Federalismo
(XIV, p. 932; App. II, i, p. 911)
Considerazioni generali sul dibattito attuale in materia di federalismo
Nell'ultimo decennio del sec. 20° il dibattito politico non solo italiano ha riportato di attualità le dottrine federaliste sotto molteplici punti di vista. Ma proprio la pluralità delle prospettive ha reso più ambiguo l'uso dell'espressione 'federalismo', nella misura in cui a essa sono stati assegnati significati diversi in funzione dei differenti problemi di ordine interno e internazionale cui si voleva dare risposta facendo appello agli insegnamenti del federalismo. Sulle scelte effettuate in merito non potevano non pesare gli obiettivi politici ed economici di volta in volta perseguiti da quanti si sono fatti promotori di soluzioni federaliste.
Comparato agli andamenti del dibattito scientifico di un tempo, lo sviluppo della discussione sul f. segna un rilevante mutamento di impostazione. Mentre per il passato il f. si è proposto come un modello di organizzazione delle società politiche fondato sulla progressiva integrazione di comunità originarie in comunità di più vaste proporzioni, oggi di f. si ragiona anche con riguardo a transizioni istituzionali che implichino la devoluzione di poteri di Stati più o meno accentrati a enti di minori dimensioni, preesistenti o istituiti ex novo. In questa prospettiva il tema dell'appartenenza della sovranità sfuma sullo sfondo. Acquista, invece, nuovi motivi di interesse la questione del quantum di attribuzioni che deve essere riconosciuto agli enti infrastatuali di livello intermedio (Länder, Regioni, comunità autonome, cantoni o Stati membri) perché a un dato ordinamento statuale si possa legittimamente riconoscere la qualifica di ordinamento federale a preferenza di altre ritenute più riduttive, quale quella di Stato regionale, che si vuole propria di ordinamenti in base ai quali agli enti intermedi non spetta una posizione costituzionale comparabile a quella a loro riconosciuta negli Stati federali. E, però, con la sostituzione di un disegno devolutivo a uno federativo i soggetti della federazione non sono più concepiti come titolari di un potere originario, ma fondano le loro attribuzioni soltanto su disposti della Costituzione revisionata. In certa misura si può dire che sono titolari di poteri propri alla stessa stregua dello Stato centrale, giacché pure questo fonda sulla Costituzione la sua autorità, ma solo lo Stato centrale può dirsi originario in quanto a esso si imputa l'ordinamento complessivo, che per disegno costituzionale si riparte negli enti substatali. Inoltre non va pretermessa la circostanza che fra questi ultimi (così accentuandone la distinzione dallo Stato) hanno avuto cittadinanza, almeno nel contesto del dibattito politico italiano sul f., non soltanto gli enti intermedi ma quantomeno anche i Comuni, se è vero che di f. si è pure parlato con riguardo a un nuovo statuto costituzionale dei Comuni, nell'intento di garantirne l'autonomia in concorrenza con quella delle Regioni. D'altra parte, lo studio del diritto comparato e l'analisi di vicende internazionali dimostrano che l'antica, tradizionale figura dello Stato federale è stata al tempo stesso ripudiata in contesti geografici in cui sembrava costituire la soluzione ottimale per la convivenza di comunità fra loro diverse per lingua, religione e tradizione storica, e ha trovato nuove ragioni di attualità in altri contesti, in quanto capace di fornire alla diplomazia delle cancellerie uno strumento flessibile di soluzione di conflitti altrimenti inestricabili. Vero è, tuttavia, che l'apparenza di un accordo o foedus fra le parti confliggenti serve spesso a coprire l'imposizione di modelli costituzionali confezionati da chi si assume il ruolo di mediatore di controversie internazionali, ovvero da chi aspira a compattare attorno a un nucleo centrale comunità diverse e animate da moti centrifughi.
