Diritto, filosofia e teoria generale del
"Il cercare una qualsiasi definizione di filosofia del diritto - ha scritto Norberto Bobbio (v., 1965, p. 37) - è un'inutile perdita di tempo".Se conveniamo di impiegare l'espressione 'filosofia del diritto' per designare tutto (e solo) ciò che fanno i filosofi del diritto, ossia gli accademici che di fatto si fregiano di questo nome, dobbiamo anche convenire che tale espressione non ha un senso univoco e un riferimento preciso. E lo stesso può dirsi delle espressioni (più o meno) equivalenti in altre lingue, quali legal philosophy, philosophie du droit, Rechtsphilosophie, filosofía del derecho, ecc. In pratica, parlare di filosofia del diritto in questo senso equivale a considerare filosofico-giuridico pressoché ogni discorso che abbia a oggetto il diritto (o che abbia comunque una sia pur vaga attinenza con l'esperienza giuridica) senza tuttavia essere un discorso tecnico-giuridico (è quanto fa, per esempio, Fassò: v., 1970). Ciò dipende dal fatto che la filosofia del diritto si presta a essere praticata in tanti modi quanti sono i diversi modi, combinatoriamente possibili, di concepire il diritto, la filosofia, e perciò anche le relazioni tra questa e quello.Di fatto, la moderna letteratura filosofico-giuridica costituisce un insieme eterogeneo almeno sotto due profili importanti. Da un lato, essa include opere assai diverse sotto il profilo 'stilistico' (di ciò diremo subito, al §1b). Dall'altro, essa include opere assai diverse sotto il profilo del loro oggetto d'indagine (di ciò diremo più avanti, al §1f).
Si incontrano, nella letteratura filosofico-giuridica, due modi radicalmente differenti di concepire la filosofia del diritto e due stili assai diversi nel praticarla. Mettendo a frutto un suggerimento di Bobbio, possiamo convenire di chiamarli, rispettivamente: lo stile dei filosofi e lo stile dei giuristi. Per coglierne immediatamente la differenza, si potrebbero mettere a confronto, ad esempio, le Grundlinien der Philosophie des Rechts (1821) di Hegel con The province of jurisprudence determined. A philosophy of positive law (1832) di John Austin.La filosofia del diritto dei filosofi è una Weltanschauung, una concezione del mondo, o, se si vuole, una 'filosofia' (senza aggettivi né complementi di specificazione) meccanicamente applicata al diritto. Le diverse concezioni del mondo (per esempio: l'idealismo, il tomismo, il marxismo, lo spiritualismo, ecc.) si caratterizzano per il fatto di cercare e offrire soluzioni non già a problemi specifici e settoriali, bensì a tutti i cosiddetti 'massimi problemi', quali l'ontologia, la gnoseologia, l'etica, e via dicendo. Fare filosofia del diritto, per un filosofo, consiste nell'abbracciare l'una o l'altra concezione del mondo e da questa ricavare lessico, concetti e principî precostituiti onde rispondere in modo sistematico (anche) ai problemi del diritto e/o della giustizia. Tali problemi, così facendo, vengono affrontati non già muovendo 'dall'interno' dell'esperienza giuridica, bensì a partire dalle soluzioni già fornite a problemi di tutt'altra natura. "Così avviene - scrive Bobbio - che completi sistemi di filosofia del diritto vengano elaborati da chi non ha che nozioni molto elementari di diritto" (v. Bobbio, 1965, pp. 40-41).
La filosofia del diritto dei giuristi, al contrario, è quella che più comunemente si chiama teoria (generale) del diritto (legal theory, general jurisprudence, allgemeine Rechtslehre, théorie générale du droit, ecc.). Essa muove non da precostituite concezioni generali del mondo (per le quali, anzi, non mostra alcun interesse), bensì da specifici problemi concettuali nati in seno alla giurisprudenza stessa (v. Fitzgerald, 1966¹²; v. Paton, 1972⁴; v. Dias, 1979³). È la filosofia 'dei giuristi' non solo nel senso che è praticata solo da giuristi professionisti, ma anche nel senso che è ancillare al lavoro dei giuristi e, per gran parte, consiste proprio in una riflessione critica su di esso (v. §§ 1c e 1g).La filosofia giuridica dei filosofi - nota ancora Bobbio - è connessa a una concezione della filosofia assai vetusta, ma ormai screditata, secondo cui la filosofia è, per l'appunto, una concezione globale del mondo, e il filosofo è "un essere onnisciente che mette bocca in tutte le questioni e tutte le risolve in base a quella concezione". La filosofia giuridica dei giuristi, al contrario, è oggi connessa alla concezione della filosofia che è propria dell'empirismo e delle correnti analitiche novecentesche. La filosofia giuridica dei filosofi, sempre secondo Bobbio, suscita una naturale ostilità nei giuristi, che non la capiscono e non ne riconoscono l'utilità. Mentre "la filosofia del diritto di indirizzo analitico - come scrive Uberto Scarpelli - è stata e sta particolarmente attenta al lavoro dei giuristi, e viceversa, grazie alla natura dei suoi problemi e al suo modo di affrontarli, sul lavoro dei giuristi ha potuto esercitare una notevole influenza" (v. Scarpelli, Filosofia..., 1982, p. 175). Ma la filosofia giuridica di indirizzo analitico merita un discorso specifico.
