Federalismo
di Sofia Ventura
Federalismo
sommario: 1. Introduzione. 2. La natura dei sistemi federali. a) Confederazione, Stato federale, federalismo come processo. b) Il modello del governo federale. c) Il federalismo cooperativo. 3. Le reazioni all'accentramento: i casi di Stati Uniti e Germania. 4. La differenziazione interna degli Stati unitari. a) Il Belgio. b) La Spagna. c) La Gran Bretagna. d) L'Italia. Federalismo e nazionalismo. a) Il federalismo asimmetrico. b) Le istituzioni federali come strumento per la coesistenza di più nazionalità. c) Federalismo asimmetrico multinazionale: una giustificazione teorica. 6. L'integrazione europea come processo di federalizzazione. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Nelle comunità politiche organizzate secondo il principio federale, i poteri di governo sono divisi tra organizzazioni politiche distinte, con proprie competenze e con giurisdizione su porzioni di territorio differenti. Il potere politico è così distribuito tra diversi centri, posti al livello nazionale e al livello delle unità federate. Se esperienze federative sono rintracciabili già nell'antichità, nel Medioevo e nella prima modernità, è solo con la nascita degli Stati Uniti d'America che prende forma il primo esempio di moderno governo federale, che si inscrive all'interno della più generale esperienza del processo di formazione dello Stato moderno. Durante il XIX secolo e all'inizio del XX, la Costituzione di Filadelfia del 1787 avrebbe fornito, in varie parti del mondo occidentale, un modello per la creazione di nuovi ordinamenti politici, come nei casi della Svizzera (1848), del Canada (1867), della Germania (1870), dell'Australia (1901).
Nel XX secolo, contestualmente ai grandi mutamenti che ne hanno caratterizzato l'intero corso, la natura di questi sistemi ha subito trasformazioni importanti, che sono andate principalmente nella direzione di un rafforzamento del centro federale a scapito delle unità componenti. Ma a partire dagli anni settanta, con una netta accelerazione negli anni novanta, cominciano a palesarsi fenomeni che o segnalano il prodursi di una controtendenza, ancorché timida, o evidenziano una nuova complessità dell'esperienza federale. A questi temi verranno dedicate le pagine seguenti, dopo un breve excursus sulla natura dei sistemi federali.
2. La natura dei sistemi federali
a) Confederazione, Stato federale, federalismo come processo
Per definire la natura dei sistemi federali è stata spesso richiamata la loro origine pattizia. Il patto (foedus, da cui il termine federalismo) tra entità politiche per perseguire fini comuni produce un nuovo ordine politico. Per fare chiarezza tra le diverse forme che esso può assumere, la tradizionale scienza giuridica ha distinto tra Confederazione e Stato federale. Lo Stato federale è un vero e proprio Stato sovrano, al cui interno Stati, cantoni, Länder o province godono di una semplice autonomia garantita dalla costituzione. Diversamente, nella Confederazione un certo numero di Stati che restano sovrani dà vita a un'organizzazione sovranazionale, i cui poteri derivano dalla volontà degli Stati costituenti.
Nella scienza politica, e anche nel pensiero di alcuni giuristi (v. Bognetti, 2001), piuttosto che la netta dicotomia tra Stato federale e Confederazione si è affermata l'interpretazione del federalismo come 'processo', interpretazione formulata per la prima volta da Carl Joachim Friedrich il quale ha definito il federalismo come "il processo attraverso il quale delle comunità politiche separate giungono a degli accordi per produrre soluzioni comuni, adottare politiche congiunte, prendere decisioni comuni relative a problemi comuni" (v. Friedrich, 1968, p. 7). Secondo quest'approccio, le relazioni federali sono fluide, mutevoli, e le differenze tra i diversi sistemi federali non sono dicotomiche, bensì di grado: dalla minore unità delle Leghe (come le leghe cittadine medievali) e delle Confederazioni (le Province Unite dei Paesi Bassi, l'unione delle comunità elvetiche fino al 1848, la Confederazione germanica del 1815, gli statunitensi Articoli di Confederazione del 1777), alla maggiore unità dei governi federali dell'età moderna e contemporanea, il cui archetipo è considerato il sistema messo a punto a Filadelfia nel 1787.
b) Il modello del governo federale
L'assetto federale, e dunque la separazione territoriale dei poteri da esso implicata, è garantito mediante una serie di strumenti. Primo tra tutti, una costituzione scritta, che rende vincolante la divisione o condivisione del potere nel sistema politico; essa è 'suprema', in quanto le sue disposizioni devono essere rispettate anche dalle unità federate; è 'rigida', poiché, per apportare modifiche a quanto da essa disposto, sono previste maggioranze qualificate che comportano la partecipazione sia del governo federale, sia di quelli statali. Un altro importante indicatore della natura federale di un governo è costituito dalla presenza di un organo giudiziario per la composizione dei conflitti tra i diversi livelli di governo.
Un sistema federale consente anche la partecipazione delle unità costituenti alla formazione della politica nazionale attraverso un'organizzazione bicamerale del Parlamento, ove una camera rappresenta la nazione nel suo complesso e l'altra è composta dai rappresentanti delle unità federate.
Un assetto di tipo federale presuppone anche una distribuzione delle competenze tra i due livelli. L'osservazione del funzionamento dei governi federali evidenzia la tendenza ad attribuire alcune materie (come gli affari esteri, la dogana, la moneta) al livello federale, altre (come l'istruzione e gli affari culturali, la polizia e il governo locale) alle unità federate. Solitamente, inoltre, le costituzioni dei sistemi federali elencano le competenze attribuite al governo federale e lasciano agli Stati membri, quali 'poteri residui', le competenze non attribuite.
