Europa
La faticosa ricerca di un'identità complessiva del prodotto cinematografico europeo, avvenuta nel quadro della travagliata storia del Novecento, è stata realizzata in più tempi e in diverse direzioni. L'E. cinematografica si è andata disegnando come un 'mosaico di culture' in cui sono confluiti i diversi apporti sia delle grandi cinematografie nazionali, sia delle aree culturali più o meno omogenee quali i Paesi latini, quelli scandinavi, la Mitteleuropa, i Paesi dell'Est. Tuttavia, al di là delle specificità nazionali, molto presto l'E. ha manifestato una speciale vocazione verso il film 'd'arte' o d'autore, propensione che ha condizionato il suo cinema non solo come forma artistica, ma anche come vera e propria industria. La formazione dell'identità dell'E. cinematografica è stata infatti fortemente condizionata dal retaggio storico-culturale delle forme artistiche tradizionali (il teatro, la musica, la letteratura) e dalla ricerca estetica di nuovi linguaggi filmici. Ma fondamentale è stato anche il confronto, conflittuale e dialettico, con il cinema statunitense che, pur provocando ‒ per usare un'espressione di Wim Wenders ‒ una sorta di 'colonizzazione dell'immaginario', ha però sensibilmente contribuito a definire questa specificità del film europeo come film 'di qualità' piuttosto che come puro prodotto industriale.
Con il passare degli anni, la fisionomia del cinema europeo si è polarizzata su due fenomeni. Da un lato la postulazione di un 'film europeo' dalle ambizioni competitive, sul piano della qualità e anche della spettacolarità, rispetto al prodotto statunitense, ma dai connotati artisticamente eterogenei (il cosiddetto europudding). Dall'altro lato la tendenza a un cinema europeo che è stato definito del métissage (Il cinema europeo del métissage, 2000), cioè lo svilupparsi, intorno ad autori giovani e produttori indipendenti, di un cinema che nasce dalla creatività di minoranze etniche, di artisti appartenenti alle comunità immigrate, nel contesto quanto mai attuale, a partire dagli ultimi decenni del Novecento, di un'E. percorsa da ondate migratorie e dalla composizione di milieux multiculturali.
Dopo la prima proiezione del Cinématographe dei fratelli Lumière al Salon indien del Grand café di Parigi nel 1895, gli operatori dei Lumière si riversarono nelle strade delle maggiori capitali europee per riprendere quelle 'vedute' e 'attualità' poi proiettate per un pubblico sempre più conquistato dalle possibilità della nuova invenzione, che si rivelò in grado di documentare avvenimenti ufficiali ed eccezionali. L'uso del cinema in tale funzione, volta ad esaltare l'evento storico, e nello stesso tempo la sua assimilazione alla tradizione letteraria e teatrale costituirono, durante gli anni Dieci, le strade più battute dalle prime case di produzione europee, per cui la nascente industria cinematografica in Italia e in Francia puntò sul fasto della messinscena, sull'enfasi del divismo e sui soggetti melodrammatici di sicura presa sul pubblico.
Se la Hollywood dei pionieri organizzava in un trattamento spettacolare ciò che sarebbe stato poi codificato come cinema classico con le sue convenzioni, i suoi generi, le tipologie dei personaggi, nel contesto europeo il cinema prendeva coscienza formale del suo linguaggio e i suoi sostenitori si prodigarono per sancirlo come una nuova arte piuttosto che solo come novità tecnica. Nel primo decennio della sua storia, la nuova arte sperimentò in nuce alcune figure tecnico-espressive che avrebbero poi svincolato il linguaggio filmico dal rigido impianto fotografico-teatrale: con la Scuola inglese di Brighton e quindi con il cosiddetto cinema di trucchi, in cui si esercitò la maestria fantastica di Georges Méliès in Francia o di Segundo de Chomón in Spagna e in Italia. Lo svilupparsi di competenze e sistemi di tipo industriale avvenne in modo disuguale nelle singole cinematografie nazionali. Nell'area scandinava, tra gli anni Dieci e Venti, vi fu un certo sviluppo del cinema danese e di quello svedese, ma fu soprattutto in Francia, in Germania e in Italia, che la presenza di figure artistiche di rilievo si accompagnò con le strategie produttivo-distributive e la formazione di un mercato.