Scrive Alf Ross (v., 1958, pp. 25-26) che nell'ambito della filosofia contemporanea di indirizzo empiristico si ritiene che la filosofia non abbia un oggetto specifico, vuoi coordinato con, vuoi distinto da, quello delle varie scienze: "La filosofia non è deduzione da principî di ragione mediante cui ci venga rivelata una realtà diversa e superiore a quella fornitaci dai sensi. Né la filosofia è una mera estensione delle scienze, diretta a scoprire i componenti ultimi della realtà". La filosofia non è una 'teoria' di qualcosa, ma più semplicemente un metodo. E questo metodo è l'analisi logica del linguaggio. La filosofia, insomma, è la logica delle scienze, e il suo oggetto è il linguaggio delle scienze.Dunque - scrive ancora Ross - la filosofia del diritto non ha un oggetto autonomo, coordinato con (o distinto da) l'oggetto della cosiddetta 'scienza giuridica' (ossia lo studio dottrinale del diritto) nelle sue varie ramificazioni. La filosofia del diritto, piuttosto, si rivolge all'apparato concettuale della scienza giuridica stessa, assunto a oggetto di analisi logica. Il filosofo del diritto conduce dunque le sue ricerche su quelle che, per i giuristi, costituiscono le premesse, assunte come certe e incontrovertibili. Oggetto dell'indagine filosofica sono principalmente i concetti fondamentali di portata generale, quali ad esempio il concetto di validità, o quello di diritto soggettivo. L'oggetto della filosofia del diritto, dunque, malgrado questo nome, non è propriamente il 'diritto', né alcuna parte o aspetto di esso, ma è invece lo 'studio' del diritto. La filosofia del diritto "sta, per così dire, su un piano più alto dello studio del diritto, e 'guarda in basso' su di esso". Il confine tra le due cose, naturalmente, non è rigido. L'analisi logica è largamente applicata anche dai giuristi all'interno delle discipline loro proprie. Non vi sono criteri intrinseci per determinare dove finisca lo studio dottrinale del diritto e dove cominci quello della filosofia giuridica. Secondo Ross, del resto, non è opportuno parlare di 'filosofia del diritto', dal momento che tale espressione sembra suggerire un campo di ricerca sistematicamente delimitato. È meglio parlare di 'problemi' di filosofia del diritto: quali problemi concretamente si presentino, di volta in volta, all'analisi filosofica dipenderà in parte dagli interessi del singolo studioso e, in parte, dall'evoluzione dello studio dottrinale del diritto nei diversi momenti storici.
In Italia questa concezione della filosofia del diritto è stata sostenuta con particolare vigore da Giovanni Tarello (v., 1970). In generale, Tarello concepisce il discorso filosofico - al modo del neoempirismo - come un discorso di secondo grado, o metadiscorso, il cui oggetto è costituito dai discorsi delle diverse scienze. Ciò comporta evidentemente una radicale riduzione delle varie discipline filosofiche a metascienze, o filosofie delle scienze (dell'una o dell'altra scienza). Vi sarà dunque una filosofia della fisica, una filosofia della matematica, una filosofia della chimica, e via enumerando, fino a giungere alla filosofia del diritto. Ma non può esservi una filosofia senza complementi di specificazione: la "panfilosofia scissa da qualsivoglia specifica disciplina scientifica o tecnica", secondo Tarello, è vaniloquio.Questo modo di pensare riecheggia (forse inconsapevolmente) le idee del primo Wittgenstein sulla filosofia in genere : "Tutta la filosofia è 'critica del linguaggio'. [...] La totalità delle proposizioni vere è la scienza naturale tutta (o la totalità delle scienze naturali). La filosofia non è una delle scienze naturali. (La parola 'filosofia' deve significare qualcosa che sta sopra o sotto, non già accanto, alle scienze naturali). Scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La filosofia è non una dottrina, ma un'attività. [...] Risultato della filosofia non sono 'proposizioni filosofiche', ma è il chiarirsi di proposizioni. La filosofia deve chiarire nettamente i pensieri che altrimenti sarebbero, per così dire, torbidi e indistinti" (v. Wittgenstein, 1921, proposizioni 4.0031, 4.11, 4.111 e 4.112).