Infine, il processo di costituzione dell'Unione Europea - di seguito al progressivo affermarsi delle Comunità - ha dato nuovo spessore alla rivendicazione di una Federazione europea. Che questa possa essere sin d'ora identificata nel complesso delle istituzioni europee è generalmente contestato sia in sede politica sia in sede dottrinale, benché la Corte europea di Lussemburgo adotti sempre più schemi di ragionamento e argomenti propri della giurisprudenza delle Corti costituzionali di Stati federali. D'altra parte, l'evoluzione in atto di un sistema in cui fra autorità comunitarie e cittadini degli Stati membri vi è un rapporto diretto, nel senso che gli atti delle une vincolano immediatamente i secondi e questi si vedono garantiti diritti nei confronti di quelle, sembra rendere sempre più difficile il ricorso al modello dell'organizzazione sovranazionale specializzata, esigendo quanto meno una nuova riflessione sul concetto tradizionale di confederazione di Stati e sulla sua applicabilità al caso di specie.
Il federalismo e la riforma costituzionale italiana
L'estensione della tematica federalista agli enti locali minori (fenomeno che si riscontra al livello del dibattito politico italiano) trova cittadinanza in sede scientifica soltanto nella misura in cui vengano svincolate le dottrine federalistiche da un rapporto di necessaria connessione con la teoria dello Stato federale.
Spontaneo corre il richiamo all'insegnamento più antico di P.-J. Proudhon e delle scuole a noi più vicine del personalismo (D. de Rougemont, E. Mounier, J. Maritain). Si tratta, però, di riferimenti che hanno significato più sul piano ideologico e del confronto delle idee che su quello dell'ingegneria costituzionale, non avendo mai trovato positiva formulazione il disegno di un ordinamento statale fondato sul concorso originario di minori comunità territoriali, quali i Comuni - anzitutto - e le Province. Il modello dello Stato federale implica di per sé il rifiuto dell'assimilazione di tali comunità territoriali minori agli enti intermedi o Stati membri, di norma comportando, anzi, l'attribuzione proprio a questi ultimi dei poteri di ordinamento e disciplina delle attribuzioni dei livelli inferiori del governo locale.
È appunto sul terreno politico che l'approccio 'federalista' al tema dell'autonomia dei Comuni si è tradotto nella formulazione di proposte di revisione costituzionale volte a ottenere l'espressa riserva nella Costituzione dei poteri di spettanza dei Comuni medesimi. L'obiettivo è evidentemente quello di assicurare anche a questi ultimi una garanzia costituzionale che sottragga le loro attribuzioni alla disponibilità delle Regioni, le quali sono accusate di avere dato vita nel passato, a livello regionale, a un nuovo centralismo, allontanando così ancora una volta la cura degli interessi pubblici di livello locale dalle popolazioni più direttamente interessate. Trova pertanto attenzione presso le forze politiche e sociali il principio di sussidiarietà, benché sia estraneo alla nostra tradizione costituzionale. È stato riportato di attualità dal suo inserimento nell'art. 3 B del Trattato sull'Unione Europea siglato a Maastricht nel febbraio del 1991, che in sostanza consente interventi dell'autorità (centrale) comunitaria nei settori non di sua competenza esclusiva, "soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell'azione in questione, possono essere realizzati meglio a livello comunitario". Come è agevole osservare, la formulazione del principio riguarda il rapporto autorità comunitarie/Stati membri, ma qualora ne venga prospettata l'estensione al rapporto fra lo Stato ed enti territoriali infrastatuali, si viene a configurare la possibilità che le attribuzioni di questi ultimi (le quali dovrebbero avere un trattamento preferenziale) recedano dinanzi a quelle delle autorità centrali dello Stato, alle quali si consentirebbe di espandersi solo in presenza delle condizioni di inadeguatezza all'intervento delle autorità di livello inferiore.
È un approccio che si riscontra, per es., nell'ordinamento federale tedesco, che in presenza di determinate esigenze espressamente indicate dalla Costituzione federale (art. 72. 2) riconosce al Bund il potere di sostituirsi ai Länder. Si tratta, però, di un disegno che implica una certa flessibilità nella definizione delle competenze fra i vari livelli di governo, laddove almeno a parole la rivendicazione federalista nasce in Italia in questi anni con l'obiettivo di meglio assicurare e garantire nei confronti dello Stato le attribuzioni degli enti infrastatuali che nell'attuale ordinamento (regionale) sarebbero troppo spesso risultati indifesi nei confronti del legislatore nazionale.
