Federalismo
La concezione oggi prevalente del f. è quella che potremmo definire dinamica, risalente soprattutto alle elaborazioni di C.J. Friedrich. Il f., infatti, è comunemente inteso come un processo, vale a dire come una "tendenza" (Bognetti 1991, p. 274) alla ripartizione dei poteri di governo (non dei soli poteri di amministrazione), tradizionalmente ritenuti come caratterizzanti la sovranità statale, tra un'organizzazione centrale e più organizzazioni periferiche. Proprio in quanto processo il f. può caratterizzare i più diversi tipi di Stato, sicché appare possibile legittimamente parlare sia di processi di federalizzazione che attraversano Stati (che restano) unitari, sia, addirittura (utilizzando l'espressione di K. Hesse, 1962) di Stati federali unitari, mentre distinguere tra Stati federali e Stati regionali è, probabilmente, impossibile (Luciani 1997, p. 216 e sgg.).
Il f., sempre in quanto processo, può essere sia centripeto, come è stato nell'esperienza statunitense, sia centrifugo, come in quella dell'attuale Belgio. Questo vuol dire che si può parlare di f. sia quando i poteri di governo di alcune entità statali separate vengono posti in comune per creare una nuova entità statale nazionale federale (o almeno una struttura confederale o sovranazionale di più o meno intenso coordinamento tra gli Stati membri), sia quando i poteri di governo prima riservati allo Stato sono progressivamente distribuiti tra lo Stato e alcuni apparati periferici (Friedrich 1973, p. 31 e sgg.). L'integrazione europea, anche se non ha condotto alla formazione di uno Stato federale europeo, si può ricostruire come uno dei processi di federalizzazione illustrati del primo tipo.
La ragione della natura essenzialmente dinamica del f. è stata opportunamente chiarita da Friedrich: una comunità "federale" è caratterizzata da un "modello territorialmente diversificato di centri dell'attenzione, obiettivi, valori, interessi e credenze" (1961, p. 133). Conseguentemente, il "centro dell'attenzione" può sempre cambiare, sicché l'equilibrio dei poteri è in perenne evoluzione ed è sottoposto a una continua discussione. È chiaro, tuttavia, che il fatto stesso che siano in gioco poteri di governo implica la necessità che l'equilibrio di volta in volta raggiunto sia comunque formalizzato in regole costituzionali, poiché soltanto in questo modo è possibile assicurare la stabilità che anche un sistema dinamico richiede e garantire a ciascuno dei vari livelli di governo la certezza della consistenza dei propri poteri e la possibilità di difendere con strumenti giuridici la propria sfera di competenza. È per questo che il f. sembra esigere, quantomeno in via di principio, una Costituzione rigida e la creazione di un sistema di controllo di costituzionalità delle leggi, prodotte dai vari livelli di governo, e di soluzione dei conflitti intersoggettivi.
Federalismo e costituzionalismo
Per Friedrich il f. "è strettamente correlato al moderno costituzionalismo" (1950, p. 216; 1961, p. 135), dal momento che si tratterebbe di un sistema di articolazione del potere particolarmente favorevole alla libertà individuale e a un processo decisionale pubblico vicino alle esigenze delle comunità di riferimento. Condotta fino alle sue estreme conseguenze tale tesi appare eccessiva. Anzitutto, essa finisce per estendere a dismisura la questione del f. e per farla assomigliare ai romanzi di C.E. Gadda, nei quali, come scriveva I. Calvino, "il discorso s'allarga a comprendere orizzonti sempre più vasti, e se potesse […] arriverebbe ad abbracciare l'intero universo" (Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, 1988, p. 105). In secondo luogo, seguendo l'impostazione di Friedrich, il f. e la sussidiarietà si trasformano in condizioni di pensabilità della democrazia pluralistica, il che - come si vedrà trattando del rapporto tra f. e libertà - non convince. Un certo grado di decentramento sembra semmai essenziale non tanto per le funzioni di governo, quanto per quelle di amministrazione: "l'autogoverno locale deve ritenersi la pietra angolare della moderna democrazia" ha scritto F. Neumann (1957; trad. it. 1973, p. 315), e tale posizione sembra maggiormente condivisibile.
