tendenza a fissarsi a livello di sussistenza, ma poca attenzione veniva rivolta ad aspetti microeconomici e strutturali quali il processo di determinazione dei salari a livello aziendale e le ragioni delle differenze salariali fra i lavoratori.
Adam Smith rappresentò un'eccezione rispetto a questo approccio. Egli fu certamente, come è ben noto, un economista classico e come tale utilizzò essenzialmente un approccio di tipo aggregato ai problemi del lavoro, ma dedicò anche parte del suo interesse scientifico a problemi di tipo strutturale e microeconomico. Uno dei suoi contributi, molto citato e ripreso anche oggi nella letteratura sull'economia del lavoro, riguarda i differenziali salariali. Innanzitutto egli anticipò la critica - poi sviluppata dagli economisti del lavoro - al concetto, tipico della scuola classica, di un unico tasso di salario. Egli osservava che il prezzo del lavoro non può essere accertato in modo sicuro, dal momento che prezzi diversi sono spesso pagati nello stesso posto e per lo stesso tipo di lavoro. Ciò non dipende solo dalla diversa abilità e dalle diverse capacità dei lavoratori, ma anche dalle disponibilità dei datori di lavoro. Così quando si parla di tasso di salario o di salari in genere - egli sosteneva - di fatto si sta semplificando ciò che nella realtà è una complessa e diversificata struttura dei salari. Smith non era nemmeno convinto che vi fosse una tendenza all'uguaglianza dei diversi salari. La tendenza all'uguaglianza riguardava - a suo parere - non i salari, bensì i "vantaggi netti" legati al posto di lavoro. Il complesso dei vantaggi e degli svantaggi legati a ogni particolare tipo di occupazione - egli sosteneva - o è perfettamente uguale o tende continuamente all'eguaglianza. Se esistessero occupazioni molto più vantaggiose di altre, vi sarebbero molti lavoratori che verrebbero attirati dalle prime, mentre le seconde andrebbero deserte. Di conseguenza vi sarebbe una tendenza a ridurre la differenza tra vantaggi e svantaggi di entrambe (v. Smith, 1937, p. 9).Il concetto di "vantaggio netto" (insieme a quello corrispondente di "differenze salariali compensatrici") è rimasto un concetto fondamentale della moderna economia del lavoro.
La trattazione che Smith ha offerto dei differenziali salariali rappresenta una delle migliori analisi che mai siano state condotte sull'argomento. Egli osservava che queste differenze pecuniarie nascono proprio da vantaggi e svantaggi dei posti di lavoro. Essi riguardano innanzitutto la piacevolezza o meno del lavoro svolto; poi la relativa facilità e il costo richiesto per impararlo; inoltre la stabilità o meno del posto; ancora la fiducia che si deve avere in coloro che sono chiamati a svolgerlo e, infine, la probabilità di avere più o meno successo in quel particolare tipo di occupazione. Queste cinque caratteristiche - Smith sottolineava - possono causare differenze tra i salari delle diverse occupazioni, differenze che "compensano" appunto vantaggi e svantaggi di altra natura. L'esistenza quindi di differenze salariali di tipo "compensativo" fa sì che i vantaggi netti dei vari posti di lavoro si uguaglino (ibid., pp. 99, 100, 114, 116). Smith non mancava di evidenziare le condizioni affinché ciò si verificasse: prima fra tutte la libertà di movimento dei lavoratori fra i vari tipi di posti di lavoro. In difetto di questa, si verificherebbero disuguaglianze nei vantaggi netti. Come si sa, Smith criticava le misure dirette a ridurre la libertà d'iniziativa e nel caso specifico criticava le misure dirette a limitare l'accesso ad alcune professioni a un numero ristretto di lavoratori oppure a limitare la mobilità geografica dei lavoratori.
Per quanto riguarda il problema della determinazione del livello generale dei salari e del suo andamento nel tempo, il contributo di Smith fu altrettanto importante. Il miglioramento delle capacità produttive del lavoro e delle condizioni di vita, dipendeva, secondo Smith, dalla specializzazione e dalla divisione del lavoro. Il suo contributo fondamentale fu di non considerare la divisione del lavoro come un fenomeno connesso con e reso possibile dalle diverse qualità e capacità dei lavoratori, i quali, sulla base di queste diversità si distribuivano i compiti. Secondo Smith la divisione del lavoro accresce la destrezza dei lavoratori, fa risparmiare tempo nei processi produttivi e favorisce l'invenzione di nuove macchine: tutto ciò dà luogo a rendimenti crescenti. I costi decrescenti, cioè la produttività crescente, dipendevano solo dal fatto che ciascun lavoratore si concentrava in una piccola operazione del processo produttivo. La divisione del lavoro e i rendimenti crescenti che essa comportava dipendevano solo dall'organizzazione e dalle macchine esistenti e non dalla diversa abilità dei singoli lavoratori.
Lo sviluppo di questa idea della possibilità di far crescere la produttività del lavoro influenzò la stessa teoria di Smith sulla determinazione del salario e sul suo andamento nel tempo. Egli rifiutò l'idea degli studiosi che lo avevano preceduto secondo cui il salario tende a fissarsi al livello di sussistenza. L'enfasi con cui egli descriveva le caratteristiche dinamiche del sistema economico e la sua possibilità di crescita, e quindi di miglioramento delle condizioni di vita, lo conduceva a dissentire da quella visione pessimista: se mai, il suo pessimismo riguardava le conseguenze della crescente monotonia del lavoro provocata dalla progressiva suddivisione delle mansioni (ibid., libro V, cap. I, parte III, art. II). L'opera di Smith, come quella di tutti i grandi pensatori, è ricordata per una molteplicità di contributi di contenuto e anche di indirizzo ideologico diversi e suscettibili di sviluppi differenti. Se il suo contributo sui differenziali salariali è rimasto fondamentale per lo sviluppo successivo della teoria del lavoro basata sull'azione delle forze competitive del mercato, quello sulle regole generali che guidano, nel tempo, la dinamica del livello generale dei salari e della produttività si è fatto apprezzare per una ricchezza di contenuti che derivava non solo dalle qualità dello studioso di problemi economici, ma anche e soprattutto da quelle dello storico e del filosofo sociale.
Anche John Stuart Mill dedicò particolare attenzione al problema dei differenziali salariali; egli non solo sviluppò le idee originali di Smith, ma seppe dare ulteriori contributi. In particolare Mill accentuò, ancor più di Smith, l'importanza dei fattori sociali. Secondo Mill la gerarchia, in ordine di importanza, dei vari tipi di lavoro, dipende dal ceto sociale dei lavoratori e dalla 'casta' cui essi appartengono. I salari di cui ciascuna casta gode dipendono a loro volta dal ritmo di crescita non tanto della popolazione nel suo complesso (come certi economisti classici ritenevano), quanto della popolazione della specifica casta di appartenenza. Questo concetto anticipa quello poi elaborato da John E. Cairnes sui "gruppi non competitivi". Mill sosteneva inoltre che le retribuzioni di quei mestieri e di quelle professioni che richiedevano anni d'istruzione e di addestramento, avevano la caratteristica di "salari di monopolio", data l'impossibilità, per la gran massa dei lavoratori, di conseguire il livello d'istruzione necessario a svolgerli. Egli notava ancora come le retribuzioni delle donne fossero ben inferiori a quelle degli uomini, a parità di lavoro svolto. Una possibile ragione era da ricercarsi - secondo Mill - nel fatto che la donna non rappresentava il lavoratore principale all'interno della famiglia. Una ragione ancora più importante, argomentava poi, era il numero limitato delle occupazioni aperte alle donne: questo fatto causava una concentrazione delle donne nelle poche occupazioni loro aperte, con conseguente riduzione dei salari ivi pagati. È qui che ha origine l'ipotesi dell''affollamento' delle donne in particolari mestieri, che tanta attenzione riceve nel dibattito attuale sul problema della discriminazione.