Una classica distinzione in relazione alla distribuzione delle competenze è quella tra federalismo 'verticale' e federalismo 'orizzontale'. Nel primo caso, esemplificato dall'esperienza statunitense, governo federale e governi degli Stati gestiscono le materie di propria competenza in modo autonomo, dalla legislazione all'esecuzione. Il federalismo orizzontale, che è quello vigente in Germania e in Svizzera, riflette invece una divisione tra potere legislativo, detenuto principalmente dal livello federale, e amministrazione delle decisioni di entrambi i livelli, di cui sono responsabili gli Stati o Cantoni. Il federalismo verticale è stato definito anche federalismo 'duale', quello orizzontale federalismo 'cooperativo'.
c) Il federalismo cooperativo
La distribuzione di competenze tra i due livelli di governo ha assunto diverse configurazioni, non solo nelle singole esperienze storiche, ma anche nel tempo, all'interno dei medesimi sistemi federali. Con l'espressione 'federalismo cooperativo' sopra citata, infatti, più che alla ripartizione di compiti legislativi e amministrativi, tipica del federalismo orizzontale, in realtà ci si riferisce sempre più spesso a forme di cooperazione più complesse, che si sono andate affermando in misura crescente nel XX secolo pressoché in tutti i sistemi federali.
La tendenza a una netta separazione tra le competenze, infatti, è propria dell'epoca liberale, mentre nel XX secolo lo sviluppo, in Europa e negli Stati Uniti, della regolazione statale della vita economico-sociale delle comunità ha reso i sistemi federali sempre più cooperativi. Ciò significa che, a prescindere dalle attribuzioni formali delle competenze, la sempre più ampia attività di governo è stata svolta attraverso l'intervento coordinato dei diversi livelli, con il centro posto in una posizione sovraordinata.
3. Le reazioni all'accentramento: i casi di Stati Uniti e Germania
Come si è detto, nel XX secolo il rafforzamento del ruolo dello Stato ha dato impulso alla cooperazione tra i diversi livelli di governo e all'accentramento del potere al livello federale, anche se non mancano casi, come quelli canadese e svizzero, che più di altri hanno resistito a tali pressioni, mantenendo un assetto relativamente più decentrato rispetto ad altri sistemi, in particolare Stati Uniti e Germania. Proprio in questi ultimi due paesi, peraltro, negli anni novanta si sono registrate tendenze a contenere e limitare il ruolo del governo federale. Negli Stati Uniti, infatti, già negli anni settanta e ottanta, durante le presidenze Nixon e Reagan, si era cercato di ampliare l'autonomia degli Stati, limitando, ad esempio, le condizioni imposte dal governo federale a quelli statali e/o locali per poter fruire dei cosiddetti grants-in-aid, ossia finanziamenti federali volti a favorire certi tipi di intervento pubblico. Lo sforzo per alleggerire le condizioni imposte agli Stati per l'uso di tali fondi è proseguito fino a oggi, anche se diversi osservatori hanno messo in luce come ciò non sia stato sufficiente a determinare un'inversione di tendenza.
Ed è proprio anche in conseguenza del parziale fallimento delle politiche a favore delle autonomie statali dei presidenti Nixon e Reagan che sono emerse in modo sempre più esplicito critiche e reazioni al ruolo assunto dal governo federale. In particolare, negli anni novanta la Corte Suprema ha mostrato di voler proteggere gli Stati da interferenze del governo federale non più considerate legittime. Ciò è avvenuto, innanzitutto, con una nuova interpretazione della commerce clause e degli implied powers. La clausola costituzionale che autorizza le camere federali "a regolare il commercio con le altre Nazioni e fra i diversi Stati", fu a lungo interpretata, infatti, in modo tale da consentire al governo federale di legiferare su qualsiasi materia la cui regolamentazione potesse influire, anche indirettamente, sul commercio. Tale prassi ha portato a un ampio sviluppo della legislazione federale in diversi settori. Esito analogo ha avuto l'interpretazione estensiva dei 'poteri impliciti', in base ai quali si dà facoltà "di fare tutte le leggi necessarie e idonee per l'esercizio dei poteri" attribuiti dalla Costituzione al governo degli Stati Uniti. Con una serie di sentenze, il supremo organo giudiziario ha fornito un'interpretazione più restrittiva sia della commerce clause, sia degli implied powers, favorendo in tal modo una situazione di maggiore autonomia statale rispetto a interferenze del livello federale. Esso ha anche contestato la legittimità da parte del governo federale di pretendere che le amministrazioni pubbliche degli Stati provvedessero all'esecuzione di leggi nazionali. Il diverso orientamento della Corte è stato reso possibile da un cambiamento nei suoi equilibri in seguito alle nomine effettuate da Ronald Reagan e George Bush. Il nuovo assetto trova oggi il favore dell'attuale presidente degli Stati Uniti, George W. Bush.
La Repubblica Federale Tedesca è tradizionalmente considerata un caso di federalismo accentrato. Le maggiori spinte verso il rafforzamento del livello federale si produssero negli anni cinquanta e sessanta, in concomitanza con l'impegno del governo federale a favore di uno sviluppo economico in grado di creare equivalenti condizioni di vita in tutte le regioni del paese. La stessa presenza di due grandi partiti di massa (socialdemocratico e cristiano-democratico), dominanti sia a livello statale, sia a livello federale, ha contribuito a forgiare la fisionomia accentrata del federalismo tedesco. Mutamenti significativi, anche se non tali da rivoluzionarne la natura, sono però intervenuti a partire dagli anni ottanta, quando è emersa una sempre più netta divaricazione economica, e quindi una diversificazione degli interessi, tra i Länder del nord, colpiti dalla crisi delle industrie tradizionali, e quelli del sud, favoriti dallo sviluppo di settori ad alta tecnologia. In conseguenza di ciò, alcuni Länder, quelli più ricchi, hanno cercato di aumentare la loro autonomia; gli altri - più poveri - hanno invece sollecitato sostegni finanziari a loro favore. Dopo l'unificazione, le tensioni di natura territoriale hanno assunto rilevanza ancora maggiore a causa della nuova frattura tra i Länder orientali e quelli occidentali.