In ogni caso, se il f. è "uno strumento per distribuire il potere nei sistemi politici e sociali" (Elazar 1978, p. 202), esso assolve a funzioni in parte analoghe a quelle cui è predisposta la divisione dei poteri: questa opera sul piano orizzontale e quello sul piano verticale, ma a entrambi i meccanismi soggiace l'idea che il potere frazionato sia meno pericoloso per i diritti individuali che non quello concentrato.
Federalismo, libertà, eguaglianza, democrazia
Molti studiosi sostengono che tra f. e libertà vi sarebbe un rapporto di corrispondenza biunivoca, sicché l'uno e l'altra procederebbero di pari passo. Altri, invece, ritengono che f. ed eguaglianza sarebbero in rapporto di opposizione. Nessuna di queste tesi (che, del resto, appaiono segnate da un evidente pregiudizio ideologico) è convincente.
Federalismo e libertà. - Quanto alla pretesa biunivocità del rapporto tra f. e libertà, restano insuperabili le critiche formulate da Neumann: "Coloro che asseriscono che lo Stato federale tramite la distribuzione dei poteri costituzionali distribuisce effettivamente il potere politico, spesso trascurano il fatto che la vera difesa della libertà è costituita dalla struttura pluralistica della società e dal sistema pluri- (o bi) -partitico" (1957; trad. it. 1973, p. 315). Tuttavia, continuava Neumann, "federalismo e pluralismo sociale non sono la stessa cosa", tanto è vero che - in presenza di poteri sociali ed economici forti e concentrati, e di un sistema produttivo che risulta scarsamente pluralistico - un eccesso nell'articolazione territoriale del potere politico sarebbe pericoloso; "non tanto la struttura federale del governo, ma altri fattori [...] permettono il formarsi di un contropotere in opposizione alle forze ostili alle libertà civili, e tali fattori sono la pluralità della struttura sociale, il buon funzionamento di un sistema di partiti genuinamente competitivo, la forza di una tradizione libertaria, l'alto grado di istruzione della popolazione e l'atteggiamento favorevole delle Corti giudiziarie" (p. 318).
Sul piano storico, la tesi qui presa in esame non considera un dato fondamentale. Il f. risulta in strettissimo rapporto con il principio di sussidiarietà, ossia con il principio in virtù del quale le istanze di governo di livello più elevato possono esercitare i propri poteri soltanto quando e soltanto nella misura in cui le istanze inferiori non sono in grado di soddisfare in modo altrettanto efficiente le esigenze cui i poteri pubblici sono chiamati a dare risposta. Sennonché, il principio di sussidiarietà deve la propria attuale fortuna soprattutto alla dottrina politico-sociale della Chiesa cattolica. È vero che se ne possono trovare le tracce già in Aristotele (Politica, i, 2, 1253 a; i, 2, 1252 b) e, ben più chiaramente, in Althusius (Politica methodice digesta, ix, 3; che rovescia la tesi aristotelica del primato logico-storico dello Stato sulle formazioni sociali), ma questo filone di pensiero è rimasto nascosto nella tradizione occidentale (non a caso la riscoperta contemporanea di Althusius soprattutto da parte dei giuristi si deve proprio a Friedrich), mentre è appunto alla dottrina sociale della Chiesa che è attribuibile la più nota e influente elaborazione del principio di sussidiarietà. Basti ricordare le encicliche Quadragesimo anno di Pio xi, Rerum novarum di Leone xiii, Centesimus annus di Giovanni Paolo ii e Deus caritas est di Benedetto xvi, che sembra particolarmente significativa, visto che la questione della sussidiarietà come principio fondamentale dello Stato trova posto in un'elaborazione tutta dedicata al tema dell'amore (par. 26).
Ciò significa che il paradigma della sussidiarietà è assorbito dalla cultura occidentale soprattutto nel contesto della concezione cattolica dell'uomo e della società, concezione, quest'ultima, che muove dal presupposto dell'inserimento della persona in una rete di rapporti comunitari, solidaristici e non conflittuali. Il collegamento tra tale concezione e i diritti di libertà individuale, così come vengono concepiti dalla dottrina liberale classica risulta, dunque, problematico.