In realtà, chi si fa sostenitore di una siffatta rivendicazione finisce per dimenticare che ormai il modello classico del cosiddetto f. duale, caratterizzato cioè da una rigidamente garantita definizione delle competenze del centro e della periferia, ha dovuto storicamente cedere il passo - per la stessa complessità della società contemporanea connotata da profonde interdipendenze sociali ed economiche - al cosiddetto f. cooperativo, oggi presente in Germania, negli Stati Uniti, in Canada e in Australia, ove alle autorità centrali della Federazione si consentono interferenze nelle attribuzioni periferiche ogniqualvolta interessi generali o esigenze unitarie lo richiedano. Il rischio di espropriazione di competenze, cui sono esposti Länder o Stati membri, viene normalmente compensato da una diretta partecipazione di questi ultimi ai processi decisionali federali, quando appunto sono in discussione i rapporti fra autorità federali e locali. Ed è per questo che si sostiene che nello Stato federale la forma del governo centrale deve adeguarsi alle esigenze di eguale partecipazione delle unità componenti, sull'esempio di quanto avviene negli Stati Uniti, ove in Senato siedono due senatori per ogni Stato membro, o in Germania, il cui Bundesrat è composto da esponenti dei governi dei Länder. Riflessi di questa posizione si sono avuti in Italia, quando alla rivendicazione federalista si è congiunta la richiesta di una riforma del Senato per una sua conversione in Camera delle Regioni.
Il federalismo nel diritto costituzionale comparato: aggiornamenti
L'orientamento dell'attenzione riservata al tema del f. nei dibattiti politici italiani non trova sempre riscontro negli sviluppi del diritto costituzionale in Europa e negli altri continenti. È opportuno anzitutto rammentare che il crollo dei regimi comunisti ha implicato la dissoluzione di importanti sistemi federali, ove l'introduzione di un assetto composito di governo era considerata come un'adeguata soluzione del problema della convivenza di gruppi (nazionali) linguistici, religiosi ed etnici diversi. In realtà, da molte parti si era dubitato che quelli in atto nel passato nell'Europa centro-orientale potessero realmente classificarsi come autentici sistemi federali, giacché vi ostava il carattere totalitario dei regimi comunisti. Eppure, proprio nel momento in cui con l'avvento dei principi di libertà e democrazia l'URSS e gli Stati federali di Iugoslavia e Cecoslovacchia avrebbero potuto trovare una giusta conciliazione fra le basi del nuovo sistema politico e la forma federale di Stato, il risveglio delle 'nazioni' dell'Europa centro-orientale ha portato alla dissoluzione dei rispettivi ordinamenti federali, privi ormai del collante dell'ideologia e ancora incapaci di trovare nei valori civici dell'Europa occidentale il fondamento per la prosecuzione della convivenza fra le diverse comunità coinvolte nelle precedenti esperienze. Nel caso della Iugoslavia la cessazione dell'ordinamento federale è stata ricondotta alla crisi delle istituzioni centrali, cui si sarebbero sovrapposte - fra il 1990 e il 1991 - le dichiarazioni di indipendenza di Slovenia, Macedonia (rectius Repubblica ex iugoslava di Macedonia), Croazia e Bosnia ed Erzegovina, con le dirompenti conseguenze belliche e di disordine costituzionale che - com'è noto - hanno interessato questi ultimi due paesi, e che sono state solo formalmente sanate con gli accordi di Washington e Dayton (v. oltre). Pacifica conclusione ha avuto la federazione cecoslovacca, dichiarata cessata con legge costituzionale 25 nov. 1992, adottata dagli stessi organi federali. E analogamente l'URSS è arrivata sostanzialmente in via pacifica al termine della sua esistenza con la Dichiarazione di Alma-Ata, sottoscritta da tutte le repubbliche federate, escluse le baltiche già uscite dall'Unione e la Georgia (21 dic. 1991).
