Farmacologia
di Pietro Di Mattei
Farmacologia
sommario: 1. Introduzione. 2. Posizione concettuale della farmacologia nel Novecento. 3. I temi della farmacologia nel Novecento. 4. I farmaci del Novecento. a) Farmaci di provenienza vegetale; la farmacognosia. b) Farmaci di provenienza animale. c) Farmaci di provenienza minerale. d) Farmaci di provenienza artificiale. 5. I problemi fondamentali della farmacologia nel Novecento. a) Il metabolismo dei farmaci. b) I rapporti fra caratteristiche chimico-fisiche dei farmaci e azione farmacologica. c) Il meccanismo d'azione dei farmaci. d) I recettori e la farmacologia molecolare. 6. Lo sviluppo delle metodiche farmacologiche. 7. Le applicazioni dei farmaci. a) In medicina. b) Applicazioni per altri fini. 8. Conclusioni. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Voler tracciare lo sviluppo storico di una materia scientifica nel Novecento quando mancano 25 anni al compimento del secolo e i progressi delle conoscenze assumono un ritmo così incalzante, appare palesemente impresa prematura, destinata a risultare incompleta e non rappresentativa del periodo che vuoi considerare. Si aggiungano altre considerazioni: da un lato manca il distacco necessario per la scelta delle fasi più significative; dall'altro si vorrebbe resistere alla tendenza di collocare (o costringere?) in un tempo convenzionale tanti eventi, fermenti, correnti che hanno radici remote, o che sono per ora anticipazioni o presagi che non è possibile prevedere se verranno a maturazione o saranno destinati a sfaldarsi e a sparire. L'impresa, delicata per ogni scienza, appare ancora più difficile nel caso della farmacologia, trattandosi di una materia che ha proceduto su fronti assai disparati e così strettamente partecipe dello sviluppo di altre scienze. Il suo terreno, poi, appare talmente ingombro di apporti continui, persino torrenziali, che pur contribuendo a comporre obiettivamente il quadro generale della farmacologia del Novecento non consentono di stabilire se si sia verificato un accrescimento o uno sviluppo: si sa bene che in biologia si designa col primo termine il semplice aumento di volume di un organismo e con l'altro l'orientamento verso la formazione di un organismo armonico, efficiente e fecondo. Qui si vorrebbe tendere a parlare propriamente di sviluppo. Ma, anche in questo caso, il tema dello sviluppo della farmacologia nel Novecento può offrire un'alternativa: registrare a guisa di inventario o catalogo le concrete acquisizioni di un laborioso cammino, oppure tentare di identificare i fili conduttori di un incessante sforzo conoscitivo e dare maggior posto ai concetti che hanno ispirato di volta in volta l'acquisizione di quei risultati: come a dire le forze che hanno orientato e assicurato quello sviluppo. In parte per ragioni di spazio, ma soprattutto nello spirito dell'Enciclopedia, sembra questa la scelta preferibile, anche a giustificazione delle inevitabili e spiacevoli omissioni che si dovranno lamentare nel ricordare le acquisizioni particolari della farmacologia nei primi due terzi del secolo.
2. Posizione concettuale della farmacologia nel Novecento
A differenza di tante altre branche del sapere, l'impostazione concettuale della farmacologia è stata troppo sofferta e diversamente sentita dai suoi stessi cultori perché questo travaglio non faccia parte, esso stesso, della storia della disciplina nel corso del secolo. Si spiega così un singolare carattere di questa materia: l'essere stata diversamente e assiduamente definita dai suoi stessi cultori. Sostanzialmente, molti farmacologi, patologi e medici, e addirittura l'opinione pubblica, vedono nella farmacologia la scienza deputata allo studio e alla scoperta di prodotti capaci di prevenire, alleviare e guarire stati morbosi dell'uomo e degli animali. Per altri, si tratterebbe di una scienza sorella della fisiologia oppure della biochimica o della chimica organica, con interessi nella patologia e nella terapia, ovvero di pura scienza naturalistica. Concezioni tutte accettabili per l'evidente intreccio di queste scienze, tutte rappresentate nella farmacologia moderna. Vi si potrebbero, praticamente, riconoscere le due facce di ogni scienza, quella teoretica, pura, e quella applicata.
In realtà, la farmacologia moderna era nata con caratteri di assoluta autonomia e con scopi ben definiti, quelli dettati nell'ultimo trentennio dell'Ottocento dal suo riconosciuto fondatore, O. Schmiedeberg: ‟Lo scopo della farmacologia è di sviluppare una scienza biologica indipendente e pura, che contempli l'azione degli agenti farmacologici attivi sugli organismi viventi senza riferimento alla loro importanza pratica. Ciò significa che la farmacologia deve investigare gli effetti di sostanze chimiche dotate di proprietà reattive sotto condizioni fisiologiche; i risultati ottenuti da tali studi potranno avere un'importanza tossicologica, terapeutica o puramente fisiologica". Scienza, dunque, assolutamente neutrale, come sono la fisica e la chimica, dalle quali la farmacologia riceverà leggi e luce. Non interessa che il farmaco figuri come veleno, come rimedio o come strumento rivelatore di funzioni e processi fisiologici e neanche di substrati anatomici: esso è soltanto una sostanza chimica capace di modificare la chimica dell'organismo. Le possibili applicazioni saranno frutto di deduzioni più o meno razionali. L'espressione ‛sotto condizioni fisiologiche" dello Schmiedeberg allude soltanto a un terreno d'osservazione, quello normale non alterato da occasionali irregolarità.
Nonostante che i primi cultori della farmacologia avessero appreso il metodo sperimentale nei laboratori di fisiologia e si fossero affratellati con i fisiologi, la nuova farmacologia palesa presto il suo distacco da quella scienza che considera i farmaci quali ‛scalpelli chimici', rivelatori o sollecitatori di funzioni fisiologiche. Cl. Bernard (1856) e più tardi J. N. Langley e W. L. Dickinson (1889) riveleranno le prodigiose proprietà possedute dal curaro e dalla nicotina di alterare fondamentali funzioni fisiologiche e riusciranno a dimostrare le imprevedibili sedi di quei fenomeni; ma i farmacologi non vogliono servirsi del curaro o della nicotina o lavorare ‛con' il curaro o ‛con' la nicotina. Vogliono lavorare ‛sul' curaro e ‛sulla' nicotina.; ne vogliono decifrare quella natura che contiene il segreto fisico-chimico della loro specifica attività su corrispondenti ed esclusivi substrati viventi. Così per tutti i farmaci.
La farmacologia non si considera affatto nei riguardi della fisiologia come magazzino di strumenti, sia pure prodigiosi e insostituibili, ma come scienza autonoma che studia le proprietà fisiche e chimiche dei farmaci, ne considera gli effetti come espressione di inter-reazioni col substrato, e si propone, appunto, di conoscere tali reazioni. Per molti anni, tuttavia, la farmacologia si limiterà a raccogliere e descrivere il maggior numero possibile di effetti dei farmaci. Sarà prevalentemente scienza descrittiva. Stringerà i suoi legami con la fisiologia, che a sua volta registra e descrive tutte le espressioni funzionali della vita animale. Le due scienze sembreranno procedere di conserva e integrarsi. La farmacologia, anzi, ripeterà il linguaggio fisiologico e applicherà, per indagare gli effetti dei farmaci, le medesime interpretazioni e regole che la fisiologia viene elaborando. Solo più tardi, pur conservando inevitabilmente i più stretti e vantaggiosi legami, le due scienze troveranno difficoltà a sovrapporre sempre le loro osservazioni e a considerare plausibili le stesse regole. Le due facce della conoscenza sperimentale mostreranno allora non poche discrepanze.
Il farmaco confermerà la sua natura di sostanza estranea alla composizione dell'organismo e alle sue funzioni fisiologiche, che si dimostra in grado addirittura di sovvertire, così come può mutare chimicamente e fisicamente il substrato reattivo. Occasionalmente potrà persino lasciar riconoscere una sorta di antifisiologia per la capacità di provocare effetti estranei, anzi ignoti e contrari a quelli fisiologici: tutto ciò anche a dosi piccolissime. Il curaro e la nicotina, in fondo, e tanti altri farmaci, dagli anestetici ai ganglioplegici, non agivano certo in senso fisiologico e denunziavano interventi autonomi. Il rapporto con la fisiologia tende a spezzarsi. Vi contribuisce certamente la pressione dell'impiego terapeutico dei farmaci. La terapia, infatti, sempre vigile e impaziente, pretenderà di attingere rimedi a ogni nuova acquisizione della farmacologia, che dovrà difendersi da questa frettolosa e spesso indebita appropriazione. La farmacologia non solo vorrà rimanere fedele alle sue neutrali tavole di fondazione, ma vorrà dimostrare la sua ripugnanza e la sua reazione verso una nuova materia medica, di cui era stata, è vero, l'erede, ma di cui voleva combattere persino il ricordo. Quell'espressione ‛materia medica', ammasso di inammissibili presunzioni terapeutiche (che tuttavia nel primo Novecento continuava a intitolare trattati, laboratori e insegnamenti universitari), pesava come una cappa di piombo sulla nuova farmacologia, che era invece assolutamente antiempirica è rigorosamente sperimentale.
Eppure, diventava sempre più evidente che l'estraneità di tale farmacologia a ogni applicazione, e specie a quella terapeutica, rischiava di trapassare in astrazione. Non soltanto il pur condannato empirismo aveva incontestabilmente consegnato ai tempi nuovi e allo stesso studio di una farmacologia ortodossa documenti irrecusabili di preziosi effetti terapeutici, come quelli, per esempio, della digitale, dei salicilici, della chinina, della morfina, del mercurio, di antipiretici e purganti, ecc.; ma lo stesso crescente sviluppo di un nuovo indirizzo scientifico-operativo, la chimica farmaceutica, veniva offrendo alla farmacologia pura, come pure alla terapia, importanti prodotti di sintesi, ispirati a una precisa finalità applicativa. Alla prova farmacologica, se pur sommaria, e soprattutto a quella clinica, quei prodotti dimostravano proprietà di cui la terapia poteva profittare. Una farmacologia esclusivamente sperimentale, pura scienza di laboratorio, così com era sorta, appariva come scienza senza anima e sorda all'evidente anelito delle sofferenze umane, che erano pur state lenite da prodotti grezzi, di composizione non definita. Insomma un nuovo spirito informa e anima ormai la farmacologia del Novecento.
Non si tratterà certo del rinnegamento di una scienza nata per conoscere, che continua e continuerà il suo duro lavoro obiettivo, ma di una evoluzione psicologica che, senza alcuna rinunzia ai più severi presupposti scientifici, apre le sue frontiere alla razionale applicazione terapeutica delle sue acquisizioni. Il nuovo corso troverà il suo eminente e qualificato esponente in un illustre patologo e chimico, P. Ehrlich. La relazione che egli presenterà alla Società Chimica Tedesca (v. Ehrlich, Über den jetzigen..., 1909), illustrerà, anzi prescriverà, il nuovo indirizzo della farmacologia.
La farmacologia non ha cambiato volto, anzi persevera nell'originario orientamento con ricerche sempre più meticolose sui rapporti chimici e fisici che intercorrono tra le varie sostanze chimiche e i substrati viventi. Ma il fine applicativo è divenuto sempre meno collaterale: conferisce alla materia grandissima presa sull'opinione pubblica, appassiona molti studiosi, li invita ai rapporti con la patologia, guadagna posizioni sempre più riconosciute e avanzate nella preparazione universitaria dei medici; inoltre stimola la formazione di laboratori di ricerca sempre più attrezzati e fecondi, e diviene infine la fucina e la stazione critica dei nuovi rimedi. Quei trattatisti che hanno, di volta in volta, presentato la materia su base chimica (come aveva fatto lo Schmiedeberg, e taluni vi insisteranno sino agli ultimi anni) e poi, per moltissimi anni ancora, su base funzionale, finiscono ormai per accettare la presentazione terapeutica. Sarà questa la più recente evoluzione del concetto di farmacologia o, se si vuole, l'inevitabile compromesso: la farmacologia sperimentale base della terapia.