Ne è derivata una più complicata dialettica sia tra i Länder, sia tra questi e il governo federale, che ha aperto la strada all'introduzione di alcune modifiche costituzionali, le quali accentuano il ruolo decisionale dei primi. In merito alla legislazione 'concorrente' (la legislazione rispetto alla quale i Länder hanno competenza solo quando e nella misura in cui il Bund non si avvalga del suo diritto di legiferare), negli anni novanta si è proceduto a rendere meno facile l'intervento della legislazione federale (fino a quel momento piuttosto esteso), limitandone le possibilità e addirittura prevedendo l'eventualità che, qualora vengano meno le condizioni che lo hanno consentito (uniformità economica e di condizioni di vita nel territorio federale), una regolazione federale possa essere sostituita da una legge del Land.
Una più significativa partecipazione dei Länder alla politica nazionale, inoltre, è stata resa possibile dall'emendamento costituzionale del 1994, che ha attribuito al Bundesrat, la camera federale, il diritto di partecipare alla formazione della volontà del Bund nelle questioni riguardanti l'Unione Europea.
Quanto sta accadendo da alcuni anni negli Stati Uniti e in Germania non è, certo, il segnale di drastiche inversioni di tendenza. Semmai, è indice del fatto che le spinte alla centralizzazione in un assetto federale incontrano inevitabilmente un limite nell'interesse delle parti federate all'autogoverno e alla partecipazione ai processi di formazione della politica nazionale; nonché, forse, del fatto che, presso l'opinione pubblica e le leaderships politiche occidentali, si vanno affermando una sensibilità e un'attenzione sempre maggiori verso i livelli di decisione delle politiche pubbliche più prossimi ai cittadini.
Queste tendenze, inoltre, non mettono in discussione la natura sempre più cooperativa di molti sistemi federali. Un esempio significativo in tal senso è fornito dalla Confederazione Elvetica, tradizionalmente caratterizzata da un'ampia autonomia cantonale, la cui nuova Costituzione (gennaio 2000) ha registrato la lunga evoluzione verso un rafforzamento, pur se relativo, del governo federale e, in particolare, verso una sempre maggiore collaborazione tra i livelli federale e cantonale.
4. La differenziazione interna degli Stati unitari
I sistemi federali classici devono la loro origine all'unione di comunità politiche preesistenti. Alcuni tra i maggiori teorici del federalismo (v. Friedrich, 1968; v. Elazar, 1987), però, hanno contemplato la possibilità che i sistemi federali si formino anche attraverso la differenziazione interna di Stati precedentemente unitari. A un tale fenomeno si è assistito in Europa dagli anni settanta in poi, con un'accelerazione e un salto di qualità a partire dagli anni novanta, allorché, attraverso processi di federalizzazione, alcuni importanti Stati unitari hanno visto trasformata in modo significativo la loro natura. Ci riferiamo al Belgio, alla Spagna, alla Gran Bretagna e all'Italia.
a) Il Belgio
La contrapposizione tra Fiamminghi e Valloni, che emerge già nel XIX secolo e subisce una forte politicizzazione nel XX, costituisce la premessa della differenziazione istituzionale cui è progressivamente andato incontro lo Stato belga, all'origine unitario. Dopo le leggi degli anni trenta e sessanta del Novecento, che avevano imposto la lingua unica nella regione vallona (francese) e nelle Fiandre (fiammingo), a partire dagli anni settanta si sono succedute una serie di riforme costituzionali che hanno cambiato il volto del sistema belga. La costruzione del nuovo assetto istituzionale è avvenuta, attraverso le quattro tappe del 1970, 1980, 1988 e 1993, in modo faticoso e frammentario non solo per la complessità dei processi decisionali in Belgio, ma anche per la difficoltà di trovare un equilibrio tra pretese divergenti e sovente inconciliabili. Il disegno costituzionale è stato completato nel 1993, quando il Belgio è stato definito dalla Costituzione uno "Stato federale formato da Comunità e Regioni" (art. 1), anche se è con le riforme del 1988-1989 che prendono definitivamente forma i nuovi enti in cui è suddiviso ora il Belgio. Le Regioni (fiamminga, vallona e quella bilingue di Bruxelles-capitale) sono identificate secondo un criterio territoriale e hanno competenze prevalentemente nel campo economico-sociale. Le Comunità (fiamminga, francofona e germanofona, quest'ultima con minori poteri rispetto alle altre due), invece, sono identificate secondo un criterio d'appartenenza linguistico-culturale. A esse sono attribuite competenze prevalentemente nel campo culturale (dal 1988 hanno una pressoché piena sovranità nel settore dell'istruzione). Tale complesso schema riflette, da un lato, le richieste d'autonomia in campo culturale tradizionalmente sostenute dai Fiamminghi, dall'altro, le esigenze d'autonomia in campo economico-amministrativo espresse dai Valloni a partire dagli anni sessanta, quando una grave crisi economica e la contemporanea sfiducia in una sua possibile soluzione da parte di uno Stato belga che contava una presenza maggioritaria fiamminga, li convinse della necessità di giungere a una qualche forma di autogoverno per la propria regione.
