ERASMO da Narni, detto il Gattamelata
Nacque intorno al 1370 a Narni (prov. di Terni) da Paolo, di professione fornaio, e da Melania Gattelli di Todi. Il suo vero nome di battesimo fu Stefano: ma assunse fin dagli inizi il nome di E. e fu poi soprannominato Gattamelata, a seconda delle interpretazioni, per la sua furbizia, per il suo "parlar dolce", o come anagramma del nome della madre. Nulla sappiamo intorno alla sua infanzia e alla sua prima formazione: le prime notizie lo danno al seguito di Cecchino Broglia, signore di Assisi dal 1398 al 1400, in qualità di soldato. Comunque, già allora dovette distinguersi se il Broglia - maestro di una nutrita schiera di condottieri tra i quali Facino Cane, Ottobuono Terzi, il Carmagnola e il Tartaglia - gli fece dono della propria armatura, che E. poi avrebbe amato spesso indossare. Nulla sappiamo, in seguito, di E. per più di tre lustri: lo ritroviamo al servizio di Braccio da Montone solo dopo che questi, nel luglio 1416, si era impadronito di Perugia. Sotto il condottiero, che gli consentì di indossare i suoi colori, come poi E. fece sempre, assunse il grado di prefetto della cavalleria, ed ebbe come commilitone Brandolino Conte Brandolini, che per lungo tempo fu suo inseparabile compagno d'armi.
È probabile che E. abbia partecipato a tutte le campagne del nuovo signore perugino, che consentirono a Braccio la conquista delle città di Todi, Rieti, Narni, Terni e Spoleto e l'effimero ingresso in Roma nel giugno 1417. Nel giugno 1419 partecipò alla battaglia di Viterbo nella quale i Bracceschi sconfissero Muzio Attendolo Sforza; quest'ultimo - a capo delle schiere di Giovanna II d'Angiò, scesa in campo per soccorrere il pontefice Martino V nel suo tentativo di recuperare le terre sottratte al dominio della Chiesa durante lo scisma - nell'ottobre successivo catturò E. e il Brandolini, di guardia al castello di Capitone, presso Amelia. In quell'occasione i due vennero riscattati da Braccio.
Le tormentate e complesse vicende di quegli anni ebbero esito conclusivo nella battaglia dell'Aquila del giugno 1424. I Bracceschi, alleati di Alfonso d'Aragona, assediavano la città, e contro di essi si mossero prima Muzio Attendolo Sforza (che perì proprio durante la campagna, il 4 genn. 1424) e poi il figlio Francesco, sempre per conto di Giovanna II. Prima dello scontro decisivo Braccio, il 25 maggio, pensò di dividere le proprie forze in quindici squadre, una delle quali affidò a E., e convocò in consiglio tutti i suoi ufficiali. La tradizione tramanda concorde che proprio il non aver ascoltato il parere di E. risultò fatale al condottiero perugino, che rifiutò la proposta di assaltare subito gli alloggiamenti dei nemici e di sorvegliare le alture circostanti la città per evitarne l'imminente rafforzamento. Braccio volle attendere invece lo scontro in campo aperto che gli fu poi fatale: vi trovò infatti la morte, mentre E. fuggiva assieme al Niccolò Piccinino dalla parte di Ocre.
Sempre col Piccinino, e con Oddo, figlio di Braccio, E. riunì le restanti compagnie braccesche e le condusse al servizio di Firenze, impegnata contro il duca di Milano, Filippo Maria Visconti. Il sodalizio fu breve: morto Oddo, e mutato fronte il Piccinino (che si sarebbe poi rivelato suo acerrimo rivale), E. accettò direttamente la condotta nell'esercito di Niccolò della Stella, capitano generale della Repubblica fiorentina.