3. I temi della farmacologia nel Novecento
In un campo così aperto, le vie della ricerca non possono che essere numerose. Si delineano a poco a poco i sentieri che diventeranno strade maestre. I farmacologi, sempre più numerosi, subiscono il fascino dell'esplorazione di un territorio immenso, appena dissodato, dove ogni passo può essere fecondo. Vi s'indirizzano per vie diverse: ciascuno secondo il proprio temperamento, la propria curiosità e preparazione, secondo la scuola cui appartiene, le attrezzature di cui dispone, l'influenza dell'ambiente, delle mode, della suggestione di particolari scoperte, del progresso di una scienza limitrofa e, infine, della propria intuizione. Non infrequentemente il caso apre o suggerisce un nuovo indirizzo.
I temi principali si possono, tuttavia, così accennare: a) la conoscenza del maggior numero possibile di sostanze biologicamente attive; b) la conoscenza delle forze chimiche e fisiche che regolano i rapporti fra farmaci e organismi viventi; c) la conoscenza dei rapporti fra costituzione del farmaco e i suoi effetti farmacologici; d) la conoscenza delle trasformazioni che il farmaco subisce nell'organismo vivente e quella delle modificazioni che vi provoca (farmacocinetica e farmacodinamica), chiavi del meccanismo d'azione della sostanza; e) l'apprestamento intenzionale di farmaci specifici per determinati punti di attacco dell'organismo o verso agenti patogeni; f) la coadiuvazione alle forze di difesa dell'organismo; g) l'inquadramento di tutte le risposte ai farmaci per la loro classificazione funzionale e terapeutica.
Naturalmente, tutti questi temi s'incrociano e altri numerosi vi si sovrappongono. La loro divergenza sarà tuttavia solo apparente. Sovente, in verità, i farmacologi avranno la sensazione di essere fra loro lontani, rischiando non di rado di perdere i collegamenti e spesso sembreranno troppo unilaterali. Ma sanno tutti di concorrere per vie diverse a una meta comune, certamente lontana e anche remotissima: la conoscenza controllabile delle influenze che i farmaci possono esercitare sugli organismi e l'impiego di queste influenze a protezione e beneficio della condizione umana.
Pur con inevitabile sommarietà, si tenterà qui di sfiorare più da vicino questi aspetti dello sviluppo della farmacologia nel Novecento.
4. I farmaci del Novecento
a) Farmaci di provenienza vegetale; la farmacognosia
L'interesse per i prodotti del regno vegetale (semi, cortecce, foglie, fiori, radici, ecc.) e l'opportunità di una più attenta e aggiornata investigazione di laboratorio, giustificarono al principio del Novecento, in tutti i paesi, il sorgere di una branca specializzata della botanica e della farmacologia sperimentale, che prese il nome di ‛farmacognosia'. Questa disciplina, che vantò numerosi e valorosi cultori, ebbe i suoi trattati e costituì materia di insegnamento in talune facoltà universitarie di farmacia. Le sue finalità furono essenzialmente la più attenta ricognizione dei caratteri morfologici macro- e microscopici delle piante dotate di attribuzioni terapeutiche, il riconoscimento delle loro varietà, lo studio del loro habitat naturale, quello delle loro variazioni di attività in relazione a varie influenze stagionali, geologiche, genetiche, ecc., la più esatta descrizione delle parti utilizzate in farmacia e incluse nelle farmacopee ufficiali di ogni Stato (le droghe officinali), l'apprestamento di precisi saggi di riconoscimento botanico, fisico, chimico e farmacologico e lo studio infine dei procedimenti più adatti per estrarre senza alterazioni i principî attivi contenuti nelle varie parti della pianta. Torna naturalmente impossibile fare un elenco, anche sommario, di tutti i prodotti vegetali - alcaloidi, glicosidi, acidi organici, steroidi, flavonoidi, enzimi, ecc. - che via via, vennero estratti, sottoposti allo studio farmacologico e passati, spesso un po' fatuamente, alla terapia. Ma il regno vegetale si confermerà un serbatoio inesauribile e solo parzialmente esplorato di sostanze biologicamente attive, capaci di agire anche selettivamente su organi, tessuti, funzioni. Negli anni più recenti si scopriranno persino sostanze ad azione estrogena, prodotti spiccatamente psicoattivi, principi attivi sul metabolismo, oppure sullo sviluppo animale e vegetale, e anche potentissime sostanze microbicide, gli antibiotici.
Fra le scoperte più significative e imprevedibili del Novecento si distinguono quella delle vitamine, quella degli antibiotici e quella delle sostanze psicoattive.
Con il termine vitamine C. Funk (v., 1914) indicò alcune sostanze contenute in banali estratti vegetali freschi, nella crusca di riso e di cereali, alle quali se ne aggiunsero altre presenti in certi grassi animali, soprattutto dei grandi Cetacei. Tali sostanze, non assimilabili ai consueti reperti della farmacognosia e della chimica, erano generalmente instabili di fronte a certi agenti fisici (luce, calore), ma capaci d'essere attive a piccolissime dosi. Si comportavano come farmaci: la prova della loro esistenza e della loro attività era fornita, appunto, dalla proprietà di prevenire e guarire gravi e anche mortali forme morbose o disturbi dell'accrescimento apparentemente legati a carenze alimentari e provocabili anche sperimentalmente in animali sottoposti a diete particolari.
Di fronte all'evidenza delle prove e a riferimenti suggestivi a malattie dell'uomo, presumibilmente legate a carenze alimentari, presto non vi furono più dubbi sull'esistenza e sull'importanza delle vitamine. Superato rapidamente il primo significato terapeutico, vennero considerate fattori non solo complementari, ma essenziali dell'alimentazione. Aveva così inizio quel capitolo complesso della fisiologia, della biochimica, della chimica, della farmacologia, della terapia, che si intitola ancora oggi ‛vitaminologia' (v. vitamine).
A questi studi, che dovevano procurare in pochi decenni il premio Nobel a sei successivi ricercatori, presero parte, accanto ai fisiologi e ai biochimici, anche i farmacologi. Il posto d'onore spetta ai chimici, che in pochi anni, attraverso pazienti e brillanti ricerche, riuscirono prima a isolare dai diversi materiali vegetali e animali le misteriose sostanze, a conoscerne la composizione chimica, a comprendere l'attivazione in senso vitaminico di certe ‛provitamine', poi anche a ricostruirle per sintesi. Oggi si conoscono parecchie decine di vitamine, ancorché la loro posizione biochimica si presti tuttora a discussioni e la stessa posizione farmacologica e terapeutica non ne risulti del tutto chiara; sono stati, persino, individuati, per talune di esse, quadri di ‛ipervitaminosi' contrassegnati da aspetti nettamente tossici.
Fu ancora nell'ambito del regno vegetale che nel Novecento si registrò una scoperta d'importanza storica sul piano terapeutico. Nel 1929 un microbiologo inglese, A. Fleming, poté osservare che il metabolita di una muffa, più tardi identificata come Penicillium notatum, era capace di produrre la lisi di una coltura di staffilococco su piastra di agar. Coltivando quell'ifomicete su un terreno liquido, Fleming (v., 1929) osservò che il terreno di coltura impediva lo sviluppo di molti germi patogeni grampositivi e di molti cocchi gramnegativi. Egli assegnò a quell'ignoto prodotto (che poteva anche essere un enzima, come il lisozima, da lui stesso studiato, dotato di proprietà antibatteriche) il nome di penicillina, e ne confermò le proprietà antibatteriche con esperimenti in vivo sui topi. Lo studio della penicillina veniva ripreso a Londra nel 1938-1940 dal biochimico E. B. Chain, che non ne considerò affatto, tuttavia, l'impiego in clinica come agente curativo, perché la sua supposta natura proteica non avrebbe mancato di provocare fenomeni allergici. Presto, però, in collaborazione col patologo inglese H. W. Florey e con altri (il cosiddetto gruppo di Oxford), Chain (v. Chain e altri, 1940) poteva rendersi conto delle straordinarie proprietà antibatteriche possedute dal metabolita del Penicillium notatum e riusciva a passare da un prodotto estrattivo grezzo, assai labile, a un prodotto purificato, stabile, attivissimo su moltissimi microbi grampositivi e gramnegativi. Egli, infine, poté precisare la costituzione chimica della preziosa sostanza offrendo così alla terapia delle malattie infettive un'arma di insperata efficacia.
Si era scoperto un filone prodigioso. Impossibile ricordare le fasi della febbrile ricerca da parte di botanici, microbiologi, patologi, biochimici, farmacologi, e il numero dei prodotti ottenuti, dotati di evidentissime proprietà antibatteriche. Nel 1944, dai terreni di coltura dello Streptomyces griseus si ottiene un potente antibiotico, di cui si accerterà fra l'altro una spiccatissima azione contro il bacillo della tubercolosi (v. Schatz e altri, 1944); nel 1945 O. Brotzu isola un ceppo di Cephalosporium acremonium il cui terreno di coltura mostra attività antibiotica, in vitro e in vivo, per la presenza di cefalosporine; nel 1947 J. Ehrlich e altri (v., 1947) isolano dallo Strept. venezuelae il cloramfenicolo, dal 1948 al 1957 si estraggono dai terreni di coltura dello Strept. aureofaciens e dello Strept. rimosus le tetracicline, da altri streptomiceti si ottengono l'eritromicina, la oleoandomicina, la spiramicina, la carbomicina, ecc.; nel 1959 studiosi del Laboratorio Lepetit (v. Sensi e altri, 1959) isolano dallo Strept. mediterranei la prima rifamicina, attivissima contro il bacillo della tubercolosi. La lista diviene lunghissima, comprende già centinaia di antibiotici che la clinica passerà al vaglio. E la ricerca continua, orientata anche verso il riconoscimento della struttura chimica di questi preziosi fàrmaci naturali con la conseguente preparazione di derivati semisintetici o, addirittura, sintetici. Ma lo stesso prevedibile sviluppo della chimica sintetica non potrà oscurare il primato originario del regno vegetale nella custodia di farmaci che hanno trasformato prognosi e terapia delle malattie più temute in patologia umana. Queste comprendono, seppure come parte meno vistosa, le infezioni fungine, tradizionalmente combattute con farmaci inorganici (iodio, zolfo, metalli pesanti), acidi grassi (acido undecilenico, caprilico), derivati benzenici, coloranti, derivati della chinolina e sali ammonici quaternari; superando tutti questi medicamenti, gli antibiotici fungistatici a struttura polienica (nistatina, anfotericina B, candicidina, pimaricina, tricomicina, ecc.) e di altra natura (actidione, eulicina e soprattutto la griseofulvina dello Strept. griseus) offrono anch'essi alla terapia delle micosi armi importanti. E non si possono ignorare, per le speranze di una terapia delle proliferazioni cellulari abnormi, i farmaci citostatici ottenuti da diversi streptomiceti: la daunomicina, ricavata dallo Strept. peucetius e poi dallo Strept. coeruleorubidus, nonché l'adriamicina, isolata nel 1967 da una varietà dello Strept. peucetius.
Fra i più caratteristici prodotti del regno vegetale non si possono trascurare i prodotti psicoattivi (psilocibina) estratti da funghi messicani del genere Psilocybe, mentre l'antichissima Cannabis sativa rivela alla richiamata attenzione dei chimici il suo ricco patrimonio di principi inebrianti, i tetraidrocannabinoli, cui si devono l'effetto voluttuario e la tossicità della droga (v. droga).
