Epistemologia delle scienze sociali
Le moderne scienze sociali si articolano in una pluralità di discipline teoriche, storiche e normative aventi per oggetto lo studio dei contesti sociali: dalla teoria economica alla sociologia, all'antropologia, alla scienza politica e alla psicologia sociale fino alla storia sociale ed economica e alla storia della cultura, del diritto, della morale e della religione. L'aspirazione a conoscere la realtà sociale ha una preistoria che risale all'antichità greca; i problemi allora discussi e le soluzioni proposte entrarono a far parte della metafisica medievale, determinante per la visione del mondo dell'Europa cristiana. Con la nascita delle moderne scienze naturali, a partire dalla rivoluzione copernicana nel XVI secolo, quella metafisica subì un'erosione che portò a una visione del mondo totalmente diversa. A cominciare dal XVII secolo questo mutamento coinvolse anche la riflessione sui contesti sociali, che si affrancò dall'antica impostazione metafisica e diede origine a una filosofia sociale fondata su basi antropologiche, nel cui quadro si svilupparono le scienze sociali moderne.
Questo processo fu avviato da Thomas Hobbes, che con la problematica e il metodo della sua filosofia dello Stato esercitò un influsso decisivo sul pensiero successivo in questo ambito. Già in Hobbes si incontrano sia il naturalismo, che avrebbe caratterizzato lo sviluppo delle scienze sociali nel Settecento, sia l'individualismo metodologico, che divenne componente essenziale di una tradizione di studi sociali sviluppatasi nell'ambito dell'illuminismo anglo-scozzese, il cui risultato più importante è stato l'economia politica classica e neoclassica del XIX e del XX secolo.
Da un orientamento collettivistico nato nell'ambito dell'illuminismo francese ebbe origine nell'Ottocento la sociologia, che fino ai giorni nostri ha conservato in gran parte questo suo carattere originario. Un orientamento decisivamente collettivistico è quello nato dal tentativo marxista di associare idee dell'illuminismo francese e scozzese a concezioni derivate dall'idealismo tedesco.
Nell'Ottocento lo storicismo portò a una svolta antinaturalistica nelle scienze dello spirito; il rapporto fra teoria e storia, fra spiegazione e comprensione divenne un tema centrale del dibattito metodologico in varie scienze sociali. Un altro tema di discussione fu offerto dall'orientamento normativo di molti studi nel campo delle scienze sociali e dalle critiche a esso rivolte dai sostenitori del principio di avalutatività.
Le moderne scienze sociali hanno adottato fin dagli inizi il concetto di spiegazione affermatosi nelle scienze naturali a cominciare dal Seicento. Seguendo il modello della teoria newtoniana, per ottenere spiegazioni adeguate occorreva richiamarsi a regolarità. Al pari di molti altri studiosi, Adam Smith prese appunto a modello il sistema newtoniano per svolgere un'analisi teorica di rapporti reali. La base comune era il naturalismo, ossia l'ipotesi che i fenomeni sociali di ogni genere, e quindi anche lo sviluppo storico, fossero inseriti in un ordine naturale e che anche gli eventi sociali fossero soggetti a regolarità analoghe a quelle riscontrabili nella natura. Solo per quel che riguarda il problema di individuare tali regolarità sorgevano delle divergenze. Nell'ambito del naturalismo si formarono varie scuole teoriche e diversi programmi epistemologici, in concorrenza tra loro nella ricerca di regolarità rilevanti e di modalità esplicative. Inizialmente vennero spesso privilegiate teorie generali capaci di abbracciare la totalità della vita sociale, ma nel corso dell'Ottocento si costituirono singole discipline - l'economia politica, la sociologia, l'antropologia - che si concentrarono su problemi più specifici.
Si definisce 'teoria' un sistema di enunciati formulato con l'ausilio di uno specifico apparato concettuale e destinato a cogliere caratteristiche generali della realtà, ossia invarianze (regolarità), in base alle quali spiegare nessi concreti - eventi, situazioni, sviluppi. Gli enunciati fondamentali dei sistemi teorici sono quindi enunciati nomologici che descrivono invarianze di questo tipo. Se si accetta una concezione realista, occorre distinguere questi enunciati dai fatti (nomici) descritti (v. Bunge, 1967, vol. I, pp. 305-379). Vi sono varie versioni del realismo (v. Musgrave, 1977): il realismo moderato si limita ad assumere che le teorie contengano descrizioni vere o false di nessi reali utilizzabili per spiegare determinati aspetti dell'accadere. Non si afferma né che la verità di tali descrizioni è certa, né che esse contengono sempre verità 'ultime', non ulteriormente riducibili, né che sono complete e quindi capaci di spiegare tutto.
Al contrario del realismo, lo strumentalismo non attribuisce un carattere descrittivo ai sistemi di enunciati teorici, ma li tratta come semplici strumenti per dedurre enunciati osservativi da altri enunciati dello stesso tipo, ossia soprattutto come strumento di previsione. Finora è stato sostenuto di rado uno strumentalismo di principio, in quanto per i fini delle scienze sociali è sufficiente il realismo moderato; esistono tuttavia tendenze strumentaliste, specialmente nel pensiero economico. L'influsso delle tesi di Thomas Kuhn (v., 1962; per le critiche mossegli v. Andersson, 1988) ha contribuito inoltre alla diffusione di concezioni relativistiche.
Dal punto di vista della forza esplicativa rispetto a fenomeni concreti vi sono notevoli differenze tra le varie teorie (v. Bunge, 1967, vol. II, pp. 44-53). Anzitutto queste possono essere più o meno generali, ossia avere un campo d'applicazione più o meno esteso. Una teoria sociologica, ad esempio, può riferirsi solo a piccoli gruppi, mentre un'altra può valere per gruppi di ogni tipo. Le teorie possono poi presentare un diverso grado di precisione: possono attribuire agli individui presi in considerazione un comportamento finalizzato in generale, o tendente a una minimizzazione dei costi, o tendente a una massimizzazione dei benefici (quest'ultimo comportamento implica logicamente gli altri due). Le teorie possono avere inoltre un diverso grado di approfondimento: ad esempio, una teoria monetaria può mettere in relazione tra loro due grandezze macroeconomiche come il livello dei prezzi e la quantità di moneta, allo scopo di spiegare i movimenti inflazionistici e deflazionistici, mentre una teoria più approfondita può scoprire le forze e i meccanismi (concatenazioni di azioni individuali) che stanno dietro i fenomeni da spiegare. Un grado più elevato di generalità, di precisione o di approfondimento contribuisce ad aumentare la forza esplicativa di una teoria. Talvolta una teoria più approfondita fornisce una spiegazione correttiva di teorie più generiche, garantendone la validità approssimativa in particolari condizioni (v. Popper, 1972; v. Malewski, 1964). Si consideri ad esempio la 'legge ferrea dell'oligarchia' enunciata da Roberto Michels, secondo la quale non possono esserci organizzazioni democratiche durevoli (v. Michels, 1911): analizzando un'organizzazione sindacale Seymour Lipset, Martin Trow e James Coleman (v., 1956) hanno invece dimostrato che in determinate circostanze una tale possibilità esiste. Questa analisi implica dunque una spiegazione correttiva della legge di Michels.
Quando gli enunciati nomologici vengono formulati come enunciati condizionali generali, la loro generalità dipende dall'antecedente ('se') e la loro esattezza dal conseguente ('allora'). Un antecedente logicamente più forte riduce la generalità e quindi il contenuto d'informazione dell'enunciato, in quanto ne restringe il campo d'applicazione; un conseguente logicamente più forte accresce invece l'esattezza dell'enunciato e quindi il suo contenuto d'informazione. Lo schema logico (x) (P(x)f3®Q(x)), spesso usato per caratterizzare gli enunciati nomologici, non tiene conto del fatto che da un enunciato di questo tipo conseguono infinite proposizioni condizionali controfattuali. Dalla teoria quantitativa della moneta, ad esempio, consegue che in un qualsiasi sistema sociale a economia monetaria un aumento della massa monetaria fa prevedere un processo inflazionistico. Gli enunciati nomologici contengono asserzioni su possibili eventi o situazioni, indipendentemente dal tempo e dal luogo in cui essi effettivamente ricorrono. Lo schema logico (x) (P(x) → Q(x)) inoltre non specifica quali specie di concetti ricorrano nell'antecedente e nel conseguente, né il grado di complessità di questi ultimi. I concetti in questione possono essere qualitativi, comparativi o quantitativi. Un enunciato nomologico può constatare che in determinate condizioni esiste una funzione di un certo tipo, ad esempio una funzione della domanda in cui si esprime la relazione tra la richiesta di un bene di consumo e il suo prezzo.Gli enunciati nomologici possono essere classificati in base a vari criteri. È possibile ad esempio distinguere leggi di coesistenza, che constatano la presenza simultanea di certe proprietà, e leggi di successione che asseriscono il succedersi di determinati stati. Le leggi stocastiche constatano, a differenza di quelle deterministiche, che in certe condizioni vi è una data probabilità che si verifichino certi eventi (v. Bunge, 1967, vol. I, p. 336). Vi sono inoltre enunciati nomologici che constatano l'esistenza di una relazione tra due grandezze a condizione che non intervengano influssi perturbatori (v. Gadenne, 1984, pp. 40 ss.). In questi casi viene postulata una catena causale 'aperta', che ammette il possibile intervento di altri fattori. Così un enunciato nomologico in psicologia può constatare il manifestarsi di una tendenza ad agire in un certo modo sotto l'influsso di determinati motivi, senza escludere peraltro che tale tendenza possa essere eliminata dall'intervento di altri motivi 'estrinseci'. Una teoria contenente enunciati di questo tipo implica (v. Bunge, 1967, vol. I, p. 385) un 'modello ideale' che rappresenta determinati aspetti dei sistemi reali. Il suo carattere 'ideale' è dato dal fatto che gli elementi di disturbo non svolgono alcun ruolo. Nella realtà questi modelli sono spesso attuati in modo approssimativo, oppure si cerca di approssimarli artificialmente in esperimenti. Si fa allora l'ipotesi, controfattuale, che i corrispondenti sistemi reali siano 'chiusi', che cioè su di essi non agiscano forze rilevanti per la spiegazione del processo in questione.