Mill manifestava quindi una fiducia ben minore di quella manifestata da Smith nella capacità delle forze di mercato di uguagliare i salari o i vantaggi netti; riteneva che vi fossero importanti fattori socioistituzionali che impedivano il pieno dispiegarsi della concorrenza nell'attribuzione dei diversi posti di lavoro. Questa linea di pensiero venne ripresa e sviluppata da uno degli ultimi economisti della scuola classica: J. E. Cairnes. Cairnes riconosceva che la concorrenza fra i lavoratori non è mai completa e che il concetto secondo cui ogni lavoratore abbandona il proprio lavoro per andare a cercare un lavoro meglio retribuito è una pura finzione, frutto della mente dell'economista, che non ha alcun fondamento nel mondo reale. Il mondo reale che Cairnes ha presente è quindi molto diverso da quello cui pensava Smith. Nel variegato mondo degli economisti classici si trovavano quindi analisi di specifici e importanti temi di economia del lavoro, che erano fra loro agli estremi opposti. Queste divergenze anticipavano i contrasti che si sarebbero sviluppati nei decenni successivi fra coloro che avrebbero privilegiato il ruolo delle forze di mercato e coloro che invece avrebbero considerato i fattori socioistituzionali come quelli rilevanti per interpretare i fatti del mondo del lavoro.
Anche Cairnes comunque riconosceva un ruolo alla concorrenza, sia pure limitato. Per avere quella che egli definiva una "effettiva concorrenza industriale" (v. Cairnes, 1874, pp. 61-67) non era di per sé necessario che ciascun lavoratore fosse in grado di entrare in una data occupazione, occorreva semplicemente che fosse disponibile un certo numero di lavoratori. Per ogni tipo di occupazione, sosteneva Cairnes, esisteva un certo numero di lavoratori che, per capacità, educazione e ceto sociale, era in grado di trovare un posto di lavoro corrispondente. Il contributo originale di Cairnes fu appunto questo: mentre riteneva quasi inesistente la concorrenza fra diversi gruppi di lavoratori appartenenti a occupazioni diverse, sosteneva peraltro che i lavoratori di ciascuna occupazione costituivano un vero e proprio mercato competitivo. È questo il famoso concetto di "non competing groups", cioè di gruppi fra loro non concorrenti, che verrà ampiamente utilizzato in tutta la letteratura successiva di economia del lavoro, soprattutto da quella componente della disciplina che privilegerà gli aspetti socioistituzionali del mercato del lavoro.
La novità dell'analisi marginalista del lavoro, basata sul concetto di produttività marginale, non stava tanto nel concetto di produttività, quanto nella prospettiva particolare in cui si poneva per analizzare il problema della domanda di lavoro. La teoria della produttività marginale è una teoria microeconomica; si interroga non sui meccanismi di formazione della massa salariale, ma piuttosto su quelli di formazione del salario in una data azienda, o meglio in una azienda che voglia massimizzare il profitto. L'analisi della produttività marginale insegna che l'impresa domanda lavoro fino al punto in cui la produttività dell'ultimo lavoratore assunto è uguale al salario a lui pagato, qualunque esso sia. Dal punto di vista teorico nulla vieta che l'impresa assuma lavoratori fino al punto in cui la produttività si annulla, se non fosse che un salario pari a zero non è plausibile dal punto di vista pratico. Il punto di forza dell'analisi marginalista è la prospettiva da cui si pone. Essa non si chiede come si distribuisce il prodotto nazionale fra i lavoratori e gli altri percettori di reddito, ma si chiede piuttosto quanto lavoro verrà richiesto da una impresa che voglia rendere massimo il suo profitto. Al centro dell'attenzione è qui la decisione dell'impresa sul numero di lavoratori da assumere. Ciò porta a sua volta al concetto di domanda di lavoro in funzione del salario: un concetto fondamentale che influenzerà lo sviluppo di tutta l'economia del lavoro successiva.La prima e chiara enunciazione della teoria della produttività marginale è contenuta nell'opera di John Bates Clark (v., 1902). Secondo Clark esiste una legge naturale che regola la distribuzione del reddito nella società ed essa fa sì che la quota di reddito di ogni soggetto economico corrisponda al contributo di questo soggetto all'attività produttiva. Egli si oppose alla distinzione che gli economisti classici facevano fra produzione e distribuzione del reddito e insistette sull'unità e simultaneità di questi due processi. La teoria di Clark della determinazione del salario era costruita sulla teoria della rendita di Ricardo e sul principio della teoria marginale del valore. Secondo Clark due sono i fondamentali fattori produttivi, il lavoro e il capitale, ed essi possono essere combinati fra loro in modi diversi. La teoria classica dei rendimenti decrescenti era stata costruita sull'assunto della disponibilità limitata della terra. Clark generalizzò questo caso, estendendolo anche al fattore produttivo capitale e si chiese quale sarebbe il risultato se, con capitale fisso, si aumentasse il numero dei lavoratori. L'aggiunta di nuovi lavoratori costringerebbe quelli già esistenti a lavorare con minori dotazioni di capitale e quindi l'aumento di prodotto netto complessivo che ulteriori lavoratori potrebbero garantire si ridurrebbe progressivamente. Ed è l'ultimo lavoratore impiegato, secondo Clark, che è cruciale dal punto di vista della determinazione dei salari. Infatti il salario si fissa al livello dell'incremento di prodotto ottenuto con l'ultimo lavoratore, al livello cioè della produttività marginale del lavoro quando tutto il lavoro disponibile è impiegato.
Fra i fondatori della scuola marginalista l'economista che più di tutti contribuì allo sviluppo dell'economia del lavoro fu certamente Alfred Marshall. Egli seguì un approccio non esclusivamente di tipo aggregato e in questo seguì l'insegnamento di Smith. Prestò inoltre attenzione ai fattori socioistituzionali e in questo continuò la tradizione inglese di Mill e Cairnes. La base del suo pensiero era certamente vicina a quella di Clark. Ogni imprenditore - sosteneva al pari di Clark - cerca di fare un uso delle risorse il più vantaggioso possibile e per ottenere questo risultato deve applicare il principio di sostituzione fra i fattori produttivi, regolando il livello d'impiego di lavoro fino al punto in cui il suo costo aggiuntivo è pari al suo contributo alla produzione (v. Marshall, 1953, p. 825). Ma Marshall si differenziò da Clark, negando che la produttività marginale potesse essere considerata una teoria dei salari. Poteva essere una teoria della domanda di lavoro, ma nulla diceva dell'offerta. E l'offerta di lavoro, come già i classici avevano sostenuto, è una componente importante della determinazione dei salari. Secondo Marshall una trattazione veramente scientifica della determinazione dei prezzi deve sempre basarsi sull'azione congiunta delle forze della domanda e dell'offerta, anche se - egli aggiungeva - i cambiamenti della domanda sono molto più frequenti e veloci di quelli dell'offerta. Così, in linea generale, secondo l'autore, più breve è il periodo di tempo che noi consideriamo, maggiore è l'attenzione che noi dobbiamo dedicare alle condizioni della domanda e all'influenza da essa esercitata sul valore; più lungo è il periodo di tempo e maggiore è l'influenza che il costo di produzione (le condizioni di offerta) ha sul valore dei beni e dei fattori di produzione. La sua distinzione fra breve e lungo periodo fu fondamentale per lo sviluppo della teoria economica. Di fatto la novità del concetto di produttività marginale indusse Marshall a privilegiare lo studio della domanda di lavoro. Il suo contributo in questo campo fu estremamente importante. A tutt'oggi in ogni libro di testo di economia del lavoro si fa riferimento ai quattro fattori 'marshalliani' che influenzano l'elasticità della domanda di lavoro. La domanda di lavoro è tanto più elastica, quanto maggiori sono: 1) la facilità con cui il lavoro può essere sostituito con altri fattori produttivi; 2) l'elasticità della domanda del prodotto finale rispetto al suo prezzo; 3) l'importanza relativa del costo del lavoro nel costo complessivo; 4) l'elasticità di offerta degli altri fattori produttivi.Al pari degli economisti tedeschi della scuola storica e degli economisti del lavoro della scuola istituzionalista (di cui si parlerà in seguito), Marshall riconobbe il carattere mutevole delle istituzioni economiche e insistette sul fatto che i principi teorici da lui proposti non potevano essere considerati validi per tutti i tempi e tutti i luoghi. Egli faceva notare, fra l'altro, il carattere ineguale del potere contrattuale dei capitalisti e dei lavoratori e considerava la crescente influenza del movimento sindacale come uno dei fenomeni più importanti della recente storia inglese (ibid., p. 750). Osservava inoltre che il termine 'concorrenza' racchiudeva in sé un significato un po' amaro in quanto tendeva a implicare egoismo e indifferenza, e in ogni caso non era del tutto appropriato per descrivere le caratteristiche più importanti della società in cui viveva (ibid., p. 6).