I controlli degli ultimi anni hanno indotto ad attribuire scarsa importanza alle piccole differenze morfologiche fra varietà di Cannabis sativa, spostando l'interesse sulle condizioni geologiche e climatiche nelle quali si svolge la coltivazione, nonché sulle caratteristiche genetiche delle piante, alle quali devono essere in realtà ascritte tanto la diversa e variabile produzione quanto la qualità dei principi attivi.
Non si può tralasciare, infine, la scoperta di parentele, talvolta assai strette, di prodotti vegetali con prodotti del metabolismo animale. L'efedrina, per esempio, alcaloide di diverse piante del genere Ephedra, rivela parentele chimiche e farmacologiche con un ormone, l'adrenalina, e sostanze adrenalinosimili si ritrovano nella pianta Catha edulis (Celastrus edulis); così pure i principî purinici contenuti nelle droghe caffeiche si apparentano a quelli dell'organismo animale. Più recentemente queste inattese parentele sono state sfruttate, addirittura, per la sintesi o semisintesi di ormoni sessuali (progesterone, testosterone) a partire dalle saponine steroidi di certe Liliacee, e di ormoni corticosurrenali (idrocortisone) partendo da sapogenine o da alcaloidi steroidici. È stato inoltre possibile preparare la vitamina D partendo dagli steroli del lievito di birra. Infine, è noto che alcuni batteri producono la stessa vitamina B12 contenuta nel fegato (cobalamina). In questa sede si deve necessariamente sorvolare su tutte le acquisizioni rese possibili alla farmacologia del Novecento dalla rinnovata esplorazione del regno vegetale soprattutto grazie all'ausilio di mezzi analitici incomparabilmente più fini di quelli prima impiegati; tuttavia si può confermare a tale regno l'antica fisionomia di serbatoio pressoché inesauribile di sostanze farmacologicamente attive, modello e incentivo alla chimica sintetica, stimolo a più scrupolose revisioni e oggetto dell'attenzione di specializzate organizzazioni scientifico-industriali.
b) Farmaci di provenienza animale
L'Ottocento utilizzava ancora, notoriamente, prodotti del regno animale dei quali taluni figuravano nelle stesse farmacopee ufficiali. All'alba del nuovo secolo, quando già sembrava che questi prodotti dovessero essere spazzati via e vilipesi, si isolava dalle capsule surrenali di cavalli e poi si purificava fino alla forma cristallina (v. Takamine, 1901; v. Aldrich, 1901) un prodotto d'importanza sensazionale per la fisiologia, la biochimica, la patologia e, naturalmente, la farmacologia: l'adrenalina. Si apriva così un campo di ampiezza non precisabile per l'intera biologia, quello cioè delle ghiandole a secrezione interna e degli ormoni, che supera ampiamente la stretta trattazione farmacologica (v. ormoni).
Nell'ultimo trentennio la lista dei composti ormonali isolati, cristallizzati e in buona parte riprodotti per sintesi si è notevolmente accresciuta: è appena sufficiente ricordare qui la scoperta della calcitonina e del glucagone, secreti rispettivamente dalla tiroide e dal pancreas, quella dei numerosi ormoni dell'ipofisi anteriore, da cui dipendono svariatissime ed essenziali funzioni e correlazioni funzionali, e quella degli steroidi corticosurrenalici. A parte lo studio fisiofarmacologico di tante nuove sostanze, a vari dosaggi e per diverse vie di somministrazione nelle diverse specie animali, la scoperta di tanti nuovi prodotti attivi doveva aprire all'investigazione farmacologica due nuove vie: il controllo degli effetti di tutti i numerosissimi derivati sintetici e semisintetici ottenuti dai chimici a partire da prototipi (basti pensare ai fecondissimi filoni dei cortisonici, degli androgeni, degli estrogeni, dei progestinici) e lo studio dell'influenza che svariati farmaci possono avere sulla stessa elaborazione endogena, liberazione e circolazione di quegli ormoni.
Nella seconda metà del Novecento si manifestava e consolidava il concetto, che pure affondava le sue radici nelle premesse teoriche e pratiche che avevano dato origine alla opoterapia, della possibilità che prodotti non ormonici, cioè non elaborati dalle ghiandole endocrine ma presenti praticamente in tutti i tessuti dell'organismo, fossero in grado di esercitare effetti farmacologicamente rilevabili. Veniva ad aprirsi un orizzonte senza confini. La biochimica centrava la sua attenzione soprattutto sul sangue e sul fegato. Dal sangue si cominciarono a estrarre principî implicati nelle varie fasi della coagulazione, che si rivelò ben presto un processo notevolmente complesso; dal fegato ci si ostinò a ricavare presunti principî antitossici, sotto l'evidente influenza di quella azione antitossica che numerose osservazioni fisiologiche e farmacologiche attribuivano all'organo, le cui energiche proprietà detossicanti sembravano d'altronde largamente dimostrate dai processi di ossidazione, di riduzione, di sintesi, ecc. in esso riconosciuti. Il passaggio attraverso il fegato depurava effettivamente il sangue da molti veleni.
Ma l'importanza del tessuto epatico si rivelò in modo sorprendente quando le osservazioni di P. Castellino, O. R. Minot, W. P. Murphy, F. S. Robscheit e G. H. Whipple vennero, via via, a dimostrare i beneficî dell'ingestione di fegato crudo in animali salassati o in individui umani affetti da sprue, da pellagra e, soprattutto, da anemia perniciosa (v. Pirera, 1912; v. Robscheit e Whipple, 1925; v. Minot e Murphy, 1926). Si suppose la presenza nell'organo di un principio attivo specifico, di una nuova vitamina. Processi di estrazione e di purificazione portarono all'isolamento di una sostanza molto attiva, cui fu dato inizialmente il nome di vitamina B12, e in seguito di cobalamina (cianocobalamina, idrossocobalamina, ecc.). Assai importante fu la successiva scoperta che la cobalamina, di difficile e costosa estrazione, poteva essere ottenuta, altresì, mediante processi di fermentazione operati da particolari microrganismi. La disponibilità del prezioso prodotto aveva ormai una diversa ed economica sorgente, ma restava confermata l'esistenza di principî dotati di eccezionali e specifiche proprietà farmacoterapeutiche nei tessuti dell'organismo animale.
Appariva, ormai, pienamente giustificata un'indagine approfondita, sia pure sugli esili indizi di osservazioni istochimiche e biochimiche o vagamente terapeutiche, cui nuove acquisizioni della enzimologia offrivano un suggestivo sussidio. Si intensificarono i procedimenti estrattivi dagli organi, dai tessuti, dai secreti, dagli escreti degli organismi animali, nella ricerca di sostanze attive come per rivedere sotto altra luce, quella sperimentale, tutta un'arcaica, istintiva e inestirpata presunzione della terapia empirica. In realtà, fin dall'inizio del Novecento, la biochimica e la farmacologia avevano scoperto nei tessuti animali sostanze attivissime, l'acetilcolina e l'istamina, che non provenivano, come gli ormoni, da organi differenziati, le ghiandole a secrezione interna, ma dai più diversi tessuti; spesso, anzi, era stato possibile ottenerle da tessuti maltrattati, sottoposti ad azioni enzimatiche o, persino, in putrefazione. Tali sostanze erano subito apparse attivissime, a minime dosi, a livello dei più vari distretti, funzioni o substrati: proprio questa loro attività piuttosto misteriosa, e comunque incontestabile, aveva suggerito a H. H. Dale (v., 1953) il termine di ‛autofarmacologia'. Se la finalità fisiologica di queste sostanze era ancora incomprensibile, non ne se poteva, tuttavia, negare l'interesse farmacologico. In fondo, non si trattava che di applicare all'organismo animale quei concetti di serbatoio potenziale di sostanze farmacologicamente attive che erano stati validi per il regno vegetale. La ricerca, estesa anche ad organismi insoliti, è risultata appassionante e feconda ed è stato possibile isolare molte sostanze attive sui più diversi sistemi e substrati. Si tratta per lo più di polipeptidi in alcuni casi risintetizzati artificialmente e che vengono raccolti, con designazione ancora provvisoria, sotto diversi titoli: agenti autofarmacologici, ormoni locali, autacoidi, chinine. Il loro numero è rilevante, e qui è possibile ricordarne soltanto alcuni: l'angiotensina, la bradichinina, scoperta da Rocha e Silva e altri (v., 1949), la sostanza P di J. H. Gaddum e U. S. Euler, tutti polipeptidi ad azione pressoria, il primo dei quali si è rivelato in grado di determinare aumento della pressione arteriosa; la 5-idrossitriptammina, denominata anche serotonina, una ammina che s'identifica sia col vasocostrittore serico di origine piastrinica, sia con l'enterammina, specificamente prodotta dal sistema delle cellule enterocromaffini, caratteristicamente attiva sulla muscolatura liscia (v. Erspamer e Asero, 1952; v. Erspamer, 1954); la ceruleina (scoperta da Anastasi e altri nel 1967), decapeptide dotato di una forte attività stimolante la muscolatura liscia extravasale e la secrezione gastrica e pancreatica; le prostaglandine, i cui precursori sono risultati alcuni acidi grassi essenziali (v. van Dorp e altri, 1964), dotate di azione vasodeprimente e stimolante la muscolatura liscia e in grado di diminuire la pressione arteriosa e l'adesività piastrinica, delle quali è ora anche noto un ruolo svolto nei processi flogistici; le catecolammine, termine generico con il quale si designano soprattutto l'adrenalina e la noradrenalina, la cui alta concentrazione nel sistema nervoso centrale e in altri organi e tessuti consente di considerarle ormoni locali, dotati di molteplici e complesse attività sul sistema nervoso, su quello cardiovascolare, a livello metabolico (v. Gowenlock e Longson, 19303); l'acido γ-amminobutirnco (GABA), capace di esercitare notevoli influenze sullo stato di attività dei neuroni del sistema nervoso centrale (v. Purpura e altri, 1957; v. Iwama e Jasper, 1957), e l'acido adenosintrifosforico, di cui è ben noto il significato nei processi metabolici; le diverse sostanze elaborate dal timo e dai linfociti, delle quali incominciano a essere ben conosciute le peculiari influenze nei fenomeni flogistici e immunitari. La posizione farmacologica di queste e altre sostanze dovrebbe rimanere indipendente dalla loro eventuale posizione fisiologica e biochimica. Molte omologazioni possono, infatti, risultare azzardate e arbitrarie. Ma la distinzione fra prodotti endogeni ed esogeni è, sovente, assai confusa e difficile: l'esempio più inatteso e suggestivo resta sempre quello dei mediatori chimici dell'impulso nervoso, lo studio dei quali ha donato la stessa luce ai processi fisiologici, biochimici e farmacologici.
c) Farmaci di provenienza minerale
L'Ottocento aveva adoperato largamente l'antimonio, il mercurio, l'argento, il bismuto, il fosforo, lo iodio, ecc. Il Novecento, specialmente nei suoi primi decenni, doveva confermare ed estendere sul piano terapeutico l'azione astringente e caustica di taluni sali di metalli pesanti, quella antisettica e disinfettante del manganese, del mercurio, dello iodio, del cloro, ecc. nei loro sali solubili o nelle prime combinazioni organiche, quella purgativa di soluzioni concentrate di solfato di sodio e di magnesio. Le nuove interpretazioni osmotiche, inoltre, davano ragionato credito agli effetti purgativi di certe acque minerali. Ma la vera novità terapeutica era l'impiego di principî minerali: fosforo, iodio, arsenico, ferro, ecc., di cui la biochimica aveva rivelato la presenza nei vari tessuti dell'organismo, per un ipotetico effetto ricostituente nelle reali o presunte deficienze patologiche dell'organismo. Innumerevoli combinazioni organiche furono apprestate dai chimici e sottoposte largamente ad applicazioni cliniche, senza che, nella massima parte dei casi, il controllo farmacologico e l'effettivo risultato terapeutico confermassero le presunzioni. Ma anche al presente, la voga dei ricostituenti non si può considerare estinta; è, anzi, manifesta la tendenza a utilizzare più delicati prodotti estrattivi dei tessuti, delle cellule e perfino di organuli subcellulari. In non pochi casi, tuttavia, alcuni minerali, normalmente presenti nell'organismo, rappresentano il rimedio di elezione nei confronti di particolari condizioni morbose: esempio classico è costituito dal ferro che, come è noto, fa parte della molecola dell'emoglobina (v. sangue: Emoglobina) e la cui somministrazione nelle anemie ipocromiche ha valore di vera terapia sostitutiva, oltre a esercitare una funzione di stimolo nei confronti dell'eritropoiesi.