Si possono distinguere due specie di 'chiusure' dei sistemi reali, quella fattuale e quella nomica. Nel caso della chiusura fattuale si suppone che al di fuori del sistema non vi sia nessun elemento di cui si debbano prendere in considerazione gli effetti; nel caso della chiusura nomica si assume invece di aver tenuto conto di tutte le regolarità rilevanti, e che quindi non vi siano altre forze che possano svolgere un ruolo essenziale (v. Bergmann, 1957, pp. 93 ss.).
Nelle scienze sociali gli enunciati nomologici sono spesso accompagnati da una clausola ceteris paribus per segnalare la loro incompletezza. In generale si deve tener conto che in questo caso si tratta di sistemi aperti, sia dal punto di vista fattuale che da quello nomico. Già per questa ragione le idealizzazioni assumono un ruolo importante nella teoria delle scienze sociali. Poiché non di rado la classe dei possibili influssi perturbatori non è esattamente delimitabile, è difficile stabilire fino a che punto le condizioni di un determinato modello si avvicinino alla situazione in un sistema reale, così che si possa contare sul verificarsi delle relative conseguenze. Per questo motivo è spesso arduo verificare empiricamente le teorie. Talvolta durante l'elaborazione di un sistema teorico risulta che certi enunciati nomologici sono validi solo in condizioni 'ideali', cioè in condizioni limite, non realizzabili se non in modo approssimativo (v. Brodbeck, 1959). Solo quando si scoprono leggi più generali, capaci di spiegare i 'casi ideali' come casi particolari, è possibile mostrare su che cosa si fondi la validità approssimativa delle leggi ideali. Un'idealizzazione di questo genere è costituita in economia dal modello della concorrenza perfetta (v. Knight, 1921, pp. 76 ss.). Una teoria più generale, dotata di maggior forza esplicativa, dovrebbe poter determinare per ciascun caso il grado di approssimazione di questo modello.
Per spiegare fatti concreti (eventi, situazioni, processi), è necessario applicare alle condizioni esistenti gli enunciati nomologici delle teorie, in modo che la descrizione dei fatti da spiegare possa essere logicamente dedotta dal corrispondente sistema di enunciati: enunciati nomologici, enunciati descrittivi ed eventuali ipotesi ausiliarie (ad esempio sulla mancanza di influssi perturbatori). Si costruisce a tale scopo un modello del sistema reale al quale si riferisce la spiegazione. Un esempio tipico è sempre stato il modello del sistema solare elaborato da Newton per spiegare i moti dei pianeti. Per arrivare a una spiegazione adeguata si parte spesso da un modello con notevoli semplificazioni e idealizzazioni e si passa poi a modelli sempre più complessi, in cui tali semplificazioni e idealizzazioni vengono gradualmente eliminate fino a ottenere un modello che contenga una descrizione sufficientemente esatta del sistema. Questo procedimento di approssimazione mediante modelli sempre più vicini alla realtà è detto comunemente 'metodo di riduzione dell'astrazione' (in proposito v. Lakatos, 1970; v. Koopmans, 1957, pp. 142 s.).
A causa della sua generalità un sistema teorico è compatibile con un numero infinito di modelli. Le possibilità tipiche di applicazione di una teoria vengono di solito illustrate mediante modelli semplici e fortemente idealizzati. In economia, ad esempio, si suppone che il comportamento degli individui dipenda solo da moventi economici, che non vi siano costi di transazione, che l'informazione sia completa e che i fattori in gioco si adeguino istantaneamente alle variazioni dei prezzi. Poiché spesso la complessità dei sistemi reali è così grande da non consentire una spiegazione dettagliata dei singoli processi, nelle scienze sociali ci si accontenta non di rado di modelli che per la loro astrattezza consentono solo 'spiegazioni di principio' (v. Hayek, 1967), ossia spiegazioni che chiariscono sotto determinati aspetti il funzionamento di principio di determinati sistemi.
Nasce allora il problema di stabilire fino a che punto sia possibile verificare l'adeguatezza delle spiegazioni, e soprattutto degli enunciati nomologici di cui esse si servono, quando la complessità dei sistemi reali sembra consentire solo spiegazioni di principio. Forti dubbi in proposito sono stati avanzati negli ultimi decenni per quanto riguarda le teorie e i modelli economici, che nel campo delle scienze sociali sono fra i sistemi di enunciati più altamente sviluppati (v. Hutchison, 1960²; v. Caldwell, 1984). Evidentemente nell'ambito dei modelli consueti gli enunciati nomologici fondamentali di queste teorie, e soprattutto le ipotesi circa il comportamento degli individui, sono difficilmente verificabili. Contro le verifiche compiute in situazioni sperimentali sono state sollevate di recente serie obiezioni (v. Simon, 1987; v. Tversky e Kahnemann, 1987). D'altra parte sembra che in economia si possano ottenere spiegazioni più adeguate specificando meglio i dispositivi istituzionali rilevanti per i sistemi reali (v. Coleman, 1987). Sotto questo riguardo alcune tendenze recenti verso un istituzionalismo teorico (property rights approach, public choice theory, ecc.: v. Furubotn e Pejovich, 1974; v. Brunner, 1979) hanno portato a un considerevole miglioramento e ampliamento delle possibilità di spiegazione. È risultato inoltre che questo tipo di approccio può essere visto in generale come alternativo ad altri, per esempio al funzionalismo sociologico.
La moderna scienza storica coi suoi metodi di critica delle fonti si è sviluppata nel XIX secolo nell'ambito dello storicismo, ossia di quel movimento culturale che si era proposto di esplorare scientificamente nel suo sviluppo storico il mondo dell'uomo e di delinearne la peculiarità rispetto al mondo della natura. Non è possibile caratterizzare lo storicismo mediante un'unica dottrina di base (v. Rossi, 1977), perché le sue varie forme si differenziano tra loro anche su questioni essenziali. Lo storicismo tedesco può essere inteso come un movimento che ha cercato d'integrare la critica kantiana della ragion pura con una critica della ragione storica, ossia con un'indagine sulle condizioni di possibilità della conoscenza storica (ibid.). Si trattava soprattutto di affermare l'autonomia delle cosiddette scienze dello spirito rispetto alle scienze naturali, privilegiando come fine la conoscenza dell'accadere storico e come procedimento il metodo della comprensione.
Uno storicismo metodologico radicale fu propugnato da Johann Gustav Droysen (v., 1937), che partiva da una distinzione ontologica tra il mondo della natura e quello della storia, contestando la possibilità di spiegare i fatti storici in base a regolarità. Droysen raccomandava il metodo comprendente in esplicita opposizione a quello delle scienze naturali. In seguito tale metodo è stato privilegiato anche per le scienze sociali, senza essere peraltro contrapposto sistematicamente a quello delle scienze della natura. L'ermeneutica, in quanto dottrina del comprendere, ha continuato ad avere un ruolo notevole nella discussione sulla metodologia delle scienze sociali, ultimamente per opera soprattutto di Hans Georg Gadamer, Karl Otto Apel e Jürgen Habermas. Un movimento affine è quello che si ricollega, nell'ambiente anglosassone, a R.G. Collingwood, Peter Winch, Henrik von Wright e Ludwig Wittgenstein.Nell'economia politica il dibattito sul rapporto fra teoria e storia ebbe inizio con la controversia tra Carl Menger e Gustav von Schmoller (v. Menger, 1883 e 1884; v. Schmoller, 1883), in cui Schmoller assunse una posizione radicalmente antinaturalistica (v. Meyer, 1988). Nel quadro di una concezione olistica dei fenomeni sociali, egli propose una spiegazione causale basata principalmente su due tipi di cause: le forze psichiche e le istituzioni sociali. Non rendendosi conto dell'importanza delle regolarità nell'identificazione delle cause, Schmoller concepiva questa spiegazione come una sorta di descrizione completa. Tuttavia, in contrasto con molti rappresentanti dell'individualismo metodologico, Schmoller sosteneva che le scienze sociali dovessero essere fondate su ipotesi psicologiche. Già la vecchia scuola storica aveva messo in evidenza che la considerazione dello sviluppo storico è essenziale per il pensiero economico.