Eppure queste importanti qualificazioni rimasero solo tali: qualificazioni di un'analisi delle vicende economiche di tipo essenzialmente deterministico, basata su un tentativo di sintesi della teoria classica dell'offerta e della teoria marginalista della domanda. Così nel sistema marshalliano, a dispetto del riconoscimento della complessità della realtà e del ruolo delle mutevoli istituzioni, lo studio del lavoro veniva essenzialmente 'incapsulato' in un ragionamento basato sull'operare delle forze del mercato concorrenziale.
Il termine institutional economics è ormai da lungo tempo ampiamente utilizzato nel linguaggio e nella letteratura delle scienze sociali; esso rimanda a quel gruppo di studiosi americani che, come John R. Commons, Thorstein Veblen, Robert F. Oxie e altri, tentarono, nel periodo a cavallo tra gli anni venti e trenta, di riformulare la teoria economica inserendovi una maggiore dose di realismo rispetto al pensiero tradizionale, impostato in termini di puro funzionamento dei mercati concorrenziali. Per questi studiosi, oltre alle forze del mercato concorrenziale, le istituzioni del capitalismo, nonché i fatti della storia economica, dovevano costituire gli ingredienti dell'analisi e dello studio, se si voleva avviare veramente un avanzamento della scienza economica. Lo sviluppo dell'economia del lavoro come campo della ricerca applicata fu influenzato enormemente da questa scuola di pensiero. Una delle caratteristiche comuni a questi primi studiosi di problemi del lavoro era l'insoddisfazione nei confronti della teoria economica dominante. Richard T. Ely, uno dei precursori più famosi di questa scuola, che diede importanti contributi verso la fine del secolo scorso, sosteneva chiaramente che il sistema economico non consiste semplicemente in una somma di individui. Questa nozione, per Ely, rappresentava un assunto fittizio, sostenuto dagli esponenti della scuola individualista classica, la quale immaginava che gli uomini vivessero in condizioni di "isolamento barbaro" (v. Ely, 1884, pp. 49-50). Allo stesso modo Commons, che fu allievo di Ely e che fu forse il più importante esponente della scuola istituzionalista americana, tentò di riformulare la teoria economica basandosi sul concetto di azione collettiva, azione che doveva controllare, liberare ed espandere l'azione individuale (v. Commons, 1884, p. 22). Precursori della scuola istituzionalista si trovano certamente anche in Inghilterra. Gli scritti e le attività di Sidney e Beatrice Webb riflettevano non solo il loro desiderio di attuare riforme sociali ma anche il loro rifiuto della teoria economica e il loro desiderio di rifondare su nuove basi la scienza sociale. Essi scrissero il loro Industrial democracy nel 1897. Fu la prima seria analisi economica del ruolo svolto dal sindacato nella società industriale. Eppure una ricerca di questo tipo era quasi inconcepibile a quel tempo; essa non era considerata come parte integrante della teoria economica e il sindacato non era considerato come oggetto di studio da parte degli economisti. Quanto lontano fosse il lavoro dei Webb dalla scienza economica del tempo, furono gli stessi autori a riconoscerlo. Essi ritenevano di aver studiato le caratteristiche economiche del sindacato non nell'ambito astratto del mercato concorrenziale, bensì in quello del mondo corrente degli affari, così come essi lo conoscevano (v. Webb e Webb, 1897, p. VIII).
Ma è certamente negli Stati Uniti che la corrente istituzionalista si afferma maggiormente. Si può anzi dire che la nascita dell'economia del lavoro in parte coincide con gli sforzi per rifondare la scienza economica operati alla fine del secolo scorso da questi economisti americani, che per lo più avevano studiato in Germania. Ed è così che nacque la famosa scuola del Wisconsin, i cui componenti furono sempre caratterizzati da un intenso zelo rivolto verso la politica e le riforme sociali, nonché da un atteggiamento critico sia verso la teoria economica tradizionale che verso i confini convenzionali tracciati fra le varie scienze sociali. Questi studiosi erano favorevoli a un approccio che oggi chiameremmo interdisciplinare, anzi a un approccio unico, ancor prima che interdisciplinare. Certamente Ely, Commons e Perlman si consideravano innanzitutto economisti, ma la loro produzione spaziava dalla storia al diritto, dalla sociologia alla psicologia e anche all'etica. Il volume di Selig Perlman, A theory of the labor movement, veniva generalmente adottato nei corsi di economia del lavoro, ma aveva ben poco a che fare col metodo tradizionale dell'analisi economica; si inseriva piuttosto nella tradizione ispirata al famoso detto di Commons, secondo cui gli studiosi del lavoro dovevano "uscire e scoprire cosa c'è nella testa dei lavoratori". E Perlman scoprì che nella testa dei lavoratori c'era un pensiero ossessivo, che consisteva nella scarsità di posti e occasioni di lavoro: problema trascurato dalla teoria tradizionale fiduciosa - al contrario - nella capacità del sistema di libera concorrenza di garantire la piena occupazione (v. Perlman, 1928, pp. 242-243).
Ciò che questi profondi conoscitori del mondo del lavoro non riuscirono invece a realizzare fu la costruzione di una coerente teoria economica; in proposito la valutazione degli studiosi è unanime. Lo sforzo di Commons e dei suoi colleghi fu interamente assorbito dallo studio di specifiche istituzioni e dalla preparazione di specifici piani di riforma sociale. Certamente tutto quel complesso di esperienza, diretta osservazione, coinvolgimento personale e studio di casi che li contraddistinse, avrebbe potuto costituire l'ingrediente necessario per costruire un corpo di concetti di applicabilità generale, cioè un corpo dottrinario. Ma a questo non si arrivò. Non vi riuscirono i primi istituzionalisti e non vi riuscirono i loro allievi. Anzi, questi ultimi ereditarono soprattutto l'intenso interesse per i problemi del lavoro e i problemi sociali in genere, unito a un profondo scetticismo circa l'utilità della teoria economica dominante; non ereditarono l'interesse a rifondare la scienza economica. L'interesse scientifico si diresse in altre direzioni e contribuì a dare contenuto ad altre discipline, come la sociologia del lavoro o, ancor più, lo studio delle relazioni industriali. È nelle grandi scuole di relazioni industriali del mondo anglosassone che si conserva il prezioso contributo di quegli illuminati studiosi del mondo del lavoro.
