Federalismo
Il federalismo, nato come teoria di una forma di governo, per risolvere i problemi di un caso isolato, la formazione degli Stati Uniti d'America, e poi di altre società marginali rispetto ai centri propulsori della politica mondiale (la Svizzera, il Canada, l'Australia), ha esteso progressivamente la sua portata, fino ad assumere i caratteri di un movimento di dimensioni mondiali. Basta considerare che circa un terzo dell'umanità vive in Stati le cui costituzioni si definiscono federali. Inoltre, la crisi della formula politica dello Stato nazionale e la tendenza alla formazione di unità politiche multistatali e multinazionali (Stati Uniti, Cina, India, ecc.) e di organizzazioni internazionali di dimensioni mondiali (ONU) e regionali (Comunità Europea, Lega Araba, Organizzazione per l'Unità Africana, Associazione tra le nazioni del Sudest Asiatico, ecc.) sono espressioni della direzione generale verso la quale si stanno sviluppando nel nostro tempo la costruzione dello Stato e l'organizzazione internazionale, una direzione che è caratterizzata dall'emergere di elementi di federalismo. In particolare, la riflessione sul processo di unificazione europea ha portato a maturazione gli sviluppi più profondi della teoria federalistica. La ricerca dell'unità da parte dell'Europa rappresenta infatti il tentativo più consistente di superare la formula politica dello Stato nazionale, la quale ha portato fino alle estreme conseguenze il principio della divisione del genere umano in comunità chiuse, uniformi, ostili e bellicose: un principio radicalmente incompatibile con le esigenze più profonde del mondo contemporaneo. D'altra parte, bisogna considerare le difficoltà che comporta il tentativo di superare le divisioni tra nazioni, consolidate da secoli di vita statuale indipendente, e l'assoluta novità del tentativo di trovare una formula che assicuri la convivenza pacifica tra Stati nazionali, un'impresa che non ha precedenti nella storia. Non si può quindi che giungere alla conclusione che il problema dell'unificazione europea esige la creazione di una forma di Stato del tutto nuova, con dei contenuti politici e sociali completamente nuovi, di cui le federazioni del passato costituiscono soltanto un pallido antecedente. La ricerca di nuove soluzioni al problema di associare in modo stabile Stati indipendenti rappresenta una sfida per la ragione e un potente stimolo a rinnovare la teoria federalistica.
La crisi dello Stato nazionale si manifesta anche in una direzione opposta, che si esprime nei movimenti per l'autogoverno regionale e locale, cioè nella tendenza al superamento degli aspetti accentratori e autoritari dello Stato nazionale. Soprattutto nelle società industriali avanzate, coinvolte nella rivoluzione scientifica, la quale crea nuove forme di società e di economia, si stanno creando le condizioni per sviluppare una forma di organizzazione dello Stato pluralistica e decentrata e per rinnovare, in relazione ai problemi della società postindustriale, le strutture del federalismo classico.
Rispetto ai cambiamenti, che ho illustrato sopra, la vecchia concezione del federalismo, intesa come teoria puramente istituzionale, si è rivelata del tutto inadeguata. Essa ha indubbiamente carattere riduttivo. In primo luogo, perché la conoscenza di uno Stato non è completa se non si prendono in considerazione le caratteristiche della società, che permettono di mantenere e di far funzionare le istituzioni politiche. E quindi, se lo Stato federale è una formazione politica dotata di proprie caratteristiche, che la distinguono dagli altri tipi di Stato, dobbiamo ipotizzare che abbiano qualche carattere federale i comportamenti di coloro che vivono in questo Stato.
In secondo luogo, si sono diffusi sempre più largamente comportamenti federalistici anche fuori degli Stati federali. In Europa e progressivamente negli altri continenti, prima individui isolati, poi veri e propri movimenti organizzati hanno impiegato principi federalistici per definire il loro atteggiamento politico. Così il federalismo ha sviluppato una relazione profonda con le trasformazioni in corso nella storia contemporanea e si è arricchito di nuove categorie di analisi. Il suo significato ha subito un'evoluzione e un approfondimento continui, per dare una risposta ai sempre nuovi problemi posti dal processo storico. Il senso di questo sviluppo è la progressiva affermazione dell'autonomia teorica del federalismo rispetto alle altre ideologie.Il tentativo più organico di dominare teoricamente la tendenza del federalismo verso la globalità è quello intrapreso da Mario Albertini (v., 1979), il quale definisce il federalismo come un'ideologia che ha un suo aspetto di struttura (lo Stato federale), un aspetto di valore (la pace) e un aspetto storico-sociale (il superamento della divisione della società in classi e in nazioni). Mi servirò di questo schema interpretativo, che permette di organizzare in modo coerente l'analisi degli aspetti fondamentali del federalismo.
L'aspetto istituzionale del federalismo è certamente il più conosciuto e il più studiato. L'esigenza di fondare la trattazione dell'argomento sul solido terreno di dati conoscibili e descrivibili in chiari termini concettuali consiglia di cominciare l'esposizione da quel complesso dialettico di teorizzazioni e di azioni politiche che hanno portato alla formazione degli Stati Uniti d'America, la prima federazione della storia e, nello stesso tempo, l'esperienza costituzionale più rilevante, anche se parzialmente sviluppata, nel settore delle istituzioni federali.
Le colonie inglesi della fascia atlantica dell'America del Nord, divenute nel 1776 tredici repubbliche indipendenti, costituirono un'organizzazione internazionale, regolata dagli Articles of confederation, che non limitava la sovranità degli Stati. Solo nel 1787 la Convenzione di Filadelfia riformò la confederazione e diede vita al primo esempio di patto federale tra Stati sovrani, che segna la nascita di una nuova forma di Stato.La Costituzione federale è nata dal compromesso tra due esigenze politiche contraddittorie: unificare i tredici Stati e mantenere la loro indipendenza. L'orizzonte teorico, nell'ambito del quale si muovevano le due correnti politiche che si scontrarono durante la Convenzione di Filadelfia, era il modello dello Stato unitario. Era questo il solo paradigma che permettesse di dominare teoricamente e praticamente la vita politica. La prima corrente voleva creare uno Stato unitario che comprendesse i tredici Stati, la seconda corrente voleva mantenere la sovranità degli Stati, pur proponendosi di perfezionare l'organizzazione comune. Ma nessuno aveva progettato il disegno della federazione. Per quanto la Costituzione federale fosse qualcosa che nessuno aveva voluto né previsto, essa rappresentò un compromesso creativo, che diede vita a una forma di organizzazione politica che non era mai esistita prima e che permetteva di conciliare l'unità con la diversità.Alexander Hamilton percepì subito la novità delle istituzioni federali. Con James Madison e John Jay elaborò i saggi del Federalist, una serie di articoli di propaganda politica, scritti nel 1787-1788 per sostenere la ratifica della Costituzione (v. Hamilton e altri, 1961). Essi rappresentano non solo il più vecchio commento della Costituzione degli Stati Uniti, ma sono anche la prima formulazione della teoria dello Stato federale.
Il carattere specifico dell'innovazione costituzionale introdotta dalla Convenzione di Filadelfia consiste nel fatto che essa ha dato origine nello stesso tempo a una nuova forma di organizzazione internazionale e a una nuova forma di Stato.
La federazione è indubbiamente un nuovo modo di organizzare le relazioni tra gli Stati. Se ne può apprezzare pienamente la novità se si considerano i limiti della precedente forma di organizzazione degli Stati Uniti: la confederazione, di cui la federazione rappresenta il superamento.Mentre la confederazione è un sistema di Stati nel quale ciascun componente conserva il monopolio della forza e, di conseguenza, l'organizzazione comune non limita la sovranità dei singoli Stati, la federazione è un'organizzazione internazionale dotata di un potere al di sopra degli Stati. Essa è uno Stato, dotato di un potere diretto sugli individui, il cui governo gl'individui concorrono a formare secondo procedure democratiche.Al contrario, la confederazione non è uno Stato, ma una somma di Stati, i quali mantengono la sovranità assoluta ed esercitano un potere esclusivo sugli individui. Come osservò Hamilton nel Federalist, la sua sostanza politica è quella di un'alleanza, dotata di un organismo diplomatico permanente, destinato a risolvere i conflitti tra gli Stati membri.