Nei paesi di lingua tedesca la contrapposizione tra la scuola storica e quella marginalista si è mantenuta fino al termine della seconda guerra mondiale. Walter Eucken (v., 1947) ha tentato di dare al problema della 'grande antinomia' di teoria e storia una soluzione che salvaguardasse la generalità della teoria rispetto alla varietà delle forme economiche storicamente esistenti, istituendo una differenza tra la verità e l'attualità dei modelli.
Lo storicismo metodologico radicale viene a trovarsi in difficoltà già per il fatto di considerare l'accadere storico come un concatenamento causale. I nessi causali infatti implicano l'esistenza di regolarità, sicché lo storico dovrebbe ammettere enunciati nomologici, se non altro come strumenti ausiliari per le sue analisi. La presenza stessa di giudizi causali individuali rende dunque problematica l'interpretazione storicistica delle rappresentazioni di eventi storici.
Per quanto riguarda il metodo comprendente, che lo storicismo preferisce al metodo esplicativo fondato sulle regolarità, si assume che le sue norme siano codificate nell'ermeneutica come tecnologia, o che una tale codificazione sia realizzabile. Una simile tecnologia presuppone però l'esistenza di regolarità nella sfera della comunicazione sociale (v. Albert, 1988, pp. 120-143), e pertanto è incompatibile con lo storicismo radicale. In effetti, già i moralisti scozzesi del Settecento avevano adoperato metodi comprendenti nel quadro di una concezione naturalistica.
Un'altra considerazione critica nasce dal fatto che gli storici cercano di ricostruire gli eventi passati in base a ciò che ne rimane (le 'fonti'). L'idea che da fonti attuali si possano trarre conclusioni sul passato urta contro l'inammissibilità logica di deduzioni che amplino il contenuto delle premesse. Solo se si ammette l'esistenza di regolarità è possibile ricostruire il passato in base alle fonti. Si può allora tentare una ricostruzione dell'accaduto che permetta di spiegare l'attuale situazione delle fonti deducendola, con l'ausilio delle regolarità rilevanti, dai fatti ipoteticamente ricostruiti. Una ricostruzione adeguata dell'accaduto comporta cioè un'attività esplicativa fondata sul sapere nomologico (v. Goldstein, 1962); la ricostruzione in questione può essere poi verificata nello stesso modo in base a nuove fonti e può eventualmente essere riveduta. La scienza storica viene così ricondotta all'applicazione del metodo ipotetico-deduttivo proprio delle scienze positive. Inoltre essa cerca in generale di spiegare gli eventi stessi che sono al centro dell'attenzione dello storico, ma nemmeno ciò è possibile senza richiamarsi (in modo implicito o esplicito) a regolarità.Gli esponenti della filosofia analitica della storia affermano spesso che la scienza storica ha una struttura narrativa (v. White, 1983); già Droysen aveva indicato che si tratta di un problema di modalità di rappresentazione e che esistono altre descrizioni possibili (v. Droysen, 1937, pp. 273 ss.; v. Weber, Kritische Studien..., 1951², p. 278). Ogni rappresentazione presuppone però una ricostruzione adeguata degli avvenimenti e quindi una spiegazione (sulla critica del narrativismo v. Goldstein, 1976, pp. 129-182). Inoltre le narrazioni contengono di solito elementi causali, e vengono quindi ammesse, almeno implicitamente, delle regolarità. Spesso le regolarità con cui ha a che fare la storia hanno un carattere banale, cosicché non è necessario formularle esplicitamente.
Il privilegiamento del metodo comprendente non è affatto legato allo storicismo radicale: questo metodo può avere infatti un senso anche nel quadro di una concezione naturalistica.
Nelle scienze sociali il 'comprendere' ha per lo più come oggetto i nessi di senso: si tratta principalmente del significato di segni e complessi di segni di varia specie, che possono avere il carattere di sintomi, di segnali o di simboli (v. Bühler, 1965²), assolvendo rispettivamente una funzione espressiva, orientativa o rappresentativa. Il linguaggio come 'strumento di rappresentazione' adempie tutte queste funzioni; col suo aiuto gli individui sono in grado di esprimere sentimenti, atteggiamenti e opinioni di ogni genere, di influire sui comportamenti, sulle disposizioni e sulle opinioni di altri individui, di descrivere stati di cose reali o possibili, nonché di argomentare. L'identificazione del senso delle espressioni linguistiche è quindi un problema fondamentale del comprendere. Poiché le fonti scritte sono una delle basi essenziali della ricerca storica, questo tipo di comprensione è di grande importanza per essa. In tale contesto lo scopo primario del comprendere è di identificare il senso che gli autori dei testi hanno associato alle loro espressioni: quest'obiettivo è stato perso di vista dall'ermeneutica filosofica ispirata a Heidegger (per un'analisi critica v. Hirsch, 1967, pp. 245 ss.).
Ma i testi che gli storici adoperano come fonti sono il prodotto di azioni umane che hanno un rapporto causale con altre azioni: sono ad esempio sottoprodotti dell'attività amministrativa di determinate burocrazie. Chi utilizza le fonti come base della ricerca è tenuto ad accertare il contesto causale in cui esse sono nate, e per far questo deve comprendere non solo i testi, ma anche le azioni che hanno portato alla loro produzione e quelle che da essi sono state influenzate. La comprensione delle azioni è una comprensione di moventi, che mira a identificare nel comportamento in questione componenti dotate di senso (le intenzioni o finalità dell'agente; le sue ipotesi sulla natura della situazione, sui mezzi possibili e sui loro effetti; le sue aspettative, le sue valutazioni degli scopi e dei mezzi, le norme in base alle quali orienta il suo agire, ecc.). Si cerca di identificare queste componenti perché si attribuisce a esse un ruolo causale rispetto alle azioni in questione.
Ciò dimostra che il metodo comprendente non è affatto in contrasto con un'impostazione causale e con la connessa ricerca di un sapere nomologico. Dal dibattito sul carattere causale dei moventi e sulla loro importanza per la spiegazione delle azioni è risultato che a essi può essere effettivamente attribuito un ruolo causale (v. Tuomela, 1988; v. Dretske, 1988); anche per spiegare le azioni è dunque necessario un sapere nomologico. A questo proposito Max Weber sosteneva la necessità dell'adeguatezza di senso e dell'adeguatezza causale di queste spiegazioni. Le ipotesi interpretative in cui alle azioni viene attribuito un determinato senso sono quindi, al tempo stesso, tentativi di identificarne le cause; tali ipotesi sono soggette in linea di principio al controllo empirico. Per la comprensione delle azioni non possono essere trascurati i risultati ottenuti dalla psicologia nello studio della motivazione e delle sue regolarità. Non è pertanto accettabile una rigida separazione della psicologia dalle scienze sociali teoriche. Se alle ipotesi di comportamento di tipo contenutistico, che per principio sono soggette alla critica psicologica, si volesse sostituire una 'logica dell'azione', una 'logica della decisione' o una 'prasseologia' formale, ciò significherebbe rinunziare al metodo esplicativo proprio delle scienze positive.In alcuni casi la ricerca di componenti dell'agire umano dotate di senso può essere compiuta solo richiamandosi alla comprensione di testi disponibili sia al ricercatore, sia alla persona le cui azioni sono oggetto di indagine: ciò avviene ad esempio quando si voglia spiegare non solo l'esistenza, ma anche il contenuto di una previsione che un astronomo comunica ad altri o di una sentenza emessa da un giudice. Per poter spiegare i comportamenti in questione in relazione agli aspetti menzionati occorre consultare i testi pertinenti: nel primo caso quelli di astronomia, nel secondo quelli giuridici (leggi, commenti, raccolte di sentenze). Tali testi vanno presi in considerazione solo in quanto mettono in luce fattori aventi rilevanza causale per la spiegazione dell'azione di cui si tratta.
Dire che nella ricerca storica è necessario il sapere nomologico non significa affermare la necessità di 'leggi storiche' specifiche, ossia di leggi che determinano nella sua totalità il corso degli eventi storici e presuppongono quindi che esso abbia uno scopo. Leggi di sviluppo di questo tipo, che in seguito alla secolarizzazione della filosofia della storia d'ispirazione teologica hanno influito sul pensiero di scienziati sociali come Hegel, Comte o Marx, non hanno niente in comune col sapere nomologico (v. Popper, 1957): esse non sono fondate sull'idea di causalità tipica delle scienze naturali, bensì sull'idea che la storia ha un decorso conforme a un piano e tende a uno stato finale. Nell'ambito del naturalismo i processi storici possono essere meglio intesi in base all'analogia con l'idea darwiniana di un processo determinato dalla mutazione e dalla selezione, sostituendo alla mutazione la scoperta di nuove soluzioni (innovazioni) e all'ereditarietà la tradizione e l'imitazione.