L'atteggiamento di Tarello ha dei risvolti di politica culturale e accademica, che egli dichiara espressamente. Anzitutto, Tarello pensa che le filosofie debbano essere praticate e, quel che più conta, insegnate solo da studiosi dell'una o dell'altra scienza, e non da "sospirose anime belle" e da "superficiali pretenziosi" privi della necessaria preparazione tecnica in una disciplina determinata. Inoltre Tarello pensa che le diverse filosofie delle scienze debbano essere insegnate nelle facoltà, nei corsi di laurea, o nei dipartimenti scientifici (la filosofia del diritto nelle facoltà di giurisprudenza, quella della matematica nelle facoltà di matematica, ecc.), e non in un apposito dipartimento panfilosofico privo di oggetto. Questo atteggiamento, se condotto alle estreme conseguenze, comporterebbe sic et simpliciter lo scioglimento delle attuali facoltà di filosofia.In particolare, poi, Tarello concepisce la filosofia del diritto come 'metagiuridica': con questo aggettivo sostantivato egli si riferisce all'analisi linguistica, storiografica e sociologica delle dottrine dei giuristi. La metagiuridica, insomma, è quel che più comunemente si chiama metagiurisprudenza. In questo modo, Tarello vuole accreditare l'idea che la filosofia del diritto sia ancillare al lavoro dei giuristi, e perciò non possa essere coltivata se non dai giuristi stessi. Insomma, il filosofo del diritto dovrebbe essere - per formazione intellettuale, interessi e competenze - un giurista tra gli altri giuristi. Questo modo di pensare conduce a screditare come irrilevante, e tendenzialmente estraneo alla filosofia del diritto, almeno uno dei tradizionali settori di riflessione dei giusfilosofi: la cosiddetta filosofia della giustizia (che è cosa, peraltro, indistinguibile dall'etica e dalla filosofia politica normative).
Sotto il profilo metodologico, la filosofia giuridica di indirizzo analitico si caratterizza per l'impiego sistematico degli strumenti propri dell'analisi logica del linguaggio. Strano a dirsi, tali strumenti sono sì largamente utilizzati, ma raramente sono stati teorizzati. L'inventario che qui si propone è provvisorio e certamente incompleto.
1. In primo luogo, l'analisi del linguaggio consiste, ovviamente, nell'analizzare il significato dei vocaboli e degli enunciati. A sua volta, questo tipo di attività consiste in una serie di operazioni caratteristiche, quali ad esempio: a) la registrazione di usi linguistici (ad esempio: il vocabolo 'prelazione' non è usato nel linguaggio comune extragiuridico; il vocabolo 'privilegio' assume sensi diversi in contesti giuridici e non giuridici; ecc.); b) la rilevazione di ambiguità e indeterminatezze sintattiche, semantiche e pragmatiche (ad esempio: l'enunciato 'sarò lì tra poco' può essere usato indifferentemente per compiere una previsione, una promessa, una minaccia o un avvertimento; l'enunciato 'l'omicidio è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno' può essere usato per esprimere una norma giuridica, o per riferire il contenuto di una norma giuridica, come pure per rilevare una regolarità sociologica; ecc.); c) il disvelamento di connotazioni di valore nascoste nel discorso (ad esempio: nell'uso comune, il vocabolo 'democrazia' denota un certo tipo di organizzazione politica e, al tempo stesso, la connota positivamente; ecc.); d) la sistematica definizione dei termini che si introducono nel proprio discorso.
2. In secondo luogo, l'analisi del linguaggio consiste nel distinguere accuratamente tra questioni empiriche, attinenti ai fatti, e questioni concettuali o verbali, attinenti al significato delle parole. Ad esempio, è questione di fatto, empirica, se il tale sia o non sia scapolo, mentre è questione verbale o concettuale 'che cosa sia' uno scapolo. Alla prima questione si può rispondere solo interrogando l'anagrafe; alla seconda questione si può rispondere solo stipulando convenzionalmente il significato del vocabolo 'scapolo' (comunemente, domandare 'che cosa è x?' non è che un modo poco avvertito di domandare 'che cosa significa il termine x?'). A ciò è connessa la distinzione tra enunciati analitici ed enunciati empirici. Analitico è un enunciato necessariamente vero, in virtù solo o del significato delle parole che entrano a comporlo, oppure della sua struttura logica (e tale perciò che la sua verità può essere accertata senza bisogno di osservazioni empiriche). Empirico è un enunciato che può essere vero o falso, e il cui valore di verità dipende dai fatti. Ad esempio: è analitico l'enunciato 'Tizio è o scapolo o non scapolo', come pure l'enunciato 'tutti gli scapoli sono non sposati' (sempre che si convenga sul significato comune di 'scapolo'); è empirico l'enunciato 'Tizio è scapolo', come pure l'enunciato 'Tizio è sposato'.