Resta il fatto che questo organismo è subordinato agli Stati: riflette le relazioni di potere esistenti tra gli Stati, ma non le domina, e quando gli Stati non riescono a trovare un accordo volontario, non ha mezzi per impedire il ricorso alla forza. Non è quindi un rimedio efficace all'anarchia internazionale, né un'alternativa alle gerarchie di potere, che si formano normalmente nella politica internazionale tra Stati forti e Stati deboli.
Se le gerarchie di potere tra gli Stati servono a facilitare le decisioni comuni, tuttavia, quando sono in gioco interessi vitali degli Stati, le decisioni sono prese all'unanimità. Ciò significa che un solo Stato può paralizzare con il proprio veto il processo di formazione delle decisioni politiche, imponendo la volontà di una minoranza a quella della maggioranza. È evidente che le confederazioni non sono organizzazioni democratiche, perché si basano sul principio dell'uguaglianza degli Stati e non dei cittadini. Infatti esse attribuiscono un voto a ogni Stato e non a ogni cittadino. Escludendo il popolo dalle decisioni che riguardano le relazioni tra gli Stati, non impiegano procedure per decidere, secondo i principi democratici, a maggioranza.
Va segnalato che la distinzione tra confederazione e federazione e la critica dei limiti della confederazione conservano una funzione insostituibile nel valutare i difetti delle organizzazioni internazionali contemporanee. Le categorie di analisi mutuate dal Federalist e dall'esperienza costituzionale degli Stati Uniti sono state utilizzate già nel 1918, prima da Luigi Einaudi in alcuni articoli pubblicati sul "Corriere della Sera" e raccolti in seguito in volume (v. Einaudi, 1948), e poi da Giovanni Agnelli e Attilio Cabiati (v., 1918) per illustrare i limiti della Società delle Nazioni e contrapporvi l'alternativa della federazione europea. Altri autori, ricorrendo alla teoria dello Stato federale, hanno criticato i limiti dell'ONU - per esempio Emery Reves (v., 1945) e Grenville Clark e Louis B. Sohn (v., 1958) - o della Comunità Europea - per esempio Altiero Spinelli (v., 1960) e Mario Albertini (v., 1965). Ciò che li accomuna tutti è la consapevolezza che le organizzazioni internazionali di stampo confederale, non limitando la sovranità degli Stati, non sono in grado di prevenire la guerra e di garantire la pace.
Le costituzioni federali, nate dall'unione di un gruppo di Stati, si fondano su un patto (la parola federazione deriva da foedus, che in latino significa patto), cioè su un trattato che definisce la distribuzione del potere in seno all'unione. Così gli Stati mantengono alcuni dei loro caratteri originari e, in particolare, un potere indipendente in un numero limitato, ma ben definito, di settori. Analogamente, il governo federale ha un potere limitato, ma reale, in altri settori.Va segnalato poi che le istituzioni federali possono essere il risultato di un processo di decentramento del potere in seno a uno Stato unitario (così è nata la Repubblica Federale di Germania). Ma, qualunque sia la natura del processo federativo (l'autore che ha dato il maggior contributo allo studio del federalismo come processo è C. J. Friedrich: v., 1968), al governo federale è sempre attribuita una quantità minima di competenze sufficienti ad assicurare l'unità politica ed economica della federazione. Le competenze esclusive in materia di politica estera e di difesa permettono di eliminare i confini militari tra gli Stati. Le competenze esclusive in materia monetaria e doganale e le competenze concorrenti (che il governo federale condivide con i governi degli Stati) in materia fiscale e di bilancio permettono di eliminare gli ostacoli all'unificazione del mercato. D'altra parte, ai governi degli Stati è attribuita piena capacità di autogoverno in tutte le materie non espressamente attribuite al governo federale. In questa sfera gli Stati non sono subordinati al potere centrale, come avviene negli Stati unitari, ma sono pienamente indipendenti.
La relazione tra i due livelli di governo della federazione non è dunque un rapporto gerarchico tra superiore e inferiore, ma un rapporto di coordinamento tra poteri indipendenti. Questo è l'aspetto essenziale delle istituzioni federali, come fu definito da Albert V. Dicey (v., 1885). Lo studioso che ha dato un contributo fondamentale all'analisi dell'aspetto istituzionale del federalismo è Kenneth C. Wheare, il quale (v., 1946; tr. it., p. 26) definisce il principio federale come "quel sistema di divisione dei poteri che permette al governo centrale e a quelli regionali di essere, ciascuno in una data sfera, coordinati e indipendenti". Lo schema di distribuzione del potere nello Stato federale ha dunque un duplice scopo: mantenere stabilmente l'unione tra gli Stati e assicurare a ciascuno Stato la propria indipendenza.
Nello Stato federale la distribuzione delle competenze tra governo federale e governi regionali permette di organizzare il potere politico in modo che questi due ordini di poteri agiscano autonomamente ciascuno nella propria sfera. Di conseguenza, ogni punto del territorio e ogni individuo appartengono contemporaneamente a due Stati (lo Stato membro e lo Stato federale), i quali sono coordinati tra di loro in modo che non venga meno l'unità di decisione su ogni problema. La novità delle istituzioni federali consiste nel fatto che la distribuzione del potere è organizzata in modo tale che alcuni centri di potere hanno l'ultima parola in certe materie, altri in altre, senza che si stabiliscano relazioni gerarchiche tra i diversi poteri 'co-sovrani'. Ciò non significa che nello Stato federale la sovranità sia divisa, come sostengono gli autori del Federalist; essa è articolata in una pluralità di centri di potere: il governo federale e i governi degli Stati. Sono infine da ricordare ancora due tipici requisiti delle istituzioni federali. Il primo riguarda il potere di emendamento della costituzione, che non può dipendere da un'iniziativa unilaterale né del governo federale né dei governi degli Stati, ma deve essere esercitato in cooperazione dalle due autorità oppure direttamente dal popolo tramite referendum. Il secondo riguarda le risorse finanziarie, che tanto le autorità federali quanto quelle statali devono possedere per esercitare le funzioni attribuite loro dalla costituzione. L'espressione 'federalismo fiscale' designa l'insieme dei meccanismi che servono a far affluire a ogni centro di potere le risorse proprie, che costituiscono la base finanziaria di un'azione politica indipendente.
D'altra parte, non bisogna dimenticare che il governo federale è organizzato, come i governi degli Stati, sulla base del principio della divisione dei poteri. Ciò significa che l'unità politica della federazione è assicurata: a) da assemblee legislative che approvano le leggi; b) da corti di giustizia indipendenti e imparziali, che irrogano le pene nei confronti di chi viola le leggi; c) da un governo dotato della forza necessaria a dare esecuzione alle leggi. Ciò permette di distinguere nettamente la pace organizzata per mezzo delle istituzioni federali da quella che si può ottenere mediante un impero. Mentre la pace in un impero si fonda, in ultima istanza, sull'attribuzione di poteri coercitivi al governo centrale, in una federazione la conservazione della pace poggia su più solide garanzie. Il primato del diritto sulla forza è assicurato, in primo luogo, dal potere, attribuito a un giudice indipendente e imparziale, di risolvere i conflitti tra gli Stati e, inoltre, dal consenso e dalla partecipazione popolare, su cui si fonda il processo di formazione delle leggi. È opportuno esaminare separatamente questi due requisiti delle istituzioni federali.
Poiché in una federazione il potere è distribuito su base territoriale, l'equilibrio costituzionale non può mantenersi senza la supremazia della costituzione, la quale deve essere fatta valere dai giudici. Non ne consegue però la prevalenza del giudiziario sugli altri poteri dello Stato. Come ha rilevato Hamilton nel Federalist, "il giudiziario [...] non ha nessuna influenza né sulla spada né sulla borsa [...]; esso è senza paragone il più debole dei tre poteri dello Stato [...], non può attaccare con successo uno degli altri due".In realtà, l'autonomia del modello federale consiste nel fatto che il potere di decidere in concreto quali siano i limiti che i due ordini di poteri non possono oltrepassare non spetta né al potere centrale (come avviene nello Stato unitario, dove le collettività territoriali più piccole fruiscono di un'autonomia delegata) né agli Stati (come avviene nel sistema confederale, dove la sovranità assoluta degli Stati non subisce limitazioni). Spetta invece a un'autorità neutrale (la magistratura), alla quale è conferito il potere di annullare le leggi e i regolamenti non conformi alla costituzione. Il potere giudiziario è stato concepito come un corpo intermedio tra il governo federale e gli Stati, con il compito di mantenere ogni organo dello Stato nella sua sfera di competenza. Esso è dunque la chiave di volta dell'edificio federale, perché ha la responsabilità di garantire la supremazia della costituzione su tutti i poteri e di salvaguardare l'unità dello Stato e dell'ordinamento giuridico.