A fronte di queste esperienze, che definiremo negative, vi sono, però, vicende che possiamo considerare di segno opposto, in quanto non solo indicano una ripresa di interesse per il modello dello Stato federale, ma anche attestano nuovi tentativi per una sua costruttiva utilizzazione. Come già per le vicende di dissoluzione, solo parzialmente risulta rispettato il principio della vecchia dogmatica giuridica per cui avvento e morte di una federazione dipendono dalla volontà degli enti partecipanti. Del resto, se si guarda alla storia di alcune delle più note federazioni, si può agevolmente constatare che non sempre alla costituzione dei relativi ordinamenti federali si è arrivati con il consenso unanime degli Stati membri o dei Länder o dei cantoni interessati.
Il caso certamente più interessante è quello del Belgio, che con la riforma costituzionale del 1993 viene oggi espressamente definito nella sua carta fondamentale "Stato federale che si compone di Comunità e di Regioni". Si tratta della conclusione, probabilmente non ancora definitiva, di un processo che ha seguito uno svolgimento opposto e diverso rispetto a quello in cui si articolano normalmente le vicende di federalizzazione.
Lo Stato federale in Belgio non nasce dall'accordo fra più entità preesistenti con conseguente cessione a opera di queste di una parte delle loro attribuzioni a un'entità nuova e a esse sovrastante e, come tale, destinata a far valere la sua autorità anche sui territori e nei confronti delle popolazioni di quelle preesistenti entità. Anziché un processo di concentrazione si è avuto, dunque, un processo di devoluzione con trasferimento di attribuzioni dallo Stato unitario preesistente a entità minori dallo stesso Stato unitario a suo tempo istituite, con riferimento all'insediamento sul territorio dei gruppi linguistici in cui i cittadini dello Stato belga si ripartono. L'anomalia del fenomeno è poi accentuata dal fatto che la struttura federale si compone di tre Comunità e di tre Regioni, fra le quali non vi è, però, perfetta corrispondenza, giacché alle prime corrispondono i tre gruppi francese, fiammingo e germanofono, laddove solo Valloni e Fiamminghi hanno una Regione di riferimento, la terza Regione comprendendo l'intera area di Bruxelles-capitale e la Regione vallone includendo anche la comunità germanofona. Al di là della complessità dei risultati istituzionali raggiunti, il caso belga costituisce utile termine di raffronto per tutti i movimenti che chiedono l'avvio di processi di disarticolazione di Stati unitari in Stati federali, mettendo così in discussione il modello tradizionale di formazione degli Stati federali per accordo o foedus di comunità originarie preesistenti.
Qualcuno dubita che quello belga abbia fondatamente titolo a essere annoverato fra gli ordinamenti federali, ma è fuor di dubbio che la formula prescelta dal legislatore costituzionale vuole indicare una linea di tendenza, la cui concretizzazione è affidata a tutte le autorità cui spetta di dare attuazione alla riforma. Ciò che comunque viene messo in rilievo è, dunque, il processo di federalizzazione (per usare un'espressione cara a C. Friedrich). E questa connotazione può consentire di avvicinare al caso belga quello del Sudafrica, dove con la Costituzione del 1996 le Province hanno acquisito poteri inusuali per le autorità periferiche di uno Stato unitario e, per quanto subordinate ai poteri dello Stato centrale, sono in posizione di condizionare con il loro veto l'approvazione della legge nazionale che pure, una volta approvata, prevale sulle loro leggi.
Per altro verso, il ricorso al modello federale in Sudafrica in vista della gestione di un territorio molto ampio e caratterizzato dall'insediamento di popolazioni fra loro molto diverse richiama la vicenda dell'avvento della nuova Federazione Russa. Questa è, tuttavia, fondata su due serie distinte di atti ispirati, da un lato, al principio del consenso unanime delle entità partecipanti alla Federazione e, dall'altro lato, al canone dell'unità dell'ordinamento federale. Sotto il primo profilo si segnalano i Trattati sulla Federazione, firmati il 31 marzo 1992, e volti a delimitare le competenze fra gli organi federali e, rispettivamente, le Repubbliche sovrane appartenenti alla Federazione, i territori e le Regioni e le città di Mosca e San Pietroburgo, e Regioni e circondari autonomi. Il principio unitario sembra - per passare al secondo profilo - avere acquistato una qualche prevalenza, giacché della Costituzione federale approvata da tutto il popolo con il referendum del 12 dicembre 1993 i Trattati sulla Federazione non sono parte integrante, il che consente di concludere che in caso di conflitto è la Costituzione a prevalere sulle intese negoziali.