3. In terzo luogo, l'analisi del linguaggio consiste nel distinguere accuratamente tra questioni di fatto e questioni di valore, ovvero, da un altro punto di vista, tra discorsi conoscitivi e discorsi valutativi o prescrittivi. Ad esempio: è questione di fatto se il tale sia stato assolto o condannato; è questione di valore se la sentenza pronunciata contro il tale sia stata giusta o ingiusta. E d'altro canto: è conoscitivo il discorso di chi constata che il tale è stato condannato; è valutativo il discorso di chi apprezza come giusta tale sentenza.Il fondamento della distinzione giace nell'idea, generalmente condivisa, che solo agli enunciati del discorso conoscitivo (o descrittivo) convengono i valori di verità; mentre gli enunciati del discorso valutativo e prescrittivo non possono dirsi né veri né falsi. La distinzione, a sua volta, ha come corollario la tesi - detta 'legge di Hume' - secondo la quale non si possono inferire conclusioni valutative o prescrittive da premesse puramente descrittive.
Il campo di studi dei filosofi del diritto non ha confini precisi: le loro opere vertono su oggetti disparati, che non paiono in alcun modo riconducibili a unità. Volendo tuttavia razionalizzare le prassi esistenti, si possono individuare, con qualche semplificazione, tre settori fondamentali d'indagine abitualmente coltivati dai filosofi del diritto (con l'avvertenza, peraltro, che questa tripartizione è probabilmente discutibile e certamente non esaustiva): a) il primo settore è la storia delle dottrine giuridiche (o, più in generale, della cultura giuridica); b) il secondo è la filosofia (o teoria) della giustizia; c) il terzo è la teoria (generale) del diritto. Ora, a questo riguardo si devono fare alcune osservazioni.In quanto storia delle dottrine giuridiche, la filosofia del diritto non presenta alcuna autonomia disciplinare. Sotto il profilo metodologico la storia delle dottrine giuridiche non differisce, evidentemente, dalle altre discipline storiografiche in generale. Sotto il profilo dell'oggetto d'indagine non pare possibile tracciare una netta linea di demarcazione tra la storia delle dottrine giuridiche, la storia delle dottrine politiche, la storia del diritto e la storia delle istituzioni (v. Tarello, 1976). A ogni modo, in questa sede, un rendiconto delle (imponenti) ricerche storiografiche dei filosofi del diritto è fuori discussione.In quanto filosofia della giustizia, egualmente, la filosofia del diritto si configura come disciplina dotata di scarsa autonomia. Alla filosofia della giustizia, infatti, si possono ricondurre due tipi fondamentali di discorso: per un verso, le dottrine valutative o normative della giustizia (v. Rawls, 1971; v. Nozick, 1974), le valutazioni critiche del diritto esistente, le considerazioni de jure condendo, ecc.; per un altro verso, l'analisi logica dei giudizi di valore (v. Stevenson, 1944; v. Hare, 1952). Ma le dottrine della giustizia, le valutazioni critiche del diritto e simili sono cose, tutte, abitualmente rubricate nel campo della filosofia politica e/o dell'etica normative. L'analisi logica dei giudizi di valore, dal canto suo, costituisce il campo specifico della metaetica. Nondimeno, ad alcuni temi di filosofia della giustizia si farà cenno più avanti (v. §§ 2a e 2b).Come settore d'indagine indipendente, proprio dei filosofi del diritto, resta solo la teoria generale del diritto, e ad essa conviene ormai circoscrivere il discorso.
Per cominciare, occorre anzitutto richiamare l'attenzione su tre diversi significati assunti dall'aggettivo 'generale', in quanto predicato della teoria giuridica.In primo luogo, si è parlato di teoria 'generale' in senso forte per designare "lo studio concettuale del diritto, volto a individuare i concetti puri con cui descrivere qualunque esperienza giuridica" (v. Tarello, 1978, p. 58), ovvero l'analisi delle "nozioni generali che si ritengono comuni a tutti gli ordinamenti giuridici" (v. Bobbio, 1965, p. 38). A questo uso dell'espressione è sotteso un discutibile modo di pensare - oggi, in verità, non più molto accreditato - secondo il quale tutti i sistemi giuridici, senza distinzioni di tempo e di luogo, presenterebbero dei tratti comuni, non contingenti. Accade spesso che questo modo di pensare induca a generalizzare indebitamente certe caratteristiche non già proprie di tutti i sistemi giuridici storici, ma peculiari invece dei sistemi giuridici moderni (occidentali), con esiti storiografici inaffidabili.In secondo luogo, si è parlato di teoria 'generale' in un senso più debole, per designare l'analisi dei principî e delle nozioni comuni non a tutti gli ordinamenti giuridici, ma, più modestamente, ai diversi settori di un ordinamento giuridico dato (il diritto civile, il diritto amministrativo, ecc.) Ad esempio, la nozione di compravendita è specifica del diritto civile e come tale estranea all'indagine teorico-generale; per contro, la nozione di obbligo è comune a tutti i rami del diritto e costituisce pertanto un oggetto appropriato per la teoria generale.In terzo luogo, e specialmente nella letteratura contemporanea di indirizzo analitico-linguistico, si è parlato di teoria 'generale' per designare "l'analisi del sistema giuridico sotto il profilo strutturale e formale" (v. Tarello, 1978, p. 58). Da questo punto di vista la teoria 'generale' del diritto deriva la sua generalità non dal fatto di essere universalmente applicabile a qualsivoglia sistema giuridico, ma più modestamente dal fatto di trascurare il contenuto normativo dei singoli sistemi giuridici studiati, dedicandosi soltanto alla loro struttura (v. §1g). Ad esempio, studiare il diritto costituzionale positivo italiano è cosa diversa dal tracciare una tipologia delle norme costituzionali. Resta da provare, naturalmente, che sia scientificamente legittimo e fruttuoso separare la 'struttura' del diritto dal suo 'contenuto'.