d) Farmaci di provenienza artificiale
Il grandioso sviluppo e raffinamento della chimica sintetica doveva offrire alla farmacologia un'incalcolabile disponibilità di nuovi farmaci. I chimici, che avevano già affrontato il problema della costituzione chimica spesso straordinariamente complessa di tanti composti di origine vegetale e animale, spingendosi a formulare ipotesi sui rapporti fra tale costituzione e l'attività farmacologica, non esitarono a tentare di ricostruire per sintesi le molecole più attive. Le fasi ricostruttive consentivano di giudicare, sotto il controllo farmacologico, l'importanza e l'ufficio specifico di nuclei, gruppi, radicali, nonché d'identificare per ognuno di essi la parte caratterizzata dalla stessa posizione sterica. Il rapporto fra costituzione chimica e azione farmacologica diveniva così più facilmente dimostrabile. Queste progressive conoscenze permisero non soltanto di oltrepassare l'ambizioso impegno, in molti casi coronato da successo, di fabbricare ora in laboratorio preziose sostanze naturali, ma anche di semplificarne le originarie molecole, eliminando gruppi e radicali inutili o tossici, di spostarne la posizione nella molecola, di accrescere i gruppi farmacologicamente utili, sì da ottenere, infine, nuovi corpi, farmacologicamente assai più interessanti, talvolta semisintetici, spesso del tutto artificiali. Fondamentalmente in rapporto ai risultati ottenuti, fecero la loro comparsa nuove serie di farmaci, derivati da prototipi naturali: gli atropinosimili, i cocainosimili, gli adrenalinosimili, i curarosimili, ecc.; nel contempo si sviluppava un vero virtuosismo chimico sintetico che portava alla creazione di nuovi composti, talvolta ispirata a ipotesi, ad analogie, a derivazioni sistematiche, non di rado scaturita dal caso. Il numero dei prodotti fabbricati dai chimici per sintesi durante il Novecento è incalcolabile; di essi solo una parte è stata sottoposta al controllo farmacologico. Moltissimi prodotti hanno costituito un inutile ingombro e di essi, via via, è scomparso ogni ricordo dalla stessa bibliografia. Ma la farmacologia s'è arricchita, per merito della sintesi chimica, di farmaci preziosi. Sono ormai fittissime le liste di analettici, cardiotonici, antinfiammatori, anestetici locali, anestetici generali, diuretici, purganti, miolitici, antireumatici, sedativi, eccetera. La scoperta di imprevedibili effetti di taluni nuovi composti ha aperto nuovi capitoli della farmacologia: sono ora ben noti farmaci psicotropi, antiblastici, allucinogeni, antimetabolici (antistaminici, antivitamine, antiserotonina, ecc.), chemioterapici, antiparassitari, erbicidi e, persino, farmaci immunodepressivi. La sintesi chimica ha ormai sottratto gli stessi antibiotici alla originaria esclusività naturale, e ne rende possibile la produzione industriale.
Grandi figure di chimici si iscrivono nella storia di queste conquiste della chimica sintetica e della farmacologia del Novecento: P. Ehrlich, A. Windaus, E. C. Kendall, T. Reichstein, E. Fourneau, A. Stoll, L. Ružička, G. Domagk, D. Bovet, E. B. Chain e, con essi, una lunga serie di valorosissimi studiosi. È doveroso, tuttavia, ricordare come al progresso così meritorio della chimica farmacologica e terapeutica abbiano notevolmente contribuito, e talvolta in modo davvero determinante, il nuovo spirito di équipe e il grandioso apporto di potenti organizzazioni industriali, specializzate nella onerosa e complessa ricerca di nuovi farmaci.
5. I problemi fondamentali della farmacologia nel Novecento
Si possono condensare in certe enunciazioni consuetudinarie e abbastanza convenzionali le tematiche volte a delucidare scientificamente nel suo determinismo e nel suo epilogo (effetto dei farmaci) il complesso rapporto fra sostanze estranee (farmaci) e organismo vivente. Esse sono: a) il metabolismo dei farmaci nell'organismo; b) i rapporti fra caratteristiche chimico-fisiche dei farmaci ed effetto farmacologico; c) il meccanismo d'azione dei farmaci.
a) Il metabolismo dei farmaci
Con questo termine, che il linguaggio farmacologico del Novecento ha mutuato dalla fisiologia, si sogliono intendere le trasformazioni che i farmaci subiscono nell'organismo. Il parallelo fisiologico è assai relativo. Nel caso dei farmaci, non si riproduce la doppia corrente di anabolismo e catabolismo, propria del metabolismo fisiologico, che si conclude nella conservazione della composizione media dell'organismo. Le trasformazioni di un farmaco nell'organismo hanno generalmente una sola direzione, quella catabolica, espressa da una progressiva degradazione chimica fino all'eliminazione, più o meno sollecita, dei suoi prodotti di trasformazione, come del resto avviene per ogni sostanza estranea all'organismo. Solo eccezionalmente può competere al farmaco un ufficio reintegrativo o quello d'essere utilizzato in particolari cicli di reazioni fisiologiche: si ricorderà a tale proposito la cosiddetta terapia ricostituente o sostitutiva.
Praticamente, la più estesa conoscenza della qualità, della progressione, della misura, della sede, della velocità di queste trasformazioni sarà preziosa per i farmacologi che lungo il secolo vi si impegneranno con scrupolosa attenzione. Non solo essi comprenderanno la rapida sparizione di un effetto farmacologico o, al contrario, il suo tempo di latenza, ma vi troveranno lo specchio della qualità e dell'intensità delle forze fisiche e chimiche che in determinate sedi e tessuti hanno agito sul farmaco lungo il suo passaggio per l'organismo. Non solo ne ricercheranno e doseranno negli stessi tessuti, negli escreti e nei secreti dell'organismo i residui, e vorranno precisare il momento della loro comparsa o la curva della loro eliminazione, ma si proveranno a riprodurre in vitro le presunte reazioni chimiche intervenute ai vari livelli. Si renderanno conto che molte trasformazioni sono dipendenti dalle vie di assorbimento e proprie di determinati tessuti, oltre che dalla durata del contatto, dai rapporti di concentrazione del farmaco, insomma da numerosi fattori e, infine, da specifiche proprietà enzimatiche generali e locali. Pur riconoscendo che ogni farmaco ha il suo destino, l'estesa esplorazione farmacologica è riuscita, come sperava, a ricavare, se non proprio delle regole, almeno certe caratteristiche di specie, preziose per comprendere taluni diversi effetti farmacologici nei diversi animali d'esperimento. Essa è ora in grado di riconoscere un comune destino per farmaci di costituzione chimica simile e, finalmente, di riportare buona parte delle trasformazioni dei farmaci a processi chimici abbastanza generali: ossidazioni (alcune sostanze organiche sono interamente ossidate e distrutte, altre incompletamente), idrogenazioni (riduzione), scissioni (idrolisi, decarbossilazione, dealchilazione, ecc.), e, soprattutto, coniugazioni (metilazione, acetilazione; solfoconiugazione, amminoacidoconiugazione, glucuronoconiugazione, ecc.). Particolare interesse assunse via via la capacità di certi farmaci di attivare enzimi microsomiali (induzione enzimatica) come pure di inibirli, sì da modificare lo stesso destino metabolico e operativo dei farmaci.
Fra i tanti problemi relativi alle trasformazioni dei farmaci nell'organismo, l'attenzione dei farmacologi, cui già dalla fine dell'Ottocento era nota la formazione di sostanze antitossiche nell'organismo a seguito della somministrazione di tossialbumine (abrina, ricina), era attratta dalla possibilità che combinazioni di farmaci e dei loro metaboliti con protidi dell'organismo inducessero in questo l'avvio a una risposta di tipo immunitario con produzione di anticorpi più o meno specifici. Le prime osservazioni di K. Landsteiner (v., 1933) dovevano assumere in questi ultimi decenni importanza sempre crescente ed estensibile al campo della patologia (reazioni allergiche, patologia da autoaggressione), mentre si riuscivano a riconoscere per mezzo del microscopio a fluorescenza gli stessi anticorpi in seno ai tessuti e si utilizzava, persino, la produzione di anticorpi specifici per accertare la presenza nell'organismo di tracce di farmaci (v. immunologia e immunopatologia: Immunologia generale).
Nel complesso, gli effetti biochimici subiti e provocati dai farmaci nell'organismo sono stati lungo il Novecento, e sono tuttora, uno dei temi più appassionanti ed entusiasmanti della farmacologia moderna.
b) I rapporti fra caratteristiche chimico-fisiche dei farmaci e azione farmacologica
Il concetto fondamentale della farmacologia moderna, che qualsiasi azione operata dai farmaci dovesse riportarsi rigorosamente al loro incontro con reagenti dell'organismo nella più stretta osservanza delle leggi fisiche e chimiche, doveva indurre subito i farmacologi a conoscere la natura chimica dei due reagenti, l'esogeno e l'endogeno. Riconoscibile il primo, alla luce della sua costituzione e delle sue affinità; oscurissimo il secondo, non tanto quando la natura del substrato lasciava riconoscere facilmente le sue caratteristiche reazionali, bensi nel caso in cui l'azione del farmaco si svolgesse a livelli ignoti, inaccessibili e di imprecisabile e probabilmente esclusiva costituzione chimica e fisica.
Di immediata importanza per l'interpretazione di taluni rilevanti effetti farmacologici apparvero, già all'inizio del secolo, le proprietà di idrofilia e di lipofilia di molte sostanze chimiche. Proprio con la solubilità di certi farmaci nei lipidi del tessuto nervoso si metteva ragionevolmente in relazione uno degli effetti più suggestivi della farmacologia: l'azione narcotica (v. Meyer, 1899; v. Overton, 1901). Analogamente sembrava di poter interpretare agevolmente, sotto l'influenza delle nuove teorie di Arrhenius (v., 1887) sulla dissociazione elettrolitica, le azioni degli ioni metallici sulle sostanze proteiche (azioni astringenti, caustiche), così come, a loro volta, le recenti teorie dell'osmosi aprivano i primi spiragli alla comprensione dei fondamentali processi di transito dei farmaci attraverso le membrane viventi. Tutti i progressivi rilevamenti della chimica fisica applicabili a farmaci vennero impiegati per interpretare le azioni farmacologiche: la solubilità in acqua e in altri solventi, i coefficienti di ripartizione, l'isosterismo, i potenziali di ossidoriduzione, i diversi tipi di legami chimici, la configurazione spaziale, i fattori dimensionali, le distanze interatomiche fra i gruppi funzionali, ecc.
Nacquero le prime distinzioni: effetti generici, aspecifici, legati a processi banali di solubilità, di permeabilità, di coagulazione di proteine con formazione di albuminati, ecc.; che potevano assumere carattere topico, ed effetti specifici di ben più difficile interpretazione, determinati dalle categorie più sofisticate dei farmaci.