La presenza di due diversi enti alla base della federazione (Comunità e Regioni) ha portato alla sovrapposizione di un federalismo tradizionale, di tipo territoriale, a un federalismo detto 'corporativo', vale a dire quell'assetto istituzionale ove la costituzione attribuisce poteri a gruppi culturalmente distinti, ma non concentrati territorialmente.
b) La Spagna
In Spagna la via verso il decentramento è stata percorsa principalmente per risolvere il conflitto tra più periferie con una forte identità nazionale (in particolare quelle basche, catalana e, in minor misura, galiziana) e il centro politico castigliano. La Costituzione della Spagna democratica del 1978 ha aperto la strada a una progressiva organizzazione del territorio in nuove entità. Essa prevede per "le province limitrofe con caratteristiche storiche, culturali ed economiche comuni, i territori insulari e le Province d'importanza regionale storica" la possibilità di accedere all'autogoverno costituendosi in Comunità autonome. La Costituzione elenca, all'art. 148, le competenze alle quali le Comunità autonome, una volta costituitesi, possono accedere (non necessariamente a tutte nello stesso momento) e le competenze esclusive dello Stato; essa, inoltre, prevede due diversi percorsi, uno più lento e uno accelerato, per l'acquisizione di ulteriori competenze tra quelle non elencate nell'art. 148, ma nemmeno espressamente attribuite allo Stato. Le regioni storiche, Catalogna, Paesi Baschi e Galizia, insieme all'Andalusia hanno utilizzato la seconda via, più veloce. Esse sono state le prime a costituirsi in Comunità autonome (tra il 1979 e il 1981) e hanno subito ottenuto importanti competenze, in particolare in materia linguistico-culturale. Già nel 1983, comunque, tutte le province spagnole erano organizzate in 17 Comunità.
L'ineguale distribuzione delle competenze tra le comunità storiche e le altre ha portato i maggiori partiti nazionali (Partito Socialista e Unione del Centro Democratico, poi sostituito dal Partito Popolare) a stipulare accordi per realizzare una maggiore omogeneità nel processo di decentramento, ad esempio imponendo alle Comunità assetti istituzionali simili (quali la forma parlamentare) e accelerando il processo di acquisizione di nuove competenze da parte delle Comunità non storiche. In questa direzione sono andati gli accordi del 1981, del 1992 e del 1996. Le disparità, comunque, permangono; alcune Comunità, in particolare quelle storiche, possiedono a tutt'oggi maggiori competenze. D'altro canto, lo stesso accordo del 1996, negoziato tra il Partito Popolare e i partiti nazionalisti basco, catalano e delle Canarie, accanto a misure generali per tutte le Comunità, ha previsto una serie di competenze speciali per le Comunità direttamente coinvolte nell'accordo: un segnale che le pressioni nazionalistiche rendono tutt'altro che semplice lo sforzo di omogeneizzazione dell'assetto decentrato spagnolo tentato dal centro.
Se diversi studiosi non hanno esitato a definire la Spagna di oggi uno Stato federale, altri hanno preferito attribuirle l'etichetta di 'regionale', un'etichetta che designa una forma di decentramento più moderato. Ciò a causa dei rilevanti poteri di controllo mantenuti dal centro sulle attività delle Comunità, della scarsa autonomia fiscale di queste ultime e, in particolare, della loro impossibilità a partecipare alla formazione della politica nazionale attraverso una vera e propria camera federale. La Spagna, però, ha portato "fino a un limite molto avanzato il suo regionalismo"(v. Bognetti, 2001, p. 108). Le resistenze all'omologazione e le richieste da parte delle regioni storiche di una sempre maggiore autonomia che consenta loro di mantenersi differenziate (ma anche le richieste di nuove competenze da parte delle altre regioni) fanno supporre che questo limite sarà forse superato e lasciano, comunque, aperta la questione di quale sarà l'esito istituzionale di questo processo di federalizzazione.
c) La Gran Bretagna
In Gran Bretagna, dove vige un sistema tradizionalmente considerato unitario e, secondo l'interpretazione prevalente nella scienza politica, caratterizzato da una cultura politica sostanzialmente omogenea, in seguito agli atti legislativi del 1997 sono sorte due istituzioni che hanno minato alla base tali concezioni: l'Assemblea gallese e il Parlamento scozzese. Esse, pur non essendo garantite da una costituzione scritta, della quale è priva la stessa Gran Bretagna, sono rafforzate nella loro legittimità dai referendum che hanno preceduto la loro creazione.
Il Parlamento scozzese gode di maggiori poteri rispetto all'Assemblea gallese. Esso può legiferare in qualsiasi materia che non sia specificamente riservata al Parlamento di Westminster e ha un limitato potere di tassazione. L'Assemblea del Galles, invece, può emanare solo una legislazione secondaria, nell'ambito delle linee indicate da Westminster, un potere di fatto comunque non trascurabile.
L'emanazione di questi provvedimenti da parte di un governo laburista (tradizionalmente i laburisti si sono caratterizzati per una maggiore sensibilità alle richieste delle periferie, rispetto ai conservatori) costituisce, come nel caso spagnolo, la risposta a richieste d'autonomia provenienti da periferie con una propria identità nazionale. D'altro canto, ciò non meraviglia se si prendono in considerazione interpretazioni della natura della Gran Bretagna più aderenti alla realtà rispetto a quelle che ne hanno tradizionalmente sottolineato il carattere omogeneo. Lo studioso di scienze politiche Derek Urwin, ad esempio, ricordava come il Regno Unito, piuttosto che un sistema politico omogeneo fosse da considerarsi il risultato di una fusione di unità diverse (l'unione dell'Inghilterra con il Galles risale al 1536, con la Scozia al 1701, con l'Irlanda al 1880) con proprie specifiche identità (v. Rokkan e Urwin, 1982).
d) L'Italia
Alla fine degli anni ottanta, in Italia, anche a fronte di una prova per lo più deludente fornita dalle Regioni istituite negli anni settanta, nonché delle gravi deficienze nel funzionamento della Repubblica nel suo complesso (e della pubblica amministrazione in particolare) si fanno più pressanti le richieste per un effettivo decentramento e un regionalismo funzionante. Il problema della riforma dello Stato entra, così, nell'agenda politica, sollecitato anche dalla nascita dei movimenti regionalisti nell'Italia del Nord (Liga Veneta, Lega Lombarda, Lega Nord), che a partire dagli anni novanta riscuotono un significativo consenso elettorale. Ed è proprio in quel decennio che cominciano a essere introdotte innovazioni a favore del rafforzamento delle regioni e delle autonomie locali, anche se al di fuori di un vero e proprio disegno organico e coerente.