La storia costituzionale degli Stati Uniti ha messo in luce come l'indipendenza del potere giudiziario si sia fondata sull'equilibrio tra il potere centrale e i poteri periferici e come la magistratura abbia potuto assolvere efficacemente alle sue funzioni finché la tendenza all'accentramento del potere, manifestatasi all'epoca delle guerre mondiali e accentuatasi nel secondo dopoguerra, non ha alterato l'equilibrio federale. Ma finché questo equilibrio si è mantenuto, l'esecuzione delle sentenze è stata assicurata dal fatto che i giudici sono stati sostenuti dal governo federale, quando si trattava di annullare una legge di uno Stato membro, o dagli Stati, quando si trattava di annullare un provvedimento del governo federale. In sostanza, in una federazione il potere giudiziario, solo in base alle proprie decisioni, è in grado di ristabilire l'equilibrio dei poteri, come è definito dalla costituzione.
La novità del federalismo, come nuova forma di organizzazione del potere, consiste, come ha scritto Hamilton nel Federalist, nell'"allargamento dell'orbita in cui ruotano [...] i sistemi di governo popolari". Si tratta di un nuovo strumento di governo, che permette di estendere la partecipazione democratica e il controllo popolare alla sfera della politica internazionale, che appartiene ancora allo stato di natura e costituisce il terreno dello scontro diplomatico e militare tra gli Stati.In sostanza, le istituzioni federali introducono un nuovo meccanismo costituzionale, che permette di realizzare la democrazia internazionale. Si tratta di un'invenzione che non ha ancora esaurito il suo significato per quanto riguarda la sua influenza sulla vita politica contemporanea.
Lungo tutto il corso della storia, la formazione degli Stati è stata fortemente condizionata dallo spazio. Fino alla rivoluzione industriale, non è stato possibile organizzare un governo libero se non in Stati di piccolissime dimensioni.
Tutta la tradizione del pensiero politico occidentale, da Aristotele a Rousseau, è concorde nel sostenere che la piccola dimensione dello Stato rappresenta la condizione fondamentale della libertà politica, perché permette una maggiore partecipazione alla formazione delle decisioni politiche (incontrarsi nelle assemblee, dibattere, votare, ecc.) e un controllo più diretto del governo. Rousseau, dal canto suo, percepì che la piccola dimensione ha un costo: non garantisce l'indipendenza nei confronti delle grandi potenze, cioè degli Stati di grandi dimensioni, nei quali, finché la democrazia non ha trovato le istituzioni per governare vasti territori, hanno prevalso le tendenze oligarchiche e autoritarie.
Di conseguenza, il potere di decisione sul piano internazionale tende a spostarsi dalle libere istituzioni a potenti centri di potere internazionali, che si sottraggono al controllo popolare. È così che la libertà delle città-Stato della Grecia antica tramontò quando ai loro confini si formò l'Impero macedone. Analogamente, nel XX secolo, l'emergere delle superpotenze di dimensioni continentali a struttura multinazionale o federale ha eclissato i vecchi Stati nazionali europei.
Rousseau, nel Contratto sociale (1762), prendendo in considerazione i limiti del piccolo Stato, formulò la proposta di raggrupparli in una confederazione (soluzione intermedia tra la federazione e una semplice alleanza), che, a suo avviso, avrebbe consentito di "riunire la potenza esterna di un grande popolo con il governo semplice e il buon ordine di un piccolo Stato". Anche Kant fece la stessa scelta istituzionale nel saggio Per la pace perpetua (1795), dove prese in esame l'obiettivo del governo mondiale e lo respinse, essendo convinto, come Rousseau, che uno Stato di grandi dimensioni (e a maggior ragione uno Stato mondiale) dovesse comportare la soppressione della libertà.Il fatto è che entrambi erano rimasti prigionieri della teoria dello Stato unitario. La confederazione è una risposta sbagliata al problema dell'allargamento dello Stato. Come hanno messo in luce gli autori del Federalist, essa non possiede un potere proprio, ma è subordinata agli Stati membri ed è quindi insufficiente ad assicurare un'unità politica e una pace stabile. Solo la federazione permette di allargare la dimensione dello Stato democratico e di superare i limiti dello Stato unitario. Come osservò Hamilton nel Federalist, la federazione permette di "conciliare i vantaggi della monarchia con quelli del repubblicanesimo", cioè i vantaggi della grande dimensione con quelli della piccola. Le sue istituzioni contengono la formula per l'applicazione del principio dell'autogoverno a un insieme di piccole repubbliche, incluse nell'ambito di uno Stato democratico che le comprende tutte.
Le istituzioni federali danno vita a una nuova forma di organizzazione dello Stato e di divisione dei poteri. Alla divisione tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario, che costituisce il meccanismo istituzionale sul quale si basa il funzionamento sia degli Stati membri sia del governo federale, aggiungono la divisione territoriale del potere tra governo federale e governi degli Stati. La separazione dei poteri, basata sulla distinzione delle funzioni dello Stato, è abbinata alla divisione sostanziale del potere, derivante dal fatto che su ogni punto del territorio dello Stato federale operano due autorità, ciascuna con proprie competenze e con una distinta base popolare.
È questa la più forte limitazione del potere sovrano che sia mai stata sperimentata, e costituisce quindi la garanzia istituzionale più efficace della libertà politica. Questi requisiti delle istituzioni federali devono essere apprezzati soprattutto se si considerano i caratteri che hanno assunto le società contemporanee in seguito all'affermazione della democrazia. Cadute le funzioni che un esecutivo monarchico e un Senato aristocratico svolgevano nei confronti di una Camera bassa di formazione popolare, e che insieme concorrevano a determinare un controllo diviso del potere, l'equilibrio istituzionale si è alterato, evolvendo verso un sistema di concentrazione dei poteri. Infatti, soprattutto nei regimi parlamentari, il partito (o la coalizione di partiti) che controlla la maggioranza parlamentare, controlla anche il governo.I pericoli per le libere istituzioni possono venire dalla possibile concentrazione del potere, sia nel governo sia nel parlamento. La democrazia moderna dipende necessariamente dall'esercizio del potere legislativo da parte di una, o più spesso di due assemblee. Ma in uno Stato unitario il parlamento non è sufficiente a mantenere una costituzione repubblicana, perché una maggioranza oppressiva può appropriarsi di tutto il potere.
Lo Stato federale è organizzato in modo da consentire l'autogoverno di un insieme di Stati, che operano entro un quadro costituzionale complessivo, con la conseguenza che la stessa maggioranza non può giungere mai a controllare contemporaneamente il governo federale e i governi degli Stati. L'equilibrio tra due ordini di poteri a base democratica è tale da rendere, secondo quanto scrive Hamilton nel Federalist, il popolo "padrone del proprio destino". Infatti "essendo un potere quasi sempre rivale di un altro potere, il governo generale sarà pronto in ogni momento a frenare le usurpazioni dei governi degli Stati e questi avranno la stessa disposizione verso il governo generale. Il popolo, gettandosi dall'una o dall'altra parte della bilancia, ne determinerà infallibilmente la preponderanza. Se i suoi diritti saranno violati da uno dei due poteri potrà ricorrere all'altro per ristabilire l'equilibrio".
Così le istituzioni tipiche dell'accentramento statale (gli eserciti permanenti, fondati sulla coscrizione obbligatoria, la scuola di Stato, i grandi riti pubblici, l'imposizione dello stesso sistema amministrativo e della tutela prefettizia a tutte le collettività territoriali più piccole dello Stato) sono sconosciute e comunque non hanno mai messo profonde radici negli Stati federali o fortemente decentrati. In particolare va segnalato il fatto che le strutture federali, non comportando il conferimento della competenza della pubblica istruzione al governo centrale, che nello stesso tempo controlla l'esercito, reclutato in base alla coscrizione universale obbligatoria, sfuggono alla logica tendenzialmente totalitaria dello Stato nazionale, il quale impiega il suo potere per trasformare i suoi cittadini in buoni soldati.