Alle vicende ora descritte è rimasta estranea qualsiasi influenza di istituzioni internazionali o di cancellerie diplomatiche, le quali hanno, invece, molto pesato quando si è tentato di dare una soluzione ai conflitti in Bosnia ed Erzegovina, prima prevedendo con gli accordi di Washington (marzo 1994) la Federazione di Bosnia ed Erzegovina divisa in Cantoni, secondo la distribuzione sul territorio dei due popoli costituenti (bosniaci e croati), e poi disegnando con gli accordi di Dayton (novembre 1995) per la Repubblica di Bosnia ed Erzegovina un ordinamento quasi federale, inclusivo della anzidetta Federazione e della Repubblica serba. Solo gli sviluppi futuri consentiranno di dire se gli sforzi di ingegneria costituzionale dei mediatori internazionali troveranno soddisfacente riscontro nell'effettività dei sistemi federali da essi prefigurati e formalmente accettati dalle parti interessate.
Elementi di federalismo nel processo di unificazione europea in atto
L'inserzione del principio di sussidiarietà nel Trattato di Maastricht pone in termini nuovi il problema della qualificazione dell'ordinamento comunitario. L'applicazione di quel principio implica una certa flessibilità nell'esercizio delle competenze del centro e della periferia, consentendo la sostituzione dell'uno all'altro livello di governo, quando le circostanze lo richiedano. Riferito al rapporto fra autorità comunitarie e autorità degli Stati membri, esso sembra presupporre un continuum ordinamentale, che tutte le riconduca al contesto di un unico sistema normativo. In sostanza, se l'assunzione a opera degli organi della Comunità di compiti, per i quali i governi statali si rivelino insufficienti, non richiede l'intermediazione di una ratifica da parte degli organi statali della decisione comunitaria, affinché questa dispieghi efficacia negli ordinamenti degli Stati membri e legittimamente le autorità comunitarie si sostituiscano a quelle degli Stati medesimi, pare evidente che sia le une sia le altre sono entrate a comporre un unico ordinamento. È questo ordinamento che fonda il riparto delle competenze e la sua flessibilità, consentendo le vicende di sostituzione di cui si è detto. È necessario chiedersi se vi siano elementi sufficienti per assimilare un tale ordinamento agli ordinamenti federali. Il quesito non è nuovo, ma si è già proposto con riguardo al sistema delle fonti e a quello della giurisdizione del diritto comunitario. Da un lato, i regolamenti comunitari dispiegano immediata efficacia negli ordinamenti degli Stati membri, senza necessità di un'interposizione dei Parlamenti degli stessi e anzi, in virtù della giurisprudenza della Corte di giustizia, effetti in parte analoghi sono riconosciuti anche alle direttive comunitarie che siano in possesso di particolari requisiti di specificità e determinatezza, e alle stesse norme dei trattati. Dall'altro lato, pure le decisioni della giustizia comunitaria producono effetti immediati negli ordinamenti statali. Una parte della dottrina costituzionalistica cerca di giustificare questa rilevanza immediata ricorrendo all'artifizio di tenere distinte l'efficacia degli atti comunitari nell'ordinamento loro proprio e l'efficacia degli stessi nell'ordine dei singoli Stati: l'avvento delle fonti-atto comunitarie nell'ordine europeo costituirebbe il fatto giustificativo dell'insorgere negli ordinamenti statali di fonti-fatto ovviamente distinte e separate, anche se a quelle parallele e conformi. Ma questa ricostruzione, a parte la sua macchinosità, contrasta con gli assunti della giurisprudenza comunitaria, proprio per quanto riguarda la separazione dei due ordini di sistemi giuridici che la Corte comunitaria contesta e la tesi sopra descritta intende mantenere. In definitiva, la Corte di Lussemburgo non è disposta ad accettare che gli effetti degli atti comunitari negli ordinamenti statali dipendano da meccanismi interni di questi: essa resta ferma nella convinzione che quegli effetti siano direttamente addebitabili all'adozione degli atti comunitari in sede europea.