Con la legge 142 del 1990 viene riformato l'ordinamento delle autonomie locali; parte così il lento cammino verso il decentramento dei poteri e delle funzioni. Nel 1993 è introdotta l'elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle Province (contestualmente alle nuove norme per l'elezione dei consigli provinciali e comunali), mentre nel 1999 è sancita l'autonomia statutaria delle Regioni e l'elezione diretta dei presidenti delle medesime.
Una via amministrativa al federalismo viene aperta nel 1997, con la cosiddetta 'legge Bassanini' e il successivo decreto legislativo del marzo 1998, con i quali si dispone il trasferimento dal centro alle Regioni e agli enti locali di importanti funzioni e compiti amministrativi. Peraltro, sono stati messi in luce molti limiti del processo così messo in moto, dall'ambiguità dei decreti attuativi, alla resistenza della pubblica amministrazione, all'immobilismo delle Regioni (v. Galullo, 2001).
Ma l'innovazione più significativa, almeno sulla carta, appare la riforma del titolo V della Costituzione, approvata dalla maggioranza di centro-sinistra all'inizio del 2001 e da più parti considerata una vera e propria riforma in senso federale. Secondo il nuovo testo, la Repubblica non 'si riparte' più in Regioni, Province e Comuni, ma sono gli stessi enti autonomi, insieme allo Stato, a 'costituire' la Repubblica. Il criterio delle competenze legislative è invertito, poiché ora è alle Regioni che sono attribuiti i 'poteri residui' (come avviene solitamente nei sistemi federali), mentre i poteri dello Stato sono esplicitamente elencati. Inoltre, la legislazione regionale è posta su un piano di parità con quella statale, là dove si afferma che "la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione". Le funzioni amministrative sono affidate ai Comuni, fatto salvo l'intervento di città metropolitane, Province e Regioni se si rende necessario assicurare l'esercizio unitario di tali funzioni, secondo il principio di 'sussidiarietà'. Più marcata è anche l'autonomia finanziaria riservata alle Regioni.
Un limite evidente rispetto agli assetti federali classici sta nella mancata previsione di una camera alta rappresentativa delle Regioni. Ma i problemi maggiori, rispetto all'obiettivo di un'effettiva strutturazione dello Stato italiano in senso federale, riguardano l'attuazione delle nuove norme costituzionali: ben poco, fino a ora, è stato fatto in proposito, ma proprio da ciò dipendono gli effetti che la riforma costituzionale avrà sul concreto funzionamento del nostro ordinamento.
5. Federalismo e nazionalismo
I processi di decentramento in Belgio, Spagna e Gran Bretagna sono avvenuti sotto la pressione delle richieste di una qualche forma di autogoverno da parte di minoranze con una specifica identità nazionale. Questa constatazione ci introduce al complesso tema del rapporto tra federalismo e nazionalismo, tema che sta suscitando un rinnovato interesse alla luce non solo delle esperienze dei paesi sopra citati, ma anche di fenomeni quali la dissoluzione di sistemi federali come l'URSS, la Iugoslavia e la Cecoslovacchia, o il periglioso cammino del sistema federale canadese, che dagli anni ottanta e novanta si trova esposto alla sfida della secessione.
a) Il federalismo asimmetrico
Una prima osservazione a questo proposito riguarda la natura 'asimmetrica' dei sistemi federali multinazionali, che esprime la necessità di riconoscere specifiche identità all'interno di comunità politiche più ampie. Il concetto di asimmetria esprime sia la presenza di unità della federazione con caratteristiche sociali e culturali diverse l'una dall'altra e rispetto alla comunità federale più ampia, sia una diversificazione nell'autonomia e nel potere di tali unità, derivante dalla traduzione, sul piano politico-istituzionale, dell'asimmetria socio-culturale (v. Tarlton, 1965). L'asimmetria politico-istituzionale concerne non solo il grado di autonomia attribuito alle diverse parti federate, ma può riguardare anche le loro istituzioni, che possono essere strutturate in modo non omogeneo.
È il caso del Belgio, dove l'asimmetria presenta una molteplicità di aspetti: l'esistenza di due enti differenti, quali le Comunità e le Regioni; le differenze nell'organizzazione istituzionale di Comunità e Regione fiamminghe e Comunità e Regione vallone; i più deboli poteri concessi alla Comunità germanofona e alla Regione di Bruxelles-capitale.
Nel caso spagnolo, l'asimmetria è implicita nella stessa Costituzione del 1978, che ha previsto due diversi percorsi del processo autonomistico e un'acquisizione dei poteri da parte delle comunità autonome graduale e da concordarsi singolarmente con il governo centrale; oggi, essa si esprime principalmente attraverso i diversi livelli di autonomia raggiunti dalle comunità, nonostante i tentativi di omogeneizzazione (peraltro in parte riusciti) operati dal centro.
Anche il processo che è stato avviato in Gran Bretagna presenta inequivocabili aspetti asimmetrici: oltre ai diversi poteri dei Parlamenti scozzese e gallese, va sottolineato anche il non coinvolgimento dell'Inghilterra, che ha mostrato ben scarso entusiasmo verso il processo di devoluzione.