I tentativi di sintesi dei due filoni, istituzionalista ed economico, che verranno operati nel secondo dopoguerra, affondano le loro radici in alcuni contributi teorici che apparvero fra le due guerre mondiali, per merito soprattutto di alcuni economisti non particolarmente specializzati nel campo dei problemi del lavoro: Pigou, Hicks e Douglas.Arthur C. Pigou fu il successore di Marshall alla cattedra di Cambridge e il suo nome è legato, fra l'altro, al tentativo di integrare i principi economici con l'analisi dei problemi del lavoro. Il suo famoso libro, The economics of welfare, fu descritto da Schumpeter come la più grande trattazione di economia del lavoro effettuata da un economista teorico (v. Schumpeter, 1954, p. 948). L'approccio di Pigou era sia microeconomico che macroeconomico; l'analisi spaziava dalla questione relativa ai fattori che determinano il volume del reddito nazionale ai problemi di efficienza allocativa. La fama di questo libro è certamente dovuta al contributo fondamentale che portò alla moderna economia del benessere, nonché alla teoria della finanza pubblica. Ma anche la parte dedicata ai temi di economia del lavoro è consistente. Dal momento che il suo interesse era rivolto all'individuazione dei fattori che massimizzano il prodotto nazionale, i problemi del lavoro venivano visti soprattutto in quest'ottica. Si interessò pertanto dei limiti che venivano fissati all'orario di lavoro e degli strumenti per legare la remunerazione alla produttività (ad esempio attraverso il cottimo). La preoccupazione di Pigou era che l'eccessiva regolamentazione dell'attività lavorativa potesse comportare una riduzione dell'efficienza con cui il lavoro veniva impiegato nel processo produttivo. Parte del dibattito sulla cosiddetta 'flessibilità' del lavoro, che è particolarmente vivace proprio ai giorni nostri, trova un precedente importante in questa trattazione di Pigou.
Un secondo importante contributo diretto a conciliare l'economia del lavoro con la teoria economica si deve a John R. Hicks e al suo volume The theory of wages, apparso nel 1932. Hicks riconosceva che la nascita del sindacato e il diffondersi della legislazione sociale tesa a proteggere i lavoratori costituivano l'avvenimento più importante del secolo dal punto di vista dei problemi del lavoro e in particolare della determinazione dei salari. Ma egli sosteneva anche che la teoria della determinazione dei salari non è altro che un caso speciale della più generale teoria del valore e che gli interventi dello Stato e del sindacato nel mondo del lavoro non sono di per sé sufficienti per cambiare la struttura fondamentale di questa teoria (v. Hicks, 1932, pp. I-VI).Come Pigou, anche Hicks aveva un forte interesse per le relazioni industriali e il suo The theory of wages includeva molte qualificazioni, eccezioni e riferimenti storici e istituzionali importanti, tali da controbilanciare in una certa misura l'approccio ceteris paribus dell'analisi teorica. Nel complesso, tuttavia, il contributo di Hicks si colloca sostanzialmente nell'alveo della tradizione neoclassica e il suo sforzo di adattare il metodo neoclassico all'analisi del conflitto industriale - in cui la quantità rilevante non è la quantità di lavoro domandata e offerta, bensì la lunghezza degli scioperi - ha rappresentato un contributo importante per i successivi tentativi d'integrare gli studi sul lavoro con la teoria economica.
Un terzo contributo in questa direzione venne da un economista americano, Paul H. Douglas, il quale può essere ricordato come uno dei precursori dell'integrazione dell'economia del lavoro non solo con l'analisi teorica, ma anche con le raffinate tecniche quantitative. Il suo The theory of wages del 1934 può essere considerato un'opera complementare rispetto a quella di Hicks. Hicks aveva incominciato la sua analisi con la teoria della produttività marginale; il suo approccio seguiva la tradizione neoclassica di tipo deduttivo ed era caratterizzato dallo scarsissimo uso di dati statistici. Il lavoro di Douglas, al contrario, rappresentò un notevole sforzo di natura statistica al fine di verificare la teoria della produttività marginale. Douglas si chiedeva in particolare se i rendimenti decrescenti fossero una semplice astrazione senza alcun legame con la realtà, oppure se essi rispecchiassero i fatti concreti. A questo proposito riteneva doveroso investigare a fondo le funzioni di offerta dei fattori produttivi e verificare se il processo di distribuzione del reddito che si verificava nella realtà fornisse un supporto ai risultati dell'analisi teorica di tipo deduttivo (v. Douglas, 1934, p. XII). Fu su queste basi di partenza che Douglas cominciò a misurare la crescita del capitale e della quantità di lavoro impiegati nell'economia statunitense dal 1899 al 1922 e poi a misurare il contributo relativo di entrambi i fattori al flusso di produzione di quel lungo periodo storico. Con l'aiuto di un matematico, Charles W. Cobb, sviluppò l'analisi di una funzione di produzione che era stata proposta originariamente da Wicksell (v., 1901-1906) e che fu applicata ai dati statistici. La funzione di produzione, che da allora fu denominata 'Cobb-Douglas', è la più utilizzata nelle analisi empiriche e nelle esemplificazioni teoriche di tipo neoclassico: vi sono oggi pochi strumenti di analisi teorica ed empirica che possano essere considerati altrettanto famosi.
Gli economisti che nel secondo dopoguerra si dedicarono ai problemi del lavoro, con un approccio più analitico di quello seguito dai primi economisti del lavoro di scuola istituzionalista, furono certamente influenzati dai lavori di Pigou, Hicks e Douglas. Di fatto le opere di questi grandi economisti rappresentarono i libri di testo su cui si formarono gli economisti del lavoro della successiva generazione. A dispetto di tutte le vicende storiche, la teoria tradizionale dei prezzi passò quasi indenne attraverso la crisi, prima, e la guerra mondiale, poi. Negli anni cinquanta questa teoria veniva insegnata nei corsi introduttivi delle università di tutto il mondo più o meno allo stesso modo di come Marshall l'aveva esposta nei suoi testi, mezzo secolo prima.
Furono soprattutto gli economisti del lavoro americani che si opposero a un uso acritico e a un'estensione semplice e automatica della teoria microeconomica tradizionale alla spiegazione dei principali fatti sociali ed economici del tempo. Uno di questi fatti interessava particolarmente quegli economisti: negli anni quaranta il livello e la struttura delle retribuzioni erano pesantemente influenzati nelle principali industrie - come quelle dei mezzi di trasporto, della gomma, dell'acciaio e dei prodotti tessili - dalla contrattazione collettiva (soprattutto a livello aziendale). Il salario venne sempre più visto non tanto come un prezzo di mercato, quanto come un prezzo amministrato e come il risultato, in larga misura, delle decisioni di poche persone sedute al tavolo delle trattative sindacali. Come tale, quel particolare prezzo condivideva alcune delle caratteristiche dei prezzi dei mercati imperfetti e l'interesse a studiare questi mercati era certamente stimolato dagli studi innovativi di Edward H. Chamberlin e Joan Robinson sulla concorrenza imperfetta.