A titolo storico, le prime impostazioni del rapporto fra costituzione chimica e azione farmacologica, all'inizio del Novecento, si possono ascrivere soprattutto ad A. Ostwald, che le derivava da tre grandi famiglie della chimica organica. Già nelle ordinarie reazioni chimiche queste famiglie manifestavano caratteristiche differenti, che parevano ripetersi nei raffronti farmacologici. I corpi della serie grassa apparivano come sedativi del sistema nervoso centrale: vi rientravano gli ipnotici, gli anestetici e molti farmaci attivi sui centri respiratori e cardiaci. I corpi della sene aromatica si dimostravano particolarmente tossici (veleni protoplasmatici), ma rivelavano un'azione elettiva sui centri termoregolatori (infatti, tutti gli antipiretici contenevano un nucleo benzenico). Infine, i corpi che possedevano una funzione amminica dimostravano proprietà eccitanti nei confronti del sistema nervoso centrale, del bulbo, del midollo. Ostwald distinse tre gruppi: il gruppo narcoforo, di tipo metano; il gruppo antitermoforo, di tipo benzene; il gruppo spasmoforo, di tipo ammoniaca. Osservazioni ulteriori consentirono di mano in mano talune convincenti generalizzazioni (e sempre relative): lo sviluppo in lunghezza di una catena alifatica esalta l'attività generale del corpo primitivo; la ramificazione della catena carboniosa esalta l'attività di un prodotto, l'instaurazione di una catena lo rende attivo; la sostituzione di un idrossile a un idrogeno in una catena alifatica accresce le proprietà narcotiche di un prodotto, le diminuisce se si tratta di un composto aromatico; l'introduzione di un alogeno rende più spiccate le proprietà narcotiche; una funzione carbossilica attenua o spegne l'attività farmacodinamica; l'ossidazione o la coniugazione di un prodotto ne diminuisce o spegne l'attività, e così via. Osservazioni tutte cui non mancavano le contraddizioni, ma che fornivano ai farmacologi talune regole o, meglio, guide esplicative e modelli su cui procedere verso preparazioni di controllo. Molti progressi furono realizzati pazientemente sia che si analizzasse la struttura di molecole complesse, sia che si verificasse in dettaglio l'attività specifica di particolari gruppi, sia che si modulasse questa attività metilando, esterificando, benzoilando, ecc., i corpi primitivi. In molti casi si riuscì a precisare ‛la punta della freccia' dell'azione specifica della molecola, a spiegare le differenze di attività degli isomeri, a ottenere composti più attivi o meno tossici. È un fervore di ricerche e di controlli pazientissimi che illumina tutto il Novecento, impegna chimici di altissimo valore, e porta a tentare per via di sintesi la costruzione di nuovi prodotti ad attività presunta, utilizzando il frutto di innumerevoli deduzioni, ipotesi e intuizioni. Sforzo tanto più ammirevole in quanto, pur di fronte a innumerevoli delusioni, raccoglie frutti preziosi e comincia a offrire alla stessa terapia farmaci programmati.
c) Il meccanismo d'azione dei farmaci
Questo studio riflette lo sforzo di penetrare il determinismo delle reazioni che intercorrono fra farmaco e organismo. Meccanismo è locuzione derivata alla biologia dall'influenza cartesiana (Cartesio, nel suo De l'homme aveva scritto: ‟suppongo che il corpo niente altro sia che una statua materiale ovverossia una macchina") e ancor più dalla vittoria del meccanicismo sul vitalismo (v. biologia). Come tutto la biologia, la farmacologia aveva fatto propri quel concetto e quel vocabolo, per richiamarsi alle leggi (i meccanismi) fisiche e chimiche che dominano la materia, e che si affermeranno in necessaria coerenza anche nei riguardi delle azioni dei farmaci sull'organismo vivente. Il concetto di meccanismo d'azione soddisfaceva la razionalità moderna dei farmacologi, fissando un chiaro rapporto fra cause ed effetti dei farmaci. Si deve a questa impostazione conoscitiva se è stato consentito ai farmacologi nel c9rso di questo secolo di spostare su posizioni sempre più avanzate, con infinita pazienza e fiducia, l'interrogativo che riassume praticamente lo scopo della farmacologia: spiegare l'effetto dei farmaci.
Una prima fase fu praticamente di schietta intonazione fisiologica. Il farmaco è concepito come uno stimolo del- l'attività cellulare alla pari di tutti gli stimoli che, mutando con la loro azione l'ambiente cellulare, sprigionano l'energia potenziale contenuta nella cellula. La risposta sarà sempre l'eccitamento o la depressione della funzione in dipendenza dall'intensità dello stimolo. Si converrà che le piccole dosi di farmaco eccitano, le maggiori deprimono, le massime paralizzano. Alcune leggi avallate dalla fisiologia sembreranno codificare questo schematismo, e si accetterà il concetto che ogni farmaco può sempre eccitare o deprimere una funzione. Il variare delle risposte funzionali in dipendenza dall'azione di un farmaco e dalle sue dosi sarà espresso graficamente con linee, che, talvolta, avranno l'andamento di un'iperbole, talvolta di una retta, altre volte ancora di una S; ancora, si costruiranno diagrammi per rappresentare l'azione contemporanea di più farmaci sul substrato e si tenterà di rappresentare in figure l'addizione, il potenziamento e l'antagonismo degli effetti dei farmaci.
Nonostante le nuove grandi aperture della fisiologia generale e l'aderenza alle sue regole, lo studio del comportamento dei farmaci sembra presentare, però, problematiche proprie. Si tratta infatti di sostanze estranee all'organizzazione e all'economia dei substrati viventi su cui operano e alla cui conservazione risultano del tutto indifferenti, che obbediscono soltanto alla legge delle affinità fisiche e chimiche con i tessuti, nei confronti dei quali, d'altra parte, non sembrano mostrare limiti o modalità previste di rapporti. I farmaci possono modificare prontamente e massicciamente la costituzione dei tessuti, come nel caso di metalli pesanti o di acidi o alcali forti, oppure penetrare subdolamente e per vie extrafisiologiche nel loro interno e fin nelle cellule, rispondendo a tale livello esclusivamente a precise affinità fisiche e chimiche, al di fuori di qualsiasi piano fisiologico; possono superare le membrane cellulari, violare i rapporti ordinari di trasporto attivo e passivo delle sostanze fisiologiche, occupare lo stesso protoplasma cellulare, distribuirsi fra i vari scomparti citoplasmatici, reagire con le subunità cellulari, scompigliare e dissociare i legami biochimici che conferiscono unità alle funzioni cellulari. Essi sono in grado di alterare i processi anabolici e catabolici e quelli riproduttivi, indipendentemente, e taluni farmaci sono capaci addirittura di agire sulle diverse fasi della mitosi.
Tuttavia, fra tanti effetti esercitati dai farmaci, oltremodo singolare appare la caratteristica di alcuni di essi di limitare la propria influenza solamente a determinati gruppi cellulari altamente differenziati e spesso preposti a funzioni specialissime: il centro emetico, quello respiratorio, le regioni cerebrali ove si elabora la sensazione del dolore ecc. Altri farmaci agiscono invece sulla muscolatura dell'iride, altri su quella dell'utero, altri ancora esercitano la propria influenza sulla secrezione del sudore, o sulla funzione cardiaca, o su molte specifiche funzioni viscerali. Queste azioni assolutamente preferenziali e circoscritte, dalle quali la terapia potrà trarre anche larghissimo profitto, si designano come ‛elettive'; la farmacologia le considera addirittura embiematiche delle possibilità che taluni farmaci hanno d'operare nell'organismo e le sceglie come gli strumenti più idonei a dare luce al problema del meccanismo d'azione dei farmaci.
L'ipotesi più plausibile appariva quella di un loro tropismo fisico-chimico per le aree responsive, secondo il principio affermato da P. Ehrlich (v., 1885 e 1909) (corpora non agunt nisi fixata): tropismo invero eccezionale, se dosi infime, anche al disotto del milligrammo, sono sufficienti per ottenere certe risposte specifiche in grossi organismi. Non identificabile con il grossolano organotropismo (epatotropismo, nefrotropismo, neurotropismo ecc.) che permette la concentrazione di certi farmaci in particolari organi per motivi anatomici, circolatori, eliminatori, ecc. - il fenomeno sembra piuttosto paragonabile alla singolare affinità fisico-chimica messa in evidenza nel caso della fissazione elettiva di certi coloranti da parte di cellule, organuli e batteri che aveva consentito il grande sviluppo dell'istologia e della batteriologia. Estremamente significative erano state, del resto, due scoperte: quella di Cl. Bernard (v., 1856) che aveva dimostrato l'influenza esclusiva del curaro sulle giunzioni neuromuscolari della muscolatura striata; e quella successiva di Langley e Dickinson (v., 1889), proprio alla vigilia del Novecento, sull'azione della nicotina, la cui applicazione a livello delle strutture del gran simpatico aveva consentito addirittura di identificare i gangli nei quali si attua la congiunzione sinaptica di ogni fibra pregangliare con quella postgangliare. Il curaro e la nicotina dimostravano pertanto di concentrarsi e di agire soltanto a livelli così impreveduti e impercettibili da sfuggire a qualsiasi altra identificazione. Sfuggivano, naturalmente, le cause fisiche e chimiche di tale squisita affinità, ma si poteva presumere che analoghi tropismi e affinità giustificassero tante altre azioni elettive dei farmaci. Era un'indagine affascinante e depositaria degli ultimi segreti del meccanismo d'azione dei farmaci.
Un particolare interesse suscitò, nel primo ventennio del secolo, lo studio di quei farmaci in grado di esercitare azioni elettive su svariati organi e tessuti innervati da fibre del sistema nervoso vegetativo, che era stato denominato, per la sua indipendenza dal controllo centrale, ‛sistema autonomo'. Si ammetteva che tali azioni elettive dipendessero appunto dalla concentrazione di farmaci sulle terminazioni nervose che si sfioccano nei tessuti. Come è noto, il sistema nervoso autonomo è distinto in simpatico e parasimpatico: si convenne pertanto di denominare i farmaci in grado di ‛imitare' le funzioni proprie di tale sistema rispettivamente simpaticomimetici e parasimpaticomimetici, o anche, poiché l'effetto mimetico era interpretato esclusivamente come dipendente da un loro privilegiato tropismo sulle rispettive terminazioni nervose, ‛simpaticotropi' e ‛parasimpaticotropi'. I farmaci più rappresentativi di questo tipo, capaci a dosi piccolissime di operare in senso ‛eccitante' o ‛paralizzante' sulle due sezioni del sistema autonomo (quali l'adrenalina, la pilocarpina, l'eserina, la muscarina, la nicotina, l'atropina), vennero larghissimamente impiegati sia nella sperimentazione farmacologica e fisiologica sia nella neurologia clinica: quest'ultima disciplina, anzi, poté trarre dal loro studio criteri validi per classificazioni patologiche e giudizi diagnostici.