Va infine sottolineato che in Stati come le repubbliche unitarie, dove il parlamento e il governo sono controllati dalle stesse forze politiche e dove non esiste nessun centro autonomo di potere al di fuori del governo centrale (che controlla attraverso i prefetti gli enti locali e di fatto è arbitro della costituzione), la magistratura perde la propria indipendenza e tende a ridursi quasi a un organo della pubblica amministrazione. A differenza della repubblica unitaria, dove esiste un residuo di assolutismo, perché chi fa la legge non è subordinato alla costituzione, nella federazione, grazie alla concorrenza e alla coesistenza di due ordini di governi democratici e all'attribuzione ai tribunali del potere di decidere sulla divisione del potere, trovano piena realizzazione i principi dello Stato di diritto.
D'altra parte, l'equilibrio costituzionale federale, che permette di conciliare il principio dell'unità della federazione con quello dell'indipendenza delle sue parti, si riflette nella composizione del potere legislativo, un ramo del quale rappresenta il popolo della federazione in misura proporzionale al numero degli elettori, mentre l'altro ramo è eletto dai popoli di ciascuno degli Stati membri con un numero uguale di rappresentanti, indipendentemente dalle differenze di popolazione. Di conseguenza le leggi devono ottenere non solo il consenso della maggioranza dei rappresentanti del popolo della federazione, ma anche quello della maggioranza dei rappresentanti dei popoli degli Stati federati.
Quanto alla struttura dell'esecutivo, la formula presidenziale degli Stati Uniti rappresenta nelle federazioni più un'eccezione che la regola. Bisogna considerare che, nel regime presidenziale, l'organizzazione del potere si fonda sulla divisione tra governo e parlamento, eletti entrambi separatamente dal popolo. L'esperienza costituzionale degli Stati Uniti ha messo in luce che il legislativo e l'esecutivo esprimono spesso diversi e divergenti indirizzi politici e che l'antagonismo tra questi due poteri ha determinato il rischio di paralisi dello Stato nei casi in cui non sia stato possibile giungere a un compromesso. È un rischio che si è rivelato particolarmente grave nel XX secolo, quando si è affermato il ruolo programmatore dello Stato. Ai fini della programmazione, che nella società industriale tende ad assorbire tutte le funzioni del governo, il regime parlamentare sembrerebbe più adeguato. Esso permette infatti di far valere più efficacemente nei confronti del governo gli orientamenti prevalenti nel popolo e, nello stesso tempo, assicura un'azione concertata e quindi il coordinamento e l'unità di indirizzo politico tra gli organi fondamentali dello Stato.
Per quanto riguarda poi il problema della stabilità e dell'efficienza del governo, deve essere infine sottolineato che i regimi parlamentari della Germania e del Regno Unito, grazie al sistema partitico bipolare (che è, a parità di condizioni, il risultato di scelte politico-istituzionali, quali il sistema elettorale, che esclude le formazioni minori, e il decentramento politico, che offre maggiori possibilità di espressione alle nuove istanze emergenti nella società), sono riusciti a ottenere lo stesso risultato dei regimi presidenziali: l'elezione diretta del capo del governo e la scelta del programma di governo da parte degli elettori.È infine da ricordare che, a conferma delle tendenze prevalenti nelle organizzazioni federali del nostro tempo, l'evoluzione istituzionale della Comunità Europea ha imboccato decisamente la via del regime parlamentare.
L'analisi delle istituzioni federali ha permesso di definire la forma di organizzazione del potere necessaria a raggiungere l'obiettivo del federalismo. Questo obiettivo è la pace. Tuttavia, nel pensiero costituzionale americano non si trova una riflessione sul significato storico globale delle istituzioni federali. Esse furono create per riorganizzare le ex colonie dell'America del Nord, cioè con un obiettivo regionale piuttosto che universale. La pace universale e il cosmopolitismo erano a quell'epoca obiettivi pensabili, ma certo non perseguibili sul piano politico. Qui sta la ragione per cui questa dimensione del federalismo sfuggì agli Americani, in conformità con il carattere pragmatico della loro cultura.
È merito di Kant aver sviluppato il pensiero federalista nella direzione della globalità. Egli ha definito il federalismo come negazione della guerra e dell'anarchia internazionale, intese come i fattori primari che mutilano l'uomo e ne inibiscono la capacità di sviluppo, e come teoria della pace, concepita come organizzazione che subordina gli Stati a un potere democratico mondiale e a una legge comune e come condizione dell'emancipazione umana.Il progetto kantiano di pace perpetua (Per la pace perpetua) fu pubblicato nel 1795 durante la Rivoluzione francese, proprio quando cominciava l'era industriale, democratica e nazionale. Mentre la precedente vasta letteratura sulla pace era indirizzata a re, principi e diplomatici e aveva come obiettivo la costruzione di un impero universale o di un migliore equilibrio tra le potenze, l'opera di Kant presenta la pace in termini radicalmente nuovi, come il frutto di una diversa forma di organizzazione internazionale (la federazione). Lo scopo di quest'ultima era quello di unificare i popoli, entrati sulla scena della storia con la Rivoluzione francese, e di creare le condizioni per la concordia e la solidarietà del genere umano attraverso la formazione di un ordine che facesse valere dovunque il diritto.
Secondo Kant, esiste ancora un settore della vita politica (le relazioni internazionali) che appartiene allo stato di natura, ed è uno stato di guerra, potenziale o effettivo, dal quale l'umanità non si è ancora liberata. La soluzione dei conflitti internazionali è affidata alla forza. La guerra è la via che imboccano gli Stati quando gli sforzi della diplomazia sono falliti. Tuttavia la vittoria "non decide la questione di diritto" e il trattato di pace "non pone fine allo stato di guerra". Né l'equilibrio tra le potenze, né il diritto internazionale sono sistemi efficaci per giungere a una pace universale durevole, perché l'ordine che creano non si basa su norme rese efficaci da un potere coercitivo.
La pace, secondo Kant, non è semplicemente quella situazione negativa, l'assenza di guerra o, più precisamente, la tregua nell'intervallo tra due guerre, nell'accezione che il termine ha nel linguaggio comune. Essa è una situazione positiva. È, in altri termini, la situazione che deriva da una precisa organizzazione politica, la federazione, la quale permette di sottoporre al dominio del diritto tutte le relazioni sociali, in particolare la sfera delle relazioni internazionali.
Di conseguenza, nell'ambito di una federazione universale di popoli liberi, il diritto internazionale potrà diventare una realtà giuridica compiuta, che impedirà agli uomini di ricorrere alla violenza per risolvere i loro conflitti e fonderà la sicurezza e la protezione dei diritti di ognuno su una forza collettiva e su leggi che saranno espressione della volontà comune dell'umanità.
La teoria federalistica della pace si distingue dal pacifismo per la precisa consapevolezza dei mezzi da impiegare. Il limite dell'impegno politico dei pacifisti, i quali sono disposti a fare ogni sacrificio personale per porre termine alla guerra, sta nel fatto che "non sanno bene come procedere per conseguire il risultato per cui si battono" (v. Kerr, 1935; tr. it., p. 60). Il fatto è che la pace non dipende semplicemente dalla buona volontà. La guerra è la conseguenza di determinate norme e strutture che governano l'umanità. La pace è espressione di altre norme e strutture, la cui affermazione permette di impedire il ricorso alla violenza e di far prevalere il diritto.
Tuttavia, la natura dell'organizzazione interna degli Stati che stipulano il patto federale non è una questione indifferente rispetto all'obiettivo della pace. Quest'ultima è destinata a essere insicura se l'unione non si fonda sul consenso dei popoli o si basa su disuguaglianze sociali troppo forti. In questi casi la guerra civile potrebbe diventare il surrogato della guerra tra Stati. Ne consegue che un governo e una legge sono condizioni necessarie, ma non sufficienti, per garantire la pace.Innanzi tutto, gli Stati che entrano a far parte di una federazione devono avere una costituzione repubblicana, la sola forma di governo che garantisca la libertà e l'uguaglianza dei cittadini. Kant enunciò questo principio nel primo articolo definitivo per la pace perpetua, che suona così: "La costituzione civile di ogni Stato dev'essere repubblicana". Ciò significa che solo le istituzioni repubblicane permettono di costruire unità politiche così salde da diventare indistruttibili e tali da rendere la pace una conquista irreversibile.Tuttavia, il dominio dell'uomo sull'uomo non dipende soltanto dalle strutture dello Stato, come si sono venute modellando sotto la pressione delle esigenze difensive e offensive. Esso trae origine anche dalle strutture economiche e sociali, che producono lo sfruttamento economico e il privilegio sociale, cioè da rapporti di forza che devono essere eliminati, se il diritto deve prevalere e la pace sociale consolidarsi.