Un altro problema è quello, presente nel pensiero marxista, della storicità delle leggi sociali. Ad esempio Marx parla di "leggi naturali della produzione capitalistica" e vede lo scopo ultimo della sua opera nella "scoperta della legge del moto economico della società moderna", aderendo alla concezione secondo cui ogni periodo storico ha le proprie leggi e non esistono leggi generali della vita economica (v. Marx, 1867). Secondo Nikolaj Bucharin, Marx avrebbe sottolineato il carattere rigorosamente storico della propria teoria economica e la relatività (storica) delle sue leggi (v. Bucharin, 1919, p. 49). Tuttavia, come risulta dalle spiegazioni dello stesso Bucharin, le leggi dell'economia politica sono 'storiche' solo in quanto le condizioni generali in esse formulate si realizzano de facto solo in un determinato stadio evolutivo della vita sociale. Tale carattere storico in realtà non riguarda la natura intrinseca delle leggi in questione, ma solo il manifestarsi delle condizioni per la loro applicabilità. Secondo questa concezione gli enunciati nomologici dell'economia politica sono applicabili solo alle società capitalistiche, cioè quando siano presenti certe condizioni sociostrutturali.
Anche Oskar Lange (v., 1963, pp. 63 ss.) parla di leggi 'storiche' e distingue regolarità di diversa portata, valide - a seconda della durata delle condizioni richieste per la loro efficacia - per parecchie o addirittura per tutte le formazioni sociali. Anche per Lange la 'storicità' delle leggi è compatibile col carattere di generalità che di solito viene associato al concetto di legge.
Di una vera storicità delle regolarità sociali si potrebbe parlare solo se la validità dei relativi enunciati fosse limitata a determinati ambiti spazio-temporali (non a fatti strutturali), ma con ciò verrebbe meno la loro generalità (v. Popper, 1984⁸, pp. 34 ss.). I sostenitori dello storicismo moderato vorrebbero adoperare queste regolarità (le cosiddette 'quasi leggi') come componenti di 'teorie storiche' per la spiegazione di fatti concreti (v. Mannheim, 1935, pp. 130 s., sui principia media; v. Löwe, 1935, p. 101; v. Mackenroth, 1953, pp. 111 ss.). Le invarianze soggette a una delimitazione spazio-temporale espresse da queste 'quasi leggi' non sono una peculiarità delle scienze sociali, giacché si ritrovano anche nelle scienze della natura (v. Popper, 1957). Ma non è detto che ci si debba limitare a munire i relativi enunciati di un 'indice' spazio-temporale che li relativizzi storicamente; si può anche cercare di appurare le condizioni per cui le invarianze in questione ricorrono proprio in quel determinato ambito spazio-temporale, riferendole a tali condizioni relativamente invarianti. Una simile relativizzazione strutturale porta a eliminare il riferimento spazio-temporale. Tra le 'quasi leggi' strutturalmente relativizzate possono essere annoverate le regolarità presenti in determinate formazioni sociali utilizzate dai marxisti: esse acquistano così la generalità richiesta per le leggi, giacché le formazioni sociali in questione sono di solito determinate da caratteri strutturali generali. Non è poi da escludere che si possano spiegare queste regolarità in base a teorie di livello più elevato. Una terza specie di relativizzazione, quella analitica, assicura la generalità di queste leggi, ma determina una perdita di contenuto d'informazione dei corrispondenti enunciati; in questo tipo di relativizzazione gli enunciati vengono espressi in forma condizionale in modo tale da ricondurli alle condizioni da cui sono deducibili logicamente.
Naturalmente può sempre sorgere la questione se le regolarità finora scoperte abbiano effettivamente un carattere generale, o se invece si sia erroneamente attribuito tale carattere a regolarità che di fatto sono storicamente limitate: si pensi ad esempio alla 'legge ferrea del salario' dell'economia classica o ad altri enunciati analoghi. Tale problema non può essere risolto affermando la storicità delle leggi finora trovate; è necessario piuttosto mostrare caso per caso che la generalità ipotizzata non sussiste. A tal fine non è sufficiente una filosofia generale della storia che affermi la storicità dei fatti sociali.
Nelle moderne scienze sociali è possibile distinguere due specie di programmi epistemologici di orientamento naturalistico, che si propongono cioè, in contrasto con l'impostazione storicista, di scoprire le regolarità dei fenomeni sociali: i programmi individualistici e quelli collettivistici (olistici). Nel primo caso si cerca di spiegare tutti i fenomeni con il gioco combinato dei comportamenti e delle disposizioni degli individui; nel secondo caso le varie formazioni sociali (gruppi, classi, associazioni, ecc.) sono viste come entità sui generis, che ubbidiscono a regolarità proprie e non sono quindi spiegabili in termini individualistici (v. Bohnen, 1975; v. Vanberg, 1975).
Thomas Hobbes, che si iscrive nella tradizione individualistica, è stato il primo a porsi, nel quadro di una metafisica materialistica, il problema delle condizioni di possibilità di un ordinamento sociale cercando di risolverlo mediante il metodo galileiano analitico-sintetico (v. Watkins, 1973, pp. 34 ss.). Nell'ambito di un esperimento mentale Hobbes scompone la società nei suoi elementi costitutivi (gli individui), scopre le leggi che determinano il loro comportamento e da tali leggi deduce l'ordinamento che ne è la necessaria conseguenza. Le ipotesi fondamentali di Hobbes sono che il comportamento individuale è determinato dall'interesse egoistico e che la scarsità dei beni è una situazione di partenza generale, che rende inevitabili la concorrenza e il conflitto. Da queste premesse discende la soluzione hobbesiana secondo la quale la pace, condizione essenziale di una vita sociale ordinata, può essere garantita solo se si riesce a istituire un monopolio della violenza il cui titolare sia in grado di assolvere tale compito (v. Mackie, 1980, p. 10, dove si nota come Hobbes abbia scoperto un caso paradigmatico del 'dilemma del prigioniero' formulato dalla moderna teoria dei giochi). Il cosiddetto 'stato di natura' da cui Hobbes prende le mosse è un caso limite, che di fatto è realizzabile solo in modo approssimato. Le leggi causali da lui postulate hanno forma di imperativi ipotetici che si ricollegano ai bisogni fondamentali dell'uomo.
Il successivo dibattito, pur rifacendosi costantemente alla concezione di Hobbes, ha portato a modificare le sue ipotesi di partenza e la soluzione da lui data. David Hume modificò l'ipotesi dell'interesse egoistico in modo da tener conto anche dell'interesse per il benessere degli altri, e cercò di dimostrare che in determinate circostanze la consapevolezza dei vantaggi della cooperazione porta a stabilire norme giuridiche rispettate da tutti (ibid., pp. 82 ss.). Queste norme possono essere salvaguardate da sanzioni che nascono nella vita sociale su basi naturali, attraverso reciproche ricompense e punizioni. Finché è sufficiente la minaccia di comportarsi in modo non cooperativo, si può fare a meno di un'autorità esterna. Il principio di reciprocità - cioè l'ipotesi che il comportamento degli individui appartenenti a un sistema sociale è guidato in larga misura dal fatto che i comportamenti aventi conseguenze negative o positive per gli altri vengono da questi rispettivamente puniti o premiati - ha sempre avuto un ruolo importante nella tradizione individualistica, fino alle moderne teorie dello scambio. Sebbene l'osservanza delle norme giuridiche sia nell'interesse a lungo termine di tutti, e quindi ci si possa attendere un comportamento conforme a esse, secondo Hume interessi immediati possono determinare la violazione di tali norme (ibid., pp. 106 ss.). A ciò si può ovviare con l'istituzione di un governo, ossia creando dei ruoli i cui titolari siano direttamente interessati all'osservanza delle norme in questione e dispongano del potere necessario per imporla.
