Federalismo
La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali
(art.5 Costituzione)
Il nuovo ordinamento federale
di Antonio D'Atena
8 marzo
Termina, con l'approvazione definitiva del Senato, l'iter parlamentare della legge costituzionale sul federalismo, già passata in terza lettura alla Camera il 28 febbraio. La riforma conferisce maggiori poteri, sia sul fronte legislativo sia su quello fiscale, agli enti locali (Comuni, Province e Regioni, cui si aggiungono le Città metropolitane). La legge costituzionale, approvata dal Parlamento con una maggioranza inferiore ai due terzi, è stata sottoposta a un referendum popolare che si è celebrato il 7 ottobre e si è concluso con la sua conferma.
Le riforme costituzionali della XIII legislatura
La legge costituzionale di revisione del titolo quinto della Costituzione, approvata l'8 marzo 2001 e confermata in via referendaria il successivo 7 ottobre, ultimo frutto dell'elaborazione politico-istituzionale della XIII legislatura, si collega idealmente - completandoli - ad altri due interventi riformatori: la revisione delle norme sull'autonomia statutaria e sulla forma di governo delle Regioni a statuto ordinario, dovuta alla legge costituzionale nr. 1 del 1999, e la successiva estensione di una disciplina analoga a quella dettata da quest'ultima alle Regioni ad autonomia speciale (l. cost. nr. 2/2001).
Il cammino che ha condotto a questi risultati ha avuto inizio con l'approvazione della legge costituzionale nr. 1/1997. Tale provvedimento, in funzione della riforma dell'intera seconda parte della Costituzione, aveva previsto uno speciale procedimento di revisione, il quale si discostava dalla procedura normale (o 'tipica') - contemplata dall'art. 138 della Costituzione - per due aspetti: anzitutto, per il ruolo istruttorio riservato a una Commissione bicamerale costituita ad hoc; inoltre, per la previsione che il testo deliberato dai due rami del Parlamento con due distinte votazioni dovesse essere, comunque, sottoposto al referendum confermativo (indipendentemente, cioè, da uno specifico atto di promozione e anche nel caso in cui avesse conseguito, in seconda deliberazione, la maggioranza qualificata dei due terzi).
Dopo aver percorso le sue prime fasi (e dopo che la Commissione bicamerale - alla cui presidenza era stato chiamato Massimo D'Alema - aveva licenziato il suo definitivo progetto), il cammino così prefigurato si è interrotto, per esaurimento dell'accordo politico che ne era alla base. La sua interruzione, tuttavia, non ha comportato l'archiviazione del tema delle riforme costituzionali. Ha, semplicemente, decretato il superamento dell'idea che esso dovesse essere affrontato unitariamente (con la riscrittura di metà della Costituzione) e con modalità derogatorie rispetto all'ordinario procedimento di revisione.
Di qui, un mutamento di strategia, che ha portato all'approvazione - nelle vie tracciate dall'art. 138 - di sei leggi costituzionali. Si tratta, in particolare, oltre che di quelle ricordate in apertura, delle novelle cui si devono, rispettivamente, la nuova disciplina relativa al voto dei cittadini italiani residenti all'estero e l'integrazione dell'art. 111 della Costituzione (mediante la previsione del cosiddetto giusto processo).
L'opzione 'federale' e la crisi del regionalismo
Per quanto specificamente attiene alla riforma del titolo quinto della Costituzione, un punto merita di essere preliminarmente sottolineato: l'intento, proclamato dalla quasi totalità delle forze politiche, di sostituire il regionalismo disegnato, nel 1947, dall'Assemblea costituente con un assetto di tipo federale. Di tale intento costituisce una significativa spia linguistica l'uso del termine 'federalismo', il quale - a proposito o a sproposito - è ormai comunemente impiegato per indicare non solo l'obiettivo della riforma, ma anche quello perseguito dagli atti legislativi ordinari che l'hanno anticipata e preparata. Si pensi, per es., che - secondo la vulgata corrente - alla prima legge Bassanini (la l. nr. 59/1997) sarebbe da ascrivere la realizzazione del 'federalismo amministrativo' (ovvero, come pure s'è detto, del 'federalismo a Costituzione invariata').
Per apprezzare la rilevanza del dato, è sufficiente ricordare che, quando, nel corso dell'XI legislatura, un'altra Commissione bicamerale - la Commissione De Mita-Iotti - era impegnata nell'elaborazione di un progetto di riforma del titolo quinto della Costituzione, il termine era rigorosamente bandito dal lessico politico. E questo - si badi - benché il testo allora licenziato facesse uso di una tecnica di matrice sicuramente federale relativamente al rovesciamento dell'enumerazione delle competenze.
La nuova convenzione terminologica lascia trasparire la volontà - l'ostentata volontà - di una radicale cesura con il precedente assetto regionale. Questo deciso mutamento di rotta è fondamentalmente riconducibile a due ragioni: alla conclamata crisi del regionalismo italiano e alla convinzione che esso sia inadeguato a dare risposta alle domande di autodeterminazione espresse da alcune tra le aree economicamente più sviluppate del paese. In relazione al secondo punto - quello politicamente più scottante - l'opinione era (ed è) che il federalismo possa essere in grado di assorbire tensioni altrimenti suscettibili di mettere a rischio l'unità nazionale.
Che, all'apertura della XIII legislatura, il regionalismo italiano si presentasse come un sistema in crisi non è contestabile. Infatti, a causa di indirizzi legislativi e giurisprudenziali di segno decisamente centralistico, le Regioni avevano progressivamente assunto - per dirla con Livio Paladin - i caratteri di una variabile istituzionale che lo Stato maneggiava a propria discrezione.
Ciò aveva, tra l'altro, impedito alla regionalizzazione del paese di promuovere la profonda riforma dello Stato che era stata divisata dai suoi artefici. Essa non aveva provocato né la ristrutturazione degli apparati amministrativi statali nelle materie di competenza delle Regioni, né la riqualificazione dell'attività legislativa del Parlamento, il quale, seguitando a legiferare come se le Regioni non esistessero, non si era trasformato nel luogo delle grandi decisioni politiche nazionali vagheggiato dai padri costituenti.
Come comunemente si riconosce, a questa deriva non sono state estranee cause politiche. Le Regioni, infatti, sin dal momento della loro prima istituzione, sono entrate in rotta di collisione con un sistema politico dominato da partiti organizzati su base nazionale. Esse non solo non sono state in grado di modificare i processi di canalizzazione del consenso politico, ma hanno finito per diventare strumento di quegli stessi partiti che avrebbero dovuto concorrere a trasformare. Basti pensare che, fino all'elezione diretta dei presidenti delle Giunte (dovuta alla l. cost. nr. 1/1999, di cui s'è detto all'inizio), gli accordi politici sulla cui base si costituivano le coalizioni regionali di governo erano normalmente stipulati a Roma, tra le segreterie nazionali dei partiti.
Sarebbe, tuttavia, riduttivo fermarsi a questa spiegazione. Alla crisi del regionalismo italiano ha, infatti, contribuito la stessa disciplina costituzionale, la quale, alla distanza, ha rivelato alcuni aspetti di incontestabile inadeguatezza.
I punti deboli del modello costituzionale
Concentrando l'attenzione sui profili di maggior rilievo, la prima osservazione da fare è che i padri costituenti non hanno adottato una chiara decisione in ordine al ruolo delle Regioni. Alla domanda "a che servono le Regioni?" - per riecheggiare il titolo di un volumetto pubblicato in Francia negli anni Settanta - non è, infatti, agevole dare una risposta, in base alla disciplina da essi dettata. Per riprendere un'efficace immagine di Giuliano Amato, potrebbe dirsi che la Costituzione abbia configurato le Regioni come enti 'senza volto': come enti, cioè, privi di una vocazione funzionale chiaramente decifrabile.