Nel 1427 papa Martino V lo volle con il Brandolini al suo servizio e lo utilizzò inizialmente proprio per recuperare le terre sottratte alla Chiesa da Braccio, e ora tenute dalla vedova, Niccola da Varano. E. si unì così, con 200 cavalli, a Pietro Donà, vescovo di Castello e allora governatore di Perugia, e marciò contro Montone e Città di Castello. Quest'ultima cedette solo nel dicembre 1428, senza peraltro che E. partecipasse alla conquista, avendo nel frattempo ricevuto l'ordine di recarsi a sedare altre rivolte scoppiate nello Stato pontificio. Si ribellavano infatti Imola, Forlì, Perugia e Bologna. In quest'ultima città, il 1º ag. 1428, la famiglia Canetoli aveva con un colpo di mano assunto il potere e decretato la Repubblica.
Sotto l'azione congiunta di E., del legato di Romagna Domenico Capranica e degli altri capitani, Antonio Bentivoglio, Attendolo da Cotignola e Niccolò da Tolentino, il 30 agosto Bologna si arrendeva.
Altre volte E. tornò nell'inquieto Bolognese, come in occasione della crisi che agitò il capoluogo nel luglio 1430. Solo la morte di Martino V e l'elezione il 3 marzo 1431 di Eugenio IV permisero l'accordo tra Roma e il centro emiliano, e il 26 aprile di quello stesso anno il governatore pontificio Giovanni Bosco, accompagnato da E. in qualità di capitano generale dell'esercito pontificio, con 150 cavalli e 80 fanti, entrò in città; nello stesso tempo E. domava anche la ribellione di Forlì che si era data ad Antonio, figlio naturale di Cecco Ordelaffi.
Nel biennio 1431-32 E. fu spesso costretto ad intervenire nella regione in simili occasioni: ancora a Forlì, poi a Forlimpopoli. Nel 1432 catturò il castellano di Imola e il 26 ottobre dello stesso anno intervenne nel Riminese, molestato dalle scorrerie di Bernardino della Corda e di altri capitani avversi alla Chiesa. Costretto a ritirarsi da Bologna in occasione della discesa dello Sforza in Romagna, quando quest'ultimo abbandonò infine la parte milanese per accordarsi col pontefice (alla fine del 1433) E. tentò invano di opporsi alla conseguente reazione di Filippo Maria Visconti che concentrò le proprie forze e facilmente riuscì ad occupare le città di Imola e Forlì.
Nel frattempo, le difficoltà di E. nel riuscire a riscuotere le paghe dal pontefice lo inducevano alla ricerca di una diversa sistemazione. Corteggiato da molti, e tra questi dal duca visconteo, accettò invece l'invito veneziano, che gli consentiva del resto di non mutare parte di lotta. Ciò, dopo qualche esitazione: il suo credito con il pontefice ammontava infatti a 10.000 ducati cui egli non aveva intenzione di rinunciare. La trattativa fu complessa e coinvolse l'oratore della Serenissima a Firenze Antonio Contarini (nel gennaio 1434) e il vicentino Belpetro Manelmi, ed ebbe esito positivo nel febbraio, grazie anche all'intervento di Flavio Biondo notaio di Camera e segretario apostolico, inviato da Eugenio IV a Venezia proprio per favorire tale ingaggio. L'11 aprile il Senato veneziano ratificò l'assunzione di E., ed i capitoli dell'accordo datano al 16 aprile successivo. E., insieme col Brandolini, veniva assoldato con 400 lance e 3 cavalli per lancia e 400 fanti; dopo sei mesi anche i rispettivi figli sarebbero stati arruolati con altre 50 lance. Venezia si impegnava a pagare i 10.000 ducati del debito pontificio e per sicurezza di ciò E. e Brandolini avrebbero custodito Castelfranco d'Emilia. La Repubblica veneta lasciava peraltro i due condottieri ancora per un anno al servizio del papa perché sedassero le rivolte che continuavano ad agitare le terre di Romagna.