Oggetto della teoria del diritto è, apparentemente, il diritto. Ma naturalmente il diritto costituisce oggetto d'indagine anche per la cosiddetta 'scienza giuridica' (dogmatica, dottrina, o anche giurisprudenza nel senso originario di scientia juris). Per chiarire l'oggetto e i problemi della teoria del diritto occorre tracciare una linea di confine tra il lavoro dei giuristi teorici e quello dei giuristi dogmatici. Ma come tracciare questo confine? Due strade sono state praticate. La prima consiste nel configurare la teoria del diritto come discorso 'formale' sul diritto; la seconda consiste nel configurare la teoria del diritto come discorso non già sul diritto, ma sulla giurisprudenza stessa.
1. La prima strada (in verità, non del tutto chiara) è stata suggerita da Bobbio. In primo luogo, Bobbio configura il diritto come un peculiare discorso: precisamente come il discorso prescrittivo del legislatore. Le norme, di cui il diritto è costituito, altro non sono che comunicazioni linguistiche prescrittive, ossia enunciati (né veri, né falsi) diretti a modificare la condotta umana. In secondo luogo, e per conseguenza, Bobbio configura la giurisprudenza e la teoria del diritto come analisi linguistiche, il cui oggetto è appunto il discorso legislativo. In questo modo la giurisprudenza e la teoria del diritto vengono da Bobbio ridotte a "discorsi sopra un discorso": metalinguaggi descrittivi, il cui linguaggio-oggetto è il discorso prescrittivo del legislatore (v. Bobbio, in Scarpelli, 1976; v. anche Scarpelli, 1953).Ma questi due discorsi hanno a oggetto aspetti diversi del diritto. La giurisprudenza, secondo Bobbio, è diretta ad accertare il 'contenuto' della disciplina giuridica: ossia quali comportamenti siano comandati (o vietati, o permessi), a quali soggetti, in quali circostanze. La teoria del diritto, per contro, si occupa degli elementi 'formali' e/o 'strutturali' della disciplina giuridica, facendo astrazione dal suo contenuto. Tanto che, secondo Bobbio, si dovrebbe parlare non di teoria 'generale', ma piuttosto di teoria 'formale' del diritto, per distinguere questa disciplina da tutte quelle che studiano il vario contenuto delle norme (la scienza del diritto civile, la scienza del diritto pubblico, ecc.). La giurisprudenza offre risposta alla domanda 'che cosa statuisce l'ordinamento giuridico?'; la teoria del diritto risponde invece alla domanda 'come è costituito l'ordinamento giuridico?' (v. Bobbio, 1955, pp. 4-5 e 34-35). Concretamente la teoria formale avrà a oggetto i rapporti logici tra qualificazioni normative del comportamento (obbligo, divieto, permesso, ecc.), i modi di creazione e di estinzione delle norme, i loro rapporti reciproci, e così via. Ad esempio, sarà compito della teoria formale determinare il concetto di diritto soggettivo, sarà compito della giurisprudenza determinare quali diritti siano conferiti a quali soggetti entro un ordinamento dato; toccherà alla teoria formale chiarire il concetto di validità; toccherà alla giurisprudenza stabilire quali norme siano valide in un dato ordinamento.Occorre peraltro sottolineare che, secondo Bobbio, la teoria formale, in quanto ricerca degli elementi costitutivi strutturali del diritto, è una teoria del 'diritto positivo', e pertanto vale solo nell'ambito di un determinato sistema giuridico. Non è detto infatti che tutti gli ordinamenti condividano una identica struttura normativa (ibid., p. 40).
