AMARI, Emerico
Nacque il 10 maggio 1810, a Palermo, da Mariano Salvatore, dei conti di S. Adriano, e da Rosalia, dei marchesi Bajardi. Laureatosi in giurisprudenza presso l'università di Palermo, abbandonò ben presto la carriera forense e si dedicò interamente agli studi, per i quali sentiva maggiore inclinazione. Di questa sua attività scientifica sono testimonianza, oltre le numerose pubblicazioni, parecchi manoscritti, conservati presso la Biblioteca comunale di Palermo e riguardanti le più disparate discipline, dall'economia alla storia, dalla filosofia alla statistica, dal diritto penale al diritto comparato, dalle letterature classiche a quelle straniere moderne. Fu inoltre fra i membri più influenti e attivi dell'Istituto di incoraggiamento di agricoltura, arti e manifatture in Sicilia, creato con decreto del 9 nov. 1831, e collaborò con vari saggi di argomento giuridico ed economico al Giornale di statistica, pubblicazione periodica sorta nel 1835, soprattutte per impulso di Francesco Ferrara, sotto il patrocinio della Direzione centrale di statistica, fondata nel marzo 1832 a Palermo.
Il suo saggio Difetti e riforme delle statistiche dei delitti e delle pene, (in Giornale di statistica, III [1838], pp. 270-334 e V [1840], pp. 110-195) meritò, tra l'altro, le lodi del Mittermaier nei suoi Italienische Zustände (Heidelberg 1844, pp. 134 ss.). Le dottrine economiche dell'A. erano ispirate a un liberismo vigoroso e deciso, contrario a ogni sorta di barriere doganali, mentre le sue idee filosofiche, così come si presentano nei suoi primi scritti, s'ispiravano a un temperato empirismo, in polemica più o meno esplicita con il kantismo ed il pensiero hegeliano. Né, quando penetrarono nell'isola le dottrine di Gioberti e Rosmini, l'A. se ne senti attratto, per accostarsi invece al Romagnosi, al quale era unito dal medesimo intento nella ricerca di un ordinamento civile che servisse di criterio e di giustificazione a tutte le leggi dello Stato. Assai viva, inoltre, era in lui la diffidenza per la nuova realtà sociale che andava creando, specie in Inghilterra, la rivoluzione industriale, e contro i cui aspetti negativi mise in guardia, nel 1845, col suo scritto: Studi su l'indole, la misura e il progresso dell'industria comparata delle Nazioni (in Atti d. Accad. di Scienze e lettere di Palermo, n. s., I [1845], pp. 26, 37 e passim). Particolarmente viva, nell'A., era a questo proposito la convinzione dell'assoluta necessità che il progresso economico e industriale delle nazioni fosse rigorosamente subordinato a quello morale e che all'"economia delle macchine "venisse sostituita l' "economia degli uomini".
Nel 1841 fu nominato alla cattedra di diritto penale presso l'università di Palermo e, nonostante le avverse condizioni politiche allora dominanti nel regno borbonico, informò sempre il suo insegnamento allo spirito liberale. Particolare impressione fece, tra l'altro, una sua lezione contro la pena di morte tenuta nel dicembre 1842.
Queste sue convinzioni liberamente espresse e i suoi legami con il partito costituzionale lo resero ben presto molto sospetto alla polizia borbonica, tanto che alla vigilia della rivoluzione del gennaio '48, e precisamente nella notte tra il 9 e il 10, fu arrestato insieme con il Ferrara, il Perez e altri esponenti liberali. Scarcerato poco dopo, grazie alla vittoria popolare, fu membro assai attivo del comitato rivoluzionario di Palermo, in cui sostenne, contro quanti proponevano la convocazione di un'assemblea costituente, l'opportunità di una soluzione più moderata, e cioè il ripristino della costituzione siciliana del 1812, sia pure riformata e adattata alle nuove condizioni politiche. Eletto deputato al parlamento dell'isola per l'università di Palermo e per il collegio di Salemi, optò per quest'ultimo, e il 25 marzo fu eletto vice-presidente della Camera dei Comuni; il giorno successivo fu chiamato alla presidenza della commissione per il regolamento del potere esecutivo.
Verso la fine d'aprile ricevette, insieme con Giuseppe La Farina e con il barone Casimiro Pisani, l'incarico di recarsi in missione a Roma, Firenze e Torino allo scopo di ottenere da quelle corti il riconoscimento del nuovo governo siciliano, l'ammissione dell'isola nella lega italiana e l'interposizione dei loro buoni uffici a Napoli per far cessare le ostilità. Inoltre l'A. ed i suoi colleghi avrebbero dovuto esplorare le possibilità esistenti per l'eventuale designazione di un principe lorenese o sabaudo a cingere la corona di Sicilia. Intanto, però, la situazione italiana precipitava. Resasi fin dall'inizio inutile la missione a Roma, in conseguenza del mutato atteggiamento di Pio IX concretatosi nella famosa allocuzione del 29 aprile, l'A. passò direttamente a Torino, ove rimase fino all'anno successivo, senza peraltro riuscire a persuadere il duca di Genova, secondogenito di Carlo Alberto, ad accettare il trono siciliano offertogli dal parlamento dell'isola nel luglio 1848.