Per rendersi conto di ciò, è sufficiente considerare gli elenchi di materie che, in virtù della tecnica distributiva accolta dal costituente (mutuata - com'è noto - dalla tradizione spagnola), individuano l'oggetto delle competenze legislative e amministrative assegnate alle Regioni. Tali elenchi, contenuti nell'originario art. 117 e nelle corrispondenti norme degli statuti regionali speciali, essendo costruiti sul modello di una società preindustriale a economia prevalentemente agricola, sono nati vecchi, il che ha condannato le Regioni a un ruolo, tutto sommato, marginale. Essi, inoltre, componendosi di 'voci' fortemente frammentate, non hanno messo le Regioni stesse in condizione di conferire ai propri interventi un grado sufficiente di organicità. Le competenze di cui esse sono state dotate si sono venute, infatti, a intrecciare con competenze dello Stato, con le conseguenze che possono immaginarsi in termini di sovrapposizione delle iniziative e delle responsabilità. L'incertezza del quadro è stata, inoltre, aggravata dalla tecnica di cui la nostra Carta fondamentale ha fatto uso ai fini della distribuzione dei poteri legislativi tra lo Stato e le Regioni. Il riferimento è al riparto cosiddetto verticale, accolto dall'art. 117, comma 1, della Costituzione, in forza del quale nelle materie regionali sono stati chiamati a concorrere sia il legislatore centrale sia i legislatori locali: il primo, per la fissazione dei principi fondamentali, i secondi, per l'adozione delle norme di dettaglio. Tale riparto ha il difetto di essere rigido e indeterminato al tempo stesso.
È rigido, perché pretende di fissare una volta per tutte gli argini entro cui deve essere convogliato il concorso tra la legislazione statale e quella regionale. Per rendersene conto, è sufficiente confrontare la competenza concorrente di cui all'art. 117 con il tipo di competenza concorrente più diffuso negli ordinamenti federali mitteleuropei: la konkurrierende Gesetzgebung, che consente aggiustamenti successivi della distribuzione dei poteri legislativi, per adeguarla alle esigenze di disciplina unitaria che possano manifestarsi nel tempo.
Quanto all'indeterminatezza, non può non rilevarsi che la ripartizione prefigurata dalla Costituzione risulta per intero affidata alla distinzione tra due entità - i principi e le norme di dettaglio -, tra le quali non è sempre possibile tracciare con sicurezza una precisa linea di demarcazione. A ciò consegue una condizione di obiettiva incertezza, la quale ha contribuito all'instaurazione di rapporti fortemente conflittuali e alla dilatazione del contenzioso.
A tutto questo è da aggiungere la mancanza di una chiara decisione per quanto concerne il rapporto tra le Regioni e gli enti locali. La disciplina costituzionale, infatti, oscilla tra due modelli: quello dell'integrazione funzionale tra i due livelli territoriali di governo e quello della loro meccanica sovrapposizione. Il primo è il modello della Regione come ente "ad amministrazione indiretta necessaria" (per riprendere una felice definizione di Massimo Severo Giannini): come ente, cioè, chiamato a operare non direttamente, mediante propri apparati amministrativi, ma per il tramite degli enti locali. Il secondo è quello della Regione impegnata, non solo sul versante dell'indirizzo, ma anche su quello della concreta gestione amministrativa (e conseguentemente dotata di congrui apparati propri, o, comunque, da essa dipendenti).
Per completare il quadro, non può non accennarsi alla disciplina costituzionale della finanza: una disciplina notevolmente nebulosa, dettata da una norma - l'art. 119 -, la quale ha individuato, sì, la tipologia delle entrate regionali (tributi propri, quote di tributi erariali e contributi speciali), ma non ha specificato quale dovesse essere il rapporto tra le stesse, lasciando, quindi, amplissimi margini di scelta alla legge ordinaria dello Stato. Di qui, l'instaurazione di un sistema di finanza derivata, il quale, soprattutto nel primo trentennio di esperienza, ha vanificato le possibilità di autodeterminazione regionale sul versante dell'entrata, creando una dissociazione tra l'entrata e la spesa, cui è conseguito un deficit di responsabilità politica per quest'ultima. È infatti evidente che, se le risorse di cui le Regioni fanno uso provengono solo in minima parte da tributi da esse regolati, gli elettori regionali non sono sollecitati a esercitare quel controllo sulla spesa che costituisce uno degli elementi di maggiore vitalità delle democrazie rappresentative.
Due equivoci iniziali: le macroregioni e lo Stato iperleggero
La decisione di voltare pagina, introducendo un elemento di discontinuità con l'originario regionalismo, ha contribuito a una tematizzazione centrata, piuttosto che sull'esperienza concretamente maturata, sui modelli generali: modelli - come vedremo - non sempre provvisti di riscontro nel diritto comparato.
Il rilievo vale, anzitutto, per un primo modello, il quale, pur risultando superato dal successivo dibattito, agli inizi era stato preso piuttosto sul serio. Si tratta del modello incentrato sulle cosiddette macroregioni. In base a esso, le Regioni originarie avrebbero dovuto essere sostituite (o, quanto meno, affiancate) da entità maggiori, risultanti dal loro accorpamento territoriale. Stando all'ipotesi più radicale, tali entità non avrebbero dovuto superare il numero di tre.
L'assunto sottostante a questa impostazione era che gli originari enti regionali non raggiungessero, in termini di territorio e di popolazione, la massa critica necessaria all'esercizio dei maggiori poteri che alle entità substatali si sarebbero dovuti devolvere per effetto della riforma.
Si trattava, però, di un assunto privo di fondamento. Ciò è confermato dai due Stati federali europei a noi geograficamente più vicini: l'Austria e la Svizzera, che, nonostante la loro ridotta estensione territoriale, sono, rispettivamente, articolati in 9 Länder e in 26 Cantoni.
Ma non è tutto. I fautori delle macroregioni, infatti, si proponevano di calare dall'alto i nuovi enti, affidandone l'istituzione a un atto d'imperio del legislatore costituzionale. Ciò - com'è evidente - avrebbe reso molto elevato il rischio della creazione di entità artificiali, non corrispondenti a gruppi sociali sufficientemente omogenei, tenuti insieme dalla propria identità culturale: un rischio da non sottovalutare, se è vero - come generalmente si ritiene - che solo le articolazioni territoriali dotate di un fondamento antropologico-culturale possano dar vita a un federalismo e a un regionalismo solidi e vitali.
Un altro modello che l'evoluzione del dibattito si è fortunatamente incaricata di archiviare è quello che potrebbe denominarsi 'delle quattro competenze'. Esso si fonda sull'idea che, in un ordinamento di tipo federale, lo Stato centrale debba occuparsi solo di quattro cose: la difesa, la giustizia, il potere estero e la moneta (ovvero, per riprendere le metafore comunemente usate: la spada, la toga, la feluca e la borsa). Ma neanche tale assunto può considerarsi provvisto di fondamento. Infatti, in nessuno degli Stati del federalismo reale la Federazione ha poteri così esigui. Ciò trova una significativa conferma nelle Costituzioni degli Stati federali europei di più collaudata tradizione: la Svizzera, la Germania e l'Austria. Tali costituzioni, infatti, tra le materie assegnate alla Federazione (a titolo di competenza esclusiva o concorrente), annoverano oggetti come: l'espropriazione, la protezione dei consumatori, la circolazione stradale, la promozione della cinematografia, il commercio degli alimenti, il regime delle banche, le camere di commercio,
i prezzi amministrati, il procedimento amministrativo, i trapianti d'organo, la maternità e l'infanzia, il diritto fallimentare.
È appena il caso di sottolineare il carattere capitale della questione. È, infatti, evidente che, se funzioni che coinvolgono interessi unitari e non frazionabili non sono riservate al livello centrale, rischia di essere compromessa la possibilità stessa di costruire, attorno a un nucleo sufficientemente consistente di diritti, una cittadinanza comune (con conseguente messa in pericolo della stessa tenuta unitaria del sistema).
Le tecniche costituzionali di ripartizione delle competenze
Maggiore concretezza ha presentato, invece, la riflessione sulle tecniche da utilizzare ai fini della distribuzione delle competenze tra centro e periferia, la quale ha reso necessario il confronto con le diverse soluzioni messe a disposizione dal diritto comparato.
Su questo terreno, l'alternativa che si è concretamente profilata nel corso del processo di riforma è stata tra il modello federale classico e il modello regionale spagnolo, i quali delineano due scenari rovesciati. In base al primo, le competenze enumerate spettano allo Stato centrale e la competenza generale spetta alle entità substatali (Länder, Cantoni). In base al secondo, invece, è lo Stato a detenere la competenza generale, mentre gli enti corrispondenti alle nostre Regioni - le Comunidades autonomas - sono titolari di competenze meramente enumerate.