La sussidiarietà, inoltre, ha un duplice volto. Da un lato appare come un paradigma ordinatore dei rapporti fra Stato e società civile. Dall'altro come un paradigma di ripartizione delle competenze tra i vari livelli pubblici di governo. Il f. si collega soltanto al secondo paradigma, mentre non è affatto inesorabilmente implicato dal primo, tanto è vero che l'autoregolazione della società civile può essere garantita sia da sistemi che conoscono il decentramento delle funzioni di governo politico, sia da sistemi che di quelle funzioni mantengono una rigorosa centralizzazione. Anche in tal senso, dunque, l'idea della biunivoca corrispondenza di f. e libertà resta tutta da dimostrare.
Tale idea presuppone che l'espansione degli spazi di libertà individuale richieda la rottura dell'unità del potere 'sovrano' e che soltanto le decisioni politiche 'vicine' ai governati siano in grado di essere adottate secondo processi democratici e sappiano garantire le libertà. Non è dubbio che in molti contesti politico-sociali tale presupposto sia confermato dalla realtà dei fatti, ma le cose non sono sempre così semplici. Nessuno garantisce che negli enti periferici, anche se strutturati in forme democratiche, sia democratica anche la sostanza del processo decisionale; una volta di più vale l'invito di Neumann a considerare la realtà del sistema politico, sociale ed economico, oltre che le sue regole formali. Inoltre un potere prossimo ai governati, oltre a confliggere con l'idea, profondamente radicata nel pensiero occidentale, che la decisione pubblica debba ispirarsi a una razionalità trascendente gli interessi particolaristici e che la politica non sia solo soddisfacimento, ma governo (appunto razionale) degli interessi, può essere più pericoloso di un potere distante, perché può aspirare a una regolazione più capillare degli interessi sociali e può essere maggiormente soggetto a tentazioni populiste.
Federalismo ed eguaglianza. - La tesi che ravvisa un'opposizione irriducibile tra f. ed eguaglianza, parte dalla premessa generale secondo cui il f. sarebbe in contraddizione con l'aspirazione universalistica che appare implicata dal principio di eguaglianza. Così come l'opinione precedente, però, anche questa si presta alla critica. Tale opinione risulta, anzitutto, smentita dall'analisi storica. È vero che, nella modernità, specialmente nella tradizione statunitense, l'ideologia federalista ha preso le mosse dall'idea liberale della separazione tra Stato e società civile e che, quindi, all'inizio essa è sembrata incompatibile con il modello dello stato sociale (Bognetti 1991, pp. 277, 282), ma non è meno vero che l'iniziale contrapposizione è stata rapidamente superata, grazie all'elaborazione del paradigma del f. non più dualista, ma cooperativo (p. 283). Si tratta di un f. nel quale tutti i livelli di governo perseguono, in genere mediante accordi (Elazar 1978, p. 202), un comune interesse e provvedono a ridistribuire le risorse in base alle esigenze di ciascun livello e a quelle dello sviluppo generale.
In secondo luogo, sul piano teorico, la distribuzione territoriale del potere politico non comporta affatto un'inevitabile deroga al principio di eguaglianza. È noto che questo principio non impone di trattare allo stesso modo tutte le situazioni, bensì di trattare in modo eguale situazioni eguali e in modo diverso situazioni diverse. Se il semplice fatto della diversa collocazione territoriale sia dei diritti sia dei bisogni si ritenesse sufficiente per affermare la 'diversità' della relativa 'situazione', ci si troverebbe chiaramente in rotta di collisione con l'eguaglianza, perché l'unità della comunità politica sarebbe dissolta e sostituita dalla divisione tra le subcomunità corrispondenti ai singoli enti territoriali autonomi. È però possibile ritenere che la diversa collocazione territoriale possa giustificare la titolarità di un autonomo potere decisionale, ma su risorse pari per tutti; eguali le risorse, insomma, ma differenziate le scelte sulla loro gestione. La questione che ci si pone di fronte, a questo punto, è soltanto quella dell'alimentazione delle risorse e della regolamentazione delle spese dei singoli livelli di governo, vale a dire la questione del f. fiscale e della spesa pubblica decentrata.