Nel sistema federale canadese - ove, come è noto, esiste una forte minoranza di lingua francese - sono presenti diversi elementi d'asimmetria. Molteplici fattori (riconducibili principalmente alle scelte del livello federale e al comportamento delle province di lingua inglese, che fin dall'inizio hanno sfruttato la debolezza delle garanzie costituzionali concesse ai francofoni, in particolare al di fuori del Quebec) hanno fatto sì che, nonostante la presenza di minoranze di lingua francese anche nelle altre province, la difesa dell'identità francofona si trasformasse progressivamente in una difesa dell'identità del Quebec (l'unica provincia ove la presenza dei discendenti dei coloni francesi è maggioritaria), facendo delle sue istituzioni lo strumento privilegiato della difesa dell'identità francese in Canada.
Questa situazione ha prodotto un federalismo con importanti caratteri asimmetrici. Già l'atto del 1867 - con il quale il Parlamento britannico aveva dato vita al Dominion canadese, con struttura federale - prevedeva il bilinguismo nelle istituzioni giudiziarie e parlamentari del Canada e del Quebec, ma non delle altre province, e tanto meno nelle istituzioni educative della federazione. La nuova costituzione del 1982, con la quale è avvenuto il definitivo distacco dalla Gran Bretagna (il "rimpatrio" della Costituzione), ha mantenuto un'asimmetria nell'uso delle due lingue, anche se ha esteso, in maniera peraltro assai limitata, l'uso del francese. Una potenziale asimmetria deriva da un'altra disposizione della Costituzione del 1982, detta opting out: alle province è data facoltà di non applicare eventuali emendamenti costituzionali che trasferiscono al governo federale competenze in materie educative e culturali, ricevendo, al tempo stesso, un equo indennizzo per svolgere direttamente quelle competenze. Il Quebec ha fatto frequente ricorso a questa possibilità, marcando ulteriormente la sua specificità. In questo caso, l'asimmetria deriva, oltre che dalla possibilità concessa dalla carta costituzionale, dalla prassi politica instauratasi. E in effetti il caso canadese si distingue proprio per una natura asimmetrica che è limitata sul piano costituzionale (a causa della resistenza del governo federale, anche su pressione delle altre province, a riconoscere al Quebec un vero e proprio statuto distinto - distinct society), ma estesa sul piano della distribuzione delle competenze. Queste ultime, infatti, risultano differenziate tra le province (e le maggiori differenze riguardano il Quebec) in conseguenza di accordi bi- o multilaterali tra il governo federale e quelli provinciali, stipulati in occasione delle conferenze intergovernative province-governo federale. Con questi accordi si è affermata un'asimmetria principalmente di fatto, senza sanzione costituzionale. Un riconoscimento costituzionale al carattere di distinct society del Quebec fu tentato con gli accordi intergovernativi del 1987 e del 1992, che non riuscirono, però, a essere ratificati, anche a causa dell'ostilità delle province anglofone.
b) Le istituzioni federali come strumento per la coesistenza di più nazionalità
In che misura la costruzione di un assetto federale può risolvere il problema della coesistenza di più nazionalità all'interno di uno stesso ordinamento statale? Studiosi classici del federalismo, quali Friedrich, Elazar, Ivo Duchacek (v., 1970), già avevano sostenuto l'utilità delle istituzioni federali come mezzo per combinare nazionalità diverse in un unico ordine politico.
La letteratura politologica più recente (v. Stepan, 1998 e 2001; v. Stepan e Linz, 1992; v. Linz 1997; v. Gagnon e Tully, 2001), però, ha posto in primo piano il fatto che gli assetti federali in quanto tali non sono sufficienti a garantire l'integrazione, sottolineando la rilevanza della costruzione (mediante le scelte dei leaders politici e specifici disegni federali) di lealtà multiple (sia verso la comunità sub-statale, sia verso quella più comprensiva) per la realizzazione di sistemi federali stabili.
Questo è ciò che è avvenuto in Spagna (v. Stepan e Linz, 1992; v. Rocher e altri, 2001), grazie, tra l'altro, alle scelte dei protagonisti del processo di democratizzazione, che hanno favorito la legittimazione (mediante elezioni popolari) prima delle istituzioni spagnole, poi di quelle regionali, nonché alle caratteristiche del sistema partitico, dominato da grandi partiti organizzati su tutto il territorio spagnolo e da partiti nazionalisti almeno in parte coinvolti nel sostegno al governo a livello federale.
Lo sviluppo di identità duali pare sia invece mancato nel caso belga (v. Karmis e Gagnon, 2001). Qui le istituzioni decentrate hanno rafforzato le differenti identità nazionali, attraverso un sistema prevalentemente duale che penalizza la collaborazione tra le nuove entità federate e tra queste e il governo federale, in un contesto di scarsa attenzione alla dimensione unitaria. Lo stesso sistema partitico riflette questa separatezza: accanto ai partiti nazionalisti, quasi sempre esclusi dal governo, vi sono i tradizionali partiti (socialista, liberale e cristiano-democratico) che, ormai dagli anni Settanta, sono divisi al loro interno in una componente fiamminga e una francofona, fortemente autonome l'una rispetto all'altra. Questa situazione conferisce una natura instabile al federalismo belga, con continue richieste, in particolare da parte fiamminga, di maggiore autonomia e con il permanere di acuti conflitti di natura linguistica.
Anche il Canada presenta una natura instabile. Diversi avvenimenti dell'ultimo ventennio testimoniano l'elevata conflittualità esistente tra le varie parti della federazione: il referendum del 1980 - proposto dal Parti Québecois (PQ) allora al governo della provincia francofona, su una nuova forma di sovranità-associazione (l'indipendenza politica del Quebec con il mantenimento di legami economici con il resto del Canada) - raccolse il voto negativo del 60° degli abitanti della provincia; il mancato assenso di tale provincia alla nuova Costituzione del 1982; il fallimento degli accordi del 1987 (Meech lake accord) e del 1992 (Charlottetown accord); la riproposizione, nel 1995, dello stesso referendum del 1980 da parte del PQ, che questa volta è stato rifiutato solo dalla risicata maggioranza del 50,6°. Tale risultato ha indotto il governo canadese a sottoporre la questione della legalità di una secessione unilaterale alla Corte Suprema: secondo la sentenza emessa dalla Corte (agosto 1998), la secessione unilaterale avrebbe dovuto considerarsi illegale, ma, se una chiara maggioranza di cittadini del Quebec avesse votato a favore della secessione, ciò avrebbe imposto al governo federale e ai governi delle altre nove province l'obbligo di avviare dei negoziati a questo proposito. Una sentenza, dunque, che non esclude l'ipotesi di una secessione, ancorché negoziata.