Subito dopo Novara, volle far ritorno a Palermo, nonostante le truppe borboniche avessero già iniziato la riconquista dell'isola sotto il comando del Filangieri. Ma il suo ritorno in patria non ebbe che brevissima durata: compreso nell'elenco dei 43 patrioti espressamente esclusi dall'amnistia concessa dal Filangieri una volta conseguita la vittoria definitiva, l'A. s'imbarcò su una nave inglese per Malta, donde passò esule a Genova. Qui ottenne dal governo piemontese la cattedra di diritto costituzionale presso la locale università e attese alla redazione della sua opera maggiore, che vide la luce a Genova nel 1857: la Critica di una scienza delle legislazioni comparate, in cui egli volle applicare organicamente la teoria del progresso, a lui cara, alla scienza della legislazione comparata, della quale deve considerarsi tra i fondatori e a cui si propose di dare assetto e consistenza scientifica su basi storicistiche, dimostrandone l'autonomia di fronte ad altre scienze già per lunga tradizione consolidate. Contemporaneamente, fu assiduo collaboratore dell'Economista di Torino, sulle cui colonne proseguì la sua battaglia in favore del liberismo.
Con la Critica l'A. si affermò definitivamente come "uno dei più acuti interpreti", come osservò Croce, del Vico, delle cui idee tale sua opera risulta profondamente intrisa da cima a fondo. Non per nulla, del resto, l'A. poteva osservare che "la legislazione comparata è quasi lo spirito che dentro alimenta e per tutte le parti sparso muove la gran mole della Scienza Nuova". E sulle orme del Vico egli diede un'impostazione prettamente storicistica, fondata su una rigorosa indagine sperimentale, al problema che si era proposto, quello cioè della possibilità di enucleare organicamente una scienza delle legislazioni comparate, distinta ed autonoma dalle altre scienze. Del filosofo napoletano l'A. non fu, tuttavia, pedissequo ed acritico imitatore, ed assoggettò a critica serrata la concezione vichiana della "spontaneità ed uniformità del corso delle genti, iniziato, continuato e compiuto da ciascuna separatamente senza il menomo aiuto, né la menoma influenza di un'altra". Mentre cioè per il Vico ogni nazione costituiva quasi un mondo a parte ed a sé stante, che in completo isolamento compiva il suo ciclo storico perpetuamente rmnovantesi in un eterno ricorso, l'A., riallacciandosi in ciò al Romagnosi, sosteneva il principio della comunicabilità del diritto, del passaggio della tradizione da popolo a popolo sulla base di due elementi perenni ed universali: l'imitazione e la propagazione. Ed appunto in questa comunicabilità di tradizioni fra un popolo e l'altro egli vedeva il fondamento del progresso, definito come "un movimento continuo ad una provveduta meta di perfezione per mezzo della tradizione", che costituisce la legge interna, necessaria, che governa la dialettica della storia. A questo progresso egli attribuiva un carattere indefinito, rifacendosi in ciò al concetto da lui elaborato della perpetua novità della storia, che mai può volgersi indietro, per procedere invece sempre avanti, costantemente nuova.
Nel dicembre 1859 l'A. fu nominato professore di filosofia della storia presso l'Istituto di studi superiori di Firenze, ove il 24 marzo dell'anno seguente tenne la prolusione sul tema: Del concetto generale e dei comuni principi della filosofia della storia.
Il successo della spedizione garibaldina dei Mille lo richiamò ben presto in Sicilia: sbarcato il 17 ag. 1860 a Palermo, si fece subito assertore del principio che le sorti dell'isola dovessero venir decise non mediante plebiscito, il che avrebbe significato inevitabilmente l'annessione incondizionata al Piemonte, alla quale era ostile, bensì da un'assemblea di rappresentanti all'uopo eletti. Profondamente amareggiato dalla piega presa dagli eventi nel senso del plebiscito e dell'annessione incondizionata, l'A. rifiutò la nomina a vicepresidente del Consiglio straordinario di stato, istituito dal prodittatore Mordini con l'incarico di "studiare ed esporre al Governo quegli ordini e quelle istituzioni atte a conciliare i bisogni particolari della Sicilia con quelle generali dell'unità e prosperità della nazione italiana". Poco dopo respinse anche la nomina a consigliere ordinario di stato e presidente del Consiglio superiore di istruzione pubblica di Sicilia, non sentendosi di accettare l'indirizzo politico ormai prevalente e del tutto in contrasto con le sue convinzioni sostanzialmente federaliste.