Come si vede, dei due modelli, il secondo è quello più vicino a quello accolto dalla Costituzione italiana del 1947 (informata, com'è noto, al principio dell'enumerazione delle competenze regionali). Si differenzia, tuttavia, da esso per un aspetto essenziale: per il fatto di non contemplare la categoria delle Regioni ad autonomia ordinaria. Alla sua stregua, infatti, ciascun ente regionale è dotato delle competenze previste dal rispettivo statuto di autonomia: competenze che non coincidono necessariamente con quelle assegnate alle altre Regioni.
Ed è stata proprio questa particolarità a far accordare, in linea di principio, la preferenza al modello federale (accolto sia dai progetti elaborati dalla Commissione bicamerale, sia dalla riforma del titolo quinto, di cui si è detto in apertura), il quale presenta il vantaggio di consentire una razionale riforma dello Stato. Secondo il sistema spagnolo, infatti, il ridimensionamento che le competenze statali subiscono per effetto della devoluzione di poteri alle Regioni non avviene in modo uniforme sull'intero territorio nazionale, ma in termini regionalmente differenziati: esso dipende, infatti, dalla qualità e quantità delle competenze di cui le singole Regioni sono, rispettivamente, dotate. Alla sua stregua, lo Stato finisce per assumere i caratteri di un ente dotato di competenze di risulta, chiamato a intervenire in modo complementare negli ambiti che i singoli statuti di autonomia non abbiano, per il rispettivo territorio, assegnato alle Regioni. Di qui, un assetto a macchia di leopardo, la cui asimmetria risulta oggettivamente incompatibile con il proposito di utilizzare le Regioni per promuovere un'organica riforma dello Stato: quell'organica riforma dello Stato, la cui necessità non era (e non è) messa in discussione da nessuna delle forze presenti in Parlamento. Deve, peraltro, essere precisato che il modello non è stato utilizzato nella sua versione più rigorosa dalla legge costituzionale di riforma del titolo quinto. Ciò è dipeso da due fattori: il mantenimento della categoria delle Regioni ad autonomia speciale (risalente - com'è noto - alle scelte dell'Assemblea costituente) e la previsione (sulla quale ci si soffermerà più avanti) che anche alle Regioni a statuto ordinario possano essere riconosciute 'forme e condizioni particolari di autonomia'.
Il tema della sussidiarietà
Un altro tema che si è imposto con forza nel dibattito da cui è scaturita la riforma è stato quello della sussidiarietà. Sin dal primo progetto licenziato dalla Commissione bicamerale D'Alema si è, infatti, divisato di codificare in Costituzione il principio corrispondente. Si tratta del principio in forza del quale, ai fini della distribuzione delle funzioni e dei compiti, la preferenza deve essere accordata agli ambiti istituzionali o sociali più vicini agli interessati.
Con riferimento a tale tema, si deve anzitutto segnalare il debito dell'elaborazione costituzionale nei confronti della prima legge Bassanini già citata (l. nr. 59/1997). Questa, superando un'impostazione che, in Italia, risaliva all'inizio degli anni Novanta (ed era stata accolta dalla legge di esecuzione della Carta europea dell'autonomia locale), non ha inteso il principio di sussidiarietà in senso esclusivamente 'verticale' (con riferimento, cioè, ai rapporti tra enti territoriali), ma anche in senso 'orizzontale', utilizzandolo sia con riferimento alle relazioni tra gli enti territoriali e gli enti funzionali (come le Università degli studi e le Camere di commercio), sia con riguardo ai rapporti tra la statualità (complessivamente considerata) e la società civile. In relazione a quest'ultimo profilo, si deve specificamente segnalare la norma che ha imposto al legislatore delegato di favorire "l'assolvimento di funzioni di rilevanza sociale da parte di famiglie, associazioni e comunità".
L'importanza dell'innovazione non sfugge. Grazie a essa, a livello di normazione positiva, si è recuperata l'intera ricchezza assiologica del principio, che non può essere considerato come una semplice tecnica di distribuzione del potere tra istanze istituzionali omogenee, quali gli enti territoriali (tutti legati al suffragio universale e alla mediazione partitica). Esso, infatti - come dimostrano le sue radici storiche (dalla dottrina sociale della Chiesa all'elaborazione liberale) -, intende dare risposta anche a un'altra questione capitale: quella dei limiti dell'azione legittima dello Stato. In tale ambito si inserisce - tra l'altro - il tema cruciale dei rapporti tra Stato e mercato.
Questa apertura prospettica ha dominato anche il percorso della riforma costituzionale. Ciò non deve sorprendere. È infatti vero che - a stretto rigore -, nell'ambito di una riforma di tipo 'federale', quello dei rapporti Stato-società potrebbe apparire come un tema intruso (da affrontare semmai in sede di aggiornamento dei principi fondamentali che precedono la prima parte della Costituzione). È necessario, tuttavia, considerare che la sussidiarietà così intesa poteva consentire di sciogliere uno dei maggiori nodi con cui la transizione costituzionale si è trovata a confrontarsi. Ci si riferisce alla diffusa insofferenza della società civile nei confronti di una statualità invadente, refrattaria a riconoscere altro pluralismo che il pluralismo partitico.
Detto questo, è da aggiungere che la traduzione in chiave normativa del tema della sussidiarietà si è rivelata tutt'altro che facile. Ciò è testimoniato, tra l'altro, dalla faticosa stratificazione di formulazioni avvicendatesi nel cammino della riforma. Nell'ultima versione (quella di cui alla legge costituzionale di riforma del titolo quinto della Costituzione), i riferimenti al principio corrispondente sono due. Il primo è al principio di sussidiarietà in senso verticale, che viene utilizzato come criterio dell'allocazione delle funzioni amministrative tra gli enti territoriali. Il secondo riferimento è, invece, al principio di sussidiarietà in senso orizzontale, il quale trova espressione nella norma che, in termini generali, impone agli enti territoriali di favorire "l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà".
Il nuovo assetto delle competenze legislative
Ma non è solo per l'espressa enunciazione del principio di sussidiarietà che la disciplina novellata si discosta dal disegno originariamente delineato dalla Costituzione italiana. Può, anzi, dirsi che non vi sia parte di tale disegno che non sia toccata - in modo più o meno profondo - dalla riforma.
Una prima, radicale, innovazione riguarda - come si è anticipato - l'uso della tecnica enumerativa. La nuova disciplina, infatti - a differenza della precedente (e a differenza, può aggiungersi, di quanto solitamente si registra negli Stati regionali) -, riconosce allo Stato la titolarità di competenze 'enumerate' e alle Regioni la competenza generale. Essa, da un lato, individua, in positivo, le materie su cui il legislatore statale può intervenire; d'altro lato - con una clausola modellata sulle analoghe previsioni normalmente presenti nelle Costituzioni federali -, riconosce la competenza residuale alle Regioni, cui attribuisce "la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato". Il carattere rivoluzionario dell'innovazione non ha bisogno di essere sottolineato. Per suo effetto, infatti, viene a cadere la generale presunzione di competenza in favore del legislatore statale: la potestà del quale non si configura più come la regola, ma come l'eccezione.
Quanto alla tipologia delle competenze legislative, si registrano novità profonde, pur in un quadro di continuità culturale. La continuità è costituita dalla preferenza decisamente accordata alle tecniche di tipo separatistico (o 'duale'). La nuova disciplina, infatti - al pari di quella originaria -, ripudia uno dei modelli distributivi più diffusi nel federalismo europeo: quello della konkurrierende Gesetzgebung, il quale - come si è visto - mette il legislatore centrale in condizione di intervenire in ambiti altrimenti riservati al legislatore locale, 'scacciando' la competenza di questo. Essa, mantenendosi nel solco della tradizione italiana, muove dall'idea, decisamente garantistica, che il riparto delle competenze legislative vada stabilito, una volta per tutte, dalla Costituzione, senza che su esso possano influire determinazioni dei soggetti ai quali si riferisce. Di qui la scelta dei due 'tipi' di competenza legislativa maggiormente corrispondenti a tale idea: la competenza 'esclusiva' e la competenza 'concorrente', fondata su un riparto verticale. La competenza esclusiva è, rispettivamente, attribuita allo Stato e alle Regioni: al primo su materie enumerate, alle seconde a titolo di competenza residuale. La potestà concorrente è assegnata invece - com'è ovvio - congiuntamente a entrambi. Essa ha per oggetto le materie elencate dall'art. 117, comma 3.