Come è ben noto agli studiosi di economia politica, quella generale insoddisfazione nei confronti della teoria tradizionale sfociò in un interessante dibattito che si concretizzò in una serie di articoli apparsi sull'"American economic review". Un esponente importante della critica antimarginalista fu Richard A. Lester, che si può dire fosse essenzialmente un economista del lavoro. Lester (v., 1946, p. 71) attaccò la funzione di domanda di lavoro così come l'aveva formulata Marshall. Egli condusse un'indagine presso un gruppo di imprese e scoprì che queste, nel domandare lavoro, erano più attente a ciò che succedeva nel mercato del loro prodotto che non al salario pagato ai lavoratori. Lester criticò il concetto di produttività marginale, attribuendogli scarso significato operativo a livello di azienda. Non tutti gli economisti del lavoro del tempo erano sulle posizioni estremiste di Lester, ma certamente i dubbi, se non sui fondamenti, almeno sull'utilità della teoria marginalista, erano molto diffusi in questo ambiente. L'economia del lavoro che emergeva era una disciplina che affrontava tutti i problemi più importanti del mondo del lavoro: tutti quelli che avevano a che fare con le condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori. I problemi della povertà, della sicurezza sociale, dell'assistenza, della legislazione a favore dei lavoratori e altri problemi, di portata sociale oltre che strettamente economica, formarono i contenuti sia della ricerca che della didattica della disciplina. Questa concezione allargata dell'oggetto di studio contribuì ancora una volta, come era successo nella prima parte del secolo, a dare un carattere multidisciplinare all'economia del lavoro. Certamente c'era ora un nocciolo economico - e questo, nonostante le critiche, i dubbi e le riserve della gran parte degli studiosi, era sostanzialmente microeconomico tradizionale - ma l'economia del lavoro, così come era intesa, si allargava a temi di sociologia, psicologia, diritto e politica. Dal punto di vista metodologico la ricerca empirica usava strumenti semplici. Non si parlava, come si fa invece oggi, di econometria, bensì di statistica economica e anziché l'analisi di regressione si usavano semplici tabelle di dati.
Anche negli anni cinquanta e sessanta, come nei decenni precedenti, la letteratura di economia del lavoro era dominata dagli studi sui sindacati e sulla contrattazione collettiva, anche se si notava uno sforzo maggiore per affrontare gli argomenti in modo più analitico. In proposito rimane famoso il dibattito che si sviluppò, sempre negli Stati Uniti, sulla natura del sindacato e sugli obiettivi che un'istituzione di questo tipo intendeva perseguire. Alcuni economisti del lavoro, come John T. Dunlop, consideravano il sindacato essenzialmente come un'istituzione economica alla pari dell'impresa e, come tale, interessata al raggiungimento di un obiettivo di carattere economico. Per Dunlop lo scopo del sindacato era quello di massimizzare la massa salariale; per raggiungere questo obiettivo doveva tener conto della funzione di domanda di lavoro da parte delle imprese, cioè della relazione esistente fra salario e occupazione (v. Dunlop, 1950², p. 33). Per altri invece, come Arthur M. Ross, il sindacato doveva considerarsi come un'istituzione prettamente politica e non come un'organizzazione governata secondo i calcoli economici di convenienza tipici dell'impresa industriale. Come organizzazione politica, e non solo economica, era soggetta a comportamenti basati anche sull'imitazione fra gruppi e sulla rivalità fra diverse organizzazioni. I concetti di pattern bargaining (modello di contrattazione) e di orbits of coercive comparisons (ambiti entro cui si effettuano i confronti) sono termini coniati da Ross, che sono entrati stabilmente negli studi di economia del lavoro e di relazioni industriali (v. Ross, 1948, p. 51). Il tema degli effetti dell'azione sindacale è un argomento 'classico' nel dibattito fra economisti tradizionali e studiosi del lavoro più legati al ruolo svolto dalle istituzioni. Questo confronto fra opzioni teoriche e ideologiche diverse è sempre stato ed è tuttora presente nel campo dell'economia del lavoro.
La scarsa considerazione che gli economisti neoclassici nutrono nei confronti dei sindacati riflette soprattutto le loro convinzioni circa il ruolo e gli obiettivi dei sindacati stessi. Per quanto a essi venga in genere riconosciuto un importante ruolo sociale, si ritiene tuttavia che il loro principale compito sia di alzare i salari oltre il loro livello di mercato. I sindacati agiscono cioè come monopolisti, limitando l'offerta di lavoro attraverso il conflitto, o limitando l'accesso di lavoratori a un dato mestiere. Al pari dei monopolisti nei mercati dei prodotti, i sindacati sono visti come una 'imperfezione' che conduce artificialmente ad alti salari e a una conseguente distorsione nell'uso delle risorse. Oltre l'inefficienza cosiddetta 'allocativa' prodotta da questo effetto sui salari, vi è spesso - secondo questa opinione - anche un effetto dannoso sulla produttività, provocato dalle varie forme di conflitto e di pratiche restrittive (restrittive dell'iniziativa imprenditoriale all'interno dell'impresa).
Gli economisti del lavoro del primo dopoguerra avevano un'opinione diversa dei sindacati ed essa si basava sul giudizio relativo al carattere concorrenziale del mercato del lavoro. Lester, il più critico fra questi economisti, affermò che il mercato del lavoro era per sua natura il più imperfetto dei mercati (v. Lester, 1951, p. 31). Una delle imperfezioni, secondo questo autore, era dovuta alla forte capacità di controllo esercitata dalle imprese sui mercati locali del lavoro. A questo proposito, Lloyd Reynolds e Cinthia Taft (v., 1956, p. 369) affermavano che il potere di monopsonio dei datori di lavoro non era affatto trascurabile dove i sindacati erano assenti. Questo potere di monopsonio non derivava, secondo questi due autori, dal fatto che esistevano solo grandi imprese, bensì dalla tacita collusione esistente fra tutte le imprese, piccole o grandi che fossero, le quali evitavano di farsi fra loro concorrenza nel mercato del lavoro.
Caratteristica fondamentale di questa corrente di pensiero era la scarsa fiducia nei meccanismi di mercato al fine di garantire salari cosiddetti di 'equilibrio'. Fra le cause più importanti venne indicata la scarsa mobilità dei lavoratori. Di fatto da numerose ricerche empiriche risultò che, per lo stesso tipo di prestazioni di lavoro e nello stesso mercato locale del lavoro, venivano pagati salari alquanto diversi fra loro. Il fatto che esistessero gruppi diversi di lavoratori non in concorrenza fra di loro - fatto che, come si è visto, era già stato messo in luce nel secolo scorso da Stuart Mill e Cairnes - risultava abbastanza chiaramente da queste ricerche empiriche. Clark Kerr (v., 1954) un altro noto esponente di questo gruppo, coniò un nuovo termine per descrivere questa segmentazione fra gruppi di lavoratori: egli parlò di "balcanizzazione" del mercato del lavoro.
Quegli stessi economisti del lavoro, inoltre, avevano un'idea diversa degli obiettivi e delle funzioni del sindacato. Essi ammettevano che uno dei suoi obiettivi consisteva nel far alzare i salari, anche oltre il livello del mercato. Riconoscevano inoltre che certe pratiche sindacali potevano nuocere all'efficienza e alla produttività delle imprese. Ma essi sottolineavano, molto di più degli economisti neoclassici, il ruolo positivo del sindacato. Ancora Lester, per esempio, argomentava che le ambizioni più importanti dei lavoratori erano: 1) la sicurezza economica; 2) l'opportunità di migliorare le proprie capacità professionali; 3) un trattamento equo; infine, 4) il senso di appartenenza alla comunità di lavoro. Ora non era affatto detto che il libero mercato potesse soddisfare nel modo migliore queste giuste esigenze. Anzi almeno per una, la quarta, Lester era convinto che non potesse essere soddisfatta affatto in un mercato concorrenziale (v. Lester, 1951). Proprio a causa dei limiti del meccanismo di mercato e della contrattazione individuale, i lavoratori decidevano di organizzarsi, formare sindacati e contrattare collettivamente il loro salario.
Alla fine degli anni cinquanta l'interesse degli studiosi di problemi del lavoro si spostò verso temi più legati alla macroeconomia, come ad esempio la disoccupazione, l'inflazione, il ruolo dei sindacati nell'accentuare le tendenze inflazionistiche, le politiche dei redditi, ecc. Di questi interessi si parlerà più avanti.