Tra le cause di questa situazione sono stati evidenziati: il carattere non cooperativo ma 'competitivo' del federalismo canadese, caratterizzato da scarsi legami istituzionali tra i diversi livelli di governo (tra cui l'assenza di una camera che realizzi un'effettiva rappresentanza delle province); un sistema dei partiti scarsamente integrato a livello federale; il perseguimento di politiche - perlomeno fino alla metà degli anni ottanta - ostili al riconoscimento dello status di distinct society al Quebec. Tra i tentativi di andare verso un tale riconoscimento, e quindi verso l'affermazione di una più netta asimmetria costituzionale (che secondo diversi osservatori e studiosi costituirebbe la via per evitare una secessione che conta ormai numerosi sostenitori), oltre agli accordi del 1987 e del 1992 è da segnalare la dichiarazione del 1997, adottata dai Primi ministri delle province anglofone riuniti a Calgary (accolta favorevolmente dal governo federale, ma negativamente da quello del Quebec), con la quale si è tentato di coniugare, peraltro con difficoltà, il principio dell'eguaglianza delle province con il carattere unico della società quebequase.
c) Federalismo asimmetrico multinazionale: una giustificazione teorica
Nell'ultimo quindicennio il tema dei federalismi multinazionali ha attirato l'attenzione non solo dei politologi, ma anche dei filosofi della politica. In particolare, la necessità di adottare una particolare forma di federalismo per consentire la coesistenza di più nazionalità è stata sostenuta da esponenti delle tradizioni comunitaria (v. Taylor, 1993) e liberal-comunitaria (v. Kymlicka, 2001; v. Tully, 1995). Pur presentando tra loro alcune differenze, questi autori hanno cercato di fornire una legittimità teorica alla creazione di federalismi asimmetrici - nettamente distinti dai federalismi territoriali, formati esclusivamente da unità eguali, non connotate in senso nazionale - che, in quanto tali, consentano un riconoscimento delle specificità culturali di nazionalità territorialmente concentrate attraverso l'attribuzione di particolari poteri di autogoverno.
La natura asimmetrica dei federalismi multinazionali permette di distinguere, al loro interno, tra le unità federate regionali, prive di una qualche specifica identità culturale, e quelle nazionali, connotate da una cultura nazionale diversa da quella maggioritaria e dominante. Tale natura, però, richiede non solo l'attribuzione di poteri particolari alle unità federate nazionali, ma anche il riconoscimento alle minoranze nazionali dello status di 'popoli fondatori'. Il che significa riconoscere la natura composita dello Stato federale in questione e la sua genesi attraverso un patto tra popoli. È questa, ad esempio, la richiesta del filosofo Charles Taylor per il Canada, che sarebbe sorto dalla volontà dei due popoli francofono e anglofono.
I federalismi multinazionali asimmetrici rafforzano, però, il desiderio di maggiore autonomia delle minoranze nazionali. Ciò fa sì che essi debbano coesistere con la presenza al loro interno di pressioni da parte dei movimenti nazionalisti verso la secessione o verso forme di confederazione. Questo non porta necessariamente alla disgregazione della comunità federale: l'esperienza occidentale mostra, anzi, federalismi multinazionali in grado di sopravvivere a tali spinte. Il prezzo da pagare è l'accettazione di una debole e provvisoria forma di 'stare insieme' (togetherness) che coesiste con la continua messa in questione dell'esistenza della federazione da parte di minoranze che si percepiscono più come membri di una confederazione che non di una federazione. La dimensione unitaria sarà, quindi, inevitabilmente più debole non solo rispetto a quella dei sistemi unitari, ma anche a quella dei federalismi territoriali (v. Kymlicka, 2001).
Le prospettive comunitaria e liberal-comunitaria differiscono quanto ai loro assunti (in generale si può dire che la prima dà la precedenza al bene della comunità rispetto ai diritti dell'individuo, al contrario della seconda), ma condividono l'idea che lo Stato debba tutelare le minoranze nazionali riconoscendo la propria natura multinazionale. Da un lato, tale tutela risponde a un principio di giustizia: si tratta di proteggere le minoranze dalle spinte omogeneizzanti delle élites di governo del gruppo nazionale maggioritario (ad esempio, Castigliani vs. Baschi e Catalani) e, quindi, di proteggerle da ingiuste politiche di nation-building che dal punto d'osservazione delle minoranze si tramutano in politiche di national-destroying. Dall'altro, la salvaguardia delle culture nazionali rende possibile la libertà di scelta (di ciò che è una vita buona) dell'individuo: la sua appartenenza a una cultura nazionale rende significativa tale libertà, in quanto fornisce le consuetudini sociali oggetto della scelta e attribuisce loro un significato. Comunitari e liberal-comunitari riconoscono, quindi, l'esistenza di un diritto collettivo delle minoranze nazionali, che giustificano a partire dal diritto individuale della libertà di scelta, la quale a sua volta è resa possibile (anche se in modo diverso nelle due tradizioni) dall'esistenza di una cultura nazionale.