Come si è anticipato, tuttavia, questa continuità culturale non impedisce al disegno di presentare tratti di assoluta novità. La prima è costituita dal rovesciamento dell'enumerazione delle competenze - di cui s'è detto sopra -, in forza della quale la competenza esclusiva dello Stato viene ad avere per oggetto le sole materie per le quali è espressamente prevista (elencate dall'art. 117, comma 2). La seconda novità riguarda la posizione del legislatore regionale, che, per la prima volta nella nostra storia costituzionale, diviene titolare di una competenza effettivamente esclusiva, in quanto chiamata a intervenire in ambiti in tutto e per tutto sottratti agli interventi legislativi dello Stato. Si tratta di una competenza da non confondere con la potestà legislativa primaria (o piena) contemplata dagli statuti regionali speciali (che lo statuto siciliano qualifica 'esclusiva'). Quest'ultima, infatti, incontra un limite 'verticale' in contenuti prescrittivi dovuti al legislatore statale (ci si riferisce al limite dei principi generali dell'ordinamento e al limite delle cosiddette grandi riforme, in virtù dei quali nessuno degli ambiti riservati dagli statuti speciali al legislatore regionale è per intero sottratto agli interventi del legislatore statale).
La nuova potestà esclusiva delle Regioni, invece - al pari della parallela potestà riconosciuta allo Stato -, non incontra altri limiti 'verticali' che quelli che si impongono, in via generale, a ogni atto legislativo (statale o regionale che sia). Questi sono rappresentati - com'è noto - dalla disciplina costituzionale (che, essendo rigida, è immodificabile dalle leggi ordinarie) e dalle norme 'interposte' cui questa rinvia. In relazione al secondo profilo, si deve, peraltro, segnalare un'innovazione introdotta dalla riforma del titolo quinto: la previsione che impone, alla legislazione statale e a quella regionale, il "rispetto […] dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali" (art. 117, comma 1). In tal modo, il nuovo testo, per un verso (vincoli comunitari) codifica un'interpretazione ormai pacifica (dotandola, peraltro, di un ancoraggio costituzionale più solido di quello rappresentato dall'art. 11 della Costituzione), per altro verso (obblighi internazionali) introduce una norma assolutamente nuova, la quale - se intesa alla lettera - dà luogo a non lievi problemi.
Ma non è tutto. Rilevanti elementi di novità sono, infatti, riscontrabili anche per la competenza apparentemente meno toccata dalla riforma: quella che l'art. 117, comma 3, qualifica come 'concorrente'. È, infatti, vero che essa è costruita sul calco originario, avendo il testo definitivamente licenziato dalle due Camere superato l'ipotesi, avanzata durante i lavori della Commissione bicamerale D'Alema (e consegnata nell'art. 58, comma 2, del testo da questa licenziato il 4 novembre 1997), che al legislatore statale si riconoscesse la competenza a porre, anziché i 'principi fondamentali', le 'discipline generali'. Esso - su sollecitazione, tra l'altro, delle Regioni - ha ripristinato il tenore dell'originario art. 117, comma 1, prevedendo che, nelle materie elencate dall'art. 117, comma 3, alla legislazione dello Stato sia riservata "la determinazione dei principi fondamentali".
Tale continuità non deve, tuttavia, trarre in inganno. Nell'ambito del nuovo contesto costituzionale, infatti, la competenza concorrente sembra destinata a caricarsi di un significato diverso dall'originario. C'è, per es., da chiedersi se, nel quadro del rovesciamento dell'enumerazione delle competenze, si possa continuare a considerare pacifica l'equivalenza tra i principi formulati e i principi impliciti. O se invece non si debba ritenere - come in Germania - che il limite dei principi operi solo se il legislatore centrale faccia uso del suo potere di adottare leggi-cornice. Con la conseguenza che, in difetto di queste, al legislatore regionale si imporrebbe soltanto il rispetto della disciplina costituzionale (e delle norme interposte cui questa rinvia).
L'amministrazione e il superamento del principio del parallelismo delle funzioni
Non meno profonda è l'innovazione da cui è stato interessato il rapporto tra le funzioni legislative e quelle amministrative. Il nuovo testo, infatti, decreta il deciso superamento del principio del parallelismo delle funzioni: del principio, cioè, in forza del quale le funzioni amministrative spettano allo stesso ente che, nelle materie che ne formano oggetto, è chiamato a esercitare quelle legislative. Esso si ispira, invece, al principio della dissociazione: le funzioni amministrative, di regola, sono assegnate a enti diversi da quelli titolari delle potestà legislative sulle relative materie. In particolare, mentre la legislazione è di spettanza dello Stato e delle Regioni, le funzioni amministrative sono, di norma, assegnate ai Comuni, i quali, in base alla nuova disciplina, sono titolari di una competenza amministrativa generale (analoga alla competenza legislativa generale, attribuita - come si è detto - alle Regioni).
L'attribuzione ai Comuni della competenza amministrativa generale costituisce uno degli aspetti più discussi della riforma, la quale cerca di temperare la drasticità della regola (la cui applicazione meccanica porterebbe a conseguenze assurde), mediante la previsione che essa possa essere derogata dalla legge ordinaria (statale o regionale).
Per superare la critica che, così facendo, il legislatore costituzionale finirebbe per svuotare l'enunciazione della competenza generale dei Comuni, conferendole i caratteri di una norma-manifesto, la legge costituzionale di riforma del titolo quinto cerca di circoscrivere il potere derogatorio riconosciuto al legislatore ordinario, finalizzandone gli interventi. L'art. 118, comma 1, prevede, infatti, che la sottrazione ai Comuni di funzioni amministrative loro altrimenti spettanti in virtù della clausola generale debba essere finalizzata ad "assicurare l'esercizio unitario" delle funzioni stesse e aggiunge che le leggi a ciò rivolte debbono essere adottate "sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza".
In questo momento è difficile prevedere se tali indicazioni saranno concretamente in grado di assolvere alla funzione in vista della quale sono state introdotte: quella di assicurare la giustiziabilità delle condizioni da esse enunciate (con possibile sindacato della Corte Costituzionale sulle leggi di riallocazione delle funzioni amministrative). È, comunque, chiaro che, se questo non dovesse accadere, l'intera disciplina delle funzioni amministrative risulterebbe decostituzionalizzata, risolvendosi nel riconoscimento alla legge ordinaria della 'competenza della competenza'.
La nuova disciplina della finanza
Profondamente innovativa appare anche la disciplina della finanza regionale, nell'elaborazione della quale il maggiore sforzo compiuto dal legislatore costituzionale è stato quello di circoscrivere gli amplissimi margini lasciati alla legge ordinaria dello Stato dall'originario art. 119.
In questa linea si colloca, anzitutto, la precisazione che i tributi 'propri' siano - al pari delle entrate proprie - "stabiliti e applicati" dagli enti territoriali. In tal modo, la novella costituzionale intende reagire alla lettura corrente della corrispondente nozione impiegata dalla norma che intende sostituire: in forza della quale - com'è noto - la disciplina dei cosiddetti tributi 'propri' non sarebbe regionale ma statale, differenziandosi da quella dei tributi erariali per la facoltà, dalla medesima riconosciuta alle Regioni, di determinare le aliquote applicabili nel loro territorio, ancorché entro i rigorosi limiti dalla stessa fissati.
La nuova disciplina precisa, inoltre, che la normativa tributaria regionale e locale deve rispettare "i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario", offrendo, così, argomenti in favore della conclusione che essa sia espressione di una competenza ripartita (o concorrente), e non integrativo-attuativa, secondo l'interpretazione accolta dalla Corte Costituzionale con riferimento all'originario art. 119.