A Hume si riallaccia Adam Smith, che può essere anch'egli incluso nella tradizione individualistica. In genere Smith è considerato erroneamente un economista puro; in realtà egli vedeva la società come un sistema di azioni il cui funzionamento può essere compreso mediante lo studio dei comportamenti individuali e delle loro regolarità, e cercò una spiegazione unitaria dei più svariati fenomeni sociali indagando i rapporti tra morale, diritto, economia, politica e religione, entro una cornice che ammetteva e in parte spiegava il mutamento e lo sviluppo sociali (v. Campbell, 1971, pp. 82 e 235). Il fondamento del suo approccio esplicativo, ossia la teoria dei sentimenti morali, è di fatto una sociopsicologia in cui, fra l'altro, la formazione dei giudizi etici è spiegata come risultato dell'interazione fra i comportamenti individuali, sotto l'influsso dei bisogni e dei sentimenti; in questo contesto hanno un ruolo primario i sentimenti retributivi (gratitudine, rancore, ecc.), i processi di confronto sociale e le diverse posizioni degli agenti e degli osservatori. Su queste basi Smith edificò la sua teoria economica, incentrata sul meccanismo dei prezzi come regolatore della produzione e della distribuzione dei beni. In essa il mercato è concepito, nell'ambito di norme giuridiche, come un sistema di controllo sociale autoregolato, il cui funzionamento ubbidisce a determinate regolarità (v. Taylor, 1960, pp. 77 ss.). Come altri rappresentanti dell'illuminismo scozzese, Smith conduce la sua analisi del sistema sociale su basi individualistiche, mettendo in evidenza gli effetti non intenzionali derivanti dall'intreccio dei comportamenti individuali e studiando gli effetti dei dispositivi istituzionali in base a determinate ipotesi sulla natura umana e su situazioni sociali tipiche. Le sue ricerche comparate sul sistema della libertà naturale e altri sistemi possono considerarsi come analisi di tecnologia sociale miranti a definire un ordinamento della società che garantisca nel modo più efficace il benessere dell'uomo.
Nell'Ottocento, specialmente per influsso di David Ricardo, il pensiero economico si svincolò dall'analisi di altri ambiti sociali e divenne una disciplina specializzata, incentrata su un sistema teorico astratto le cui leggi dovrebbero spiegare il funzionamento dell'economia di mercato. Ricardo condivide con Smith l'idea che il capitalismo concorrenziale sia un sistema autoregolato che provvede ad adeguare l'offerta dei beni prodotti alla domanda e i loro prezzi ai costi di produzione (ibid., pp. 180 ss.); solo per quanto riguarda le leggi della distribuzione dei redditi la visione di Ricardo è più pessimistica.
Poco dopo il 1870 si compì nel pensiero economico la cosiddetta rivoluzione marginalista, che portò all'economia pura (neoclassica). Tale rivoluzione fu preparata dalle scoperte di alcuni studiosi (von Thünen, Cournot, Gossen), che implicavano la possibilità di matematizzare le ipotesi fondamentali della teoria. La nuova teoria soggettiva del valore (teoria dell'utilità) avrebbe dovuto consentire una spiegazione unitaria dei comportamenti individuali, e quindi di tutti i fenomeni economici. La teoria neoclassica, concepita e sviluppata da Menger, Jevons, Walras e Marshall, è stata ulteriormente rielaborata fino ai nostri giorni con l'impiego di metodi matematici e rappresenta l'edificio teorico più ampiamente sviluppato nell'ambito delle scienze sociali. Appare oggi chiaro che quest'approccio della scienza economica può essere esteso, con l'introduzione di condizioni di base istituzionali che finora non erano state prese in considerazione, a tutti i campi della vita sociale, offrendo così un'alternativa ad altri approcci, ad esempio al funzionalismo sociologico. Un orientamento individualistico si ritrova anche in alcuni sociologi come Georg Simmel, Max Weber e Vilfredo Pareto.
Impressionato come Smith dai successi della fisica newtoniana, Henri de Saint-Simon concepì una scienza della società in cui questa viene intesa come una totalità le cui leggi di movimento consentono di prevedere le future configurazioni sociali (v. Fehlbaum, 1970, pp. 8 ss.). Come in precedenza Condorcet e Turgot, Saint-Simon riteneva che il corso della storia avesse una regolarità e che la sua direzione - ma non la sua velocità né le circostanze particolari - fosse determinata dall'idea di progresso. La nuova scienza doveva essere al servizio della riforma sociale e costituire la base di un'organizzazione della società che indirizzasse verso uno scopo comune tutte le attività sociali. Mentre per Saint-Simon il dominio sull'uomo doveva essere sostituito da un'amministrazione 'oggettiva', guidata dalla forza stessa delle cose, il che avrebbe prodotto la scomparsa dello Stato, i suoi discepoli operarono una trasformazione della teoria (ibid., pp. 93 ss.), mettendo in risalto la necessità dello Stato e della gerarchia. Al posto dell'economia fondata sulla concorrenza doveva subentrare un'economia centralizzata e la nuova società - in nome di una nuova religione dell'umanità - doveva avere un carattere teocratico.
Al sansimonismo aderì Auguste Comte, che coniò per la nuova scienza il nome di sociologia. La tradizione collettivistica di cui fu l'iniziatore portò, attraverso Émile Durkheim, alla sociologia moderna, in particolare a Talcott Parsons e agli esponenti della moderna teoria sistemica che a lui si riallacciano. Durkheim va considerato una figura chiave della sociologia moderna; egli criticò la tradizione individualistica e la soluzione da essa data al problema dell'ordinamento sociale, contrapponendovi la tesi che la società è una realtà sui generis, che non può essere compresa coi metodi propri del pensiero economico. Il fatto che i contratti economici presuppongono un sistema giuridico e delle regole deontologiche dimostra che l'esistenza e l'efficacia delle norme è condizione determinante perché vi sia un ordinamento sociale. Norme di ogni genere contraddistinguono l'organizzazione sociale, che non è quindi riconducibile a disposizioni individuali. Le leggi dell'organizzazione sociale devono essere assunte come supremi principî esplicativi. Alla diffusione del funzionalismo di Durkheim - che ha influenzato anche la ricerca antropologica - ha contribuito soprattutto la sua analisi del suicidio fondata sulla teoria dell'anomia.
Talcott Parsons, che ha cercato di ricollegare la tradizione individualistica e quella collettivistica, nel suo funzionalismo sistemico ha privilegiato di fatto l'approccio durkheimiano (v. Bohnen, 1975, pp. 63 ss.). Nella sua analisi Parsons è partito dal problema hobbesiano dell'ordinamento sociale cercando di dimostrare che la tradizione utilitarista non è stata in grado di risolvere questo problema (v. Vanberg, 1975, pp. 172 ss.), in quanto non ha tenuto conto del ruolo svolto nella vita sociale dai valori e dalle norme e dal consenso sociale che essi creano. Parsons ha ripreso la tesi di Durkheim secondo cui la società è una realtà sui generis e nel costruire il suo apparato concettuale ha utilizzato il vocabolario della teoria dei sistemi, senza tuttavia essere in grado di formulare col suo ausilio enunciati nomologici che dessero alla sua teoria sistemica un valore esplicativo. L'orientamento programmatico di Parsons non era in sintonia con le sue argomentazioni concrete (ibid., pp. 184 ss.), in quanto le sue analisi dei fenomeni sociali erano in realtà basate sul paradigma individualistico dell'interazione e sul principio di reciprocità. I sociologi che si riallacciano a Parsons spesso hanno rinunziato del tutto a cercare spiegazioni, utilizzando il vocabolario della teoria dei sistemi senza associarvi l'aspirazione a un'analisi teorica nel senso corrente del termine (cfr. ad esempio Niklas Luhmann).
Sullo sfondo di una filosofia della storia in cui motivi dell'illuminismo tedesco e francese erano associati a quelli dell'idealismo tedesco, Karl Marx si propose di svelare la legge del movimento economico della moderna società borghese. Nelle leggi dell'economia politica, che cercò di sviluppare rifacendosi soprattutto a Ricardo, Marx volle scoprire l'anatomia della società borghese. Come i moralisti scozzesi, egli perseguiva una spiegazione unitaria di tutti i fenomeni sociali che li riconducesse a fatti strutturali nell'ambito della produzione - alla relazione tra forze produttive e rapporti di produzione - e ai loro mutamenti. I conflitti di origine sociostrutturale sono visti come il motore dello sviluppo storico. Per Marx i modi di produzione, ossia le forme e le condizioni della produzione, sono i principali determinanti della struttura sociale e si sviluppano secondo regolarità proprie, attraverso le quali si formano nuove strutture. Nella sociologia moderna l'idea di conflitti sociostrutturali e della loro importanza per lo sviluppo della società è stata ripresa soprattutto da Ralf Dahrendorf (v. Bohnen, 1975, pp. 79 ss.) in antitesi al funzionalismo di Parsons. Anche il neomarxismo della scuola di Francoforte ha preso le distanze sia dal positivismo della scuola di Durkheim, sia dal funzionalismo sistemico di tipo parsoniano, propugnando una considerazione dialettica della totalità (v. Vanberg, 1975, pp. 201 ss.) in cui il modo abituale di costruire teorie viene rifiutato a favore di una 'teoria critica' (v. § 5e; sull'odierno marxismo ortodosso v. Vanberg, 1975, pp. 224 ss.).
In sostanza vi sono dunque tre diversi approcci alla spiegazione dei fatti sociali, di cui due ascrivibili all'orientamento collettivistico e uno all'orientamento individualistico: il marxismo, che attribuisce un ruolo primario ai rapporti di forza di origine strutturale, e ai conflitti che ne derivano, e che ricerca le spiegazioni in base a leggi di sviluppo; il funzionalismo della scuola di Durkheim, che pone l'accento sulle norme, sui valori e sul consenso normativo e tende a stabilire regolarità legate al carattere autoregolativo dei sistemi sociali; l'individualismo, che considera di importanza primaria, nel quadro dei dispositivi istituzionali, i comportamenti riconducibili agli interessi individuali e le interazioni dei singoli, ricercando regolarità che spiegano i fenomeni sociali sulla base del concorso di azioni individuali.