Inoltre, grazie a quella koinè tipicamente europea rappresentata dalle avanguardie storiche (v. avanguardia cinematografica), il contributo del Vecchio continente alla nascente forma cinematografica fu preminentemente tecnico-estetico. La scuola sovietica (v. avanguardia sovietica) e l'elaborazione di una teoria e pratica del montaggio riversarono nell'universo filmico le istanze del Formalismo, del Cubofuturismo, del Costruttivismo. Il cinema espressionista tedesco (v. espressionismo) esplorò le possibilità luministiche e spaziali del set, come quelle temporali del racconto cinematografico e rielaborò tanto le forme dell'Espressionismo pittorico quanto l'estetica della Neue Sachlichkeit. I teorici e i cineasti francesi, da Louis Delluc a Jean Epstein da Jean Renoir ad Abel Gance o a René Clair, tra gli anni Venti e Trenta, elaborarono uno stile che fu alla base del cinema moderno fondato tanto sul rinnovamento estetico e formale dell'Impressionismo quanto su quell'esprit nouveau che si manifestava, in poesia come anche in pittura, nell'E. intellettuale di quel periodo. A partire dall'inizio degli anni Trenta si sviluppò anche una notevole produzione documentaristica (i cui caposcuola furono l'olandese Joris Ivens o l'inglese John Grierson: v. anche documentario) come conseguenza di quella ridefinizione dello sguardo sulla realtà cui avevano contribuito precedentemente i movimenti artistici. Questa attenzione agli eventi si intrecciò anche all'incalzare degli avvenimenti storico-politici che avrebbero condotto alla lotta tra democrazie e totalitarismi nel cuore dell'E., preludio alla Seconda guerra mondiale. Quella sorta di 'lingua comune' che per l'E. dei movimenti artistici e per un pubblico in formazione era stato il cinema come 'decima musa', con l'avvento del sonoro e il determinarsi delle divisioni geopolitiche gravide di tragedia, diventò o una formidabile arma di manipolazione delle coscienze nell'uso propagandistico dei regimi totalitari oppure, diffusamente, si configurò in una ricerca di 'vie nazionali' spesso ripiegate sulle proprie specificità culturali.
Gli anni Venti, Trenta e Quaranta furono anche segnati dalla grande emigrazione, dovuta spesso alle persecuzioni politiche e razziali, dall'E. verso gli Stati Uniti, non solo di grandi registi ma anche di attori e tecnici, i quali introdussero qualità e caratteri tipicamente europei nell'immaginario del cinema statunitense. Ma nello stesso tempo l'E. elaborava un nuovo rapporto tra i codici del realismo e le forme della finzione, tra la messinscena e l'elaborazione dei generi (soprattutto il noir ma anche il film fantastico e il melodramma), che avrebbe dato i suoi frutti nel dopoguerra, con il Neorealismo, e in seguito con quella nuova concezione dello stile che costituì il cinema moderno (v. modernità), a partire dai grandi autori (da J. Renoir a Roberto Rossellini).