Nella stessa linea si collocano, inoltre, talune prescrizioni rivolte a delimitare la discrezionalità del legislatore statale. Si pensi, per es., alla previsione in forza della quale la perequazione finanziaria (cui è destinato un apposito fondo senza vincoli di destinazione) deve essere ancorata a un elemento oggettivo, costituito dalla 'capacità fiscale' dei territori chiamati a usufruirne. In tal modo, il legislatore costituzionale intende non soltanto introdurre un elemento di giustizia distributiva, ma anche responsabilizzare le Regioni, penalizzando quelle che non attingano in misura piena alle risorse tributarie che la rispettiva popolazione appare in grado di assicurare. È opinione abbastanza diffusa che il grado di specificazione di tale disciplina dovrebbe impedire o rendere, quanto meno, non agevoli interpretazioni elusive analoghe a quelle che si sono sviluppate sul testo originario. Non si può, comunque, non sottolineare quella che appare chiaramente una svista. Ci si riferisce alla piena omologazione tra le Regioni e gli enti territoriali minori, vale a dire i Comuni, le Province e le Città metropolitane: si tratta di un'omologazione assai discutibile con riferimento ai tributi 'propri', i quali, per effetto della riserva di legge di cui all'art. 23 della Costituzione, vanno stabiliti mediante atto legislativo e, quindi, attraverso uno strumento che non rientra nella disponibilità degli enti territoriali minori.
L'eliminazione dei controlli statali sugli atti regionali
La rassegna degli aspetti di maggiore novità della riforma non sarebbe completa, se non si facesse un cenno alla materia dei controlli. In proposito, si deve ricordare, in via preliminare, che la previsione di controlli statali sulle Regioni ha storicamente costituito uno degli elementi più caratteristici del regionalismo italiano. Essa è riconducibile all'influenza esercitata sulla nostra Assemblea costituente dalla precedente legislazione comunale e provinciale. A tale influenza può ascriversi la decisione di subordinare l'efficacia degli atti delle Regioni a un'attività di controllo esercitata da organi dello Stato.
Al di là delle differenze che si possono riscontrare tra essi, tutti i controlli statali sugli atti delle Regioni previsti dalla Costituzione del 1947 risultano accomunati da due caratteri: dal fatto di riferirsi (almeno potenzialmente) alla generalità degli atti regionali, cioè statuti, leggi, regolamenti e atti amministrativi, e poi dal fatto di non essere limitati alla legittimità, ma di estendersi (sia pure con diversi effetti) al merito. Da qui deriva la loro configurazione come strumenti rivolti a garantire non solo il rispetto della legalità, ma anche la salvaguardia degli interessi nazionali.
Ebbene, in quest'ambito, la riforma non poteva essere più radicale. Essa, infatti, decreta la definitiva archiviazione dell'istituto (e della concezione generale che ne era alla base). Per rendersene conto, è sufficiente passare in rassegna le innovazioni introdotte in tale ambito dalla legge costituzionale nr. 1/1997 e dalla riforma del titolo quinto: la prima elimina l'approvazione statale degli statuti regionali, sostituendola con una (eventuale) approvazione referendaria, mentre la seconda cancella il controllo governativo sulle leggi regionali, prevedendo che i vizi di legittimità di tali atti possano essere fatti valere esclusivamente in via giurisdizionale, mediante impugnativa successiva da parte dello Stato (in linea con le discipline comunemente presenti nelle Costituzioni federali). La medesima legge costituzionale di riforma del titolo quinto, inoltre, fa cadere il giudizio di merito sulle leggi, originariamente affidato al Parlamento (e, peraltro, mai effettuato) e abroga espressamente le norme riguardanti i controlli sugli atti amministrativi delle Regioni (oltre che su quelli degli enti locali).
Le Regioni ad autonomia speciale
Le novità dell'assetto delineato dagli interventi riformatori non hanno sempre presentato un carattere altrettanto radicale. Un esempio significativo al riguardo è costituito dalle Regioni ad autonomia speciale, le quali ponevano tre non facili problemi agli artefici della riforma: un problema di architettura costituzionale e due problemi politici.
Il problema che si è denominato di architettura costituzionale era quello della compatibilità del mantenimento delle Regioni speciali con il rovesciamento dell'enumerazione delle competenze. In sede dottrinale si era infatti sottolineato che, a enumerazione rovesciata, la conservazione di entità regionali titolari di autonomie speciali avrebbe presentato caratteri di forte incongruenza, alternativamente comportando o che l'autonomia speciale venisse a caricarsi, sul piano del riparto di competenze, di una connotazione deteriore rispetto all'autonomia ordinaria, oppure che essa fosse fondamentalmente destinata a essere assorbita in questa.
Alle ragioni dell'architettura costituzionale si opponevano (e si oppongono), tuttavia, gli interessi delle Regioni speciali, tutt'altro che propense alla propria normalizzazione. L'eliminazione della loro posizione differenziata avrebbe, quindi, presentato dei costi probabilmente insopportabili in termini elettorali. Questo costituiva il primo problema politico.
Il secondo problema politico era rappresentato dalle altre Regioni, quelle ad autonomia ordinaria. È, infatti, evidente che, nell'ipotesi del mantenimento dell'autonomia speciale, queste ultime (o quanto meno alcune tra esse) avrebbero chiesto di essere ammesse al godimento dei benefici - soprattutto finanziari - a essa corrispondenti.
In presenza di un groviglio così complesso, si deve dare atto agli autori della riforma di aver fatto tutto ciò che era possibile, nelle condizioni date. Essi, in particolare, hanno mantenuto le autonomie speciali; hanno previsto, in via transitoria (e cioè "sino all'adeguamento degli statuti"), l'applicazione alle Regioni che ne sono dotate della nuova disciplina dell'autonomia ordinaria, nella parte in cui prevede "forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite"; hanno ammesso la parziale estensione dell'autonomia speciale a singole Regioni ordinarie. Si tratta - come si vede - di una soluzione salomonica, che cerca di contemperare esigenze eterogenee e non agevolmente conciliabili.
Non possono, tuttavia, essere sottovalutati i problemi che essa pone sul piano applicativo. Il maggiore si riferisce all'accesso delle Regioni ordinarie alle "ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia" e, in particolare, ai limiti entro cui il corrispondente regime può derogare alla disciplina della finanza. Si tratta di una questione cruciale. È, infatti, proprio sul versante della finanza che è verosimile attendersi la maggiore pressione delle Regioni ad autonomia ordinaria.
In proposito, il testo definitivamente licenziato dalle Camere supera la soluzione prevista dalla Bozza Amato (che escludeva ogni deroga al regime finanziario comune, privando, quindi, di qualsiasi capacità attrattiva la possibilità dischiusa dalla medesima). Esso, tuttavia, non stabilisce che la disciplina della finanza - contenuta nell'art. 119 - possa essere totalmente derogata, ma prescrive che di essa vadano comunque rispettati i 'principi': soluzione - come si vede - equilibrata, ma di non agevole applicazione.
L'ultimo punto che occorre tener presente è che, qualora - anche in virtù dell'interpretazione che si dia del limite di cui si è appena detto - l'accesso delle Regioni ordinarie alla specialità venga sentito come un obiettivo appetibile, è da prevedere che si aprano a questo riguardo spirali rivendicative non agevolmente controllabili, del tipo di quelle che si registrano in Spagna, e tali da mettere a dura prova la tenuta unitaria del sistema.
La seconda Camera e i raccordi cooperativi
Con le autonomie speciali, l'altro nodo di pressoché impossibile soluzione era costituito dalla riforma della seconda Camera: non perché la necessità di un'istanza rappresentativa delle Regioni fosse revocabile in dubbio, ma per la ragione che l'introduzione del Senato federale avrebbe implicato la soppressione del Senato attuale, il quale è sempre stato tutt'altro che incline a contribuire al proprio suicidio istituzionale.
La difficoltà di sciogliere questo nodo ha generato un'impressionante varietà di succedanei: dallo 'strapuntino' del primo progetto della bicamerale, alle sessioni speciali del progetto del novembre 1997, alla previsione che i senatori vengano eletti contestualmente ai consiglieri regionali (secondo l'accordo sul federalismo della primavera 1998).
La soluzione accolta dalla riforma licenziata dai due rami del Parlamento è ancora diversa. La novella costituzionale, infatti, consente ai regolamenti parlamentari di disporre la partecipazione di rappresentanti delle Regioni e degli enti locali alla Commissione bicamerale per le questioni regionali, e prevede che, nelle materie in cui il consesso così integrato deve essere obbligatoriamente consultato, gli scostamenti dai pareri da esso resi comportino un aggravio procedurale: la riserva d'assemblea e la necessità della maggioranza assoluta. Anche per questa parte deve darsi atto agli autori del testo di aver fatto il possibile per trovare una soluzione che conciliasse le diverse esigenze. La soluzione è, infatti, ingegnosa, anche se - ovviamente - debole.