Di fatto i rappresentanti delle tradizioni collettivistiche sono costretti per lo più a richiamarsi a enunciati di tipo psicologico e a interpretazioni individualistiche. D'altra parte, gli individualisti non hanno mai negato l'importanza dei fatti sociostrutturali; sebbene riconducano la formazione delle norme e il loro ancoraggio sociale alle interrelazioni tra comportamenti individuali, mettono però in rilievo l'importanza delle regolamentazioni normative e dei dispositivi istituzionali per tali comportamenti e per i processi sociali. Inoltre hanno tenuto conto - ad esempio servendosi del principio di reciprocità - del ruolo spettante all'impiego della forza e alla minaccia di ricorrere a essa. Lo stesso vale per il risalto dato dal funzionalismo alle conseguenze non intenzionali dei comportamenti individuali, riconoscendo l'importanza delle cosiddette funzioni latenti. Non si può dunque affermare che certi fenomeni sociali vengano ignorati da un indirizzo e chiariti invece dall'altro; le differenze consistono piuttosto nel diverso modo di analizzare e spiegare i fenomeni in questione.
A questo proposito, quando si tratta di stabilire se determinate formazioni sociali (gruppi, classi, società, culture) debbano essere considerate come entità sui generis è necessario distinguere il problema della priorità descrittiva da quello della priorità esplicativa (v. Brodbeck, 1958; v. Vanberg, 1975, pp. 250 ss.). Nel primo caso si tratta di un problema di formazione di concetti (definibilità dei caratteri collettivi mediante il ricorso a caratteri individuali); nel secondo caso si tratta di un problema esplicativo (in che misura è necessario ricorrere a determinate regolarità per spiegare il comportamento di collettività sociali). La tesi della priorità descrittiva poggia su un equivoco, in quanto è legata all'idea che un'analisi individualistica non possa tener conto dei caratteri relazionali degli individui. Per quanto riguarda la tesi della priorità esplicativa, non di rado essa è fondata sull'idea erronea che una spiegazione individualistica non possa individuare le cause sociali dei fenomeni da spiegare (v. Vanberg, 1975, pp. 255, 258 ss.). Risulta pertanto che molte critiche contro il riduzionismo della tradizione individualistica si basano su fraintendimenti di ordine metodologico. Inoltre i tentativi di spiegazione funzionalistici sono in genere affetti da carenze metodologiche (v. Hempel, 1959, pp. 271-307) connesse in parte con la scarsa specificabilità dei sistemi autoregolativi. Ad ogni modo, nelle scienze sociali i pregi delle varie teorie possono essere valutati comparativamente solo in base alle loro capacità esplicative.
La trattazione di problemi normativi fa parte dell'eredità filosofica degli antichi, e anche i filosofi sociali dell'età moderna si sono confrontati con simili problemi; è quindi comprensibile che essi siano riemersi nelle scienze sociali sviluppatesi nell'ambito della filosofia sociale moderna. Già nel Settecento, con la cosiddetta 'legge di Hume', si affermò la tesi secondo cui da enunciati fattuali non è possibile trarre conseguenze normative (giudizi di valore, enunciati relativi al dovere); contro questa tesi non sono state finora avanzate obiezioni valide. Sebbene le moderne scienze sociali si siano dedicate soprattutto all'analisi dei contesti fattuali, nell'ambito di queste ricerche s'incontrano ripetutamente proposizioni normative più o meno esplicite, la cui connessione con enunciati fattuali appare spesso poco chiara.
Da questa situazione è nato all'inizio del secolo, soprattutto per influsso di Max Weber, il dibattito tuttora in corso sui giudizi di valore nelle scienze sociali. Le argomentazioni in proposito si riallacciano di solito al principio metodologico dell'avalutatività, formulato da Weber nella sua analisi delle possibilità di una ricerca sociale. Secondo tale principio, una scienza fattuale può informare sulle possibilità d'azione, ma non può produrre enunciati normativi, ossia giudizi di valore (v. Weber, Die 'Objektivität'..., Der Sinn..., Wissenschaft..., 1951²). Questa concezione venne criticata soprattutto perché si assunse che una scienza avalutativa in senso weberiano non potesse avere alcuna utilità pratica per la soluzione di problemi sociali. Alla soluzione weberiana della problematica dei valori sono state inoltre attribuite debolezze intrinseche e conseguenze nichiliste (per il dibattito sui giudizi di valore v. Albert e Topitsch, 1971; v. Keuth, 1988).
Nelle sue indagini Weber ha toccato quasi tutti gli aspetti del complesso problema, ma manca in esse un'analisi logica dei giudizi di valore. Nelle discussioni odierne sono risultate insostenibili certe interpretazioni radicali in cui non si tiene conto del riferimento alla realtà di questi enunciati (ad esempio le interpretazioni puramente espressive). Lo stesso può dirsi delle interpretazioni che non tengono conto della funzione normativa di questi giudizi (ad esempio riducendoli a enunciati fattuali, a giudizi su valori 'quasi fattuali' o su caratteri 'non naturali'), come pure delle interpretazioni che non spiegano la pretesa di validità oggettiva associata di solito ai suddetti giudizi.
Secondo un'interpretazione plausibile (v. Kraft, 1937), un giudizio di valore ha un riferimento (normativo) alla realtà in quanto evidenzia determinati fatti ai fini del comportamento (atteggiamento o azione). In tal caso si fa per lo più implicito riferimento a una corrispondente regola o norma (standard di valore, massima di comportamento) per la quale si chiede un riconoscimento universale; a ciò è connessa l'aspettativa che i destinatari del giudizio di valore si comportino in conformità. Ad esempio la proposizione 'la distribuzione del prodotto sociale nel paese P nel periodo di tempo T è ingiusta' andrebbe così interpretata: 'la distribuzione... è di fatto tale da non corrispondere a una norma (criterio di giustizia) che possa aspirare a un riconoscimento universale, e pertanto va incontro a un giudizio negativo'. Così formulato tale giudizio contiene elementi prescrittivi che non compaiono nei giudizi puramente cognitivi (enunciati con valore di verità). Nella discussione su un simile giudizio si può mettere in dubbio l'applicabilità alla situazione in questione perché essa è oggettivamente diversa da quella ipotizzata nel giudizio stesso, ma si può anche mettere in dubbio la norma.
Riguardo all'aspetto metodologico della problematica dei valori si possono distinguere tre gruppi di questioni: il problema delle valutazioni nel campo d'indagine delle scienze sociali (ossia in che misura le valutazioni debbano essere oggetto degli enunciati di queste scienze), il problema delle valutazioni nel metalivello (ossia in che misura gli enunciati di tali scienze debbano fondarsi su valutazioni) e il problema delle valutazioni nel linguaggio-oggetto (ossia in che misura gli enunciati delle scienze sociali debbano avere essi stessi il carattere di giudizi di valore).Il primo di questi problemi non è controverso. Poiché le valutazioni, in quanto modalità del comportamento umano, sono costitutive dei fatti sociali, esse appartengono senz'altro al campo d'indagine delle scienze sociali. Gli enunciati che parlano di valutazioni, ossia le descrivono o le spiegano, non sono essi stessi giudizi di valore nel senso menzionato; tali enunciati hanno carattere cognitivo e non sono quindi toccati dal principio weberiano dell'avalutatività.
Lo stesso può dirsi del secondo problema. È ovvio che la ricerca nel campo delle scienze sociali - come ogni altra attività scientifica e analogamente ad altri ambiti della prassi sociale - dipende da giudizi di valore che riguardano ad esempio la scelta dei problemi rilevanti, l'utilizzabilità di ipotesi e metodi, l'adeguatezza di spiegazioni e teorie. Finché tali giudizi di valore sono finalizzati alla conoscenza, non nascono particolari difficoltà: i problemi di valore possono trasformarsi in problemi di tecnologia della ricerca, da trattarsi come questioni fattuali. Esiste peraltro in tutte le scienze la possibilità che valutazioni di carattere non cognitivo portino a privilegiare determinati enunciati fattuali (teorie, spiegazioni, descrizioni). Le concezioni inficiate da componenti ideologiche non possono però essere confutate svelando i giudizi di valore in esse contenuti, ma solo mediante verifiche fattuali.