L'economia del lavoro di tipo microeconomico riprese vigore verso la fine degli anni sessanta. Si sviluppò soprattutto negli Stati Uniti, su basi sostanzialmente diverse da quelle che avevano caratterizzato la disciplina nei decenni precedenti: in questa fase le basi teoriche di riferimento sono decisamente neoclassiche. I contenuti dei libri di testo americani di economia del lavoro, che cominciano ad apparire proprio in quegli anni, mostrano chiaramente il cambiamento avvenuto rispetto al periodo precedente. I vecchi libri di testo erano essenzialmente di tipo descrittivo e privilegiavano i contenuti storici e istituzionali. I testi moderni danno spazio essenzialmente a temi di contenuto microeconomico tradizionale; la loro struttura è ormai quella nota, che viene seguita anche nei testi più recenti, e cioè basata sulla suddivisione tra offerta di lavoro, domanda di lavoro e determinazione dei salari. È la struttura della tradizionale teoria dei prezzi di impronta neoclassica. I testi moderni, inoltre, fanno continuo riferimento ai risultati della letteratura empirica, la quale utilizza essenzialmente i metodi dell'econometria. È un mondo sostanzialmente diverso da quello dei manuali degli anni quaranta e cinquanta.
Come si giustifica questo profondo mutamento? Da un lato la trasformazione affonda le proprie radici nelle nuove tendenze della teoria economica, dominata sempre più dalla tradizione neoclassica; dall'altro lato essa è dovuta alla disponibilità di fonti statistiche sempre più ricche e allo sviluppo delle nuove tecniche econometriche, sostenute a loro volta dalle capacità di calcolo degli elaboratori elettronici. I cambiamenti in questi campi erano stati particolarmente intensi negli ultimi decenni ed era quindi logico attendersi che anche l'economia del lavoro, al pari di altre discipline di contenuto economico, ne sarebbe stata influenzata.Si può senz'altro affermare che vi è stato più progresso nella microeconomia del lavoro in questi ultimi vent'anni che non nei sessant'anni precedenti. Le nuove direzioni della ricerca economica si possono così riassumere.
1. La teoria del capitale umano elaborata da Jacob Mincer (v., 1974), Theodore W. Schultz (v., 1961) e Gary S. Becker (v., 1975). Questi autori hanno sviluppato le intuizioni felici di A. Smith e Pigou. La teoria considera l'istruzione e l'addestramento come fenomeni analoghi all'investimento in capitale fisico, e quindi come oggetto di decisioni che devono confrontare, come in un qualsiasi calcolo di convenienza, i costi immediati con il flusso di maggior reddito che l'investimento rende possibile lungo tutta la vita lavorativa. Questa teoria ha stimolato una letteratura ormai vastissima, che mette in relazione l'abilità e le doti innate, da un lato, e l'istruzione e l'addestramento dall'altro, coi loro rispettivi e distinti effetti sulle capacità di guadagno dei singoli lavoratori. È quindi un'importante teoria anche dei differenziali salariali.
2. La teoria della discriminazione. Anche questa, e la letteratura cui ha dato luogo, è tipicamente americana ed è facile comprenderne la ragione. Essa è stata stimolata da eventi importanti quali la nascita del movimento per i diritti civili e di quelli a difesa delle minoranze etniche, nonché dei movimenti a favore delle donne. La presa di coscienza da parte dell'opinione pubblica dell'importanza di questi fenomeni ha favorito lo sviluppo di questo filone di ricerca, il quale, sia a livello teorico (microeconomico) che empirico, ha esplorato le ragioni delle differenze retributive e di opportunità di lavoro fra lavoratori di razza e sesso diversi e ha cercato di individuare quanto di queste differenze può essere spiegato da fattori economici e quanto da pratiche di discriminazione che niente hanno a che fare coi calcoli di convenienza operati dalle imprese.
3. L'approccio del ciclo di vita applicato alle decisioni riguardanti l'offerta di lavoro. Franco Modigliani aveva sostenuto, già negli anni cinquanta, che le decisioni relative al consumo, al risparmio e all'investimento vengono prese con riferimento all'arco temporale che abbraccia la vita intera dei soggetti economici coinvolti. Partendo da queste considerazioni, bastava solo un piccolo passo in avanti per argomentare che anche le decisioni relative all'offerta di lavoro - vale a dire quanto lavorare, che tipo di lavoro fare, quanto investire in capitale umano e così via - vengono prese considerando non solo le condizioni attuali, ma anche quelle future, di lungo periodo, del soggetto e della sua famiglia. Questo approccio teorico è stato molto fertile dal punto di vista delle molteplici ipotesi che ha permesso di formulare e di verificare empiricamente.
4. L'analisi dell'offerta di lavoro è stata molto approfondita ed è stata arricchita da un nuovo filone di pensiero che va sotto il nome di 'economia della famiglia'. Questa si basa sulla banale ma importante considerazione che i lavoratori non sono persone che, nella generalità dei casi, vivono da sole. Essi in genere vivono in una famiglia e ciò comporta una inevitabile interrelazione delle decisioni dei vari componenti della famiglia riguardanti la loro attuale e futura attività lavorativa. L'offerta di lavoro di ciascuno dei componenti è legata a quella degli altri e le stesse offerte di lavoro sono solo una parte di quel complesso di decisioni che riguardano importanti aspetti della vita familiare: dove vivere, quanto spendere e quanto risparmiare, cosa comprare, quanto investire nella formazione dei figli, quale attività scegliere per le persone anziane, ecc. L'offerta di lavoro viene considerata, in questo quadro teorico, come una parte del più ampio problema dell'uso del tempo (la vera risorsa scarsa) da parte di tutti i componenti della famiglia.
5. Il riconoscimento dell'esistenza di mercati del lavoro interni all'azienda, soprattutto se questa è di grandi dimensioni, nonché la diffusione dei rapporti di lavoro di lunga durata hanno comportato notevoli progressi nell'analisi della domanda di lavoro. In particolare hanno incoraggiato i tentativi di teorizzare, utilizzando il solito assunto neoclassico di un comportamento razionale teso a massimizzare l'utilità e il profitto, le decisioni delle imprese relative alla gestione del personale, all'investimento nell'attività di reclutamento e di selezione, all'addestramento sul posto di lavoro, alle strategie retributive e dei profili di carriera, all'aggiustamento delle ore di lavoro e dell'occupazione nelle diverse fasi cicliche, e così via. Si è presa piena coscienza del fatto che il rapporto di lavoro è più simile a un 'matrimonio' che alla compravendita di un qualche bene di consumo. Il rapporto deve quindi essere regolato da un contratto adeguato. La natura del contratto è cruciale affinché il lavoratore riceva ciò cui aspira, non solo il salario ma un trattamento equo, una certa stabilità del reddito e, dall'altra parte, il datore di lavoro ottenga una prestazione effettuata con impegno, sforzo, capacità professionale. Non è possibile ottenere tutto questo con continui controlli reciproci o con continue rinegoziazioni del rapporto di lavoro. Sarebbe troppo costoso in termini di tempo e di conflitto. Meglio affidarsi a contratti di lunga durata, i quali prevedano al contempo gli incentivi giusti affinché le parti si comportino secondo le modalità previste e volute. Lo studio dei contratti di lavoro ha aperto interessanti filoni di ricerca teorica ed empirica.