Parlando di f. fiscale, come ha peraltro chiarito R.A. Musgrave, non si fa altro che alludere a un "sistema fiscale decentrato". Sistemi di questo tipo hanno sempre problemi di equità nel reperimento e nella redistribuzione delle risorse (1995, p. 273). Tuttavia si tratta di problemi che possono essere superati, almeno se si accoglie l'idea che il f. fiscale debba essere strutturato in forme cooperative e solidaristiche (Gallo 1989, p. 1) e se resta inoltre fermo il principio che, a livello centrale, devono rimanere poteri sufficienti perché si possa garantire la progressività dell'imposizione, che non potrebbe essere assicurata soltanto mediante l'azione dei poteri decentrati, e perché si possa evitare che la moltiplicazione di centri di imposizione non sufficientemente coordinati possa determinare livelli eccessivi di pressione fiscale.
Quanto alla spesa pubblica decentrata, specificamente in Italia, fra le moltissime proposte, si è avanzata quella di risolvere i problemi che vi si connettono invertendo l'ordine tradizionale ("prima le funzioni, poi la spesa, la finanza seguirà") e fissando la sequenza "prima la finanza, poi la spesa, le funzioni seguiranno". Applicando questa sequenza, il finanziamento del sistema regionale dovrebbe avvenire attraverso compartecipazioni regionali a tributi erariali oppure mediante strutture tributarie eguali per tutte le Regioni, in modo da "coprire le spese storiche della Regione con reddito medio pari al reddito nazionale per abitante". Le Regioni con reddito medio inferiore dovrebbero essere sostenute da appositi interventi perequativi, mentre quelle con reddito superiore godrebbero del vantaggio della "attribuzione di nuove e maggiori funzioni rispetto a quelle attribuite alle altre Regioni", in particolare nel settore dell'istruzione (Giarda, Cerea 1992, p. 203 e sgg). Si tratta di una prospettiva interessante, che peraltro sembra penalizzare eccessivamente le Regioni meno fortunate e non definire la sorte delle competenze 'conquistate' grazie alla maggiore disponibilità economica, una volta che questa sia venuta meno o sia recuperata una volta perduta.
È possibile pensare anche a sistemi alternativi, i quali sappiano conciliare nella misura del possibile le molteplici esigenze che sono in gioco: eguaglianza fra i cittadini nel godimento dei servizi sociali; solidarietà fra i vari enti territoriali nella copertura dei costi; autonomia e responsabilizzazione di tutti i centri di spesa. Un'ipotesi potrebbe essere quella dell'adozione di un meccanismo di perequazione tale che ciascuna Regione avesse la disponibilità di una identica somma pro capite da destinare alla spesa sociale, con la possibilità - però - di decidere autonomamente il concreto riparto della spesa fra l'uno o l'altro settore di intervento. In tale scenario sarebbero cruciali due decisioni, vale a dire quella sull'ammontare della spesa sociale pro capite e quella sulla destinazione della spesa ai vari impieghi.
Per quanto riguarda la scelta sulla misura dei fondi da destinare alla spesa sociale, sono possibili varie formule di determinazione, e non è detto che si debba trattare di opzioni accentratrici, ossia che scarichino la responsabilità della scelta sullo Stato. Si dovrebbe riflettere, in particolare, sulla possibilità di determinare la misura della spesa sociale (pro capite) sulla base della media degli stanziamenti decisi da alcune delle Regioni, vale a dire da quelle più ricche, erogatrici dei necessari trasferimenti perequativi.
In questo scenario, lo Stato potrebbe avere il compito di fissare i limiti minimi, al di sotto dei quali la 'media' non dovrebbe scendere. Una previsione di questo tipo, evidentemente inserita al fine di ottenere la 'chiusura' armonica del sistema, sarebbe però allo stesso tempo destinata a rimanere largamente non operativa, perché la ricerca del consenso delle popolazioni spingerebbe le Regioni privilegiate a trovare un punto di equilibrio più 'alto' di quello identificato dal semplice 'minimo'.