Sotto la luogotenenza del Montezomolo ritornò per breve tempo alla vita politica, assumendo nel gennaio 1861il dicastero dell'Interno nel Consiglio di luogotenenza formato dal marchese Vincenzo di Torrearsa, con l'apporto di varie correnti politiche siciliane, ma alla fine del mese si dimise.
Eletto nel 1861 alla Camera per il collegio di Palermo, prese parte a vari dibattiti parlamentari aventi per oggetto problemi siciliani; ma nel 1862 rinunciò al mandato a causa di una grave malattia del figlio, che infatti morì poco dopo. Rieletto nel 1867, sempre a Palermo, combatté vigorosamente il disegno di legge governativo sulla soppressione delle corporazioni religiose e la liquidazione dell'asse ecclesiastico, e sullo scorcio di quello stesso anno rinunciò nuovamente al mandato parlamentare. Ritiratosi così definitivamente dalla vita pubblica, si spense nella città natale il 21 febbr. 1870.
Fra gli scritti principali, oltre quelli già citati, si ricordano: Sopra gli elementi di filosofia del prof. V. Tedeschi, in Effemeridi scientifiche e letterarie per la Sicilia, VIII (1833), pp. 126-148, e IX (1834), pp. 162-191; Il sistema protettore e la collisione degli interessi rivali, in Giornale di statistica, III (1838), pp. 73-101; Degli elementi che costituiscono la scienza del diritto penale, Tentativo di una teoria del progresso, ibid., VI (1841), pp. 16-36.
Fonti e Bibl.: M. Amari, Carteggio raccolto e postillato da A. D'Ancona, I, Torino 1896, pp. 90, 104-106, 256-59, 260-63, 274-78; II, ibid. 1896, pp. 25-27; III, ibid. 1907, pp. 16, 173-74; E. Di Carlo, Lettere inedite di P. E. Giudici ad Emerico Amari, in Arch. stor. siciliano, n. s., XLV (1924), pp. 428-432; Id., Alcune lettere inedite di uomini illustri ad E. A., ibid., n. s., XLVI (1925), pp. 133-140; F. Maggiore Perni, Di E. A. e delle sue opere, in Per E. A. L'Accademia palermitana nella solenne tornata del 18 dic. 1870, Palermo 1871, pp. 1-110 (vi si trova fra l'altro un accurato elenco delle opere manoscritte dell'A.); G. di Menza, Il prof. E. A. e la teoria del progresso sociale. Ricordi, ibid., pp. 111-122; L. Sampolo, Commemorazione di E. A. letta il 21 nov. 1870 nell'Università di Palermo, Palermo 1871; E. Werner, E. A. in seinen Verhaeltnisse zu G. B. Vico, Wien 1880 (opera poi tradotta in italiano da G. Vadalà-Papale: E. A. nelle sue relazioni con G. B. Vico, in Atti d. R. Accad. di scienze lettere e arti di Palermo, n. s., X [1887-88], pp. 3-48); E. Di Carlo, Carlo G. A. Mittermaier ed E. A., in Arch. stor. per la Sicilia, IV (1938-39), pp. 533-36; Id., E. A. e l'Accademia di filosofia italica, in Atti d. R. Accad. di scienze lettere e arti di Palermo, s.4, III (1942), pp.415-53; Id., E. A., Brescia 1948; B. Croce, Bibliografia vichiana accresciuta e rielaborata da F. Nicolini, I, Napoli 1947, p. 443, II, Napoli 1948, pp. 624-25; R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Bari 1950, pp. 265-68, 315 s. e passim; G. A. Sinicropi, Scienza e storicismo in E. A., in Historica, 1950, pp. 18-22; I. Lumia, E. A. nel 1848, in Congresso di studi storici sul '48 siciliano, Atti, Palermo 1950, pp. 309-21; M. A. Benedetto, Vico in Piemonte. Contributo alla storiografia filosofica e giuridica nell'età del Risorgimento, in Accademia delle Scienze di Torino, Memories, .3, III (1952), pp. 37-266 (in particolare pp. 244-55); A. Di Pasquale, Sugli studi statistico-giudiziari di E. A., in Atti della R. Accad. di scienze lettere ed arti di Palermo, s. 3, XIII, (1952-53), pp. 233-43; G. Lumia, Economia e politica nella vita e nelle opere di E. A., in Il circolo giuridico L. Sampolo, XXVIII (1957), pp. 32-107; F. Brancato, Storia della Sicilia post-unificazione, I, La Sicilia nel primo ventennio del Regno d'Italia, Bologna 1956, pp. VI, X, 70, 76, 101, 110, 119, 120, 133, 134, 136, 137, 263, 336, 395, 461.