2. La seconda strada è quella che abbiamo visto suggerita, tra gli altri, da Ross e da Tarello (v. § 1c; v. Guastini, 1982): la teoria del diritto raffigurata come metascienza della scienza giuridica. Da questo punto di vista giurisprudenza e teoria del diritto non hanno il medesimo oggetto. La linea di demarcazione tra l'una e l'altra può essere chiarita con una semplice nozione logica: la giurisprudenza e la teoria del diritto si collocano su due diversi livelli di linguaggio.Teniamo ferma la rappresentazione, proposta da Bobbio, del diritto come discorso del legislatore (o, più in generale, come discorso delle cosiddette fonti del diritto). Diremo allora che la giurisprudenza verte sul discorso del legislatore (il 'diritto'), mentre la teoria del diritto verte - malgrado il suo nome - non propriamente sul diritto, ma piuttosto sul discorso della giurisprudenza stessa. Abbiamo qui non due, ma tre livelli di linguaggio: a) il linguaggio del legislatore; b) il metalinguaggio della giurisprudenza; c) il meta-metalinguaggio della teoria del diritto.Il lavoro dei giuristi dogmatici è, tipicamente, un'attività di interpretazione, manipolazione e sistemazione del discorso legislativo. Il lavoro dei teorici, a sua volta, è una riflessione critica sopra il discorso dei giuristi: per l'appunto, una metagiurisprudenza o filosofia della scienza giuridica.Le due concezioni della teoria giuridica ora tratteggiate, a ben vedere, non si escludono reciprocamente: nulla impedisce di accoglierle entrambe congiuntamente, come molti tacitamente fanno. Diremo allora che la teoria giuridica si articola, grosso modo, in due settori d'indagine distinti: da un lato, l'analisi logica del linguaggio legislativo (che include l'analisi strutturale del sistema giuridico); dall'altro, l'analisi logica del linguaggio dei giuristi (ma anche degli altri operatori giuridici, specialmente dei giudici).Nel capitolo che segue si cercherà di illustrare, senza pretesa di completezza, alcuni problemi e tendenze fondamentali della disciplina.
Abbiamo menzionato, e provvisoriamente accettato, la tesi di Bobbio secondo cui il diritto altro non è che il linguaggio del legislatore (v. § 1g). Occorre ora avvertire che una tesi siffatta non è per nulla pacifica. Al contrario, tutta la letteratura filosofico-giuridica moderna è segnata dai contrasti fra una pluralità di concezioni del diritto (v. Fassò, 1970). Conviene ricordarne le principali (v. Amselek e Grzegorczyk, 1989).
1. La prima concezione da ricordare è il giusnaturalismo (v. Passerin d'Entrèves, 1980³; v. Finnis, 1980). Questa parola, a dire il vero, denota non già una singola concezione del diritto, quanto piuttosto una molteplicità di dottrine, spesso confliggenti tra loro. Nondimeno si può dire che le diverse dottrine del diritto naturale abbiano in comune la duplice tesi secondo cui: a) accanto al diritto 'positivo', cioè posto, creato dagli uomini, esiste altresì un diritto non positivo, implicito nella 'natura' (in un qualche senso di questa parola); b) il diritto naturale è un diritto giusto, assiologicamente superiore a quello positivo, talché il diritto positivo merita obbedienza se, e solo se, è conforme al diritto naturale.Questo modo di pensare, evidentemente, suppone che vi siano norme le quali non dipendono dalla volontà, ma semplicemente dalla conoscenza: nel senso che le norme del diritto naturale possono essere ricavate dalla conoscenza della natura, sono frutto di conoscenza, non di volontà. Insomma, l'esistenza delle norme è indipendente da atti normativi umani, ossia da atti di volontà. Occorre sottolineare che un'idea siffatta presuppone da un lato il rifiuto della 'legge di Hume', in virtù della quale non si possono inferire conclusioni normative da premesse conoscitive e, dall'altro, e per conseguenza, il rifiuto della distinzione stessa tra 'essere' e 'dovere', tra il linguaggio conoscitivo e il linguaggio normativo (v. Oppenheim, in Scarpelli, 1976).
2. La seconda concezione da ricordare è, ovviamente, il positivismo giuridico o giuspositivismo, il quale può utilmente caratterizzarsi per opposizione al giusnaturalismo (v. Bobbio, 1965 e 1979²; v. Scarpelli, 1965). Il giuspositivismo è, schematicamente, quel modo di vedere secondo il quale non esiste un diritto che non sia 'positivo', prodotto dagli uomini. Questo modo di pensare può essere raffigurato come una definizione stipulativa del termine 'diritto', tale per cui questo termine dovrebbe essere impiegato solo per riferirsi a norme create dagli uomini. Il cosiddetto 'diritto' naturale, nelle sue differenti versioni, non è propriamente un diritto (un sistema giuridico), ma piuttosto un insieme di norme morali, non giuridiche.È implicita nel positivismo giuridico l'idea che le norme siano entità dipendenti da atti di volontà o, se si vuole, dipendenti da atti linguistici (v. Alchourrón e Bulygin, 1979). Le norme giuridiche sono il prodotto di atti umani: non si possono ricavare norme dalla conoscenza. Per dirla con Kelsen, non vi sono comandi senza qualcuno che comandi (v. Kelsen, 1979). A sua volta, questa idea si risolve in una teoria epistemologica, secondo cui solo i fatti, e non i valori, sono suscettibili di conoscenza. Il diritto (positivo) è, in qualche senso, un 'fatto', mentre il preteso 'diritto' naturale è un insieme di valori. Al fondo di questa concezione può leggersi sia l'accettazione della 'legge di Hume', sia la distinzione tra 'essere' e 'dovere' (v. Carcaterra, 1969).Peraltro, malgrado questo nocciolo comune, anche il positivismo giuridico non è una dottrina unitaria. Di fatto il nome di 'positivismo giuridico' si applica egualmente ad almeno due dottrine assai diverse.