La concezione della proprietà e del plusvalore di Proudhon costituisce un contributo di grande rilievo alla definizione dell'aspetto economico-sociale del federalismo. A differenza di Marx, Proudhon pensa sia impossibile abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione. Egli è un critico del mito della proprietà collettiva, di cui prevede le degenerazioni totalitarie. L'esperienza degli Stati che si sono ispirati ai principi del comunismo ha mostrato che, anche se si trasferisce la proprietà dai privati alla collettività, rappresentata dallo Stato, non se ne elimina il difetto sostanziale, consistente nell'attribuzione della proprietà ad alcuni, i quali si appropriano del prodotto del lavoro altrui. La concentrazione del potere politico ed economico nelle stesse mani produce, secondo quanto scrive Proudhon, "dittatura dell'industria, dittatura del commercio, dittatura del pensiero, dittatura nella vita sociale e nella vita privata, dittatura dovunque" (v. Proudhon, 1863; tr. it., p. 497).
Proudhon non solo pensa che gli egoismi individuali, che si esprimono nell'istituzione della proprietà, siano ineliminabili, ma ne individua anche un aspetto positivo: assicurare l'autonomia della vita economico-sociale rispetto allo Stato. Nello stesso tempo egli affronta il problema dell'eliminazione del privilegio e, in particolare, degli aspetti negativi delle relazioni sociali fondate sulla proprietà. I mezzi di produzione possono appartenere a chi se ne serve. E ciò non determina nessuna forma di ingiustizia o di sfruttamento. Ma la proprietà può essere separata dal lavoro, dando luogo a quella distorsione dell'uso della proprietà, che consiste nell'appropriazione del frutto del lavoro altrui. È questo aspetto della proprietà che deve essere abolito, per eliminare i rapporti di forza dalla società. L'abolizione del plusvalore consiste dunque nell'assegnare il possesso dei mezzi di produzione agli individui o ai gruppi che li impiegano. Eliminato il plusvalore e sottoposta la proprietà al controllo sociale, i rapporti di forza economico-sociali sono destinati a scomparire. I lavoratori, associati nelle unità produttive elementari (imprese autogestite, comuni rurali), costituiscono, secondo Proudhon, le cellule di base della "federazione agricolo-industriale", nella quale la proprietà dei mezzi di produzione è conferita, nello stesso tempo, all'organizzazione della società economica nel suo complesso, a ogni regione, a ogni associazione di lavoratori e a ogni lavoratore. Questa riorganizzazione delle strutture produttive sotto il controllo dei lavoratori, associati in una pluralità di raggruppamenti di base autonomi e resi solidali tra di loro dal vincolo federale, consente di realizzare ciò che oggi si chiama una programmazione democratica decentrata. Essa offre una formula che permette di sfuggire al doppio pericolo rappresentato dal dominio arbitrario dei gruppi capitalistici e da quello, altrettanto arbitrario, delle classi dirigenti che giustificano il loro potere in nome del comunismo.
La teoria federalistica, in quanto teoria della pace e della democrazia internazionale, costituisce un punto di vista particolarmente favorevole per giungere a una migliore conoscenza della politica internazionale e delle relazioni tra politica interna e politica internazionale.In particolare, esiste una stretta relazione tra federalismo e teoria della ragion di Stato, in base alla quale, per usare le parole di Hamilton, "la sicurezza dal pericolo esterno è la più potente guida della politica nazionale. Persino l'ardente amore per la libertà è destinato, dopo qualche tempo, a cedere ai suoi imperativi". Il fatto che la sicurezza occupi il primo posto nella scala delle priorità sulle quali si fonda l'indirizzo politico di tutti gli Stati non rappresenta la libera scelta di un valore, ma costituisce invece il riconoscimento di una necessità: quella di adattare la politica e le istituzioni dello Stato alle condizioni interne ed esterne della sua sopravvivenza. La radice della ragion di Stato, come forza motrice della storia, sta nell'anarchia internazionale. Di conseguenza, "sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati confinanti, indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo".
La causa della guerra risiede dunque nella sovranità statale assoluta e non nella struttura aristocratica (nel campo politico) e mercantilistica (nel campo economico) degli Stati, come ritenevano erroneamente i liberali. Hamilton osserva infatti che l'esperienza storica mostra che "ci sono state, in egual numero, guerre popolari e guerre reali". Del resto, le vicende della Confederazione degli Stati Uniti avevano messo in evidenza che la coesistenza pacifica tra gli Stati non era assicurata dal semplice fatto che essi avevano un regime democratico. È questo un punto di vista che permette di criticare tutte le teorie che spiegano la guerra sulla base di 'fattori interni', inclusa la teoria, ancora oggi dominante, delle cause economiche della guerra.
Si tratta di un vero e proprio rovesciamento del punto di vista, ancora oggi prevalente nelle ideologie liberale, democratica e socialista, che è caratterizzato dall'idea della priorità della riforma interna dello Stato rispetto all'obiettivo della creazione dell'ordine internazionale e dall'illusione che la pace sia la conseguenza automatica dell'affermazione rispettivamente dei principi liberale, democratico e socialista all'interno dei singoli Stati. Il dogma sul quale si fonda ancora oggi il pensiero politico dominante è che la nostra nazione costituisca il centro dell'universo politico. Ciò significa che si deve supporre che le altre nazioni ruotino attorno alla nostra e che ciò che avviene nel resto del mondo debba essere interpretato alla luce di ciò che accade all'interno della nostra nazione. Il pensiero politico tradizionale è Stato-centrico. Di conseguenza esso ritiene che i contenuti sostanziali della vita politica emergano nella lotta per il potere all'interno di ogni Stato, spiega la politica internazionale con le stesse categorie della politica interna, non attribuisce autonomia alla dimensione internazionale dei fatti politici, economici e sociali, dà la priorità alla lotta per la libertà, l'uguaglianza e l'indipendenza all'interno dello spazio nazionale e assegna un ruolo subordinato agli obiettivi della pace e dell'ordine internazionale.
D'altra parte, il punto di vista federalistico permette di identificare un criterio preciso e generalmente ignorato, che spiega la ragione per cui l'affermazione dei principi liberale, democratico e socialista non ha coinciso con l'inizio di un'era di pace. Infatti l'anarchia internazionale spinge ogni Stato a sacrificare, se necessario, la libertà alla sicurezza e a privilegiare la spesa militare rispetto a quella sociale.
Il più potente fattore che opera contro il governo costituzionale è la guerra o semplicemente l'aspettativa della guerra. In tempo di guerra i governi pretendono una piena libertà di azione, che può spingersi, se necessario, fino alla sospensione delle garanzie costituzionali. Così, l'impiego di grandi quantità di risorse negli armamenti, la continua preparazione militare cui ogni Stato è costretto dalla divisione dell'umanità in Stati sovrani, le periodiche devastazioni provocate dalla guerra costituiscono un ostacolo permanente allo sviluppo sociale e all'umanizzazione della vita politica. Infine, i rapporti di forza tra gli Stati spingono i governi a usare gli uomini come strumenti della politica di potenza, obbligandoli a morire e a uccidere per la patria. Il che comporta un rovesciamento del rapporto tra mezzi e fini, affermato dalla religione cristiana e dal pensiero liberale, democratico e socialista.
La conclusione che se ne può trarre è che, in un mondo diviso in Stati sovrani, la libertà e l'uguaglianza sono continuamente minacciate dalle esigenze di sicurezza e di potenza degli Stati medesimi e si possono quindi realizzare in essi in modo parziale e precario. Il liberalismo, la democrazia e il socialismo non controllano dunque tutte le condizioni dalle quali dipende la loro realizzazione.