Riprendeva nel frattempo la guerra tra Milano e la lega che vedeva uniti assieme al papa Veneziani e Fiorentini. I Viscontei inizialmente dilagarono inducendo nel maggio alla rivolta la città di Roma, e così provocando la fuga precipitosa di Eugenio IV che si trovò costretto a rifugiarsi a Firenze. Il centro dello scontro fu in Romagna, dove operò E., cui Venezia ordinò di difendere Bologna e di agire come se ancora fosse stipendiato dal papa. La città era minacciata da Gaspare Canetoli, per combattere il quale E. chiese a Venezia un rinforzo di 8.000 tra cavalleggeri e fanti. Ne ottenne assai meno, ma riuscì ugualmente a liberare San Giovanni in Persiceto assediata dai nemici, catturando in quest'occasione Battista Canetoli. Gaspare riuscì invece a provocare l'ennesima ribellione bolognese e ad imprigionare a sua volta il governatore cittadino e l'oratore veneto. E. rispose recuperando Castel San Pietro, Castelbolognese e Sant'Agata e reprimendo infine il tentativo bolognese del Canetoli; non riuscì, invece, ad entrare in Imola, città strenuamente difesa dai Viscontei; parte della cittadinanza gli presentò comunque offerta di dedizione.
Visti i successi della lega, il Visconti inviò in quei luoghi il Piccinino, che fu prima attaccato da E. a Sant'Ilario (e perse nello scontro 200 cavalli), ma che riuscì a ribaltare del tutto la situazione il 28 ag. 1434, quando presso Castelbolognese, incontrati i collegati - 9.000 combattenti - guidati da E. e da Niccolò da Tolentino, li sconfisse duramente aprendosi la strada per una ormai agevole conquista di Bologna. E. stesso rimase ferito nello scontro.
Il conflitto continuò, ora con la partecipazione attiva di Francesco Sforza nelle schiere dei collegati, e Venezia ordinò ad E. e al Brandolini di congiungersi al condottiero. Ciò avvenne effettivamente solo il 29 luglio 1435, a Ravenna, dopo che E., agendo intorno a Bologna (la città ne respinse un assalto), aveva tentato invano di ostacolare la marcia che Niccolò Piccinino compiva verso Faenza e poi Forlì, al fine di sovvenire gli Ordelaffi.
La pace di Ferrara dell'agosto dello stesso anno pose fine alle ostilità senza peraltro creare i presupposti per equilibri più saldi; negli stessi giorni in cui si concludeva la pace Filippo Maria Visconti, insieme con i Genovesi, distruggeva presso l'isola di Ponza la flotta di Alfonso d'Aragona, aspirante al Regno napoletano. Ciò poneva le premesse per nuovi tentativi di supremazia del duca milanese, e l'accordo di Ferrara ebbe breve vita: gli avvenimenti successivi ancora videro E. al fianco dello Sforza, nelle Marche e quindi in Toscana, nel Pisano e nel Lucchese.
Il 17 febbr. 1436 E. e Brandolini chiesero a Venezia la conferma della propria condotta. Ottennero un contratto biennale che ridusse le lance da 500 a 400 e i fanti da 400 a 200; in più ebbero però l'investitura della contea di Valmareno con piena giurisdizione. La concessione divise immediatamente i due che trovarono poi un accordo che venne ratificato il 30 nov. 1437: in cambio del possesso a pieno titolo di Valmareno, il Brandolini avrebbe pagato 3.000 ducati a E. e si sarebbe ritirato dalla professione militare (la rinuncia formale del feudo da parte di E. è del 5 dic. 1439).
Le strategie della lega antiviscontea portavano intanto la guerra a Settentrione. I Veneziani, che avevano destinato alla guida delle loro schiere il marchese di Mantova Giovan Francesco Gonzaga, nell'aprile del 1437 meditarono il progetto di varcare l'Adda al fine di invadere il Milanese. Fu E. a preparare e a condurre poi di fatto il tentativo: di notte, partito da Medolago, varcò il fiume dopo aver allestito un ponte. Una bufera lo isolò però sulla sponda nemica, e all'alba, nel timore di un attacco, fu costretto con i suoi a fuggire a nuoto.
Non sfuggirono però ad E. gli abboccamenti del Gonzaga con i Milanesi, che apprese dall'interrogatorio di un infiltrato del nemico che i suoi erano riusciti a catturare, e li denunciò a Venezia senza, peraltro, in un primo momento, essere reputato credibile. Quando l'infedele atteggiamento del marchese mantovano si rivelò infine con tutta evidenza, Venezia decise di sostituirlo proprio con E., il 5 dic. 1437, con il titolo di governatore generale e lo stipendio di 300 ducati al mese; E. accettò le condizioni il 23 dicembre successivo.