A. La prima variante di giuspositivismo possiamo chiamarla positivismo 'scientifico'. Si tratta di una dottrina che, come ha chiarito Bobbio, propone un accostamento scientifico allo studio del diritto. Ciò presuppone sia una delimitazione dell'oggetto della scienza giuridica, sia una distinzione tra il linguaggio scientifico e quello morale. Il positivismo scientifico, anzitutto, distingue tra il diritto 'reale' e il diritto 'ideale', tra il diritto positivo esistente e il diritto immaginato o desiderato. In quanto teoria della scienza giuridica, il positivismo giuridico è la teoria secondo cui solo il diritto positivo è suscettibile di conoscenza, cioè solo le norme 'poste' costituiscono l'oggetto appropriato della scienza giuridica. Inoltre, il positivismo scientifico distingue tra giudizi di fatto, caratteristici del discorso scientifico, e giudizi di valore, caratteristici del discorso morale. Esso raccomanda alla scienza giuridica di assumere, nei confronti del diritto positivo, un atteggiamento di neutralità, non di valutazione. È compito della scienza giuridica solo descrivere il diritto esistente, non prendere posizione nei suoi confronti: pertanto, il suo linguaggio non può che essere un linguaggio conoscitivo (v. Bobbio, 1979²).Ciò detto, però, le distinzioni non sono finite, giacché si incontrano, nella cultura giuridica contemporanea, non meno di due versioni del positivismo scientifico: il normativismo e il realismo.
I. In quanto teoria del diritto, il normativismo sostiene che il diritto è un insieme di norme: quelle norme che sono state promulgate da un 'legislatore' o, più in generale, da un'autorità normativa. In quanto teoria della scienza giuridica, il normativismo sostiene che tale scienza è conoscenza di norme (poste): il suo oggetto è costituito dalle norme del diritto positivo; il suo compito è descrivere queste norme (v. Kelsen, 1945 e 1960). Questo modello di scienza giuridica riflette perfettamente ciò che i giuristi moderni abitualmente fanno (v. Jori, 1976 e 1985).
II. In quanto teoria del diritto, il realismo sostiene che il diritto è non già un insieme di norme, bensì un insieme di comportamenti: i comportamenti dei legislatori, dei giudici, dei giuristi, ecc. In quanto teoria della scienza giuridica, il realismo sostiene che questa scienza verte non su norme, ma su fatti (non diversamente da ogni altra scienza sociale). Compito della scienza giuridica è descrivere, per l'appunto, gli atti linguistici del legislatore, le decisioni giurisdizionali, le dottrine dei giuristi, ecc. (v. Ross, 1958; v. Tarello, 1962; v. Olivecrona, 1971²; v. Castignone, 1974 e 1981; v. Pattaro, 1982 e 1985).In altre parole, il normativismo suppone che il diritto sia prodotto dalla legislazione (in senso lato) e che i giuristi trovino delle norme già fatte e rifinite, suscettibili di conoscenza; suppone che l'interpretazione del diritto sia conoscenza di norme. Secondo il realismo, per contro, il diritto non è altro che il risultato dell'interpretazione e dell'applicazione (v. Tarello, 1980); talché non vi sono affatto norme prima della, e indipendentemente dalla prassi giurisdizionale, dall'elaborazione dottrinale, ecc. (v. § 2f).
B. Accanto al positivismo scientifico vi è poi un'altra variante di giuspositivismo, tutt'affatto diversa dalla precedente. Si tratta del legalismo o formalismo etico: adattando un'idea di Bobbio, potremmo anche chiamarlo positivismo metaetico. Il legalismo infatti non è propriamente né una teoria del diritto, né una teoria della scienza giuridica. Si tratta piuttosto di una teoria della morale (una metaetica, appunto), secondo la quale si deve obbedire al diritto positivo, c'è un obbligo morale di obbedire alle norme del diritto esistente, quale che sia il loro contenuto. Da questo punto di vista, si noti, il diritto non è un insieme di norme qualsivoglia: è un insieme di norme obbligatorie, vincolanti (v. Kelsen, 1957; v. Ross, 1982; v. Ross, in Castignone e Guastini, 1989).
Una delle questioni più controverse in seno alla teoria giuridica contemporanea attiene al concetto di validità (v. Nino, 1985). Torna qui utile la distinzione tra diverse concezioni del diritto, introdotta nel paragrafo precedente, giacché il concetto di validità muta, per l'appunto, in relazione a queste diverse concezioni.
1. Nel giusnaturalismo il criterio di validità delle norme è la giustizia: una norma è valida se, e solo se, è giusta (v. Cotta, 1981). Si assume che siano intrinsecamente giuste le norme del diritto naturale: quanto alle norme positive, esse sono considerate valide a condizione che ripetano le norme naturali, o comunque siano a esse conformi. Secondo questa concezione, evidentemente, i giudizi di validità su norme ('la norma N è valida = giusta') appartengono al discorso valutativo.