La terza delle problematiche elencate è la problematica dei valori vera e propria. Evidentemente né la presenza di valutazioni nel campo d'indagine delle scienze sociali, né il necessario ricorso a valutazioni nella prassi della ricerca obbligano ad accogliere giudizi di valore nei sistemi di enunciati relativi ai fatti sociali. Nell'analizzare il problema dei giudizi di valore si possono distinguere quattro sottoproblemi: uno terminologico, uno semantico (in senso lato), uno metodologico e uno normativo. Il primo di essi - se cioè il concetto di scienza debba essere definito in modo che gli enunciati scientifici possano contenere giudizi di valore - è banale. La risposta può essere rilevante solo se la questione diventa quella dell''essenza' o del 'vero concetto' della scienza, così che la risposta, sotto veste cognitiva, ha nello stesso tempo una componente programmatica: si ha in tal senso un enunciato criptonormativo. Il secondo sottoproblema, quello semantico, può essere risolto mediante lo schema interpretativo per i giudizi di valore sopra indicato. Il terzo, quello metodologico, può essere così formulato: quali finalità richiederebbero l'impiego di giudizi di valore, e in quali circostanze se ne potrebbe invece fare a meno? Se si parte dallo schema interpretativo già indicato, risulta che nei sistemi di enunciati delle scienze sociali una finalità cognitivo-informativa (conoscenza di contesti sociali) rende superflui i giudizi di valore: partendo da altre finalità, sarebbero possibili altre risposte. A ciò si è obiettato che il linguaggio delle scienze sociali è inevitabilmente incentrato sui valori, sia perché dall'apparato concettuale di queste scienze non sono eliminabili le valutazioni (v. Myrdal, 1958), sia perché in caso contrario andrebbero addirittura perdute conoscenze importanti (cfr. Strauss, in Albert e Topitsch, 1971). Se quest'obiezione si riferisce al fatto che il linguaggio delle scienze sociali è vicino a quello comune, è sufficiente far notare che si può astrarre dalle connotazioni valutative presenti nei concetti in questione. Se invece l'obiezione è fondata sul fatto che ai giudizi di valore viene attribuito un carattere descrittivo, sarà necessario rimandare alla discussione sul carattere di questo genere di enunciati (v. Kraft, 1937; v. Mackie, 1977). Inoltre un'interpretazione descrittiva dei giudizi di valore di stampo platonico consentirebbe di dedurre conseguenze normative solo a condizione di violare la già citata legge di Hume.
La soluzione del problema dei giudizi di valore dipende dunque in ultima analisi dalla risposta che si dà al problema riguardante il compito della scienza. A questo proposito è stata avanzata la tesi che per rendere utilizzabili sul piano pratico le scienze sociali è necessario integrarle con premesse valutative (cfr. Weisser, in Albert e Topitsch, 1971). A ciò si può obiettare che le scienze naturali trovano con successo un'applicazione pratica senza essere integrate da premesse valutative: esse consentono infatti di dedurre previsioni utilizzabili sul piano pratico (rilevanti ai fini del comportamento), per controllare i processi nel campo d'indagine delle singole scienze e per costruire apparati di utilità pratica. Analogamente si potrebbero avere nelle scienze sociali previsioni dotate di rilevanza pratica, come quelle atte a influenzare processi e a pianificare formazioni sociali (organizzazione), ad esempio in rapporto alla progettazione di costituzioni valide e alle direttive per una prassi legislativa efficace.
Per l'utilizzazione pratica delle conoscenze fornite dalle scienze sociali è opportuno talvolta dare alle informazioni rilevanti la forma di sistemi tecnologici di enunciati riferiti a determinate finalità possibili (v. Weber, Die 'Objektivität'..., 1951²; v. Popper, 1957). Per trarre le relative conclusioni non è necessaria alcuna integrazione con premesse di valore, non avendo questi sistemi un contenuto normativo. Sono però necessari, come in ogni processo di deduzione logica, dei criteri per decidere quali conseguenze siano rilevanti, e questi criteri dovranno risultare dalla formulazione del corrispondente problema tecnologico (ad esempio: 'in che modo un governo può, in una data situazione, salvaguardare la stabilità dei prezzi dei beni di consumo senza produrre determinati effetti su altre variabili economiche, o senza adoperare determinati mezzi da definire?'; oppure: 'quale legislazione è necessaria per introdurre, nel quadro di un ordinamento che garantisce certe libertà, determinate forme di sicurezza sociale?'). La trasposizione in forma tecnologica degli enunciati delle scienze sociali viene fondata in questi casi su desiderata ipoteticamente definiti che hanno, dal punto di vista logico, il carattere di limitazioni alla soluzione del relativo problema pratico. Non sono qui necessarie premesse valutative, perché la rilevanza di un sistema tecnologico ai fini della soluzione di determinati problemi concreti non implica una legittimazione della sua applicazione pratica.
I sistemi tecnologici non forniscono cioè una risposta alla domanda: 'cosa si deve fare?', ma solo alla domanda: 'cosa si può fare?'; la loro importanza pratica sta nelle informazioni che essi forniscono circa le possibilità di agire e di produrre effetti. Bisogna distinguere tra un sistema tecnologico di enunciati e la sua applicazione a situazioni concrete, ossia tra la tecnologia sociale e la politica. Quando questi sistemi vengono posti a base di un comportamento pratico, occorre prendere decisioni che presuppongono giudizi di valore (decisioni sulle finalità e sui mezzi da impiegare); esse non sono deducibili dalla tecnologia, ma nel prenderle si può tener conto delle conoscenze tecnologiche. Le obiezioni a questa soluzione dei problemi pratici sono fondate spesso sulla mancata distinzione tra premesse valutative all'interno dei sistemi di enunciati e fondamento valutativo degli enunciati stessi. Teorie puramente informative possono dunque essere adoperate con successo nella pratica; elementi essenziali per la loro applicabilità sono il contenuto d'informazione e la rilevanza per i relativi problemi pratici.
Per quanto riguarda l'applicazione pratica degli enunciati delle scienze sociali è possibile distinguere due tipi di previsioni, a seconda dell'influenzabilità della situazione da parte degli agenti interessati: quelle tecnologiche e quelle non tecnologiche. In queste ultime la situazione non è influenzabile, e quindi l'agente non può far altro che aspettare l'evento previsto, senza poterlo provocare né impedire (si pensi ad esempio al normale consumatore rispetto alla prospettiva di un processo inflazionistico). Nelle previsioni tecnologiche esiste invece la possibilità d'influenzare la situazione: l'avverarsi della previsione dipende dal comportamento della persona o del gruppo interessati. Le loro alternative d'azione rappresentano infatti delle circostanze aventi rilevanza causale, che concorrono a modificare le condizioni d'applicazione delle teorie, portando così a previsioni differenti. In questo caso le condizioni d'applicazione di una teoria in determinate situazioni possono essere distinte, in base alla rilevanza per l'azione, in due categorie: condizioni strumentali, influenzabili dal soggetto interessato, e condizioni autonome, non influenzabili da esso. Si pensi ad esempio al detentore del monopolio di vendita di un dato bene, che è in grado di variare il prezzo del bene e di trarre dalla funzione di domanda previsioni alternative per il suo smercio: in tal caso i prezzi che il monopolista può scegliere sono condizioni strumentali (parametri d'azione), mentre i bisogni dei consumatori possono costituire delle condizioni autonome. Ciò dimostra che la distinzione tra le due specie è relativa alla situazione e dipende dalla posizione sociale, in questa costellazione, dell'istanza che mette in pratica la teoria in questione.
Per quanto riguarda l'influenzabilità degli eventi sociali da parte di determinate istanze, un problema specifico delle scienze sociali è quello della riflessività dei loro enunciati. Esso nasce dal fatto che quando gli enunciati riferentisi alla realtà sociale influenzano gli orientamenti e le motivazioni di determinate persone - ad esempio in quanto vengono creduti veri - diventano per ciò stesso causalmente rilevanti per gli eventi sociali. Un noto esempio di questo fenomeno è dato dalla diffusione di voci sulla insolvenza di una banca: se i depositanti prestano fede a tali voci, possono essere indotti a chiedere tutti insieme il rimborso dei loro depositi, provocando così l'effettiva insolvenza dell'istituto (sul dibattito circa la possibilità di previsioni relative ai comportamenti collettivi coronate da successo v. Morgenstern, 1928; v. Merton, 1984¹¹; v. Grunberg, 1986).
Specialmente nel pensiero economico s'incontra l'idea che sia possibile neutralizzare l'aspetto valutativo di una parte dei problemi pratici, così che le decisioni circa l'impiego dei mezzi siano riconducibili a problemi puramente cognitivi. Per far questo si dovrebbero distinguere le questioni relative ai fini, che richiedono in ultima istanza decisioni etiche, dalle questioni relative ai mezzi, che hanno un carattere scientifico e richiedono decisioni (tecniche o economiche) eticamente neutre: la scienza non può infatti asserire nulla sulla scelta dei fini, ma - dati determinati fini - può suggerire i mezzi adatti per conseguirli identificando in tal modo liceità ed efficacia dei mezzi.