Ne consegue, come ha scritto Kant nell'Idea di una storia universale da un punto di vista cosmopolitico (1784), che "il problema di instaurare una costituzione civile perfetta dipende dal problema di creare un rapporto esterno tra gli Stati regolato da leggi e non si può risolvere il primo senza risolvere il secondo". Ciò significa che la federazione mondiale e la pace costituiscono le condizioni per la piena realizzazione della libertà e dell'uguaglianza. In altri termini, la creazione di un unico ordinamento costituzionale, che abbracci tutto il genere umano, rappresenta la garanzia che la libertà di ciascuno possa coesistere con la libertà e l'uguaglianza di tutti.
A questo punto è possibile mettere in luce lo sviluppo originale che la teoria della ragion di Stato ha avuto nell'ambito del pensiero federalistico. La conoscenza delle leggi della politica è impiegata per controllare lo scontro tra gli Stati. È messa cioè al servizio della pace invece che della potenza del proprio Stato, secondo un costante orientamento ideologico che culminerà nella dottrina dello Stato-potenza, sulla quale la classe dirigente della Germania fonderà la giustificazione dell'autoritarismo e dell'imperialismo tedeschi.
È vero che le federazioni finora esistite sono federazioni parziali, che hanno eliminato la guerra solo entro i propri confini, e che quindi sono federazioni imperfette, che hanno una loro ragion di Stato. Ma questa imperfezione dipende dal fatto che, finora, le istituzioni federali si sono realizzate solo in una parte del mondo e non in tutto il mondo. Resta il fatto che, dovunque esse si affermino, gli Stati perdono il potere di fare la guerra, le relazioni internazionali perdono il loro carattere violento e la ragion di Stato perde la funzione di forza motrice della storia.
Si può quindi affermare che la ragion di Stato è il prodotto dell'organizzazione del mondo in Stati sovrani e che cessa di operare dovunque si superi il principio della sovranità statale illimitata. L'orientamento culturale federalistico permette di mostrare che la ragion di Stato non è una realtà eterna, come hanno sempre pensato gli esponenti non federalisti di questa concezione della politica, ma una realtà storicamente transitoria. La teoria della ragion di Stato è la teoria della politica di una fase della storia: quella dell'anarchia internazionale.
Poiché tutti gl'individui sono costretti ad adattare la loro condotta a una struttura sociale modellata sui bisogni autoritari e bellicosi dello Stato e a conformare la loro coscienza all'etica della violenza, che questa struttura produce, le loro capacità si sviluppano in modo unilaterale e il loro progresso morale viene limitato. Tutto questo non è qualcosa di inevitabile. Al contrario, si tratta della diretta conseguenza del modo irrazionale in cui è organizzato il genere umano, della sua divisione politica, dello stato di anarchia nel quale è immerso.
Infatti, i principî della legalità e del controllo popolare delle decisioni politiche, affermati all'interno degli Stati, sono negati sul piano internazionale, dove il dialogo tra gli uomini è interrotto dal dovere di morire e di uccidere per la patria, dove l'affermazione dei propri diritti comporta la negazione dei diritti di coloro che appartengono alle altre nazioni, i quali sono rappresentati come stranieri e come nemici.
La federazione mondiale è la condizione di una universale solidarietà tra gli uomini ed è, nello stesso tempo, la condizione per superare la frattura tra politica e morale. Con l'affermazione della pace perpetua, la società avrà acquisito il potere di stabilire un controllo razionale sulla propria attività e sul proprio cambiamento, gli uomini potranno realizzare pienamente la loro natura razionale, non saranno costretti in nessuna circostanza a ricorrere alla forza per raggiungere fini morali e la loro condotta potrà conformarsi interamente al principio dell'autonomia del volere.
L'avvento della pace coincide dunque con una radicale trasformazione delle relazioni tra individuo e società: crea infatti le condizioni nelle quali i singoli uomini possano essere trattati come fini in tutte le relazioni sociali e, nello stesso tempo, il genere umano possa diventare padrone del proprio destino. In questo modo la storia può diventare un processo voluto e realizzato dagli uomini. Infatti, con l'unità politica, il genere umano si può appropriare dei mezzi (il governo mondiale) che permettono di assoggettare la politica mondiale alla volontà morale e alla ragione.
Il modello federale nei suoi aspetti istituzionale e di valore, come risulta fin dalle sue prime elaborazioni (il Federalist e gli scritti di filosofia politica di Kant e di Proudhon), non si presenta come un'utopia astratta, ma si pone in relazione con le caratteristiche empiricamente osservabili e descrivibili dei processi politici e sociali, e con le leggi che li governano. Indica quindi una possibilità reale di trasformazione della società.
La questione delle condizioni storico-sociali che permettono alle istituzioni federali e alla pace di affermarsi ha un rilievo decisivo. Infatti, la sua soluzione permette di definire il posto che il federalismo occupa nella storia. Consente, in altri termini, di dimostrare la capacità del progetto federalistico di uscire dal mondo dell'utopia e di incidere sul processo storico.
Le istituzioni federali sono espressione di una società nella quale esistono spiccate diversità sociali a base territoriale. La loro funzione è quella di mantenere questo pluralismo sociale. In una federazione la società ha, nello stesso tempo, caratteristiche unitarie e pluralistiche. La popolazione è unita in una società che ha le stesse dimensioni della federazione ed è divisa in una pluralità di società più piccole, con confini ben definiti nell'ambito della società più vasta. Questo tipo di società consente la coesistenza del lealismo verso la società federale nel suo complesso con quello verso le comunità territoriali più piccole, in modo che nessuno dei due prevalga, come invece avviene in un senso nello Stato unitario e nel senso opposto nella confederazione.
Edward Freeman, che ha avviato la riflessione sulle condizioni storico-sociali del federalismo, aveva invitato alla prudenza gli ammiratori del sistema federale, affermando che non si tratta di una forma di Stato valida in ogni tempo e in ogni luogo. La soluzione federale è adatta a quelle situazioni nelle quali diversi Stati indipendenti hanno una quota sufficiente di interessi comuni da unirsi per risolvere insieme i problemi collettivi di carattere difensivo e/o economico, ma non hanno una così piena identità di interessi da indurre i singoli Stati a rinunciare completamente alla propria indipendenza. Si osserva spesso che il vincolo federale è debole, ma, replica Freeman, "la vera questione non è se il vincolo sia debole o forte, ma se esistano certe circostanze in cui un vincolo debole sia meglio di un vincolo forte o assolutamente di nessun vincolo" (v. Freeman, 1893, p. 87).
Tuttavia queste osservazioni non sono ancora sufficienti a definire i caratteri profondi della società federale. Mario Albertini, che ha dato un contributo teorico fondamentale in questa direzione, ha scritto che "il comportamento sociale federalistico [...] può manifestarsi solo in aree pluristatali che abbiano raggiunto le condizioni materiali e ideali della libertà politica e un certo grado di unità. Ma ciò non basta. Esso non può mantenersi senza la scomparsa, o almeno l'attenuazione, della lotta di classe e della potenza militare. La lotta di classe spegne la solidarietà tra proletari e borghesi dei gruppi sociali a base territoriale, e subordina questi gruppi alla generale divisione dell'intiera società in classi sociali antagonistiche. D'altra parte la potenza militare promuove l'accentramento del potere nel governo centrale, spezza l'equilibrio politico tra il centro e la periferia e impedisce così la bipolarità nel dominio sociale" (v. Albertini, 1979, pp. 65-66).
Alla fine del XVIII secolo la situazione dell'America del Nord presentava grosso modo questi caratteri. Infatti, da una parte, le tensioni sociali erano tenute a freno dall'abbondanza di risorse disponibili nelle terre disabitate del West. Hegel nelle Lezioni sulla filosofia della storia, riflettendo sulla differenza tra Europa e America, osservava: "Se le foreste germaniche fossero ancora esistite, non avrebbe certo avuto luogo la Rivoluzione francese". D'altra parte, l'insularità politica e la protezione assicurata dall'egemonia inglese sui mari hanno tenuto gli Stati Uniti al riparo dai conflitti di potenza. Tutto ciò spiega la marginalità delle esperienze federali del passato (non solo quella degli Stati Uniti, ma anche quelle della Svizzera, del Canada e dell'Australia), che sono da imputarsi a fortunate ed eccezionali circostanze storiche.