6. Gli sviluppi della teoria dell'informazione e della 'ricerca', che all'inizio veniva utilizzata nell'analisi dei mercati dei prodotti, sono stati molto utili per analizzare il funzionamento del mercato del lavoro. Il problema del matching (cioè il mutuo incontro) di domanda e di offerta di lavoro viene affrontato con strumenti di analisi alquanto sofisticati, che sono ormai patrimonio di tutti gli economisti che si interessano di questo problema. Diverse sono le implicazioni interessanti di questo approccio. È stato rigorosamente dimostrato un risultato messo in luce numerose volte dagli economisti del lavoro del passato, e cioè che con un'informazione imperfetta e costosa un mercato del lavoro concorrenziale non può eliminare le differenze retributive fra posti di lavoro anche simili ma dislocati in punti diversi del mercato. È emerso inoltre, come sviluppo della tradizionale spiegazione neoclassica della disoccupazione, che ciò che appare tempo perso durante i periodi di disoccupazione, è di fatto un investimento di tempo nella ricerca di un posto di lavoro migliore di quello immediatamente disponibile. Anche la disoccupazione, quindi, in questo quadro teorico, fa parte di quel complesso di decisioni, ottime e razionali, che riguardano l'uso del tempo disponibile.
7. La natura della disoccupazione. Continua a essere dibattuto in ogni caso il tradizionale tema relativo alle cause e alla natura della disoccupazione. Come è noto, la distinzione fra disoccupazione volontaria e involontaria rimane il cuore della teoria keynesiana. Secondo i neoclassici tutta la disoccupazione, a parte quella di natura frizionale, è di carattere volontario, cioè è causata dalla non disponibilità dei lavoratori ad accettare salari reali più bassi di quelli esistenti. Keynes sosteneva invece che la disoccupazione involontaria poteva esistere nel caso in cui, di fronte a un piccolo aumento nel livello dei prezzi relativamente al livello del salario monetario, sia l'offerta aggregata di lavoro disposta a lavorare al salario monetario corrente, sia la domanda di lavoro corrispondente a quel salario, fossero entrambe maggiori del volume esistente di occupazione (v. Keynes, 1936, p. 15). Questa definizione implica che si è in presenza di disoccupazione involontaria quando esiste un eccesso di offerta di lavoro a un dato valore del salario monetario; in questa situazione la disoccupazione può essere eliminata con un'espansione della domanda aggregata e con una riduzione del salario reale.
La disoccupazione keynesiana viene talvolta identificata con la disoccupazione ciclica, cioè con la disoccupazione che si manifesta durante la fase recessiva del ciclo economico, quando l'investimento e il consumo si contraggono e il sistema economico non è più in grado di generare lo stesso volume di posti di lavoro della fase precedente di espansione.
Accanto alla disoccupazione ciclica, che deriva da una deficienza di breve periodo della domanda aggregata che non riesce a sfruttare la capacità produttiva del sistema, può esistere anche una disoccupazione che persiste più a lungo, indipendentemente dalle alterne vicende congiunturali. Anche nei punti di massimo del ciclo la produzione può essere inferiore al livello necessario per garantire il pieno impiego. In certe condizioni la cosiddetta 'disoccupazione tecnologica' può essere un esempio di questo secondo tipo di disoccupazione, legata alle caratteristiche del processo di sviluppo più che a quelle del ciclo economico. La disoccupazione di natura tecnologica deriva dalla sostituzione di capitale a lavoro indotta dal progresso scientifico e tecnologico. I lavoratori che sono resi esuberanti dall'introduzione, nelle imprese in cui sono occupati, di nuove tecnologie, talvolta riescono a trovare un lavoro alternativo nella stessa impresa o in altre imprese; ma se le loro capacità professionali e le loro qualificazioni non sono più richieste dal mercato del lavoro, a causa di un diffuso processo di ammodernamento delle tecniche di produzione e di cambiamento dei contenuti dei posti di lavoro, può succedere che la loro riqualificazione richieda parecchio tempo. Occorre anche considerare che i lavoratori anziani sono generalmente poco disponibili a sottoporsi ai processi di apprendimento necessari per la riqualificazione. Il fatto di essere in una fase espansiva caratterizzata da un'elevata domanda aggregata può non essere sufficiente per eliminare, nel breve periodo, questo tipo di disoccupazione.
Su ciascuno degli argomenti elencati esistono ottime rassegne della letteratura, come ad esempio nel volume di saggi raccolti da Orley Ashenfelter e Richard Layard (v., 1986).In questo elenco si potrebbero inserire anche il sindacato e la contrattazione collettiva. Vi sono infatti diversi economisti del lavoro che si interessano degli stessi problemi di cui si interessavano Dunlop e Ross, e cioè degli obiettivi del sindacato, mentre altri economisti studiano le relazioni fra il sistema di contrattazione collettiva e la performance economica. Nel complesso però questi argomenti occupano molto meno spazio nella letteratura di economia del lavoro di quanto non ne occupassero nel periodo dell'immediato dopoguerra. Il lavoro di ricerca sugli aspetti storici, giuridici e istituzionali del sindacato e della contrattazione collettiva è stato progressivamente trascurato dagli economisti del lavoro e fatto proprio dagli studiosi di altre discipline. Di fatto la maggioranza delle ricerche in questo campo viene svolta da studiosi di relazioni industriali. Questa disciplina si è progressivamente staccata dall'economia del lavoro e ha raggiunto da tempo la sua completa autonomia.
Un altro argomento presente nella vecchia letteratura e che continua a ricevere grande attenzione è il ruolo che il sindacato e i salari svolgono, a livello macroeconomico, nel processo inflazionistico e nella determinazione della disoccupazione. Nella ricchissima letteratura che fa riferimento alla 'curva di Phillips' (dal nome dell'economista che per primo verificò empiricamente una relazione inversa fra disoccupazione e dinamica salariale) i sindacati, come altri possibili fattori istituzionali, possono svolgere un ruolo fondamentale. È merito di grandi economisti, come Hicks ad esempio, aver affrontato l'argomento e aver richiamato l'attenzione sull'importanza che questi elementi istituzionali svolgono nel quadro macroeconomico. Vent'anni dopo aver scritto The theory of wages Hicks (v., 1955) riconosceva che i salari sono determinati dall'interagire di fattori non solo economici ma anche sociali. Questa peraltro era la convinzione del principale economista del lavoro inglese di questo dopoguerra: Henry Phelps Brown (v., 1972). Come per Phelps Brown, anche per Hicks è fondamentale il concetto di fairness (equità) delle strutture retributive. Le spinte salariali verso l'alto, con conseguenti tensioni inflazionistiche, sono tanto maggiori quanto meno accettate dal punto di vista sociale sono le differenze retributive esistenti. In questo modo si mettono in moto rincorse salariali fra vari gruppi di lavoratori, ed è sulla base di queste importanti considerazioni - che avvicinano molto il pensiero di questo autore a quello degli economisti dell'immediato dopoguerra - che Hicks sviluppa i suoi successivi e importanti contributi di analisi macroeconomica in tema di equilibrio, con prezzi e salari rigidi (v. Hicks, 1974). Gli economisti d'impronta più decisamente neoclassica danno minore importanza, anche nell'analisi macroeconomica, al ruolo dei sindacati e dei fattori istituzionali. Essi concentrano l'attenzione sui meccanismi di funzionamento del mercato del lavoro nelle alterne fasi del ciclo economico e sui fattori che impediscono un aggiustamento istantaneo verso condizioni di equilibrio, nonché sull'esistenza e sulla misurazione di quello che viene definito il tasso di disoccupazione 'naturale', vale a dire il tasso di disoccupazione di equilibrio (di tipo essenzialmente frizionale) verso cui il sistema spontaneamente tende. Questi argomenti rientrano in quel filone di pensiero che Edmund Phelps (v., 1970) ha definito "i fondamenti microeconomici della macroeconomia". Con lo sviluppo di quest'area di ricerca i confini fra la macroeconomia dell'occupazione e dei salari e l'economia del lavoro in senso stretto si distinguono sempre meno.