L'autonomia delle Regioni verrebbe esaltata, ma allo stesso tempo sarebbe responsabilizzata, perché è chiaro che quanto più cospicui fossero i fondi destinati alle spese sociali, tanto più alto dovrebbe essere l'impegno perequativo che ne conseguirebbe, visto che si dovrebbe consentire un'identica possibilità di stanziamento alle Regioni meno favorite. Tale soluzione potrebbe riuscire a conciliare le esigenze della differenziazione, che sono implicite nel decentramento, e quelle della parificazione, implicite nel mantenimento del principio di eguaglianza: la scissione fra spesa 'sociale', fissata su eguali livelli per tutto il territorio nazionale, e spese 'diverse', sottratte alla perequazione, anche se non necessariamente alla politica dei trasferimenti; la possibilità di articolare autonomamente e discrezionalmente le scelte di spesa nei vari settori sociali, che è generale, e riguarda anche le Regioni 'percipienti' e non soltanto quelle erogatrici dei trasferimenti perequativi; la contestuale valorizzazione dell'autonomia e della responsabilità delle Regioni obbligate ai trasferimenti.
Tutto ciò, peraltro, dovrebbe essere affiancato da alcune forme di responsabilizzazione delle Regioni che sono beneficiarie degli interventi perequativi e da regole capaci di offrire alle stesse Regioni percipienti un'adeguata autonomia, in particolare introducendo criteri di misurazione sia dell'efficienza sia dello sforzo fiscale. Quanto alla responsabilizzazione si potrebbe pensare a un apposito organo di coordinamento fra tutte le Regioni, con la funzione di osservatorio sulla gestione della spesa e di verifica di precisi criteri, preventivamente fissati, di efficienza degli investimenti in rapporto agli obiettivi; quanto ai criteri di misurazione dell'efficienza e dello sforzo fiscale sarebbe possibile calcolare il livello medio di efficienza delle Regioni più ricche e verificare quali e quante fra quelle meno fortunate fossero in grado di ottenere indici pari o superiori a quello, sicché tutte le Regioni con performances positive potrebbero meritare di essere inserite, accanto a quelle economicamente più prospere, nel gruppo dei soggetti abilitati a decidere del livello della spesa sociale, anche a prescindere dalla ricchezza relativa.
In tale maniera le Regioni ricche verrebbero responsabilizzate dalla necessità di individuare un livello di spesa sociale sopportabile, tanto sul piano del consenso delle popolazioni, quanto su quello del peso dei trasferimenti.Le Regioni meno ricche, invece, lo sarebbero perché interessate a massimizzare l'efficienza allo scopo di rientrare nel gruppo dei soggetti che determinano attivamente la decisione sul quantum della spesa sociale. Una volta entrate in questo gruppo, inoltre, tali Regioni non sarebbero interessate all'incontrollato innalzamento del livello di spesa. È vero infatti che per esse, al contrario che per le Regioni ricche, questo innalzamento non corrisponderebbe a uscite, ma a entrate. È anche vero, però, che ogni aumento di entrate impegnerebbe alla congrua utilizzazione, mettendo a rischio i livelli di efficienza già raggiunti, sulla base dei quali l'ingresso nella élite era stato possibile. Anche se per ragioni diverse, insomma, tanto le Regioni ricche quanto quelle meno prospere, ma tuttavia efficienti, avrebbero interesse a trovare un punto di equilibrio ragionevole nell'impegno di spesa, armonizzando tutte le esigenze di cui si è trattato in precedenza.
Impostata in questi termini (anche se non necessariamente - è chiaro - con queste soluzioni), la questione del f. (fiscale, in particolare) potrebbe finalmente tornare sulla terra, scendendo dal cielo delle parole d'ordine. È ben noto, invero, che in Italia la discussione sul f. è stata a dir poco confusa e culturalmente insoddisfacente, e che sovente è stata indebitamente intrecciata a quella sull'autodeterminazione di non meglio precisate entità etniche o sull'indipendenza di non meno vaghe entità geografiche. Peraltro, le soluzioni giuridico-costituzionali date alla questione non sono state così meditate come avrebbero dovuto.
Così, la l. costituzionale 18 ott. 2001 nr. 3 (voluta dal centrosinistra), che ha completamente riscritto il titolo v della Costituzione, ha causato numerosissimi problemi interpretativi, mentre la revisione della revisione (voluta dal centrodestra su forte pressione della Lega Nord), disegnata dalla legge costituzionale che il referendum del 25-26 giugno 2006 ha respinto, ha dimostrato di aver tenuto ben poco conto dell'esperienza, e ha tentato di introdurre cambiamenti che sarebbero stati in buona parte addirittura peggiorativi.