Tuttavia, nelle federazioni finora esistite il pluralismo sociale tipico di queste formazioni politiche si è sviluppato parzialmente, perché la lotta di classe e i conflitti di potenza non sono scomparsi, ma si sono manifestati in modo attenuato. Di conseguenza la sopravvivenza delle differenze di classe ha fatto prevalere il senso di appartenenza alla propria classe su ogni altra forma di solidarietà sociale e ha impedito che si radicassero forti legami di solidarietà nelle comunità regionali e locali, mentre la lotta tra gli Stati sul piano internazionale ha determinato il rafforzamento del potere centrale a scapito dei poteri locali. Così lo sviluppo del nazionalismo, del centralismo e del monismo sociale nei paesi dell'Europa continentale è stato una conseguenza della virulenza della lotta di classe e dello scontro tra le nazioni. La conclusione che si può trarre dall'analisi dell'evoluzione delle costituzioni federali è che queste ultime si trovano di fronte alla chiara alternativa tra la degenerazione in un solo paese, o in alcuni paesi isolati, e la piena realizzazione sul piano mondiale.
La concezione materialistica della storia permette di definire le relazioni tra società civile e Stato e, in particolare, il nesso esistente tra lo stadio di sviluppo del modo di produzione e la forma delle relazioni sociali dominanti in una determinata società. Più specificamente, essa mette in luce un preciso rapporto tra le dimensioni dello Stato e lo stadio raggiunto, di volta in volta, dall'evoluzione del modo di produrre, dalla quale dipende lo sviluppo non solo delle tecniche di comunicazione e di trasporto, che riducono continuamente le distanze tra i popoli, ma anche delle tecniche amministrative, che permettono di definire l'ampiezza del territorio governabile da un unico centro.
Ogni stadio dell'evoluzione del modo di produrre ha determinato una moltiplicazione e un'intensificazione delle relazioni sociali e le ha unificate in aree sempre più vaste: dalla tribù alla città, alla nazione, al continente, fino al mondo intero. Dove domina il modo di produrre fondato sulla caccia, la pesca e la raccolta di cibo, l'ordine di grandezza dei gruppi umani non può superare la dimensione della tribù. Il modo di produzione agricolo permette di creare la prima forma di Stato su un territorio che abbraccia un'intera città e la regione circostante. Con il modo di produzione industriale la divisione del lavoro diventa così complessa da rendere possibile l'organizzazione di gruppi umani su spazi grandi quanto gli Stati nazionali. Infine, la rivoluzione scientifica che investe la produzione materiale rende più forte l'integrazione tra gli Stati e più stretta l'interdipendenza tra i popoli e sospinge l'intero pianeta verso l'unificazione. Per la prima volta nella storia l'umanità si trova di fronte al compito di darsi un'organizzazione politica comune. Sta quindi emergendo l'esigenza di trasformare l'ONU in un vero e proprio governo mondiale.
L'allargamento delle dimensioni dello Stato, e quindi dei territori sottoposti a un governo centrale che detiene il monopolio della forza, corrisponde al processo di unificazione, e quindi di pacificazione, di gruppi umani sempre più ampi. Questo è il primo e più generale nesso che esiste tra dimensioni dello Stato e pace.
Va rilevato, tuttavia, che in epoche nelle quali era dominante la produzione agricola si costituirono dei grandi imperi, come quelli romano o cinese, che definivano se stessi come universali, anche se avevano unificato solo una parte dell'umanità. Nel corso della storia, gl'imperi hanno rappresentato la forma di organizzazione politica più frequentemente utilizzata per unificare territori occupati da una pluralità di popoli e di Stati indipendenti. L'unità politica di un impero si basa su un governo e su leggi comuni. Ma si tratta di un'unità mantenuta con la forza.
Questo è il motivo per cui gl'imperi alla lunga decadono e si disgregano, anche se la struttura degl'imperi dispotici dell'Oriente, basati sul potere del governo centrale di organizzare i sistemi di irrigazione, necessari a rendere produttiva la terra, ne spiega la durata millenaria. La coesione delle masse popolari in seno agl'imperi si fondava su rapporti di sudditanza nei confronti dell'imperatore e dei suoi rappresentanti nelle province e nei dipartimenti e non sulla partecipazione politica di tutti i cittadini, come avviene nello Stato moderno.
Lo studio delle basi storico-sociali dello Stato offre dunque un criterio generalissimo, che consente di spiegare le ragioni dell'allargamento delle dimensioni dello Stato. Ma consente anche di comprendere le ragioni della dissoluzione di Stati troppo vasti per governare efficacemente, da un unico centro, un territorio non abbastanza integrato dal punto di vista sociale e per difenderlo contro i nemici esterni.
Il processo di allargamento delle dimensioni dello Stato può dunque avvenire con la forza o con il consenso. In particolare, l'unificazione di un gruppo di Stati tramite l'annessione da parte di uno Stato egemone, che sottomette gli Stati confinanti, va distinta dall'unificazione mediante patto federale. La prima forma di unificazione (di gran lunga la più frequente) presuppone l'esistenza di uno Stato dominante, che impone con la forza il proprio potere su altri Stati. La guerra è stato il mezzo più utilizzato nella storia per pacificare vasti territori.
Perché si possa sviluppare un processo federativo tra Stati sovrani è necessario che si manifestino almeno due condizioni. Innanzi tutto una stretta interdipendenza, che costituisce la premessa di una forte cooperazione tra gli Stati per risolvere i problemi comuni. In secondo luogo, la tendenziale scomparsa della guerra come mezzo per risolvere i conflitti internazionali, che è la conseguenza del fatto che la cooperazione ha sostituito l'antagonismo come indirizzo di fondo della politica estera degli Stati.
Mentre l'imperialismo può essere espressione della politica estera non solo di uno Stato autoritario, ma anche di uno Stato democratico, anche se quest'ultimo è meno incline alla guerra, il processo federativo esige che tutti gli Stati coinvolti abbiano un regime democratico. La costituzione degli Stati Uniti ha rappresentato una rottura della tradizione espansionistica e imperialistica nella formazione di nuovi Stati. Si tratta infatti del primo esempio di un'unificazione avvenuta in tempo di pace e con il consenso dei popoli. L'unificazione europea si sta sviluppando secondo questo schema.
Kant ha concepito la storia universale come un processo di progressiva pacificazione tra gruppi umani in conflitto, attraverso la loro unificazione. La concezione federalistica della storia, a differenza di quella marxistica, non si presenta come storia di lotte di classe, ma piuttosto come un processo di civilizzazione nel corso del quale il diritto prende progressivamente il posto della violenza, e il cui sbocco ultimo è la federazione mondiale, intesa come condizione della pace perpetua. Il progresso storico si afferma seguendo un processo dialettico nel corso del quale la ragione si fa strada faticosamente, attraverso un cammino tortuoso lungo il quale la violenza, i conflitti e la guerra sono altrettanti veicoli che permettono alla pace di affermarsi, sconfiggendo la divisione politica dell'umanità, l'anarchia internazionale e la guerra. I due stadi di questo processo sono, secondo Kant, l'organizzazione del mondo in Stati sovrani e repubblicani e la loro unificazione federale. Attraverso il primo stadio, gli uomini superano lo stato di natura, attraverso il secondo, superano lo stato di guerra.
Lord Lothian (v. Kerr, 1935; tr. it., p. 62) ha analizzato più in profondità i meccanismi istituzionali che hanno reso possibile il processo di pacificazione tra i popoli, identificando tre stadi dello sviluppo della pace. Ogni stadio è il frutto della scoperta di un meccanismo istituzionale che ha permesso un allargamento delle dimensioni del governo democratico.
La democrazia assembleare nell'antica Grecia ha permesso di eliminare le guerre tra tribù e di costituire la città-Stato. Con questa prima forma di partecipazione popolare alla formazione delle decisioni politiche, la dimensione dello Stato democratico non poteva essere più ampia del numero di persone che potevano riunirsi in una piazza. La democrazia rappresentativa, che si sviluppò in Inghilterra dopo la Rivoluzione, ha consentito di estendere il governo democratico su scala nazionale e di pacificare le nazioni. La democrazia federale, scoperta dagli Americani, ha reso possibile la formazione di un governo democratico di dimensioni continentali, che potenzialmente si può allargare a tutto il mondo e permette di far cessare la guerra tra le nazioni e di estendere la pace su tutta la terra, fondandola su un ordine democratico universale.