L'atteggiamento della giurisprudenza comunitaria spiega perché essa faccia tanto di frequente ricorso agli schemi di ragionamento della dottrina degli Stati federali per riportare a sistema le vicende del diritto comunitario. È, però, difficile accettare su queste sole premesse la tesi dell'appartenenza dell'ordinamento comunitario alla categoria degli ordinamenti federali. A differenza degli ordinamenti federali contemporanei quello comunitario non è fondato su una sua propria, originaria decisione. Non si riconosce in una Costituzione unitariamente voluta dal popolo e dalle entità costitutive della Comunità. La sua base resta sempre pattizia. Secondo alcuni autori (C. Lavagna, G. Zagrebelsky) ogni Stato membro resta dominus della sua appartenenza all'Unione nella misura in cui la relativa decisione è stata adottata alla stregua delle regole interne dello Stato medesimo e conserva validità ed efficacia in tanto in quanto quelle regole lo consentano, e una difforme decisione non sia adottata dagli organi competenti nel rispetto di quelle stesse regole. Secondo altri interpreti (G. Morelli, G. Sperduti, R. Monaco, M. Giuliano) le norme generali di diritto internazionale escludono la possibilità di un recesso unilateralmente disposto. Anch'essi ritengono, comunque, che il problema non possa essere risolto dall'esclusivo punto di vista dell'ordine comunitario. Le federazioni europee contemporanee (quali Germania, Svizzera e Austria, per es., ma si veda anche quanto si è detto a proposito della Russia) trovano tutte la base del loro ordine in una Costituzione unitaria, per la cui adozione non è stata necessaria di norma l'unanimità degli enti partecipanti, e dalla quale, per contro, non viene nemmeno considerata l'eventualità dell'uscita di uno di tali enti dall'Unione. In ogni caso, rilevante è soltanto la prospettiva dell'interno ordine federale. Ciò non esclude che il progredire dell'Unione possa consentire di parlare in futuro di una federazione europea, anche forzando l'atteggiamento negativo mantenuto al riguardo dai governi degli Stati membri.
Non può nemmeno definirsi federazione la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), la cui formazione si è voluta far coincidere con la cessazione dell'URSS (dicembre 1991) per mantenere rapporti di collaborazione fra le ex Repubbliche federate, senza tuttavia che sia stato ottenuto il consenso di tutte queste ultime. Inoltre è risultato difficile dare un seguito ai numerosi accordi firmati, sicché l'implementazione delle intese sembra destinata ad arenarsi, vertendo anzitutto i contrasti sugli aspetti militari della cooperazione e sull'elaborazione di politiche economiche comuni.
bibliografia
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Sul dibattito italiano: Federalismo e autonomia in Italia dall'Unità ad oggi, a cura di C. Petraccone, Roma-Bari 1995 e A. Barbera, G. Miglio, Federalismo e secessione, Milano 1997.
Sulle esperienze europee: Federalismo e regionalismo in Europa, a cura di A. D'Atena, Milano 1994, e Quale dei tanti federalismi?, Atti del convegno internazionale organizzato dalla facoltà di Giurisprudenza dell'Università "La Sapienza", Roma 31 genn.-1° febbr. 1997, a cura di A. Pace, Padova 1997, nonché La volontà degli Stati membri e delle Regioni nelle vicende del federalismo, a cura di S. Bartole, Torino 1996.
Sul processo di unione europea: Il federalismo e la democrazia europea, a cura di G. Zagrebelsky, Roma 1994, e Le prospettive dell'Unione europea e la Costituzione, Atti del convegno, Milano 4-5 dic. 1992, a cura dell'Associazione italiana dei costituzionalisti, Padova 1995.