Jacob Viner definì una volta l'economia come ciò che gli economisti studiano. L'economia del lavoro dovrebbe essere definita allo stesso modo: è ciò che viene studiato dagli economisti del lavoro. La saggezza contenuta nel paradosso di Viner sta nel riconoscere implicitamente che l'economia non è definita una volta per tutte in un dato momento storico, ma che ciò che gli economisti fanno, sia in termini di problemi che affrontano, sia in termini degli strumenti di analisi che utilizzano, cambia col passare del tempo. L'economia, come tutte le scienze, è in continuo sviluppo. Ogni tentativo di riassumere o di sintetizzare lo 'stato dell'arte' di un dato campo disciplinare deve essere fatto riconoscendo che esso è storicamente condizionato.
Forse la considerazione più importante da fare sullo stato della moderna economia del lavoro è che essa, oggi più che mai, è strettamente allineata e inserita nella teoria economica intesa in senso lato. Rispetto a quella dei decenni precedenti, la moderna economia del lavoro è più preoccupata di attenersi al metodo scientifico. È meno preoccupata di arrivare a conclusioni utili per indirizzare gli interventi di politica economica; se risultati di questo tipo vengono raggiunti, essi sono spesso solo il prodotto laterale - non sempre voluto e cercato - dell'analisi economica. La ricerca è indirizzata soprattutto verso argomenti che si prestano a essere investigati in termini quantitativi con l'ausilio delle tecniche econometriche. La chiave di lettura fondamentale dei problemi del lavoro è la teoria del mercato concorrenziale; i risultati empirici tendono a confermare che il mercato funziona abbastanza bene, e le ipotesi basate sull'assunto di soggetti che massimizzano il loro obiettivo economico vengono in genere confermate dall'evidenza dei fatti osservati. Nella misura in cui in questo approccio può scorgersi una tendenza ideologica, questa è di natura conservatrice e ciò è in linea con le tendenze della cultura economica che si è imposta in questi ultimi due decenni. Per di più, nel caso specifico, può essere di qualche rilevanza il fatto che molto di questo lavoro di ricerca proviene da economisti come Becker, Schultz, Mincer dell'Università di Chicago, che notoriamente è sempre stata, per tradizione, a favore del libero funzionamento del mercato, critica nei confronti del movimento sindacale, perplessa circa l'utilità dell'intervento dello Stato nel campo economico e sociale.
Non bisogna certo dimenticare o trascurare l'importanza dell'area di dissenso esistente nei confronti della teoria dominante. Al contrario, occorre ricordare che un significativo gruppo di economisti americani, fra i più attivi ricercatori nel campo del lavoro, ha espresso a più riprese dissenso nei confronti dell'approccio neoclassico e lo ha giudicato inadeguato per l'analisi dei problemi del lavoro. Questo gruppo, che in una recente rassegna di Glen G. Cain (v., 1976) è stato denominato come quello dei teorici del mercato del lavoro "segmentato", comprende i nomi di S. Bowles, Peter B. Doeringer, Michael J. Piore, Lester C. Thurow. Forse il contributo più importante è stato, all'inizio degli anni settanta, quello di Doeringer e Piore sul funzionamento del mercato del lavoro interno alle imprese (v. Doeringer e Piore, 1971). Il contributo di questi due autori è importante perché raccoglie l'eredità degli economisti americani del filone istituzionalista e costituisce al contempo il punto di riferimento per la ricca letteratura sulla segmentazione del mercato del lavoro che è stata prodotta negli ultimi due decenni. A questa letteratura hanno dato contributi fondamentali anche economisti del lavoro europei (v. Wilkinson, 1975; v. Maurice e altri, 1982; v. Marsden, 1986). La maggiore importanza riconosciuta al ruolo che i sindacati e la legislazione sociale svolgono in Europa, nonché la tradizione dell'approccio storico-istituzionale che ha caratterizzato la ricerca economica in questo continente sono certamente fra i motivi che spiegano come la critica all'approccio neoclassico sia particolarmente forte 'al di qua' dell'Atlantico. Lungo queste linee di ricerca si collocano anche i contributi di diversi economisti del lavoro italiani, e fra questi il nome da ricordare per primo è certamente quello di Ezio Tarantelli (v., 1986).
Gran parte delle critiche alla moderna economia del lavoro sono concentrate sull'assunto neoclassico della concorrenza perfetta. Sono in fondo le stesse critiche che, a cominciare dalla fine del secolo scorso, furono portate da economisti del lavoro appartenenti al filone istituzionalista, come i Webb, Ely, Commons. La sostanza è la stessa e consiste, in sintesi, nella mancanza di realismo storico e istituzionale. I critici, numerosi, degli studi sul capitale umano, sostengono ad esempio che il ruolo dell'istruzione non può essere adeguatamente individuato entro gli stretti confini dell'analisi neoclassica dell'investimento; deve invece essere analizzato in termini più ampi, riconoscendo la funzione sociale dell'istruzione. Allo stesso modo i temi della povertà, della distribuzione del reddito, della discriminazione, e altri ancora, non possono essere adeguatamente studiati senza tener conto dei loro risvolti sociali.
Non è escluso che queste critiche alla fine portino qualche frutto e che nei prossimi anni (o decenni) queste considerazioni di carattere socioistituzionale trovino uno spazio maggiore anche nell'ambito della teoria tradizionale. Albert Rees, che di quest'ultima è uno dei padri fondatori, partendo dalla considerazione che "la ricerca accademica svoltasi nell'ambito dell'economia del lavoro è andata forse troppo avanti, per quanto riguarda il rigore e la quantificazione dei fenomeni, a discapito di un sano radicamento nella storia e nelle istituzioni", prevede che "i migliori economisti del lavoro della prossima generazione saranno esperti sia di istituzioni che di econometria e avranno la capacità di 'miscelare queste componenti' con accortezza e bravura" (v. Rees, 1977, p. 4). I prossimi anni, o i prossimi decenni, ci diranno se questa rappresenti una previsione accurata o un desiderio senza possibilità di realizzazione. Che i due approcci, se non proprio alternativi, siano molto difficili da conciliare ce lo ricorda Clark Kerr in questo suggestivo passaggio, che sintetizza molto bene anche l'esperienza di coloro che non hanno mai rinunciato a considerare l'economia del lavoro come qualcosa di più di una semplice branca della teoria economica tradizionale: "In ogni caso, noi, gli economisti del lavoro revisionisti, abbiamo finito con l'essere come piccole volpi che conoscono molte cose, e non come ricci che sono votati a una sola teoria che tutto racchiude. Noi siamo andati in cerca di piccole verità, non dell'unica irresistibile verità; o almeno di quelle piccole verità che correggono la grande verità. Noi siamo diventati volpi pluraliste, non ricci monisti. 'Le volpi conoscono molte cose', dicevano i greci antichi, e a ragione si può aggiungere, perché le cose da conoscere sono molte [...]. Ma molti nel mondo della cultura vogliono semplicità e certezza - l'unica grande cosa che il riccio conosce - per guidare i loro pensieri; una visione centrale che dia coerenza a tutte le loro percezioni; un'unica spiegazione che dia senso a tutti gli eventi. C'è una eterna tensione fra coloro che seguono il cammino pluralista e coloro che seguono quello monista [...]. Alcune volpi cercano di aiutare i ricci, anche se i ricci raramente apprezzano l'offerta di aiuto. E ciò è triste per il mondo della cultura" (v. Kerr, 1988, p. 9). (V. anche Disoccupazione; Lavoro; Marginalismo; Occupazione; Salari e stipendi).
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