Tra gli anni Quaranta e Cinquanta, sulle macerie della guerra che aveva sconvolto il territorio europeo, ma anche all'insegna delle speranze di ricostruzione, nacque un nuovo 'paesaggio cinematografico'. L'E. si impose all'attenzione mondiale con film e registi che, raccontando la resistenza al nazifascismo, riscoprivano realtà, attitudini, volti e scenari dei vari Paesi europei fino ad allora pressoché rimossi dai grandi schermi. L'Italia del Neorealismo e un film come Paisà (1946) di Rossellini, la Francia partigiana e film come La bataille du rail (1946; Operazione Apfelkern) di René Clément, la Vienna del dopoguerra e film come The third man (1949; Il terzo uomo) di Carol Reed, gli episodi francese italiano e inglese di un film come I vinti (1953) di Michelangelo Antonioni, non solo tracciavano il ritratto vivido dell'E., delle sue ferite, contraddizioni e generazioni, ma indicavano anche una nuova via al cinema. In un certo senso il dopoguerra segnò il formarsi di caratteri peculiarmente europei dell'industria cinematografica. La vocazione internazionale della produzione si accentuò con l'intensificarsi delle coproduzioni multinazionali.
Il pubblico europeo riempì in massa le sale (in particolare il 1955 fu un anno di altissima affluenza al cinema: furono infatti venduti più di tre milioni di biglietti). L'E. "vista dall'esterno, a detta di Hollywood che in questo periodo registrava un decremento del consumo, era un mercato meraviglioso, capace di assorbire un'enorme quantità di produzioni cinematografiche" (Sorlin 1991; trad. it. 2001, pp. 85-86). Il Vecchio mondo dalla fine della Seconda guerra mondiale iniziò a realizzare un progetto comune, quello di una comunità non solo economica ma anche politica.
Dal momento, però, che il territorio europeo venne ridisegnato in base agli interessi delle due potenze mondiali, il blocco atlantico e quello sovietico, sia lo sviluppo delle cinematografie nazionali sia la fisionomia più ampiamente europea delle produzioni risentirono del nuovo assetto. La Gran Bretagna modellò la sua industria sulla stretta collaborazione con quella statunitense, ne emulò il formarsi di grandi compagnie (per es., con l'attività della Rank Organization, che però non trovò risposta adeguata nel mercato interno), si impegnò in produzioni di qualità, talvolta sfarzose e sempre formalmente inventive (come i film di David Lean o quelli di Michael Powell e Emeric Pressburger), eccelse in adattamenti letterari e melodrammi in costume, elaborò, con gli ironici film prodotti dalla Ealing Studios, una propria via alla commedia sarcastica e paradossale.
Negli anni Cinquanta, in seguito alle persecuzioni anticomuniste scatenate dal senatore J.R. McCarthy, alcuni registi emigrarono dagli Stati Uniti in E., e il loro cinema fu animato da istanze di impegno civile e da uno stile crudamente realistico, qualità attinte dal panorama cinematografico europeo; ne fu esempio il lavoro di Jules Dassin, Joseph Losey, John Berry.
In Italia, dopo il successo internazionale del Neorealismo, si declinarono vari 'realismi', da quello del melodramma popolare a quello della commedia all'italiana a quello sentimentale del 'neorealismo rosa', e si delineò un cinema d'autore il cui prestigio si impose anche all'estero, con registi come Vittorio De Sica, Luchino Visconti, Federico Fellini, Antonioni.
Se nella Germania divisa si rielaborava faticosamente un'identità cinematografica, per es. avvalorando di risvolti sociali la formula dello Heimatfilm, basato sull'esaltazione della bellezza del paesaggio, in Francia si riscoprivano i valori della messinscena con il cinema de qualité. Dal dopoguerra in poi il cinema diventò in E. sempre più un'abitudine sociale, l'arte popolare per eccellenza, e d'altronde, con la nascita dei circoli del cinema e delle forme di associazionismo culturale, così come con il proliferare della pubblicistica cinematografica, il film divenne anche oggetto di dibattito culturale. In Italia, questa commistione tra film come oggetto di crescita culturale e insieme intrattenimento popolare fu particolarmente evidente: nel 1956 l'Italia era il Paese europeo con più sale cinematografiche, ne erano attive diecimila. I principali Paesi europei cominciarono ad attivare a livello governativo meccanismi di finanziamento e di sviluppo per la produzione cinematografica, le legislazioni statali fecero propria con sempre maggiore interesse l'idea che l'aiuto al cinema fosse componente essenziale per la crescita culturale, e l'intraprendenza di molti produttori fece considerare l'investimento privato nei film come elemento fondamentale per lo sviluppo economico.