Tuttavia, tutte queste pacifiche ammissioni erano destinate a subire un vero sovvertimento esplosivo in seguito alla scoperta di O. Loewi (v., 1921-1924) dell'esistenza di una mediazione chimica nell'effetto eccitante o inibente esplicato fisiologicamente dal simpatico e dal parasimpatico. Era nota la possibilità di riprodurre, mediante la stimolazione elettrica dei rispettivi tronchi nervosi, determinate azioni fisiologiche. Veniva ora dimostrato che stimolando in tal modo il vago cardiaco della rana, stimolazione cui segue l'arresto cardiaco, si rende libera una sostanza, detta Vagusstoff, che può raccogliersi nei liquidi di perfusione e ripetere quindi lo stesso effetto inibitore sul cuore di una seconda rana. L'osservazione, estesa al coniglio e al cane, riceveva ben presto piena conferma. D'altra parte Cannon e Bacq (v., 1931), in America, dimostravano che anche l'eccitamento elettrico del tronco simpatico cardiaco libera, al livello delle terminazioni di questo nervo, una sostanza - la ‛simpatina' - capace di trasferire l'effetto della prima stimolazione su altri cuori e substrati. Le due sostanze così liberate, da tempo note ai farmacologi e ai fisiologi, sono, rispettivamente, l'acetilcolina - di cui nei primi anni del secolo il farmacologo inglese H. H. Dale (v., 1914) aveva segnalato la squisita azione inibitrice sul cuore e su molti effettori vagali - e la noradrenalina, spiccatissimo simpaticomimetico. A questo punto non era più possibile parlare ancora di ‛mimesi': i farmaci adrenalina e acetilcolina, infatti, sono non già sostanze estranee capaci di riprodurre effetti fisiologici, ma le medesime che, ai livelli effettoriali, vengono liberate normalmente dalle terminazioni delle rispettive fibre nervose. Queste strutture, anzi, vengono ormai distinte in fibre adrenergiche e colinergiche, poiché non v'è più alcun dubbio che l'adrenalina e l'acetilcolina endogene sono i ‛mediatori' degli effetti simpatici e vagali a livello effettore. Il loro meccanismo farmacologico d'azione è evidentemente identico a quello delle stesse sostanze impiegate nella sperimentazione. Alla luce di tali acquisizioni seguì inevitabilmente una accurata revisione di attribuzioni farmacologiche che sembravano ormai consolidate: l'azione di sostanze considerate parasimpaticotrope, come l'eserina, veniva così riportata alla loro capacità di preservare l'acetilcolina endogena dalla pronta demolizione, operata regolarmente da un enzima locale, l'acetilcolinesterasi; analogamente era possibile dimostrare che molti farmaci considerati simpaticotropi o simpaticomimetici agiscono in realtà preservando la noradrenalina endogena dall'azione di numerosi enzimi ossidanti; e all'atropina, per tanti anni considerata un classico paralizzante delle terminazioni nervose del parasimpatico e di volta in volta anche un antimuscarinico e un antinicotinico, veniva ora attribuita la proprietà di esercitare un antagonismo competitivo a livello dei recettori cellulari.
Sorvolando necessariamente su moltissime osservazioni complementari, si accennerà più avanti alle recenti acquisizioni della biochimica che hanno chiarito meglio l'intimo meccanismo d'azione di questi prodotti endogeni. Bisogna limitarsi a ricordare che, se molti farmaci di altissima reputazione farmacologica sono stati declassati a semplici coadiutori o condizionatori di sostanze chimiche endogene, per vari altri, tuttavia, è risultata possibile un'altra importantissima azione: quella di promuovere la produzione, l'accumulo, la mobilitazione, la distribuzione di sostanze endogene di grande attività biologica e anche di alterarle o distruggerle determinando così spiccatissimi effetti indiretti. È sufficiente qui ricordare solo alcuni casi esemplificatori: l'emicolinio interferisce con la biosintesi del mediatore colinergico e determina quindi deplezione di acetilcolina, mentre l'alfametildopa interferisce con la biosintesi della floradrenalina; la cocaina, l'imipramina e molti altri farmaci antidepressivi agiscono bloccando la captazione delle catecolammine da parte delle terminazioni nervose, cosi come la reserpina è in grado di bloccare la captazione, nei granuli cellulari di scorta, della noradrenalina, favorendone in tal modo la distruzione da parte della monoamminossidasi; farmaci capaci d'inattivare le monoamminossidasi (‛anti-MAO'), al contrario, esercitano una protezione del sistema adrenergico attivandone gli effetti. Si comprende ora l'orientamento di tutta una nuova farmacologia, che in realtà non fa che spostare le azioni elettive di numerosi farmaci e il loro determinismo da presunti substrati anatomici a specifici sistemi enzimatici, caratterizzati anch'essi da una precisa ubicazione; i legami con la biochimica molecolare sono ormai strettissimi, ciò che consente di compiere un notevole progresso - il più significativo degli ultimi decenni - nella comprensione del meccanismo d'azione dei farmaci.
d) I recettori e la farmacologia molecolare
La farmacologia identifica ormai nel ‛recettore' l'elemento più adatto a rappresentare l'ultima sede ove si concretano, nell'intimo dei substrati viventi, i processi terminali da cui derivano gli effetti dei farmaci, la regione ove s'incontrano i veri reagenti attivi, l'esogeno e l'endogeno, si perfezionano le condizioni necessarie alle interreazioni biologiche e si manifestano le forze fisico-chimiche che le regolano. Molte di queste forze sono conosciute: l'attrazione ionica, i legami di covalenza, il legame a idrogeno, il trasferimento di cariche elettroniche, le forze di van der Waals, i legami dipolo-dipolo, ecc.
Il concetto di recettore, intravisto dal Langley (il termine, comunque, era già usato correntemente in fisiologia per indicare i punti di raccolta degli stimoli adeguati), era stato alla base della teoria dell'eziotropismo artificiale formulata da P. Ehrlich: questi, infatti, aveva immaginato l'esistenza nei microrganismi di gruppi aptofori sui quali dirigere e ancorare farmaci appositamente sintetizzati. Con l'ampliamento delle conoscenze, il termine usciva dalla nebulosità, si materializzava; occorreva tuttavia stabilire la varia ubicazione dei recettori, la loro diversa qualità, le specifiche componenti delle loro molecole, ecc. Ora più che mai la farmacologia aveva bisogno di strettissima alleanza con la biochimica. Si cominciava ad avere la certezza che le interazioni fossero sempre basate su una complementarietà farmaco-recettore, anche limitata a una sola macromolecola o addirittura a una porzione di macromolecola del recettore, e si riteneva altamente probabile che tale attributo competesse soprattutto a determinate macromolecole quali le catene enzimatiche della membrana cellulare o quelle endocellulari ai livelli delle varie subunità. Importantissima per l'effettuarsi delle reazioni risultò, fra l'altro, l'influenza di certi ioni minerali (Mg2+, Ca2+, K+, PO3- e altri). Le prime osservazioni dimostrarono le più immediate alterazioni delle funzioni enzimatiche conseguenti all'azione di vari farmaci (v. enzimi): l'attivazione, con facilitazione dei processi fisiologici, la depressione, con impedimento del normale corso di tali processi e, fenomeno più suggestivo, la deviazione del senso della reazione enzimatica. Le molecole attive dei farmaci apparivano in grado di attivare i processi enzimatici in vari modi: fornendo (come, per es., il blu di metilene o la piocianina) elementi oligominerali indispensabili o utili, fungendo da trasportatori dell'ossigeno atmosferico alle deidrogenasi in luogo dei trasportatori fisiologici (i citocromi), inibendo enzimi antagonisti. Fu anche possibile dimostrare che a volte la presunta attivazione dipende semplicemente dalla riparazione di un difetto biochimico: così la tiamina, in grado di far cessare immediatamente le convulsioni di un piccione mantenuto a dieta orizanica, altra azione non esercita, fosforilandosi, che quella di reintegrare il coenzima della piruvicodecarbossilasi, insufficiente a catalizzare la decarbossilazione dell'acido piruvico in eccesso. Specificamente sensibili all'azione dei farmaci si rilevarono coenzimi e apoenzimi. Di estrema importanza fu inoltre il rilievo che certi farmaci esercitano azione imbitrice di processi enzimatici con un meccanismo di carattere fisico, sostituendosi, in virtù di una stretta somiglianza strutturale e spaziale, a molecole dei recettori, le quali naturalmente perdono le loro proprietà specifiche: questa concorrenza specifica, vera usurpazione farmacologica di metaboliti fisiologici, si traduce nell'insufficienza delle normali funzioni a livello di vari substrati. Veniva in tal modo chiarito il meccanismo d'azione di alcuni farmaci, e si ponevano le premesse per la produzione di antimetaboliti artificiali. A D. D. Woods e P. Fildes (v., 1940; v. Woods, 1940) spetta il merito della geniale ipotesi di una competizione strutturale a livello di metaboliti essenziali dell'organismo batterico per spiegare l'azione antibatterica di certi nuovi prodotti sintetici, i solfammidici (solfanilammide), scoperti da Domagk (v., 1935) e studiati da Tréfouël e altri (v., 1935), che segnavano un'era nuova per la terapia contro numerosissimi microrganismi patogeni. Venne dimostrato che la solfanilammide, sostituendosi per competizione strutturale all'acido p-amminobenzoico (uno dei costituenti enzimatici, necessario per la sintesi dell'acido folico e, di conseguenza, degli acidi nucleici della cellula batterica), determina alterazioni così profonde dei processi biochimici preposti alle funzioni vitali dei microrganismi da causarne l'arresto delle proprietà riproduttive (azione batteriostatica) e finanche la morte (azione battericida). La controprova dell'effettivo realizzarsi di un tale meccanismo d'azione fu data dalla dimostrazione della reversibilità del fenomeno: l'azione antibatterica della solfanilammide, infatti, risultava annullabile dalla reintegrazione di acido p-amminobenzoico.
La farmacologia molecolare aveva quindi aperto la via alla comprensione dell'intima essenza della ‛lesione biochimica' - secondo l'espressione di R. A. Peters (v., 1963) - consistente in una inattivazione enzimatica a livello di specifici recettori; come già s'è accennato, appariva ora possibile, sulla base di somiglianze strutturali e steriche, produrre vari ‛antimetaboliti', come antivitamine, antiormoni, ecc. L'elenco delle varie sostanze così preparate è assai lungo; si ricorderanno qui appena alcuni farmaci di grande interesse: l'antilewisite o BAL di Peters e altri (v., 1945), un dimercaptopropanolo capace di ripristinare nelle catene enzimatiche i gruppi tiolici sottratti dall'impregnazione arsenicale, quindi dotato di azione svelenante; la N-allilnormorfina, o nalorfina, che consente di svelenare le cellule nervo- se impregnate di morfina (v. Woods, 1956); la pralidossima o PAM (piridin-2-aldossima metilioduro) preparata da I. B. Wilson e S. Ginsburg nel 1955, che riattiva l'acetilcolinesterasi bloccata dagli esteri fosforici, non più in grado, pertanto, di distruggere l'accumulo di acetilcolina; il disulfiram, o Antabuse (v. Hald e altri, 1948), che blocca l'ossidazione enzimatica dell'alcool a livello dell'acetaldeide, causando in tal modo negli individui ai quali viene somministrato malessere e repulsione per l'ingestione di bevande alcoliche, vantaggiosamente impiegato nella terapia dell'alcolismo; e ancora, farmaci antimalarici come la mepacrina, presumibilmente capace di ledere le flavoproteine del plasmodio.
Anche l'impressionante attività degli antibiotici, che costituiscono la più memorabile scoperta della farmacoterapia del nostro secolo, venne giustamente interpretata come una specifica lesione enzimatica a carico di microrganismi. La loro specificità suggeriva l'esistenza di recettori diversi nelle catene enzimatiche delle varie categorie di microbi. In effetti sono stati localizzati recettori ora a livello della parete batterica, ora nella regione intermedia fra la membrana e il citoplasma: la penicillina, la cefalosporina, la bacitracina, la cicloserina e altri agirebbero inibendo la sintesi proteica nella parete in seguito alla competizione di un glicopeptide beta-lattamico con l'enzima glicopeptide transpeptidasi, che controlla la costituzione chimica della parete stessa; la streptomicina, la tetraciclina, il cloramfenicolo, ecc. bloccherebbero invece la sintesi proteica a livello del legame fra RNA e la subunità 5 dei ribosomi; altri antibiotici ancora impegnerebbero meccanismi biochimici diversi.