Lo scontro con i Milanesi nel territorio bresciano, lì dove il conflitto avrebbe assunto maggiore intensità negli anni seguenti, aveva peraltro già avuto inizio da qualche mese con una serie di scaramucce. Il 5 ott. 1437 i Milanesi avevano conquistato Urgnano e poi Quinzano e si erano quindi fermati a Pralboino ed Asola per svernare. E. si ritirò con le proprie forze a Bagnolo, badando anzitutto, dopo il fallito tentativo di contenere il primo assalto, a mantenere indenne l'esercito.
Fu nel luglio dell'anno seguente che la guerra assunse contorni più aspri. Il Piccinino varco l'Oglio tra il 2 e il 3 luglio (dopo aver fatto credere di voler passare il Po per invadere il Veronese da quel lato), il suo seguito dilagò per tutta la pianura bresciana. Mentre E. organizzava la resistenza a Brescia, Bina, Pontevico, Gottolengo, Ostiano ed altri luoghi finivano in mano milanese. Il Piccinino si spinse poi fino al Garda, rafforzato dai 4.000 armigeri che aveva recato il marchese di Mantova. Da Brescia E. tentò di controbattere scendendo presso Gavardo dopo avervi fatto confluire quante più forze possibile anche dalla Val Trompia, Val Sabbia e Franciacorta. Sconfitto a Gavardo e Rovato, infine, E. fu costretto a ritirarsi nuovamente entro Brescia. Alla fine di agosto la quasi totalità del territorio bresciano era in mano viscontea e la città stessa si trovava sottoposta ad uno stretto assedio.
In questa situazione maturò la più grande impresa di E.: giunto da Venezia l'ordine di ripiegare nel Veronese per consentirne il rafforzamento, per alleviare l'annona bresciana e preparare una nuova sortita più efficace, E., il 5 sett. 1438, tentò il passaggio sul Mincio per la via di Lonato. Ricacciato indietro dal Gonzaga, il 24 settembre si accinse a provare il passaggio a settentrione, per la via dei monti, peraltro anch'essi controllati dai Viscontei e dai loro alleati.
Partì con 4.000 cavalli e 1.000 fanti, dopo aver lasciato in Brescia, sotto la guida di Taddeo d'Este, 600 cavalli e altri 1.000 fanti. L'esercito attraversò la Val Sabbia, poi senza danni le terre dei Lodrone, grazie all'accordo che E. riuscì a stipulare con Parisio. Più difficile fu valicare i possedimenti sui quali i conti d'Arco avevano giurisdizione. Fallita la via negoziale, i signori di Arco, Vinciguerra e Antonio, catturarono l'emissario designato da E., Leonardo Martinengo e altri del suo seguito, tra cui la moglie di Bartolomeo Colleoni, e l'esercito veneto dovette farsi strada con le armi. Anche il vescovo di Trento oppose resistenza, ma, attraverso la Val d'Ampolo e la Val di Ledro, le truppe di E. riuscirono a superare anche l'ostacolo rappresentato dal castello di Tenno. Sul fiume Sarca, ingrossato dalle piogge, le schiere veneziane furono quindi assalite dai Viscontei guidati da Luigi Dal Verme. E. fu salvato da una rovinosa sconfitta solo grazie all'intervento di Piloso d'Aquila che attaccò i nemici in Val di Sarca costringendoli al ritiro.
Varcato il passo di Peneda e la Valle di Sant'Andrea, attraversata la Val d'Adige presso Mori o Rovereto, le truppe venete raggiunsero infine Sant'Ambrogio di Valpolicella e poi San Pietro Incariano e Parona, ed entrarono in Verona tra la sera del 28 settembre e la mattina seguente.