6. L'integrazione europea come processo di federalizzazione
Il percorso d'integrazione europea, in seguito ai trattati dell'ultimo quindicennio - dall'Atto Unico europeo del 1987, ai Trattati di Amsterdam (1997) e Nizza (2000), attraverso il passaggio fondamentale del Trattato di Maastricht del 1992 - è stato sempre più sovente interpretato come un processo di federalizzazione. Gli accordi che hanno scandito l'ultima parte del secolo scorso avrebbero rafforzato le istituzioni e il ruolo dell'Unione, a fronte del ruolo giocato dagli Stati, giustificando così una lettura diversa da quella in chiave intergovernativa, stato-centrica, che riconosce quali attori effettivi del processo integrativo gli Stati e vede gli attori sovranazionali come dipendenti dalla volontà dei governi nazionali.
Con l'Atto Unico europeo furono previsti un ampliamento del campo d'azione della Comunità e anche importanti cambiamenti istituzionali: furono rafforzati i poteri del Parlamento; al Consiglio europeo (una tipica istituzione intergovernativa, formata dai capi di Stato e di governo) fu dato un riconoscimento giuridico; in seno al Consiglio dei ministri (il principale centro decisionale del sistema di governo comunitario, composto dai ministri dei diversi settori d'attività) fu ampliato l'uso del voto a maggioranza qualificata, a scapito del voto all'unanimità, indebolendo così il potere di veto dei singoli Stati.
Con il Trattato di Maastricht, oltre all'instaurazione di un'Unione economica e monetaria, furono indicati come obiettivi l'affermazione di un'identità europea sulla scena internazionale attraverso l'attuazione di una Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) e, in prospettiva, di una difesa comune; l'istituzione di una cittadinanza europea; lo sviluppo di una stretta cooperazione nel settore della giustizia, civile e penale, e degli affari interni (CGAI - Cooperazione Giudiziaria e negli Affari Interni). Fu così introdotta la struttura cosiddetta 'a pilastri', che contraddistingue quella che da allora viene chiamata Unione Europea. Il primo pilastro riguarda le politiche comuni (dall'agricoltura, ai trasporti, alla politica regionale) e vede il monopolio dell'iniziativa legislativa nelle mani della Commissione (istituzione sovranazionale, composta da un Presidente e da 19 commissari provenienti da diversi paesi, ognuno responsabile di un settore); un Parlamento (i cui poteri sono, con questo Trattato, ampliati) che, a seconda dei casi, viene consultato, propone emendamenti o co-decide; un Consiglio dei ministri, che detiene il potere decisionale e decide, a seconda dei casi, all'unanimità o a maggioranza. Il secondo e terzo pilastro (PESC e CGAI) riflettono meno il metodo della 'integrazione comunitaria' rispetto al primo, e funzionano prevalentemente con modalità intergovernative, ossia la Commissione condivide il potere di iniziativa con gli Stati membri, il Parlamento viene semplicemente informato o consultato, e il Consiglio dei ministri decide all'unanimità (v. Gozi, 2000). Questi due ultimi pilastri, che fino a oggi hanno raggiunto risultati di gran lunga inferiori rispetto a quello comunitario, sono quelli che meno sono stati investiti dal processo di federalizzazione (v. Bognetti, 2001).
Con il Trattato di Amsterdam si è avuta un'ulteriore espansione dei poteri del Parlamento e delle materie sulle quali il Consiglio dei ministri deve decidere a maggioranza. Nel testo del Trattato si esprime anche, esplicitamente, la volontà di procedere verso una sempre maggiore integrazione, di segnare "una nuova tappa nel processo di creazione di un'unione sempre più stretta tra i popoli d'Europa, in cui le decisioni siano prese nel modo più trasparente possibile e il più vicino possibile ai cittadini" (art.1).
Questi trattati hanno dunque rafforzato l'idea del processo d'integrazione come processo di federalizzazione, pur nella consapevolezza che al momento ci si trova in un punto del processo che non consente di definire in modo chiaro ciò che Jacques Delors ha chiamato l'"oggetto politico non identificato" che abbiamo di fronte. A questo proposito, diversi studiosi hanno tentato di individuare i fattori che avvicinano l'Unione Europea al modello federale e quelli che ancora la differenziano da esso. Tra i primi, Neill Nugent (v., 19994) include la presenza di un potere diviso tra istituzioni comunitarie (Commissione, Consiglio, Parlamento europeo) e istituzioni statali; il riconoscimento di questa divisione attraverso documenti costituzionali (i trattati) e la presenza di un organo giudiziario, la Corte di giustizia, investita del potere di giudicare le eventuali controversie tra i livelli di governo; l'attribuzione di importanti poteri e responsabilità politiche a entrambi i livelli; l'assunzione di significative, anche se non esclusive, responsabilità di tipo economico al livello dell'Unione. Tra i secondi, la dipendenza dai governi nazionali rispetto a molte responsabilità (quelle che richiedono il voto unanime in seno al Consiglio) che formalmente spetterebbero al centro e il mantenimento, in misura prevalente, di responsabilità nazionali in settori che solitamente sono prerogativa del livello federale. Affari esteri, sicurezza e difesa, diritti dei cittadini, infatti, hanno conosciuto un certo sviluppo a livello dell'Unione, ma solo in grado limitato e su base ampiamente intergovernativa.
Un'ultima osservazione riguarda il fatto che il coesistere di specificità nazionali all'interno dell'Unione Europea attuale e di quella futura, allargata a oriente, rende probabile la costruzione di un federalismo - se federalismo sarà - di natura asimmetrica. In tale direzione, d'altro canto, è già orientata una disposizione del Trattato di Amsterdam: il principio di 'flessibilità', che consente a una maggioranza di paesi, nel caso vi sia l'opposizione di altri a ulteriori forme di cooperazione, di instaurare tra loro una cooperazione rafforzata facendo ricorso alle istituzioni, alle procedure e ai meccanismi previsti dai trattati.
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