L'insegnamento che si può trarre da questa concezione della storia è che il processo di realizzazione della pace si fonda sull'invenzione di specifiche strutture politiche democratiche: la democrazia assembleare in seno alla città-Stato, la democrazia rappresentativa in seno allo Stato nazionale e la democrazia federale in seno a un'unione di Stati. In definitiva tra città-Stato, Stato nazionale e federazione non c'è solo una differenza di dimensioni. Si tratta anche di diverse forme di governo. A mano a mano che lo Stato accresce le proprie dimensioni, aumentano anche l'articolazione, la differenziazione e la complessità delle funzioni di governo. Queste forme di governo non sono mere sovrastrutture di mutevoli situazioni storiche e sociali, ma sono il prodotto di liberi atti di innovazione politica e stadi della lotta della ragione per affermare forme sempre più elevate di convivenza politica.
Il processo federativo, cominciato alla fine del XVIII secolo con la Convenzione di Filadelfia, ha coinvolto le nazioni storiche dell'Europa dopo la seconda guerra mondiale. Esso può essere rappresentato come la creazione di isole sempre più grandi di ordine e di democrazia internazionali a spese di un oceano di disordine.
I processi federativi nordamericano ed europeo hanno significati profondamente diversi. Quello europeo si presenta come il primo esempio del superamento pacifico di nazioni storicamente consolidate da secoli di divisioni e di guerre. Invece la fondazione degli Stati Uniti non ebbe questo carattere. Essa infatti precede la formazione degli Stati nazionali, che comincia con la Rivoluzione francese. Le tredici repubbliche dell'America del Nord erano piccoli Stati, situati ai margini dei centri propulsori della politica mondiale e dotati di un potere insignificante sul piano internazionale. Esse ricercavano l'unità per creare uno Stato che avrebbe assicurato ai popoli dell'America del Nord una vantaggiosa posizione insulare e li avrebbe tenuti al riparo dalla violenza internazionale.
Pertanto il tentativo di superare la formula politica dello Stato nazionale, e di trovare una forma di organizzazione politica che assicuri l'unità nella diversità tra Stati nazionali, conferisce al federalismo contemporaneo il carattere di un'impresa che non ha precedenti nella storia. La federazione europea segna quindi una tappa nella storia: l'avvio del superamento della divisione del mondo in Stati sovrani, che si concluderà con il raggiungimento della pace perpetua, attraverso la federazione mondiale. L'elezione diretta del Parlamento europeo appare dunque come il primo stadio di un processo di democratizzazione delle relazioni tra Stati nazionali, un modello che vale per il resto del mondo.
Il federalismo europeo costituisce un tentativo deliberato e cosciente di superare il principio nazionale come base necessaria per l'organizzazione dello Stato. Esso si presenta, da una parte, come negazione della società chiusa e omogenea, che elimina al suo interno ogni forma di pluralismo sociale, etnico e linguistico e, d'altra parte, come negazione della divisione del genere umano in comunità ostili e bellicose, divise dall'odio nazionale. Il compito del federalismo, inteso come negazione del nazionalismo, è quello di smascherare la pretesa dello Stato nazionale di presentarsi come la forma più elevata di convivenza politica, di metterne in luce i limiti, di chiarire che si tratta di una formazione politica storicamente transitoria, che ha esaurito il suo ruolo progressivo.
La contraddizione di fondo della nostra epoca è quella tra la crescente interdipendenza tra i popoli dell'Europa e del mondo e la dimensione nazionale dello Stato. Lo Stato nazionale, non essendo più in grado di controllare le tendenze di fondo del corso storico (internazionalizzazione del processo produttivo, formazione del sistema mondiale degli Stati, dominato da Stati di dimensioni continentali), è diventato il principale ostacolo al rinnovamento della società e condanna al fallimento tutte le alternative nazionali, siano esse liberali, democratiche o socialiste. Il federalismo si presenta dunque come espressione della crisi dello Stato nazionale e della tendenza al suo superamento. Il suo compito fondamentale è quello di comprendere il processo storico che ha prodotto gli Stati nazionali e i loro conflitti, fino alla tragedia delle guerre mondiali, e di scoprire in esso le radici del loro declino e i germi del loro superamento. Lo Stato nazionale è nello stesso tempo troppo piccolo e troppo grande. Da una parte, è troppo piccolo per far fronte ai problemi economici, ambientali e di sicurezza, che hanno assunto una dimensione internazionale e derivano dalla sempre più stretta interdipendenza tra i popoli e dalla crescente integrazione tra le economie. D'altra parte, è troppo grande per risolvere i problemi locali, come quelli della cultura, della scuola e del territorio, e per consentire un'effettiva partecipazione e un reale controllo degli individui nei confronti delle collettività territoriali più piccole, dove si svolge la loro vita concreta e dove è possibile organizzare un autentico autogoverno locale.
L'obiettivo politico del progetto federalistico è quello di superare la sovranità indivisibile, che impedisce la formazione di autentiche forme di autogoverno regionale e locale, e la sovranità esclusiva, che ostacola la formazione di stabili forme di solidarietà internazionale. E questo può avvenire con la limitazione del potere assoluto dello Stato nazionale e il trasferimento di alcune delle sue competenze verso l'alto (le organizzazioni internazionali regionali, come la Comunità Europea, e mondiali, come l'ONU) e verso il basso (comunità territoriali minori, come le regioni e i comuni). Il disegno federalistico permette dunque di superare i limiti della democrazia nazionale, in decadenza a causa di una eccessiva concentrazione di poteri nei governi nazionali, aggiungendo nuovi livelli di partecipazione e di controllo popolari attraverso la democrazia internazionale, al di sopra delle nazioni, e la democrazia partecipativa nelle cellule di base della società.
Ciò che distingue il federalismo contemporaneo è la coscienza della propria corrispondenza con la svolta cruciale della nostra epoca. Infatti la rivoluzione scientifica, mentre, da una parte, ha aumentato l'interdipendenza tra i popoli e promosso l'unificazione del mondo, d'altra parte, riducendo costantemente la quantità di lavoro necessaria alla riproduzione fisica dell'individuo, abolendo progressivamente il lavoro manuale nel processo produttivo ed eliminando la scarsità dei beni necessari a soddisfare i bisogni elementari e, con essa, la competizione per il necessario, crea i presupposti per il superamento dei privilegi di classe, per il decentramento del potere e per lo sviluppo di una reale democrazia partecipativa, radicata nelle comunità locali. Nello stesso tempo, però, la rivoluzione scientifica libera immense forze distruttive, ponendo l'umanità di fronte alla minaccia delle catastrofi nucleare ed ecologica. La risposta alla drammatica alternativa tra emancipazione e autodistruzione, di fronte alla quale si trova l'umanità, dipenderà dalla capacità di superare la sovranità nazionale, di unificare l'Europa e il mondo e di liberare le comunità.
Dopo le rivoluzioni liberaldemocratica e socialista, che hanno liberato le nazioni e le classi, l'umanità si trova ora di fronte al problema della liberazione dell'individuo con la trasformazione istituzionale, resa possibile dall'affermazione del federalismo nella sua duplice dimensione: quella cosmopolitica (che permette di affermare una solidarietà universale tra gli uomini al di là delle barriere nazionali) e quella comunitaria (che consente di dar vita a una solidarietà concreta, che si manifesta nelle cellule di base della società, liberate dall'oppressione burocratica e dalla divisione in classi). Rispetto ai bisogni di unità internazionale e di autonomia locale, il modello dello Stato nazionale, che organizza la divisione invece dell'unità del genere umano e sviluppa il monismo invece del pluralismo sociale, è diventato anacronistico.Di fronte ai cambiamenti in corso nella società contemporanea, ha un valore profetico la posizione espressa da Proudhon nel saggio Del principio federativo, nel quale, denunciando già nel secolo scorso il carattere patologico della formula politica della repubblica una e indivisibile, aveva affermato: "Il XX secolo aprirà l'era delle federazioni o l'umanità ricomincerà un purgatorio millenario" (v. Proudhon, 1863; tr. it., p. 74). (V. anche Accentramento-decentramento; Comunità Europea; Europeismo; Federazione; Stato).
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