La Repubblica veneta riconobbe il successo del proprio condottiero e il 1º ottobre mandò oratori a Verona perché annunciassero la notizia della nomina di E. a capitano generale delle forze venete con condotta di 3.000 cavalli e 500 fanti e uno stipendio mensile di 500 ducati, e rendessero pubblica la donazione a suo favore del palazzo veneziano già di Luigi Dal Verme in calle Corner a S. Polo. Si mormorava però già di trattative veneziane con lo Sforza, e queste voci indispettirono non poco E. nel momento del trionfo.
Il Piccinino si accaniva intanto su Brescia, che resisteva, mentre a Verona E. discuteva la futura strategia con i veneziani Federico Contarini e Marco Foscari. Si decisero incursioni nel Mantovano e soprattutto il recupero del ponte di Valeggio sul Mincio, passo essenziale della strada che da Verona recava a Mantova; e si deliberò inoltre di inviare navigli sul Garda per la via dell'Adige.
Nel novembre 1438 E. con 500 cavalleggeri sconfisse i nemici a Nogara, e nel frattempo Venezia lo autorizzava, mentre si preparava a rientrare in Brescia, a combattere chiunque gli si fosse opposto sulla via: specificamente veniva nominato il vescovo di Trento. E. si mosse da Verona il 12 genn. 1439, e subito il Piccinino e il Gonzaga fecero irruzione, il 15 gennaio, in Val Sabbia, inviando per di più il condottiero Taliano Furlano, con 600 cavalli e 1.000 fanti, a Riva del Garda, per frenare i Veneti. Il tentativo in un primo momento non riuscì, poi Taliano sbaragliò le truppe di E. in Val di Ledro. Il visconteo fu a sua volta sconfitto a Castel Romano in Valdi Sarca dagli 800 fanti di Parisio da Lodrone guidati dal provveditore veneto Gherardo Dandolo (il 22 gennaio).
Il Piccinino attaccò quindi Parisio di Lodrone nei suoi stessi territori, mentre E., dopo aver compiuto scorrerie nel Mantovano, si recava a Torbole, per partecipare all'ardito tentativo di trasportare navigli via terra dall'Adige al Garda.
L'impresa riuscì, in quindici giorni, nel febbraio 1439, ma le 80 imbarcazioni, tra cui almeno due galere da guerra, che erano state trascinate per 5 miglia da 120 buoi, vennero poco dopo annientate dai Milanesi. Non fu comunque E. a progettare l'impresa: il disegno venne allestito dal cretese Niccolò Brondolo, e il condottiero assicurò solo la protezione militare.
La nuova iniziativa viscontea nella pianura veronese, tra la fine di aprile e quella di maggio, travolse i Veneti. Invano E. tentò di impedire al nemico il guado dell'Adige, nel quale i Milanesi e i Mantovani erano riusciti a far penetrare una flotta per mezzo di un canale scavato tra Panego e il fiume (aprile 1439); in pochi giorni il Piccinino e il Gonzaga prendevano Legnago, Porto, Lonigo, Castelbaldo, Brendola, Montecchio Maggiore, Arzignano, Montorso, Valdagno e infine Soave (il 23 maggio).
Il controllo di questi importanti centri della pianura veronese e vicentina consentì poi loro di assalire a ranghi completi Verona. La disfatta veneta fu gravissima, ed E. subì numerose critiche. Pare invece accertato che la responsabilità fosse soprattutto di Andrea Donà, podestà di Padova e provveditore veneziano nell'emergenza, il quale volle dividere le truppe sui vari fronti finendo con l'indebolirle, e che, soprattutto, pensò di salvare la incolumità del grosso dell'armata ordinando ad E. di ritirarsi tra Este e Montagnana. E. non disobbedì agli ordini del Donà, genero del doge Francesco Foscari, ma informò Venezia del proprio dissenso dalle decisioni di quello.
È comunque evidente che, dopo lo sfondamento operato sull'Adige dal Piccinino e dal Gonzaga, che E. non era riuscito a frenare, il condottiero veneto avesse tutto il vantaggio di levarsi dalla mischia per preparare poi la riscossa. Per Cristoforo da Soldo, mai tenero peraltro nei suoi confronti, E. invece avrebbe preferito allo scontro l'ozio di Montagnana.