Nell'E. orientale l'influenza del cinema sovietico, caratterizzato da una forte funzione sociale e da un decisivo intervento dello Stato, fu ovviamente preponderante; nei Paesi di influenza sovietica emersero così autori e tendenze cinematografiche che se da un lato si omologavano ai dettami ideologici, dall'altro elaboravano anche rotture stilistiche o azzardavano critiche degli apparati politici dei Paesi socialisti. Cosicché, quando gli anni Sessanta videro nascere in Francia il movimento della Nouvelle vague, la ventata libertaria dei temi e del linguaggio si allargò, e fu innanzitutto l'E. orientale a farsene portavoce, con la Nová vlna cecoslovacca, con il nuovo cinema polacco, con i nuovi autori ungheresi. L'E. delle 'nuove onde' cambiò radicalmente il modo di intendere e di praticare il cinema, privilegiando, con la concezione del Cinéma-vérité, del 'pedinamento' del reale, del cinema militante e poetico-politico, della camera-stylo, la libertà di intervento e di reinvenzione del linguaggio da parte degli autori. Dal cinema scandinavo assunse importanza europea, e mondiale, il lavoro di un regista come Ingmar Bergman, mentre autori come i francesi François Truffaut e Jean-Luc Godard divennero modelli anche per il rinnovamento del cinema statunitense, la cosiddetta New Hollywood.
L'E. degli anni Sessanta e Settanta fu l'E. degli autori, e la politica autoriale fu vincente non solo presso la critica e i festival, ma anche per la formazione di un nuovo pubblico, più giovane e più avvertito (negli anni Sessanta il 70% degli spettatori era di età inferiore ai venticinque anni). Fu soprattutto negli anni Settanta e Ottanta che il rapporto di concorrenza e di reciproca influenza con il cinema statunitense influenzò gli stili e gli autori. Ma l'industria cinematografica d'E. non riuscì a battere la penetrazione degli Stati Uniti nei propri mercati, anche se si elaborarono direttive e legislazioni a difesa delle quote e del prodotto europei, una progettualità che teneva in conto il concetto di 'eccezione culturale' e aveva presente anche l'interazione con il sistema televisivo interessato a intervenire nel cinema, come Channel 4 in Gran Bretagna, o Canal + in Francia, o il ruolo delle nuove reti televisive a tematica culturale come Arte.
In quello stesso periodo molti cineasti europei procedettero a una riformulazione dei canoni hollywoodiani, a un'incorporazione critica dei miti americani e dei generi, a una sorta di decostruzione ma anche di rielaborazione citazionista di materiali classici che contraddistinse tanto il nuovo cinema tedesco e autori come W. Wenders o Rainer Werner Fassbinder, quanto la cosiddetta British renaissance, con registi come Stephen Frears, Neil Jordan, Ken Loach. Un cineasta come il polacco Roman Polanski è un esempio di 'condivisione' che contamina in modo personalissimo i generi hollywoodiani con la figuratività della cultura europea, e analogamente un regista statunitense come Stanley Kubrick, trasferitosi in Inghilterra, continuò a inventare universi cinematografici ricchi della tensione culturale tra Vecchio e Nuovo mondo. Del resto la capacità dell'industria cinematografica statunitense di diffondere, alterare, adattare e manipolare l'identità del Vecchio mondo secondo il costume e l'immaginario americani è stata direttamente proporzionale al suo controllo del mercato europeo.