Ad esempio, è stata avanzata un'ipotesi sul 'senso dell'economia' in base alla quale tutti gli scopi vengono ricondotti nell'ambito del consumo, mentre la produzione è vista come un insieme di attività strumentali volte a rendere possibili i consumi. Si suppone cioè che l'economia in quanto scienza debba assumere come dati i bisogni, ma possa valutare scientificamente tutti i processi che portano al loro soddisfacimento, e quindi la produzione (v. Robbins, 1935², pp. 24 ss.). In tal modo, però, la distinzione tra fini e mezzi correntemente applicata alle azioni degli individui subisce un problematico trasferimento in un contesto sociale globale: partendo da uno scopo plausibile (il soddisfacimento dei bisogni di tutti gli individui), l'economia viene vista come un sistema cooperativo posto al servizio di tale scopo, con il compito di superare la naturale scarsità dei beni. In quest'ottica tutti i fatti rilevanti (ad esempio i prezzi e le loro variazioni) assumono una funzione che possono adempiere o no; ciò porta a un funzionalismo orientato in senso normativo, basato su una 'finzione comunistica' in cui la società è immaginata come una formazione complessiva avente una scala di valori comune. Questa concezione (v. Myrdal, 1953, p. 54 e passim) è incompatibile con le premesse individualistiche del pensiero economico.La critica a questa impostazione parte dal fatto che ricondurre tutti gli scopi alla sfera del consumo implica una decisione avente rilevanza etica: quella di sottoporre a una valutazione puramente strumentale le condizioni di lavoro nel campo della produzione, prescindendo da una loro autonoma valutazione morale. L'ipotesi che i bisogni siano dati è di fatto una scelta unilaterale; inoltre la neutralizzazione etica della sfera dei mezzi è possibile solo se si accetta il principio che essi sono giustificati dai fini. La concezione basata sulla distinzione fini-mezzi poggia quindi sull'identificazione dei fini con certi valori fondamentali, identificazione da cui si trae la conseguenza che i mezzi sono soggetti solo a una valutazione derivata (strumentale) (per una critica di questa concezione v. Myrdal, 1958, pp. 213-223; v. Weber, Der Sinn..., 1951², pp. 513 ss.). Si suppone allora che i fatti in questione siano classificabili in due categorie mutuamente esclusive: i fini, soggetti a una valutazione diretta, e i mezzi, valutabili solo indirettamente. Non si può tuttavia escludere che certi fatti, classificati come mezzi in uno specifico contesto, siano soggetti anche a una valutazione autonoma. La distinzione tra fini e mezzi ha senso solo con riferimento a specifici contesti: non vi sono 'fini in sé' e 'mezzi in sé'. Certamente si possono costruire sistemi tecnologici in cui a fini possibili, stabiliti in via ipotetica, si fanno corrispondere mezzi possibili per realizzarli; ma questi sistemi hanno carattere cognitivo e non consentono una valutazione né degli scopi, né dei mezzi. La scienza può cioè dare giudizi sull'efficacia dei mezzi e pronunziarsi anche sulla realizzabilità e sulla compatibilità di determinati fini, ma non può fornire le valutazioni occorrenti per l'azione.
Nell'ambito del neomarxismo della scuola di Francoforte è stata elaborata una concezione secondo cui la scienza 'tradizionale' ha avuto origine da una visione ristretta del sapere e dev'essere superata o integrata da una scienza 'critica' (v. Horkheimer, 1937): una scienza derivante dalla critica marxiana dell'economia politica, che nasca dall'interesse emancipatorio, che abbia una struttura logica diversa da quella del pensiero tradizionale e in cui possa attuarsi l'unità di teoria e prassi. Karl Otto Apel e Jürgen Habermas hanno inquadrato questa 'teoria critica' in uno schema che implica una classificazione delle scienze analoga a quella che s'incontra già, in altra forma, nella sociologia della conoscenza di Max Scheler. In questo schema vengono distinte tre specie di conoscenza, a ciascuna delle quali è associato rispettivamente, come condizione trascendentale, un interesse tecnico, uno pratico e uno emancipatorio. Nel primo caso (quello delle scienze analitico-empiriche) l'interesse è rivolto al dominio; nel secondo (quello delle scienze storico-ermeneutiche) è rivolto alla comprensione; nel terzo (quello delle scienze di orientamento critico) è rivolto alla liberazione. La 'teoria critica della scienza', che secondo Habermas (v., 1965) sfugge alle insidie del positivismo e che dovrebbe indicare la connessione tra le regole logico-metodologiche e gli interessi che guidano la conoscenza, tiene conto quindi solo di interessi che possono definirsi 'pratici' nel senso usuale del termine. L'interesse per la conoscenza pura viene rifiutato come un fraintendimento oggettivistico; a ciò corrisponde il tentativo di ridurre l'idea di verità a un consenso idealmente raggiungibile tra i membri della società. Nei suoi lavori più recenti Habermas si è peraltro allontanato dalle posizioni che in precedenza aveva sostenuto con Apel.
La concezione dei due studiosi si prefiggeva di tener conto delle peculiarità delle varie scienze, attribuendo a ciascuna di esse un diverso carattere metodologico in relazione ai diversi interessi conoscitivi. La teoria che postula tali interessi si è rivelata però insostenibile (v. Albert, 1975); è stato inoltre osservato che delle suddette peculiarità si può tener conto anche partendo da una concezione metodologica unitaria. Le scienze storiche e l'ermeneutica sono interpretabili nell'ambito del metodo ipotetico-deduttivo, e la conciliazione della teoria con la prassi non richiede una particolare 'teoria critica'. A tale proposito si possono distinguere due funzioni, quella di chiarire e quella di indirizzare; entrambe possono essere svolte con l'aiuto delle scienze positive. I risultati di queste sono utilizzabili per criticare le concezioni dominanti, scalzando anche illusioni profondamente radicate come il platonismo dei valori e l'ipostatizzazione di entità collettive. La critica dell'ideologia è dunque possibile con gli strumenti delle scienze fattuali; i suoi risultati inoltre sono utilizzabili per risolvere problemi d'indirizzo, posto che soddisfino i requisiti usuali.
Già più di tre secoli fa Thomas Hobbes tentò di risolvere, nel quadro di una concezione naturalistica, il problema di un ordinamento sociale adeguato con l'ausilio di enunciati sociotecnologici (v. Watkins, 1973; v. Mackie, 1980). A tale scopo egli avanzò delle ipotesi sulla natura e sulla situazione dell'uomo, da cui sembravano derivare certe conseguenze per la convivenza sociale (v. sopra, § 4b). La tecnologia sociale di Hobbes è improntata all'idea regolativa di assicurare la pace. Il mezzo per raggiungere questo fine è l'istituzione di un monopolio della forza che impedisca ai cittadini di ricorrere alla violenza per risolvere i loro conflitti e che li difenda da attacchi esterni. L'assicurazione della pace appare quindi l'unico criterio di valutazione per gli ordinamenti sociali.
Nel successivo dibattito le ipotesi hobbesiane furono in parte messe in dubbio e modificate e vennero elaborati altri criteri per valutare l'adeguatezza degli ordinamenti sociali. Tuttavia il modo in cui Hobbes aveva impostato la soluzione del problema si è dimostrato fecondo: anche in recenti teorie la scarsità di beni è vista come un carattere essenziale della condizione umana e viene messo in risalto il ruolo dell'interesse egoistico (v. Buchanan e Tullock, 1962; v. Buchanan, 1975).
Nel dibattito su questi problemi si è avuta spesso l'impressione che fosse necessario stabilire una scienza normativa capace di ricavare dall'analisi dei contesti sociali norme valide per la convivenza umana. Senza una scienza di questo genere non sarebbe possibile risolvere il problema di un ordinamento sociale adeguato. Ma in effetti questo problema può essere in gran parte trattato nel quadro di un'impostazione sociotecnologica analoga a quella adottata da Hobbes e dai moralisti scozzesi, in cui le conoscenze rilevanti vanno applicate a contesti concreti. Il problema delle condizioni di possibilità di un ordinamento sociale adeguato può essere riformulato in termini di tecnologia sociale in modo corrispondente al metodo generale della prassi razionale. I criteri valutativi che vengono allora considerati rilevanti da chi partecipa alla discussione possono essere trasformati in caratteristiche di funzionalità da porre alla base di un'analisi comparata di ordinamenti sociali alternativi (v. Albert, 1978). Nel far questo è importante confrontare i possibili sistemi di dispositivi istituzionali sotto l'aspetto della loro funzionalità, ossia della misura in cui soddisfano i criteri di efficienza formulati in base al punto di vista adottato. Il fatto che i criteri valutativi in questione possano essere controversi non impedisce dunque di trattare scientificamente il problema dell'ordinamento sociale, se si decide di enuclearne gli aspetti relativi alla tecnologia sociale. Questo procedimento può anche facilitare una discussione razionale dei criteri stessi, in quanto concentrare l'attenzione sulle possibilità reali serve a indicare quali compromessi possano essere presi in considerazione.(V. anche Individualismo metodologico; Metodi e tecniche nelle scienze sociali; Previsione; Scienze sociali; Spiegazione e comprensione).
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