Detto questo, va sottolineato che l'indifferenza del progetto rispetto alle esigenze di cooperazione tra centro e periferia va ben al di là della questione della seconda Camera. La disciplina da esso posta al riguardo è estremamente esile, risolvendosi in quattro generiche previsioni, le quali hanno, rispettivamente, per oggetto: la partecipazione delle Regioni alla fase ascendente di processi comunitari di decisione; forme di coordinamento in materia di immigrazione, ordine pubblico e sicurezza; forme di intesa e coordinamento in materia di tutela dei beni culturali; l'istituzione, in ambito regionale, del Consiglio delle autonomie locali.
Per il resto, si registra il vuoto. È, per es., significativo che, a differenza del progetto elaborato dalla Bicamerale, quello definitivamente licenziato non menzioni nemmeno la Conferenza Stato-Regioni. Questa impostazione non può non sorprendere. Deve, infatti, essere considerato che oggi la strada della cooperazione tra centro e periferia è una strada pressoché obbligata. Il che è confermato - al di là di ogni possibilità di dubbio - dalle esperienze sviluppatesi nell'ambito dei sistemi federali e regionali più maturi del nostro continente. D'altra parte, non è privo di significato che anche nell'esperienza italiana, pur nel silenzio della Costituzione, non siano mancati - più o meno riusciti - tentativi di affrontare in chiave collaborativa il problema dei rapporti tra lo Stato e le autonomie a base territoriale.
L'incertezza del quadro
Il quadro sinteticamente delineato presenta tuttora caratteri di marcata incertezza. Benché, infatti, grazie all'esito positivo della consultazione referendaria la legge costituzionale di revisione del titolo quinto abbia fatto il suo ingresso nell'ordinamento, è diffusa l'opinione che essa vada sottoposta a ulteriori modifiche. In tal senso si esprimono sia i suoi artefici, che la considerano il primo passo di una riforma che va completata, sia gli esponenti della nuova maggioranza, i quali non le hanno risparmiato le critiche e si apprestano a por mano alla riforma della riforma. Un ulteriore elemento di incertezza deriva dal contenuto della nuova disciplina, la quale, per la sua novità, per la nebulosità di alcune scelte (in materia, per es., di funzioni amministrative), per i numerosi rinvii alla legge e per una qualità tecnica complessivamente non esaltante, è aperta a sviluppi legislativi, giurisprudenziali e di prassi sui quali ogni previsione sarebbe azzardata.
C'è, infine, un ultimo elemento di incertezza.
Esso riguarda gli statuti regionali, i quali dovranno essere riscritti, per essere adeguati alla novella costituzionale che li ha riformati (la citata l. cost. nr. 1/1999) e alla legge costituzionale di riforma del titolo quinto che ha ridefinito il quadro delle competenze delle Regioni. Tra i punti incerti, figura uno degli elementi di maggiore novità dell'assetto attuale. Ci si riferisce all'elezione diretta dei presidenti delle Giunte, la quale, essendo prevista da norme costituzionali derogabili dagli statuti, potrebbe essere da questi sostituita con un diverso sistema di investitura.
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Basi concettuali del federalismo
Nell'ultimo decennio il dibattito politico ha riportato di attualità le dottrine federaliste sotto molteplici punti di vista. Ma proprio la pluralità delle prospettive ha reso più ambiguo l'uso del termine 'federalismo', dal momento che a esso sono assegnati significati diversi in funzione dei differenti problemi di ordine interno e internazionale cui si intende dare risposta facendo appello agli insegnamenti del federalismo.
Nato come teoria di una forma di governo, per risolvere i problemi di un caso isolato, la formazione degli Stati Uniti d'America, e poi di altre società marginali rispetto ai centri propulsori della politica mondiale (Svizzera, Canada, Australia), il federalismo ha esteso progressivamente la sua portata, fino ad assumere i caratteri di un movimento di dimensioni mondiali. Basta considerare che circa un terzo dell'umanità vive in Stati le cui Costituzioni si definiscono federali. Inoltre, la crisi della formula politica dello Stato nazionale e la tendenza alla formazione di unità politiche multinazionali e di organizzazioni internazionali di dimensioni mondiali (ONU) e regionali (Unione Europea, Lega Araba, Organizzazione per l'Unità Africana ecc.) sono espressioni della direzione generale verso la quale si stanno sviluppando nel nostro tempo la costruzione dello Stato e l'organizzazione internazionale, una direzione che è caratterizzata dall'emergere di elementi di federalismo.
In particolare, la riflessione sul processo di unificazione europea ha portato a maturazione sviluppi originali della teoria federalistica. La ricerca dell'unità da parte dell'Europa rappresenta infatti il tentativo più consistente di superare la formula politica dello Stato nazionale, la quale ha portato fino alle estreme conseguenze il principio della divisione del genere umano in comunità chiuse, uniformi, ostili e bellicose: un principio del tutto incompatibile con le esigenze più profonde del mondo contemporaneo. D'altra parte, bisogna considerare le difficoltà che comporta lo sforzo di superare le divisioni tra nazioni, consolidate da secoli di vita statuale indipendente, e l'assoluta novità del tentativo di trovare una formula che assicuri la convivenza pacifica tra Stati nazionali. Visto in questa prospettiva, il problema dell'unificazione europea esige la creazione di una forma di Stato del tutto originale, con contenuti politici e sociali completamente nuovi, di cui le federazioni del passato costituiscono soltanto un pallido antecedente. La ricerca di nuove soluzioni al problema di associare in modo stabile Stati indipendenti rappresenta in questo senso un potente stimolo a rinnovare la teoria federalistica.
La crisi dello Stato nazionale si manifesta, però, anche in una direzione opposta, che si esprime nei movimenti per l'autogoverno regionale e locale, cioè nella tendenza al superamento degli aspetti accentratori e autoritari dello Stato nazionale. Soprattutto nelle società industriali avanzate, coinvolte nella rivoluzione scientifica, la quale crea nuove forme di società e di economia, si stanno creando le condizioni per sviluppare una forma di organizzazione dello Stato pluralistica e decentrata e per rinnovare, in relazione ai problemi della società postindustriale, le strutture del federalismo classico. Mentre per il passato il federalismo si è proposto come un modello di organizzazione delle società politiche fondato sulla progressiva integrazione di comunità originarie in comunità di più vaste proporzioni, oggi di federalismo si ragiona anche con riguardo a transizioni istituzionali che implicano la devoluzione di poteri di Stati più o meno accentrati a enti di minori dimensioni, preesistenti o istituiti ex novo.
Lo Stato nazionale è nello stesso tempo troppo piccolo e troppo grande. Da una parte, è troppo piccolo per far fronte ai problemi economici, ambientali e di sicurezza, che hanno assunto una dimensione internazionale e derivano dalla sempre più stretta interdipendenza tra i popoli e dalla crescente integrazione tra le economie. D'altra parte, è troppo grande per risolvere i problemi locali, come quelli della cultura, della scuola e del territorio, e per consentire un'effettiva partecipazione e un reale controllo degli individui nei confronti delle collettività territoriali più piccole, dove si svolge la loro vita concreta e dove è possibile organizzare un autentico autogoverno locale. La soluzione che il federalismo appare oggi suggerire consiste sostanzialmente nella limitazione del potere dello Stato nazionale e nel trasferimento di alcune competenze verso l'alto (le organizzazioni internazionali regionali, come l'Unione Europea, e mondiali, come l'ONU) e verso il basso (comunità territoriali minori, come le Regioni e i Comuni).
Confederazione e Stato federale
Una prima distinzione da tenere presente per avvicinarsi alla problematica attuale del federalismo è quella tra confederazione e Stato federale.