Nel cinema statunitense degli anni Trenta, le cui messinscene trovavano radici nelle origini mitteleuropee di molti registi, le capitali europee venivano rappresentate come l'immagine mitica capace di donare sollievo al pubblico afflitto dalla crisi economica. In genere venivano ritratte occasioni mondane: interni di alberghi, ippodromi e serate all'Opera, fino allo splendore metafisico e metacinematografico del musical (Trouble in Paradise, 1932, Mancia competente e Angel, 1937, Angelo, entrambi di Ernst Lubitsch; Top hat, 1935, Cappello a cilindro, di Mark Sandrich). Ancora fino agli anni Cinquanta e Sessanta veniva offerta un'immagine sfarzosa e mondana (To catch a thief, 1955, Caccia al ladro, di Alfred Hitchcock) insieme a quella popolare-favolistica di facile fruizione (Roman holiday, 1953, Vacanze romane, di William Wyler), oppure quella folcloristica dell'amore illustrato con gli elementi classici del romanticismo latino (The barefoot contessa, 1954, La contessa scalza, di Joseph L. Mankiewicz; Irma la douce, 1963, Irma la dolce, di Billy Wilder).
Riguardo alla penetrazione in E. del prodotto cinematografico statunitense, tranne che nei primi decenni della storia del cinema, all'incirca fino alla fine del primo conflitto mondiale (quando l'impero francese Pathé si era espanso in tutto il mondo) e con l'eccezione di taluni periodi (per es., gli anni Sessanta in Italia o gli anni Trenta in Francia) le quote del rapporto tra E. e Stati Uniti sono sempre state a beneficio di questi ultimi. Il mercato della vendita dei film americani nei diversi Paesi europei ha sempre realizzato alti valori percentuali (dal 60% fino al 90%). Il fenomeno della 'colonizzazione' del dopoguerra pose in rilievo il confronto tra il cinema concepito come industria produttiva e progettato in funzione della vendita del prodotto e quello che al proprio interno cercava presupposti artistici e si sosteneva mediante sovvenzioni (la politica francese di finanziamenti sulla base della sceneggiatura, iniziata negli anni Cinquanta, e seguita da iniziative simili in tutta E.), con il risultato di favorire alcune opere di qualità culturale e identità nazionale, ma anche di facilitare l'assistenzialismo fine a sé stesso.
Un altro aspetto della politica d'integrazione tra Europa e Stati Uniti fu rappresentato dalle coproduzioni hollywoodiane di carattere storico girate a Cinecittà nella seconda metà degli anni Cinquanta, in cui l'impiego di professionalità e competenze artistiche italiane costituì la testimonianza di un alto artigianato di tradizione europea che continuò a ottenere riconoscimenti. Occorre infine sottolineare come per la rivoluzione del circuito produttivo/distributivo provocata a partire dagli anni Ottanta dalle nuove tecnologie digitali, si è ben delineata una tendenza che porta verso un futuro monopolizzato dalle multinazionali statunitensi, e dalle case specializzate come la Lucasfilm Ltd. e la Pixar, che detengono il primato sui diversi fattori in gioco: gli effetti speciali, il cinema d'animazione sintetico, l'utilizzo di sistemi di ripresa digitali, nonché un'enorme capacità di controllare i nuovi sistemi di trasmissione e proiezione. Ma in E. dagli anni Settanta agli anni Novanta è emersa una tendenza inversa all'omologazione formale e spettacolare del prodotto cinematografico rispetto ai modelli statunitensi, con un cinema ascetico e anche provocatorio che programmaticamente ha rinunciato agli effetti, facendo ricorso a mezzi poveri e a un linguaggio diretto e scarno; ne sono stati esempi i film del polacco Krzysztof Kieślowski, del francese Eric Rohmer, del russo Andrej Tarkovskij, del danese Lars von Trier e quelli dei cineasti che si sono richiamati al suo stile codificato nel manifesto di Dogme 95, o ancora i film dei fratelli belgi Jean-Pierre e Luc Dardenne e quelli del finlandese Aki Kaurismäki.