Venezia trattava intanto apertamente con Francesco Sforza, trovandosi così alle prese con la delicata situazione di coinvolgere nel conflitto quel condottiero senza urtare la suscettibilità di E. che era pur sempre il comandante dell'esercito. Il problema venne risolto deputando lo Sforza a capitano generale della lega che vedeva alleati ai Veneziani i Fiorentini e il papa, ed affiancando a quello E. con l'incarico, peraltro già suo, di capitano delle armi venete. I due si incontrarono nel Padovano nel luogo di Conche il 20 giugno 1439, e il 23 successivo cominciarono la marcia verso Verona con 14.000 cavalli e 8.000 fanti.
Insieme, in quello stesso 23 giugno, emanarono un regolamento militare che prescriveva le norme che dovevano regolare la conduzione dell'esercito congiunto: le forze guidate dallo Sforza e quelle di E. dovevano alternarsi con cadenza quotidiana alla testa del convoglio e chi guidava la marcia doveva assicurare la sicurezza della colonna; venivano quindi emanati altri provvedimenti relativi alla amministrazione del campo comune. Il giorno 27 presero Lonigo e poi Brendola e Montecchio Maggiore, poi effettuarono una diversione per raggiungere Verona da settentrione, ancora per la via dei monti. Passando per la Val d'Alpone, occuparono San Giovanni Ilarione il 9 luglio. Puntarono poi decisamente verso Verona, nella quale riuscirono a rientrare senza difficoltà. Il 10 luglio il Senato veneziano aggregò E. al patriziato.
Il conflitto proseguiva frattanto cruento nel Bresciano: un tentativo della lega di occupare la riviera di Salò venne bloccato a fine agosto da una epidemia che colpì duramente l'esercito, poi le truppe venete riuscirono per breve tempo a occupare la Val Sabbia. La reazione viscontea li ricacciò indietro, e i Milanesi riuscirono anche ad occupare le terre dei Lodrone.
Furono gli ultimi successi milanesi: la Val Trompia se ne liberò con l'aiuto di Brescia, mentre il 2 nov. Sforza ed E. radunarono tutte le forze ad Arco per ritentare la via dei monti onde raggiungere Brescia. Passarono Tenno e Riva (il 9 novembre) per avviarsi in Val di Ledro; ma il Piccinino, che si era salvato a Tenno fuggendo da quel castello nascosto in un sacco, attaccò subitaneamente Verona, impadronendosi in breve della cittadella (il 17 novembre). I due capitani della lega tornarono così all'assalto della città, che tra il 19 e il 20 nov. riuscirono a liberare.
La cittadinanza veronese - pare in realtà spinta a ciò soprattutto dal provveditore veneziano Andrea Donà - volle premiare i due condottieri, promettendo 10.000 ducati allo Sforza e 3.000 ad E. (nel novembre 1441 quest'ultimo ancora reclamava quei soldi che non aveva mai effettivamente ricevuto). Il 24 novembre il Senato veneziano stanziò 15.000 ducati da distribuire tra le proprie schiere qualora avessero riportato la definitiva vittoria.L'esercito poteva ora marciare su Brescia e nei preparativi dell'impresa E. si recò a Torbole per dirigere l'allestimento di una flotta sul Garda. Qui il 2 genn. 1440 fu colpito da una emorragia cerebrale: fu portato per l'Adige fino a Verona e poi a Padova dove giunse il successivo 26 gennaio; il 15 febbraio era in cura ai bagni di Montegrotto; poi chiese licenza per trasferirsi a quelli di Petriolo, presso Siena.
Parve in un primo tempo riprendersi perché sembra fosse a Brescia nel luglio di quell'anno, poi una ripresa del male lo riportò a Petriolo, assistito dal medico padovano Giovanni Benedetti. Il 26 nov. 1440 il Senato veneziano gli assegnò 1.000 ducati annui di provvisione (in caso di guarigione avrebbe ripreso la capitaneria) e, di fronte alle maggiori richieste che E. subito avanzò, gli accordò, per il 1441, e per un solo anno, la metà del soldo che gli sarebbe spettato se fosse rimasto in servizio.