Ugualmente a lesioni enzimatiche cellulari (lisi delle strutture proteiche, accumulo di amminoacidi liberi, presupposto a sintesi di strutture proteiche anormali, ecc.) a livello embrionale vengono oggi riportati taluni effetti teratogeni (quali, per es., le focomelie) provocati da particolari farmaci. Si deve, insomma, alla farmacologia molecolare una messe, ormai copiosa, di conoscenze sul meccanismo più avanzato che sostiene l'azione dei farmaci, sulle quali non è possibile soffermarsi in questa sede. Si può comunque affermare che l'ammissione dell'esistenza di recettori specializzati a livelli diversi nelle diverse aree responsive non è più un'astrazione: essa non solo riesce a fornire spiegazioni convincenti dei meccanismi più fini dell'azione di molti farmaci, compresi quelli degli antagonismi e dei sinergismi, ma si spinge a decifrare uno dei più ardui problemi della farmacologia, il rapporto quantitativo dose-effetto. Oscuri appaiono ancora - è vero - numerosissimi processi biochimici a livello molecolare e la comprensione di molti effetti farmacologici è ancora largamente insoddisfatta, mentre resta l'ambizione di costruire farmaci specifici per una farmacologia mirata su previsti recettori; ma non si può non riconoscere che il determinismo d'azione dei farmaci ha ricevuto dalla farmacologia molecolare, nella seconda metà del Novecento, chiarificazioni incontestabili, che sembrano renderne assai vicina la completa delucidazione.
6. Lo sviluppo delle metodiche farmacologiche
Le osservazioni degli effetti dei farmaci in vivo, ordinariamente limitate nell'Ottocento a poche specie animali (rane, cavie, conigli) divisi in piccoli lotti, sono state gradatamente arricchite, nel Novecento, dall'impiego di gatti, cani, uccelli, scimmie, ovini, suini. Del resto ogni essere vivente anche infimo, dai Microbi agli Infusori e ai Molluschi, può fornire campo d'osservazione. I rilevamenti e i confronti si moltiplicano, e s'imposta la corretta metodologia di sperimentazione sugli animali: si distinguono i soggetti d'esperimento secondo la razza, il sesso, l'età, il peso, le condizioni di stabulazione. Si ritiene indispensabile tentare di eliminare per quanto possibile gli errori legati alla variabilità individuale conducendo le osservazioni su un numero sempre più elevato di animali, soprattutto con sufficienti controlli. Si comprende la necessità di esprimere valori statisticamente validi e di svincolare i risultati delle esperienze dalla manualità del singolo sperimentatore: le osservazioni sperimentali divengono quindi più estese, più omogenee, riproducibili da chiunque, in ogni caso, grazie al sussidio di una descrizione esatta delle condizioni d'esperimento e di una esauriente documentazione. Alle osservazioni in vivo, che pur forniscono importantissime informazioni sull'assorbimento, sulla circolazione, sulla eliminazione dei farmaci e su molte delle trasformazioni che essi subiscono nell'organismo, oltre naturalmente che sui loro effetti più manifesti, si affiancano le sperimentazioni, sempre più ingegnose, sulle preparazioni isolate, corredate generalmente da registrazioni grafiche (tracciati di apposite penne su tamburi ruotanti affumicati). Si escogitano tutti gli artifizi possibili per realizzare un rapporto diretto dei farmaci con i vari substrati e si perfezionano i tipi di registrazione. Dissezioni, iniezioni, incanulazioni, abili operazioni chirurgiche, strumenti nuovi, pompe di respirazione, ecc. divengono di impiego ordinario. Si esplora il maggior numero possibile di farmaci. Tutte le progressive acquisizioni tecniche della fisica, della chimica, della microscopia (fino a quella elettronica), della radiologia, della immunologia, vengono messe a profitto di un completo rilevamento dell'azione dei farmaci sull'organismo vivente. Un nuovo termine anglosassone si diffonde: lo screening, vale a dire l'analisi sistematica e standardizzata di tutti gli effetti dei farmaci a tutti i livelli e su tutte le specie animali accessibili. Si sperimenta a breve, medio e lungo termine, con l'impiego di un numero di soggetti d'esperienza statisticamente significativo e col corredo della più ampia registrazione (cardiogrammi, radiogrammi, elettroencefalogrammi, documenti pressori, grafiche, ecc.). Si stabiliscono norme per una possibile, cauta esplorazione dell'azione dei farmaci sull'uomo sano e malato, oggetto di larghissime discussioni. Non manca la ricerca sulle funzioni riproduttive degli animali (prolificità, numero e qualità dei nati, effetti cancerogeni, teratogeni, ecc.) e infine quella sui possibili effetti ereditari dei farmaci, compresi quelli cancerogeni. La tecnica farmacologica non si rivolge soltanto a una neutrale informazione, ma ha sempre in vista il possibile impiego dei farmaci sull'uomo. Nuovi effetti dei farmaci (antinfiammatori, immunosoppressori, psicotropi, ecc.) suggeriscono, di volta in volta, nuove tecniche di osservazione e di documentazione. Il progresso della farmacologia trova in queste tecniche il suo sussidio esplorativo e le sue regole.
Importantissimo diventa l'accertamento di certi indici d'attività dei farmaci, inizio di una farmacologia quantitativa: il valore DL50 , che indica la dose di farmaco che uccide il 50% degli animali; il quoziente terapeutico, che tende a precisare il rapporto fra dose terapeutica di un farmaco e dose tossica; il coefficiente fenolico, impiegato per comparare l'attività germicida dei disinfettanti; gli indici dei gradi dell'anestesia generale e di quella locale, e parecchi altri. Si consolida, altresì, il merito dei saggi biologici, metodi di accertamento farmacologico fondati sulla sensibilità e specificità di risposta di particolari substrati viventi: animali in toto, organi sopravviventi, tessuti, cellule, microrganismi, d'impiego prezioso quando non siano possibili saggi chimici e fisici, e indispensabili quando si vogliano osservare effetti di sostanze o materiali grezzi, altrimenti non riconoscibili. La responsività di quei substrati serve anche a stabilire un certo valore quantitativo: dose minima attiva del farmaco, l'unità biologica, sempre riferita a un particolare campione (l'unità rana, cavia, coniglio, gatto, cane, gallo, pesce, ecc.), indicata talvolta col nome del proponente (unità Collip, Voetglin, Florey, Lilly, ecc.) e suscettibile di comparazioni qualitative e quantitative fra prodotti analoghi o in esame. Si concordano addirittura unità ‛internazionali'. Questa metodologia, forzatamente empirica, è tuttavia risultata indispensabile all'apprezzamento dell'attività di farmaci importantissimi, quali per es. arsenobenzoli, sieri e vaccini, vitamine, ormoni, curarici, ecc. finché l'identificazione chimica e fisica delle sostanze attive non è riuscita a sostituirla: a esse indubbiamente spetta un posto notevole nel progresso della farmacologia del Novecento. Col procedere degli anni l'esigenza di misure e di espressioni quantitative degli effetti dei farmaci diventa più rigorosa. Grazie all'impegno di molti valorosi farmacologi in questo difficile indirizzo, si riesce a determinare per numerosi farmaci la varianza degli effetti, la ‛deviazione standard', l'‛errore standard', i ‛limiti fiduciali di una media', i ‛livelli di significatività'; le ‛relazioni dose-risposta', il ‛grado di certezza o incertezza delle risposte', ecc.; la valutazione dell'effetto di un farmaco tende così ad assumere sempre più quei caratteri di esattezza che le conferiscono una maggiore validità.
7. Le applicazioni dei farmaci
a) In medicina
I progressi della farmacologia si riflettono ovviamente anche sulla terapia. Il termine ‛farmaco' aveva sempre avuto, nonostante la originaria neutrale impostazione della farmacologia sperimentale, il significato di ‛rimedio'. Dopo che P. Ehrlich aveva ufficialmente sancito il nuovo aspetto terapeutico della farmacologia, nuova luce ricevevano i vari tipi di terapia: la causale, la patogenetica, la sintomatica, la sostitutiva, la preventiva. È impossibile accennare, sia pur sommariamente, a tutti i farmaci approntati per soddisfare le più diverse esigenze curative: si può dire che molte delle sostanze preparate nei laboratori chimico-farmacologici abbiano trovato applicazione in campo terapeutico e che per converso non è esistita tendenza o esigenza della terapia che non abbia ispirato nuovi farmaci. Il primo posto fra i farmaci del Novecento spetta a quelli capaci di combattere la patologia infettiva. Il secolo, che già si era aperto con la scoperta (v. Vedder, 1911; v. Rogers, 1912) dell'azione specifica svolta nella dissenteria amebica dall'emetina - un alcaloide già isolato nell'Ottocento da Pelletier e Magendie (v., 1817) dalla radice di ipecacuana - si arricchì presto di derivati dell'acido salicilico, dello iodio, dei fenoli, dell'anilina, nonché di composti metallici (mercurio, argento, ecc.); tuttavia, l'evento storicamente più importante fu l'introduzione in terapia di un composto arsenicale di sintesi, il Salvarsan o 606 (v. Ehrlich e Hata, 1910), seguito più tardi dal Neosalvarsan, a opera dell'intelligente tenacia di P. Ehrlich: questa scoperta non solo determinò una vera rivoluzione nella terapia della sifilide, ma segnò inoltre l'inizio di un importantissimo indirizzo, la chemioterapia, l'impiego cioè nella lotta contro microrganismi patogeni, di sostanze chimiche sintetizzate appositamente. Ehrlich, pur non disconoscendo i progressi della vaccinoterapia e della sieroterapia, si era reso conto non solo che nelle malattie determinate da protozoi (per es. malaria, tripanosomiasi, infezioni da spirilli) quelle modalità terapeutiche non potevano venir applicate, ma anche che gli usuali veleni antibatterici (per es. composti mercurici) non erano utilizzabili perché dannosi anche per l'organismo ospite. Volendo quindi colpire il parassita nel modo più selettivo possibile con l'ausilio di sostanze sintetizzabili chimicamente, il ricercatore tedesco riuscì sperimentalmente, con una indagine minuziosa, a mettere a punto composti dell'arsenico trivalente elettivamente attivi nei confronti dei tripanosomi sia in vitro sia in vivo, preparati che egli ritenne sprovvisti di tossicità per l'organismo ospite. Sebbene questa ultima constatazione si sia rivelata successivamente errata, indubbiamente furono queste indagini che diedero l'avvio alla chemioterapia come branca controllata dalla farmacologia. Ben presto si prepareranno per sintesi composti dell'antimonio contro la leishmaniosi e la bilarziosi, nuovi composti ad azione antiamebica (chiniofone, carbarsone, iodoclorossichinolina), contro la malaria (pamachina, mepacrina, clorochina, sontochina, proguanile), contro le elmintiasi (piperazina, difenan, esilresorcinolo, ecc.), contro gli ectoparassiti e così via. È evidentemente impossibile ricordare tutti i prodotti introdotti in terapia nel Novecento allo scopo di combattere gli svariatissimi agenti patogeni per l'uomo e per gli animali domestici. Scoperta memorabile è quella di un colorante sintetico, la solfanilammidocrisoidina, che dimostra eccezionali proprietà antibatteriche (Prontosil rosso; v. Domagk, 1935). La scuola di Fourneau (v. Tréfouël e altri, 1935) scopre che l'attività antibatterica dipende dalla componente incolore: la solfanilammide. Lo spettro antibatterico di questa molecola supera ogni precedente, la sua azione batteriostatica e battericida si dimostra in grado di colpire i microbi - streptococchi, stafilococchi, diplococchi - responsabili di gravissime infezioni locali e generali; scoperta emozionante che ispira la produzione di una foltissima serie di derivati attivi, i solfammidici. Si trattava indubbiamente di un balzo inatteso nella terapia delle infezioni, che tuttavia doveva ricevere un impronta incancellabile dalla rivoluzionaria scoperta degli antibiotici. La penicillina, che era già stata individuata da Fleming (v., 1929) come prodotto metabolico di un ifomicete, il Penicillium notatum, purificata ed esperimentata sugli animali e sull'uomo (v. Chain e altri, 1940), dimostrò presto di sorpassare in rapidità e potenza l'azione dei solfammidici contro moltissimi germi patogeni e di poter combattere anche la sifilide. È una rivelazione fecondissima, che aprirà l'affascinante filone della ricerca dei metaboliti di muffe e batteri dotati della proprietà di agire in modo specifico contro germi patogeni. Il riconoscimento della costituzione chimica dei metaboliti attivi darà l'avvio alla produzione di farmaci semisintetici e sintetici, che muteranno il volto della patologia umana: le malattie infettive non dovranno più rappresentare una delle più frequenti cause di morte per l'uomo. La stessa tubercolosi sarà presto efficacemente curata con la streptomicina, ottenuta dallo Streptomyces griseus. La produzione di nuovi antibiotici procede con ritmo intensissimo, prospettando tuttavia problemi di scelta, di dosaggio, di sensibilizzazione dei soggetti, di effetti collaterali, di superinfezioni e di progressiva resistenza microbica. Tra le varie luminose tappe di questo esaltante cammino ricorderemo qui soltanto il successo di G. N. Robinson e altri (v., 1960) che riuscirono a produrre per via semisintetica una penicillina resistente alla penicillinasi, enzima presente in alcuni germi che risultano pertanto penicillino-resistenti. Un progresso sensazionale fu compiuto nel Novecento nel campo della terapia e della profilassi quando divenne possibile preparare sieri e vaccini coi quali curare e prevenire numerose, temibili malattie infettive: in tale settore, un posto di assoluto rilievo spetta al vaccino contro la poliomielite realizzato grazie soprattutto alle ricerche di Enders e altri (v., 1949) e di Sabin (v. 1955), i quali riuscirono a coltivare il virus responsabile della malattia rispettivamente nei tessuti di embrione umano e nel rene di scimmia. La scoperta dell'interferon, proteina prodotta da cellule coltivate in vitro infettate da virus, e capace d'interferire con la moltiplicazione e la patogenicità di molti virus (v. Isaacs e Lindenmann, 1957) - probabilmente per la sua capacità d'inibire la complessazione dei ribosomi della cellula all'RNA messaggero virale, che determina la formazione di polisomi funzionali sui quali si opera la sintesi delle proteine virali (v. acidi nucleici; v. biologia; v. cellula: Fisiologia della cellula; v. microbiologia; v. neuropatologia: Malattie virali; v. virus) - offre già concrete speranze di impiego di un farmaco naturale nella terapia di una vasta gamma di malattie di origine virale. In tale campo è attualmente anche molto promettente, ancorché in fase iniziale, la produzione di farmaci sintetici efficaci contro alcuni virus.