Dal 1989, dopo la caduta del muro di Berlino, con lo sfaldamento dell'Unione Sovietica e i processi di indipendenza di molti Paesi dell'Est, anche la geografia cinematografica di quelle zone ha subito notevoli mutamenti, che presto hanno assunto i caratteri di un vero e proprio rivolgimento, ricco di prospettive. I film di quegli anni sono apparsi, nella scelta dei temi e delle storie, come una metafora del disorientamento, della rottura di legami con il passato, degli interrogativi, degli aspetti anche brutali, delle luci e delle ombre di una libertà totale improvvisamente riacquistata.Il crollo del sistema sovietico ha provocato, innanzitutto nella Federazione russa e poi nei Paesi dell'area di influenza, una caduta della produzione, la diminuzione dell'afflusso di pubblico e, tra il 1991 e il 1994, lo smantellamento dell'industria cinematografica di Stato che ha condotto al proliferare di piccoli produttori indipendenti, spesso improvvisati. Ciononostante il cinema russo d'autore, con i film di Aleksandr Sokurov, Kira Muratova, Aleksej O. Balabanov, Vitalij E. Kanevskij, ha dato prove di grande qualità artistica. Durante gli anni Novanta la quantità di film prodotti in E. orientale ha permesso a un gruppo di Paesi di sfruttare attivamente accordi di coproduzione e rapporti con le televisioni, realizzando opere che sono arrivate anche a conquistare l'Oscar come miglior film straniero (nel 1997 Kolja, 1996, del ceco Jan Svěrák) o a ricevere diversi riconoscimenti, come è accaduto per Train de vie (Train de vie ‒ Un treno per vivere) del romeno Radu Mihăileanu, nel 1998 Premio Fipresci per l'opera prima alla Mostra del cinema di Venezia. Paesi come la Repubblica ceca, la Polonia, l'Ungheria e la Romania, con una produzione annuale media di una ventina di film, appartengono a questo gruppo. Altre realtà cinematografiche, come quella bulgara o quella slovacca, quella georgiana o ucraina, hanno prodotto in questo periodo meno di dieci film l'anno, anche se si sono messi in luce registi interessanti, per forza inventiva e visionaria, come lo slovacco Martin Šulik o i cineasti georgiani Eldar Šengelaja e Nana Džordžadze.
Un cenno a parte merita la complessa situazione dell'ex Iugoslavia che, lacerata dalla guerra civile, ha visto rispecchiati nelle varie realtà cinematografiche conseguenti allo smembramento politico-geografico i problemi e i drammi di quella lacerazione violenta e sanguinosa. Nell'ambito del cinema di area balcanica va ricordato che film e registi negli anni Novanta hanno ricevuto prestigiosi riconoscimenti, da Bure baruta (La polveriera) del serbo Goran Paskaljević, nel 1998 premio Fipresci agli European Film Awards, a Po dezju (Prima della pioggia) del macedone Milčo Mančevski, nel 1994 Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia, dal film sloveno Kruh in mleko (noto anche come Bread and milk) di Jan Cvitkovič, pure premiato nel 2001 a Venezia per la regia, fino all'Oscar del 2002 per il miglior film straniero assegnato a No man's land (2001) del bosniaco Danis Tanović. Negli stessi anni si sono messi in luce anche giovani registi croati come Zrinko Ogresta. Per quanto riguarda le Repubbliche baltiche, il regista più importante emerso nel corso degli anni Ottanta e Novanta è stato il lituano Sharunas Bartas, il cui cinema si è rivelato dotato di una straordinaria suggestione immaginifica con film come Few of us (1996; Lontano da Dio e dagli uomini) o Freedom (2000). Da menzionare anche il notevole documentarista lituano Kristijonas Vildziunas, e giovani registi come la lettone Una Celma e l'estone Hlad Kaed. Oltre allo sgretolarsi del blocco sovietico, la configurazione sociale e culturale dell'E. ha subito un cruciale mutamento nella seconda metà del Novecento a causa della massiccia immigrazione di comunità etniche portatrici di specifiche istanze culturali, che si sono innestate e inurbate nel tessuto sociale e che hanno dato luogo a una integrazione mai facile ma sempre significativa con la realtà socioculturale dei Paesi occidentali. Si tratta di quel fenomeno di métissage che, in campo cinematografico, ha costituito, tra gli anni Ottanta e Novanta, una vera e propria tendenza creativa e produttiva. In molti film l'identità 'meticcia' si esplica in uno stile polimorfo, che integra memoria e modalità delle radici etniche con uno sguardo e un'estetica di tipo europeo. In Francia, il cinema beur, cioè realizzato dalla seconda generazione degli immigrati arabo-maghrebini, risulta caratterizzato da un realismo a volte crudo oppure con toni di commedia (con cineasti come Mehdi Charef, Rachid Bouchareb, Karim Dridi, Malik Chibane, Yamina Benguigui, Mahmoud Zemmouri).