Federalismo e democrazia. - Il rapporto del f. con la democrazia pluralistica, dunque, è complesso. Al fine di comprendere appieno tale rapporto si deve precisare, anzitutto, che questa presuppone alcune condizioni. La prima è l'esistenza di una società plurale. Per la verità, l'espressione società plurale, in origine, venne impiegata per descrivere la condizione dei sistemi coloniali dell'Asia Sudorientale, nei quali lo sfruttamento coloniale si accompagnava a una politica di non interferenza con le regole e con le tradizioni locali (Gross 1985, p. 188 e sgg.; 1986, p. 220). L'ambito di significato che viene connotato da tale espressione si è ampliato, ed è quindi opportuno intendere, con essa, quantomeno una società caratterizzata dalla "pluralità delle istanze emergenti dal tessuto sociale" (Rimoli 1998, p. 2), ossia una società complessa, nella quale sono presenti credenze e aspirazioni anche radicalmente divaricate. Una società plurale nel senso sopra accennato non deve necessariamente essere plurale anche nella propria strutturazione politica. Perché una società sia plurale anche nella prospettiva delle proprie forme politiche occorre la presenza di una molteplicità di soggetti politici rilevanti (e quindi di istituzioni della rappresentanza o della partecipazione), aperti a più gruppi. Perché si possa dire di trovarsi di fronte a una società pluralista sono necessarie, inoltre, altre condizioni, etico-ideologiche, di sistema politico, di sistema istituzionale.
Le condizioni di sistema politico e di sistema istituzionale sono riassunte nel concetto di poliarchia elaborato da R. Dahl: "La poliarchia è un ordinamento politico caratterizzato, in linea generale, da due elementi. La cittadinanza è estesa a una percentuale piuttosto alta della popolazione adulta, e tra i diritti che ne derivano compare anche la possibilità di opporsi alle alte cariche dello Stato e di bocciarle tramite il voto" (Dahl 1989; trad. it. 1990, p. 333). La poliarchia richiede "sette istituzioni" (per la verità lo stesso Dahl, da ultimo, ha ulteriormente precisato il proprio pensiero sul punto, mutando terminologia ed elaborando cinque 'criteri' della democrazia: Dahl 1998; trad. it. 2000, pp. 41 e sgg.): elezione dei rappresentanti; elezioni libere e regolari; suffragio universale; diritto di presentarsi alle elezioni; libertà di espressione; informazione alternativa; libertà di associazione. La società poliarchica è in genere, per lo più, pluralista, ma al tempo stesso, può anche non esserlo. Una condizione essenziale perché la si possa definire tale è il relativismo etico, che costituisce il "canone etico di fondo" della democrazia pluralista (Rimoli 1999, p. 13). Se questo è lo sfondo di una democrazia pluralista, sembra evidente che non in tutte le realtà di fatto la democrazia pluralista ha assoluta necessità di f.: se in alcune realtà storiche questo può essere indispensabile, non lo è in altre. Il f., insomma, non è consustanziale alla democrazia, né le è antitetico, neppure se la democrazia viene intesa nella forma più propria e classica, ossia come adunanza del popolo nella pubblica piazza.
Al contrario di quanto comunemente si ritiene da parte di alcuni, anche in J.-J. Rousseau sono presenti aspetti di 'federalizzazione', per quanto peculiare, parziale e anomala, almeno laddove egli constata che l'eccessiva ampiezza degli spazi coperti da una comunità politica impedisce soluzioni più soddisfacenti. Come scrive nel Projet de constitution pour la Corse (1763), quando la riunione dell'intero popolo in uno stesso luogo non è possibile, è indispensabile rimediare frazionando l'esercizio (non certo la titolarità) della sovranità nei singoli municipi o pievi, colà radunando le rispettive popolazioni (infatti le pievi "sono il solo mezzo possibile per stabilire la democrazia in un popolo che non può riunirsi tutto in assemblea in un medesimo luogo", trad. it. in Scritti politici, 1970, p. 1089 e sgg.). Ciò fornisce un'ulteriore conferma del fatto che le schematizzazioni astratte non servono a capire il f. e che il corretto inquadramento delle sue problematiche richiede consapevolezza delle realtà storiche nelle quali esse si collocano.
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