La confederazione è un sistema di Stati nel quale ciascun componente conserva la propria sovranità; è un'unione paritaria fra Stati, in quanto i singoli componenti, oltre a mantenere la piena sovranità, sono considerati fra loro pariordinati. I vincoli che danno luogo alla confederazione sono disciplinati dal diritto internazionale, scaturente dai trattati che danno origine all'organizzazione confederativa. Gli Stati membri dell'organizzazione generata dall'accordo mantengono la loro sovranità, che l'accordo stesso variamente limita, e l'attribuzione di poteri più o meno ampi all'organizzazione costituita non significa attribuzione di sovranità, ma di un'autonomia la cui ampiezza è determinata dalla volontà sovrana dei costitutori. I vincoli giuridici che uniscono comunità, Regioni, Stati nell'ambito di uno Stato qualificato come 'federale' o 'regionale' sono disciplinati, invece, dal diritto costituzionale interno a un ordinamento statale, che possiede le caratteristiche convenzionali della sovranità. Pertanto Stati membri, Regioni, comunità non sono soggetti dotati di sovranità bensì di forme più o meno forti di autonomia garantita dalle singole Costituzioni.
In altri termini, mentre la confederazione non è uno Stato ma una somma di Stati, i quali mantengono la sovranità, quello federale è uno Stato, dotato di un potere al di sopra delle parti componenti, il cui governo gli individui concorrono a formare secondo procedure democratiche. Qualunque sia la natura del processo federativo, per aggregazione di elementi preesistenti o per decentramento del potere in seno a uno Stato unitario, al governo federale è sempre attribuita una quantità di competenze sufficienti ad assicurare l'unità politica ed economica della federazione. Nello Stato federale si concilia il principio dell'unità dello Stato con quello dell'autonomia degli enti territoriali politici, variamente denominati (Stati, paesi, comunità, cantoni, regioni, province), che sono ricompresi nell'ambito statale e disciplinati dalla stessa Costituzione federale. Il principio federale vale dunque, in modo specifico, a regolare l'assetto del potere di decisione politica ripartito fra Stato federale e Stati membri, fra centro e periferia, e i rapporti fra Stato federale e sue componenti sono disciplinati dal diritto costituzionale dello Stato federale.
Ben distinti e separati come forme giuridiche, confederazione e Stato federale registrano, sotto il profilo storico, elementi di collegamento e di continuità. In effetti, la storia dimostra come alcuni ordinamenti statali definiti federali siano il punto terminale di un processo di aggregazione fra Stati sovrani iniziato sotto la vigenza del diritto pattizio internazionale e terminato sotto quella di un nuovo diritto costituzionale statale. Questo è quanto è accaduto, per es., nel caso degli Stati Uniti, con il passaggio dagli Articles of confederation del 1777 alla Costituzione federale del 1787, o nel caso della Svizzera o della Germania. Non sempre, ovviamente, dalla confederazione nasce uno Stato federale, come dimostrano numerosi altri casi in cui confederazioni si sono disciolte lasciando sussistere gli Stati unitari che a esse avevano dato vita.
Il modello della successione storica dal vincolo internazionale a quello costituzionale è alla base dell'auspicato passaggio da un'unione internazionale prevalentemente basata su vincoli di integrazione economica, qual era quello rappresentato dalle Comunità Economiche Europee, a un vero e proprio ordinamento federale inglobante gli attuali Stati membri dell'UE. Negli ordinamenti delle Comunità Europee si riscontrano elementi che richiamano lo schema organizzativo confederale: permanenza della sovranità degli Stati partecipanti e loro pari ordinazione, disciplina di natura internazionale fissata in trattati, significativo ruolo degli Stati nel processo decisionale politico. Tuttavia, è particolarmente sviluppata la struttura organizzativa basata sui trattati, caratteristica delle più recenti organizzazioni internazionali, in quanto vastissime sono le competenze attribuite alla Comunità, dirette a consentire una forma molto accentuata di integrazione economica. In pratica, gli ordinamenti dei singoli Stati, attraverso l'interpretazione estensiva di proprie clausole costituzionali, hanno previsto e permesso forme di autolimitazione del proprio potere sovrano, consentendo una prevalenza del diritto comunitario su quello disciplinato dal sistema ordinario e assicurando in tal modo una riserva di competenze degli organi comunitari. Ciò indica che in vasti e significativi settori le fonti comunitarie prevalgono su quelle nazionali. Tuttavia va sottolineato che ciò non avviene per forza propria e originaria delle fonti comunitarie (che non sono espressione di potere sovrano, ma soltanto di una forma di autonomia riconosciuta dagli Stati), bensì in seguito a un'autolimitazione del potere statale e, almeno nell'attuale fase storica degli ordinamenti, in vista della soddisfazione di interessi comuni agli Stati, fissati in trattati internazionali.
Stato federale e Stato regionale
Un'altra distinzione cui si fa ricorso quando si parla di soluzioni organizzative relative ai rapporti centro-periferia è quella tra Stato federale e Stato regionale. Dal punto di vista storico, lo Stato regionale è il risultato del processo attraverso il quale alcuni paesi - come, per es., per restare in Europa, Spagna, Italia, Portogallo, Belgio, Francia - sono approdati alla garanzia delle autonomie regionali provenendo da ordinamenti accentrati. In altre parole, il cosiddetto modello regionale è stato costituito indagando vicende istituzionali caratterizzate da processi di decentramento politico di ordinamenti unitari (dal centro verso la periferia), in contrapposizione al modello federale, conseguenza dell'inverso processo di aggregazione (dalla periferia verso il centro). Questa contingenza storica, che sta alla base della contrapposizione fra i due modelli, fa sì che quella tra Stato federale e Stato regionale si caratterizzi comunemente come una distinzione qualitativa, in base a una supposta differenza nel tipo di autonomia che caratterizza gli enti territoriali compresi nello Stato unitario regionalizzato rispetto a quella che caratterizza gli Stati membri di uno Stato federale. Tale differenza riguarda la natura del potere, in quanto, mentre a proposito degli Stati membri dello Stato federale permane l'equivoco di una loro sovranità o statalità o almeno di un'autonomia costituzionale, per le Regioni non si va oltre una forma di autonomia politica. Ma riguarda anche, in una prima approssimazione, i criteri di attribuzione delle competenze: nello Stato federale sono codificate le competenze centrali, restando le rimanenti agli Stati membri, mentre in quello regionale, all'inverso, sono codificate quelle regionali, restando le residue allo Stato.
A ben guardare, però, questa distinzione così netta permane solo se si rimane alla superficie dei fenomeni. Per quanto riguarda la supposta differenza 'qualitativa' del potere, si è notato come il potere di cui godono gli Stati membri di uno Stato federale non abbia le caratteristiche della sovranità, bensì dell'autonomia. Dal punto di vista qualitativo il potere delle Regioni e quello degli Stati membri non presenta differenze: entrambi debbono ritenersi condizionati dalle Costituzioni degli Stati che inglobano gli enti politici territoriali. Né appare discriminante il criterio di attribuzione delle competenze e della titolarità dei poteri residui: l'assegnazione in Costituzione delle competenze allo Stato centrale non è caratteristica dei soli Stati qualificati come federali, e non è vero che le competenze residue nello Stato regionale spettano sempre allo Stato centrale. Numerose esemplificazioni tratte dalle normative costituzionali di diversi paesi sembrano comprovare quanto sia debole la contrapposizione fra modello di Stato federale e modello di Stato regionale.
Stato federale e Stato regionale non differiscono, dunque, dal punto di vista tipologico: si tratta sempre di ordinamenti statali unitari che garantiscono l'autonomia politica di ordinamenti territoriali in essi ricompresi. La differenza tra i due modelli convenzionali è dunque soltanto quantitativa, non qualitativa, poiché di regola nello Stato convenzionalmente definito federale il volume delle funzioni legislative, amministrative e giurisdizionali e degli ambiti di competenza assegnati dalla Costituzione agli enti territoriali è più ampio e consistente di quello presente negli Stati qualificati come regionali. In realtà, ad accomunare complessivamente i modelli federali e i modelli regionali sono gli obiettivi sostanziali da essi perseguiti, obiettivi che attengono particolarmente a esigenze che si possono così elencare: 1) trovare punti di riferimento istituzionali meno vasti e distanti dalle richieste dei cittadini di quanto non siano gli Stati; aspirazione che assume oggi un particolare rilievo, dinanzi alla crisi della sovranità statale, in un quadro contrassegnato da elementi di sovranazionalizzazione (particolarmente in ambito europeo) e di globalizzazione; 2) dare risposta alla crisi dello Stato nazionale e alla sempre più evidente inadeguatezza di ogni soluzione che tende a tenere in un unico centro il potere democratico: identificando livelli istituzionali dotati di caratteristiche demografiche, territoriali, finanziarie sufficientemente ampie da consentire il governo dei problemi che presenta un'area vasta, ma anche sufficientemente vicine ai cittadini da consentire circuiti più funzionali di partecipazione e di responsabilizzazione; 3) trovare soluzioni adeguate per istanze e peculiarità locali, garantendo le minoranze, prevenendo o tenendo sotto controllo i contrasti territoriali, costituendo istituzioni in grado di contemperare e bilanciare gli interessi delle distinte aree territoriali e, in definitiva, superando fenomeni di campanilismo.