In Gran Bretagna il cosiddetto cinema black British, termine che indica il contesto genericamente multiculturale di questi film, comprende registi di origine africana (Newton Awaka, Manu Kurewa, Carl Callam), cineasti di radici afrocaraibiche (John Akomfrah, Isaac Julian), il cui interessante lavoro contamina stili e pratiche visive e investe direttamente la realtà politica, i modi di vita delle giovani generazioni e le contraddizioni del contesto multiculturale in cui operano, e autori di origine indopakistana o indiana (Udayan Prasad o Gurinder Chadha), i cui film sono più incentrati sulla generazione dei padri e sugli interni familiari. In Germania il cinema realizzato dai registi appartenenti alla comunità di immigrati turchi, da Ali Özgentürk a Erden Kiral, si distingue per i toni cupi e claustrofobici che, nel caso di Tevfik Başer (40 qm Deutschland, 1986, 40 mq di Germania, o Abschied vom falschen Paradies, 1989), raccontano la difficile condizione femminile nella comunità turca. Connesso a questo contesto cinematografico è il fenomeno del cinema curdo che, nato a cavallo tra anni Ottanta e Novanta, ha riversato in opere di notevole forza espressiva la condizione drammatica di un popolo perseguitato: oltre ai film straordinari di un cineasta imprigionato dal regime turco come Yılmaz Güney, altri autori importanti di questo cinema sono Nizamettin Ariç, Salman Fayik e soprattutto Yeşim Ustaoğlu alla cui opera Günese yolçuluk (1999; Viaggio verso il sole) sono stati attribuiti numerosi riconoscimenti in vari festival.
Dalla fine degli anni Ottanta e durante tutti gli anni Novanta sono nati e hanno operato in ambito europeo organismi e programmi atti a favorire lo sviluppo creativo e l'allargamento del mercato del prodotto cinematografico europeo.
Eurimages del Consiglio d'Europa interviene con aiuti alla produzione e distribuzione cinematografica di 27 Paesi. Più articolato, su vari livelli di intervento (dalla sceneggiatura alla produzione, dalla promozione al documentario, dalla distribuzione all'esercizio), il programma Media dell'Unione europea, che interviene sia nella fase iniziale sia in quella finale dell'elaborazione e del processo di lavorazione creativa e produttiva del film, coprendo 22 Paesi europei. Strutturato finora in tre fasi, Media I (1990-1995), Media II (1996-2000), Media III (2001-2005), ha acquisito una solidità e continuità di intervento e sviluppato un dinamismo economico-culturale fondamentale per la definizione della fisionomia artistica, industriale e di mercato del cinema europeo. Un prestigioso premio del cinema europeo è stato istituito nel 1988 dalla European Film Academy (sempre nata in quell'anno e il cui primo presidente è stato Ingmar Bergman), sotto il nome di European Film Awards. Dal 1997 il premio ha assunto il nome di premio Felix, vero e proprio Oscar europeo.
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