Il 4 apr. 1441, in considerazione dei suoi meriti, otteneva una nuova condotta per l'anno corrente e per un altro anno di "rispetto" con 450 lance e 350 fanti e uno stipendio mensile di 250 ducati. La concessione era più che altro di riguardo: se E., come risultava peraltro evidente che sarebbe stato, non avesse prestato effettivamente servizio nell'anno corrente, nel successivo avrebbe avuto solo un vitalizio di 1.000 ducati. Se avesse invece recuperato le forze fisiche e ripreso il servizio avrebbe avuto una nuova condotta di 2.000 cavalli e 400 fanti, con 500 ducati al mese di stipendio.
Il 30 giugno 1441 E. dettò il proprio testamento nella sua casa padovana di via del Duomo. Lasciava erede universale il figlio Gianantonio e indicava la sua volontà di essere tumulato in una cappella da erigersi nella chiesa del Santo a Padova; i suoi esecutori testamentari, la moglie Giacoma, Gentile da Leonessa e il suo cancelliere Michele da Foce, avrebbero potuto spendere per ciò da 500 a 700 ducati d'oro (la cappella fu poi costruita solo undici anni dopo la sua morte).
Il 16 nov. 1441 Venezia confermò a E. la condotta, per l'anno di "rispetto" (dal 1º genn. 1442), con la sola provvisione vitalizia di 1.000 ducati e 500 fanti.
Poi E. preferì mutare gli accordi, volendo favorire Gentile da Leonessa - suo vecchio compagno d'armi e parente, non perché fratello della moglie, come afferma l'Eroli, ma perché sposo di una nipote di questa - e il figlio Gianantonio, e chiese che il rinnovo della ferma venisse questa volta compiuto a loro nome, conservando lui il solo titolo di capitano generale. Il desiderio fu esaudito solo il 9 febbr. 1443. Le compagnie dei "gatteschi" - tale rimase il loro nome anche dopo la morte di E. -sarebbero poi state inserite dalla Repubblica veneta nel 1456, morto Gentile nel 1450 e inabilitato da una grave ferita Gianantonio, tra le "lanze spezzate" con il nome ufficiale di Società di S. Marco.
E. morì a Padova il 16 genn. 1443.
Nell'occasione dei suoi funerali padovani Venezia stanziò 250 ducati. Fu Lauro Querini a tenere l'orazione funebre (in un rito successivo, sempre a Padova, fu Giovanni Pontano, bergamasco, a declamarla), mentre pare accertato, contro la testimonianza di Marin Sanuto che afferma essere stata la Serenissima a provvedervi, che la famosa statua equestre raffigurante E., ancora oggi di fronte alla basilica padovana di S. Antonio, sia stata commissionata a Donatello - che la terminò nel 1453 - dal figlio Gianantonio. L'Eroli riporta anche la notizia di un'opera pittorica del Mantegna dedicata alla morte di Erasmo.
E. si era sposato intorno al 1410 con Giacoma di Antonio da Leonessa, che morirà a Montagnana nel settembre 1466; la dote della sposa fu di 500 ducati d'oro. Loro figli furono Gianantonio, anch'egli condottiero e morto nel 1456; Lucia, ancora viva nel luglio 1475, andata in moglie nel 1430 a Mannadoro Antonio dei Landi di Todi; Polissena Romagnola, che nel 1432 sposò Tiberto di Conte Brandolini, con dote di 600 ducati d'oro e che risulta essere presso il padre a Brescia nel 1438; Antonia, moglie di Lancillotto di Luca Antonio da Narni; Angela, moglie di Zuanne dei Massei di Narni, e Todeschina, sposata nel 1437 ad Antonio di Ranuzio dei conti di Marsiano, che morì nel 1498.
L'armatura di E. è custodita nel Museo dell'Arsenale di Venezia; il bastone del comando che la Repubblica veneta gli consegnò nel 1438 in occasione della sua nomina a capitano generale delle forze venete è conservato, invece, nel tesoro della basilica del Santo in Padova.
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