In sostanza, alla base delle istanze federalistiche o di quelle regionalistiche vi sono i medesimi criteri di autogoverno, efficienza, trasparenza, responsabilità e adattabilità alle specifiche esigenze e preferenze dei cittadini. Il dato di fondo che sembra emergere con sempre maggiore evidenza, sia in Italia sia in Europa, è il diffondersi di tendenze al rafforzamento delle autonomie regionali, con un significativo riequilibrio di poteri tra esse e lo Stato. Nel quadro di queste tendenze le distinzioni reali non possono tracciarsi sulla base di una (inesistente) antinomia federalismo/regionalismo. Le contrapposizioni più rilevanti e sostanziali riguardano, semmai, le concezioni di un federalismo (o regionalismo) 'duale', basato essenzialmente sulle garanzie di non ingerenza tra Stato e autonomie e su funzioni rigidamente separate, e le prospettive di un federalismo (o regionalismo) 'cooperativo' o 'solidale', con una forte valorizzazione dei momenti di collaborazione, di compartecipazione e di codecisione tra i vari livelli, in un quadro condizionato dall'obiettivo fondamentale di garantire comunque a tutti i cittadini un medesimo nucleo di condizioni di vita.
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Il dibattito in Italia
Il dibattito su centralismo e autonomie ha caratterizzato la storia costituzionale italiana fin dall'Unità. Già le fasi centrali del Risorgimento erano state contrassegnate dalla presenza di importanti istanze federalistiche, da quelle liberali, progressiste e repubblicane di Carlo Cattaneo a quelle neoguelfe di Vincenzo Gioberti, né rimase estraneo all'epoca dell'unificazione un rilevante dibattito sul regionalismo. Giuseppe Mazzini, nel 1861, richiamava con forza la necessità di creare le Regioni, quali zone intermedie accomunate "dai caratteri territoriali secondari, dai dialetti e dal predominio delle attitudini agricole, industriali o marittime", indicando i vantaggi del sistema regionale nel fatto che, tra l'altro, esso "spegnerebbe il localismo gretto, darebbe all'unità forze sufficienti per tradurre in atto ogni processo possibile nella loro sfera, e farebbe più semplice e spedito assai l'andamento, oggi intricatissimo e lento, della cosa pubblica". In questa direzione si orientava una proposta approvata dal Consiglio dei ministri, sotto la presidenza di Camillo Cavour, in cui le Regioni si configuravano sia come circoscrizioni dell'amministrazione periferica dello Stato, sia come enti autarchici, e precisamente come consorzi obbligatori tra province. Il progetto sollevò rilevanti resistenze del Parlamento, che lo respinse, optando decisamente per un'estensione all'intero territorio italiano del modello accentrato di amministrazione già adottato in Piemonte nel 1859.
Questo modello era destinato a perdurare a lungo, mentre le proposte favorevoli al regionalismo restavano in posizione marginale nel dibattito politico. D'altronde, con il trascorrere del tempo, esse venivano assumendo valenze diverse: e se all'epoca dell'unificazione amministrativa la regionalizzazione poteva essere finalizzata a graduare, senza traumi, il trapasso da sette legislazioni a una, vent'anni dopo, compiuta l'unificazione, alle Regioni si poteva guardare come a un fondamentale perno di decentramento delle funzioni dello Stato e di redistribuzione della spesa pubblica. Ancora fortemente minoritario alla fine del 19° secolo, il regionalismo trovava peraltro sostegno da parte di voci significative e autorevoli che, riprendendo i valori della tradizione repubblicana, della sinistra liberale, del socialismo, si connettevano, in particolare con Gaetano Salvemini, alle analisi e agli obiettivi propri del meridionalismo. Sulla base di questi diversificati punti di riferimento, le tendenze regionalistiche assumevano nel primo dopoguerra il senso di una forte prospettiva di revisione complessiva dell'assetto dello Stato. E a questa prospettiva si ispirava il programma del Partito popolare italiano del 1919. Centrale è, in questo, il ruolo di Luigi Sturzo, convinto sostenitore di un ente regionale che fosse "elettivo, rappresentativo, autonomo-autarchico, amministrativo-legislativo […] concepito come una unità convergente non divergente dallo Stato".
In termini concreti la questione regionale si pose però solo con la fine del rigido centralismo che aveva caratterizzato il ventennio fascista. Ciò avvenne dapprima in alcune situazioni specifiche, ove già nel 1944-45 si affermavano peculiari forme di governo regionale (Sardegna, Valle d'Aosta, Sicilia), quindi in seno all'Assemblea costituente, ove il principio regionalistico fu oggetto del dibattito più prolungato e tormentoso. In tale confronto le diverse opzioni convissero, spesso, all'interno delle medesime aree politico-culturali. L'evolversi degli eventi generali (a partire dall'estromissione delle sinistre dal governo) comportò non secondari mutamenti di posizioni; sì che la definizione di questa parte della Carta costituzionale risultò incerta fino alle ultime fasi dei lavori costituenti. Il risultato fu un compromesso, che alterna a spunti fortemente avanzati il mantenimento di meccanismi ereditati dalla tradizione dello Stato accentrato. Il riconoscimento costituzionale delle autonomie regionali è comunque sancito: le Regioni sono titolari di poteri di rango anche legislativo, in una serie di materie elencate dalla Costituzione stessa. E, se non manca una rilevante gamma di interventi di controllo da parte di organi statali, la Corte Costituzionale si configura come supremo garante del rispetto delle sfere di autonomia costituzionalmente stabilite. D'altronde, le alternative discusse nei lavori costituenti si erano concentrate essenzialmente sulle Regioni cosiddette a statuto ordinario, definite in numero di quindici; per le rimanenti (Sicilia, Sardegna, Valle d'Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia) l'Assemblea costituente si trovò talora di fronte a vincoli di carattere internazionale e, comunque, a forme di autonomia già riconosciute.
Le disposizioni costituzionali rimasero a lungo inattuate: mentre le Regioni ad autonomia speciale avviavano la propria esperienza in una situazione di isolamento, prevaleva decisamente un clima di complessiva sfiducia e disattenzione per la questione regionale, che venne superato soltanto alla fine degli anni Sessanta, in un quadro di forte tensione riformatrice. Questa tensione portò il Parlamento, superando l'ostruzionismo delle forze antiregionaliste, ad approvare le indispensabili leggi di disciplina elettorale (1968) e finanziaria (1970), avviando così una 'fase costituente' delle Regioni ordinarie che si sarebbe compiuta con la prima elezione dei consigli regionali (6 giugno 1970), con l'approvazione degli statuti (maggio-luglio 1971) e con l'emanazione dei decreti di trasferimento delle funzioni in precedenza esercitate dai Ministeri (gennaio 1972). Basati su interpretazioni fortemente riduttive delle materie costituzionalmente spettanti alle Regioni, questi decreti lasciarono peraltro profondamente insoddisfatte le forze regionaliste, dando luogo a lunghe e complesse polemiche che portarono, tra il 1975 e il 1977, a un sostanziale ridisegno delle funzioni regionali. In questo (inadeguato) quadro normativo, e in un contesto di diffusa inefficienza amministrativa, la regionalizzazione ha dato luogo a un'esperienza complessivamente deludente o, comunque, fortemente variegata. Su questo sfondo le istanze del regionalismo, lungi dall'esaurirsi, hanno ripreso fiato alla fine degli anni Ottanta, puntando ormai a una revisione della stessa Costituzione.