Tutt'altro che trascurabili sono i successi ottenuti nel campo della terapia sintomatica dalla incontenibile fecondità della chimica sintetica. La singolare efficacia e l'elettività d'azione che moltissimi prodotti chimici hanno rivelato nei confronti di sistemi, organi, tessuti, la loro specifica affinità per recettori particolarissimi, hanno offerto alla farmacoterapia nuove, numerose serie di sostanze: farmaci analgesici, anestetici, ganglioplegici, sedativi, ipnotici, ipotensivi, coronarodilatatori, antiparkinsoniani, antidiabetici, antistaminici, antireumatici, ecc., il cui impiego in clinica si è dimostrato veramente prezioso per mitigare, e talvolta per dominare, alcune delle più penose manifestazioni di vari stati morbosi. Fra i numerosi farmaci tanto vantaggiosamente impiegati con tali finalità, ricorderemo soltanto quelli psicotropi e tranquillanti, la cui diffusione è attualmente assai ampia in rapporto all'elevata frequenza di casi di sofferenza neuropsichica di vario grado: ne può essere considerata avanguardia la scoperta di una molecola del gruppo delle fenotiazine, la clorpromazina (v. Courvoisier e altri, 1953) che si rivelò un farmaco capace di dominare manifestazioni gravi di schizofrenia e di psicosi maniaco-depressive. Aveva così inizio un fervido studio chimico e clinico di prodotti di sintesi capaci di influire in senso positivo sulla reattività psichica e sul comportamento dell'uomo e degli animali. Al momento presente largamente impiegati sono numerosi derivati dalla benzodiazepina, ma è stata sicuramente dimostrata la possibilità di ottenere per sintesi non solo prodotti sedativi degli stati di ansia (farmaci ansiolitici), bensì anche sostanze capaci di riprodurre determinati stati mentali propri della patologia umana (farmaci psicotomimetici). Non ha infine ottenuto accesso in terapia la scoperta casuale di un prodotto sintetico, la dietilammide dell'acido lisergico (LSD), dissennante e allucinogeno (v. droga).
L'introduzione in terapia di tanti farmaci sintetici, sia pure ben studiati in laboratorio, non poteva essere esente da esitazioni e preoccupazioni al momento dell'applicazione sull'uomo, soprattutto infermo. A parte le comprensibili azioni collaterali di molti farmaci e le reazioni individuali, negli ultimi decenni non si è potuta negare la penosa realtà di una vera patologia da farmaci. Fra le malattie iatrogene più frequenti vanno considerate talune inattese patomorfosi, molte reazioni da ignorate enzimopatie, molte superinfezioni, effetti anche assai gravi sull'embriogenesi (focomelie, ecc.), induzione di assuefazioni e ‛stati di bisogno', effetti cancerogeni, ecc. La possibilità dell'insorgenza di malattie iatrogene ha imposto la necessità di una maggiore cautela nell'impiego di nuovi farmaci nell'uomo, sia pure dopo accurate prove di laboratorio. Ne è nata la cosiddetta ‛farmacologia clinica', che va perfezionando le sue tecniche di cauto sondaggio. Anche i controlli di efficacia sono più severi; all'imparzialità del giudizio soccorrono oggi metodi (come per es. quello del ‛doppio cieco'), che svincolano gli elementi di valutazione dall'impressione soggettiva' del malato e dello stesso medico. Alla maggiore sicurezza dei trattamenti terapeutici concorrono oggi numerosi fattori: la eliminazione dei prodotti inutili o dannosi operata dagli stessi organismi ufficiali (commissioni ministeriali, istituti di previdenza, ecc.), l'informazione bibliografica ampia e aggiornata che rende possibile l'immediata conoscenza delle reazioni anomale ai farmaci o degli errori terapeutici, e infine l'accresciuta preparazione farmacologico-clinica del medico e il suo maggior senso di responsabilità nella consapevolezza di maneggiare oggi farmaci di attività e rischio ben più elevati di quelli di un passato non remoto.
I progressi realizzati dalla farmacologia e le applicazioni terapeutiche che ne sono derivate sono ovviamente ancora lontani dal soddisfare le numerose e gravi esigenze della patologia. Resta da esplorare un territorio immenso e impervio. Ma, pur riconoscendo un certo ristagno nella produzione di nuovi importanti farmaci negli ultimi anni, è doveroso ammettere che la farmacoterapia del Novecento appare come un documento d'incessante impegno scientifico e contrassegna un'epoca eccezionalmente felice nella lotta contro le sofferenze umane.
b) Applicazioni per altri fini
Si ricorda appena che le applicazioni dei farmaci non sono esclusivamente limitate alla terapia, ma interessano vari altri settori scientifici e tecnici, anche non medici. Per quanto riguarda la medicina;è noto che non pochi farmaci sono correntemente impiegati a fini diagnostici, secondo le metodologie della moderna semeiotica medica: nell'esplorazione funzionale di attività metaboliche e ormonali, nel depistamento di enzimopatie, e ancora con criterio ex juvantibus nella diagnosi di varie forme morbose. Alcuni farmaci vengono utilizzati come strumenti di ricerca dalla genetica, e già si potrebbe parlare dell'esistenza di una ‛farmacogenetica'.
Numerosi farmaci trovano largo impiego in importanti applicazioni pratiche: basterà qui ricordare la bromatologia, che studia lo stato di genuinità, di purezza e di conservazione degli alimenti, ai quali vengono talora aggiunti farmaci stabilizzanti, coloranti, aromatizzanti, ecc., e l'agricoltura, che ha tratto enormi vantaggi dalla disponibilità di una copiosa serie di fertilizzanti e di pesticidi. Si ricorderà ancora come non pochi farmaci, contrassegnati come aggressivi chimici, caustici, gas asfissianti, ecc., vengono impiegati dall'industria bellica.
Naturalmente, una tale estensione dell'uso dei farmaci ha causato la manifestazione di tutta una fenomenologia nuova, di cui sono ben studiati gli aspetti ecologici, conseguenti soprattutto a processi di contaminazione (v., per es., inquinamento ambientale), e quelli tossicologici, legati all'assunzione accidentale, voluttuaria, criminale o dipendente da motivi professionali, dei farmaci.
8. Conclusioni
Ancorché condensato nei limiti necessariamente sommari di questa rassegna, lo sviluppo della farmacologia nel Novecento lascia riconoscere le grandiose dimensioni assunte da una materia che solo al principio del secolo muoveva timidamente i suoi primi passi. I suoi due fronti, quello strettamente scientifico (‛conoscere per conoscere') e quello applicativo (‛conoscere per rispondere alle esigenze dell'uomo'), hanno conseguito traguardi memorabili, con un avanzamento che è stato ed è tuttora quotidiano. Domina naturalmente la ricerca, e l'attesa, di nuovi rimedi: questa impazienza, comprensibilmente alimentata dalle recenti scoperte e dalla maggior sensibilità alle sofferenze umane, lascia affiorare un certo disappunto per l'attuale relativa battuta di arresto nella produzione di nuovi importanti rimedi. Ma non si possono trascurare due considerazioni. La prima è che non bisogna confondere lo sviluppo di una scienza con quello delle sue applicazioni: lo sviluppo ‛scientifico' della farmacologia non è affatto diminuito. A testimoniarne lo stupendo e promettente rigoglio, è sufficiente ricordare che mai la bibliografia farmacologica è stata più doviziosa e mai gli studiosi di farmacologia hanno apportato tanti nuovi lumi al delicato rapporto fra i farmaci e substrati viventi. La seconda considerazione riguarda le scarse e incomplete informazioni che ancora si hanno sull'eziologia di molte malattie, anche gravi e frequenti, da cui dipende in realtà la lenta produzione di rimedi ancora troppo spesso casuali o sintomatici; soltanto il progresso delle conoscenze sull'origine e sull'evoluzione dei neoplasmi, delle malattie virali, degli stati infiammatori cronici, delle malattie del metabolismo, dell'involuzione senile ecc., potrà consentire una farmacologia assai meglio ‛mirata' e in grado quindi di estendere il campo dei suoi successi.
Ma il progresso della farmacologia non consente soltanto luminose speranze. Comporta pure gravi preoccupazioni: e proprio sul piano più delicato, quello etico. I farmaci hanno già mostrato di poter sconvolgere i processi biologici fondamentali, di alterare le stesse capacità di difesa della specie, i suoi poteri di adattamento, di poter rimanipolare il corredo cromosomico e produrre mostri, di turbare e sottomettere le forze intellettive, la coscienza e la personalità dell'uomo, ecc. Non è un rischio dissimulabile, in un bilancio onesto. Ma lo scopo dello scienziato è ‛conoscere' sempre più. Spetterà all'intelligenza, alla coscienza e al senso di responsabilità dell'uomo discernere le convenienze e i pericoli di queste conoscenze e trarne soltanto vantaggio fisico e spirituale, individuale e sociale.
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