2. Per ciò che concerne il positivismo scientifico, si può dire, in generale, che la validità di una norma sia un problema scientifico; quindi un problema non di valutazione, ma di conoscenza. Pertanto, i giudizi di validità su norme sono enunciati del linguaggio conoscitivo: enunciati, dunque, di cui si può predicare la verità o falsità. Ma, detto questo, è ancora necessario distinguere tra il positivismo normativista e il positivismo realista.A. Nella teoria normativista, 'validità' significa, pressappoco, membership, appartenenza: una norma valida è, molto semplicemente, una norma che può essere identificata come norma appartenente a un sistema giuridico dato, impiegando i criteri d'identificazione propri di quel sistema. A dire il vero, questo concetto di validità è alquanto complesso. Ma, volendo semplificare, si può dire : una norma è valida entro un sistema dato allorché: a) è stata prodotta da un soggetto appropriato (ad esempio, l'organo legislativo) secondo le procedure richieste; b) non è incompatibile con norme superiori (ad esempio, norme costituzionali) nella gerarchia delle fonti. Da questo punto di vista i giudizi di validità sono enunciati relativi a norme. Occorre dire che questo concetto di validità è precisamente lo stesso che è abitualmente impiegato dai giuristi (v. Kelsen, 1960; v. Bobbio, 1960; v. Hart, 1961; v. Alchourrón e Bulygin, 1971; v. Conte, 1985).
B. Nella teoria realista affermare che una norma è valida significa, pressappoco, affermare che questa norma è in vigore. Una norma può considerarsi in vigore allorché è comunemente osservata e usata dai suoi destinatari e dagli organi che ne curano l'applicazione. Da questo punto di vista i giudizi di validità sono enunciati che vertono non su norme, ma su fatti. Si tratta di enunciati empirici relativi a certi comportamenti sociali (v. Ross, 1958 e 1968).
3. Infine, per ciò che concerne il legalismo 'validità' significa obbligatorietà, 'forza vincolante'. Una norma valida è una norma obbligatoria, cioè una norma alla quale è dovuta obbedienza. D'altra parte, i legalisti pensano che l'obbligatorietà di una norma dipenda dalla sua 'esistenza' (cioè, secondo i casi, dal semplice fatto che è stata promulgata da un'autorità normativa o, più frequentemente, dal fatto che è in vigore). L'esistenza di una norma è concepita come condizione sufficiente della sua obbligatorietà. Evidentemente, qui, il problema della validità non è più un problema scientifico: è piuttosto un problema di valutazione. È ovvio che i giudizi di validità ('la norma N è valida = obbligatoria') sono enunciati del discorso valutativo o normativo. Come tali, non sono né veri né falsi. Ciò nonostante, occorre sottolineare che, nel legalismo, i giudizi di validità sono pensati e trattati come enunciati conoscitivi: i teorici del legalismo credono che la 'forza vincolante' di una norma sia un fatto.Da questo punto di vista si può dire - accogliendo un suggerimento di Ross - che il legalismo sia, malgrado tutto, un 'quasi-positivismo', cioè una variante del giusnaturalismo piuttosto che del positivismo giuridico, e più precisamente una variante del giusnaturalismo conservatore (v. Ross, 1982). Il legalismo, non diversamente dalle dottrine del diritto naturale, non distingue tra il linguaggio della scienza e il linguaggio della morale. Abitualmente il legalismo respinge la 'legge di Hume', giacché trae un giudizio di valore da un giudizio di fatto ('la norma N è obbligatoria perché è stata promulgata, ovvero perché è in vigore').
Generalmente parlando, si conviene in teoria del diritto che il discorso legislativo sia un discorso normativo (prescrittivo, direttivo, precettivo, ecc.): un discorso, cioè, rivolto non a formulare e trasmettere informazioni e conoscenze, bensì a modificare il comportamento degli uomini (v. Ross, 1968; v. Scarpelli, 1969; v. Tarello, 1974; v. Opalek, 1986). Ma come tracciare la distinzione tra linguaggio normativo e linguaggio conoscitivo (descrittivo, indicativo, ecc.)?A prima vista parrebbe trattarsi di una distinzione sintattica, attinente cioè alla sintassi degli enunciati. Gli enunciati del discorso conoscitivo hanno forma indicativa ('gli assassini sono puniti'), mentre gli enunciati del discorso normativo hanno forma imperativa ('punisci gli assassini!') o deontica ('gli assassini devono essere puniti'). Ma, a uno sguardo ravvicinato, questa tesi si rivela insostenibile. Per un verso, il legislatore impiega spesso enunciati indicativi ('l'omicidio è punito con la reclusione'), del cui carattere normativo tuttavia nessuno dubita. Per un altro verso, i giuristi impiegano spesso enunciati deontici ('l'omicidio deve essere punito con la reclusione') con l'intenzione tuttavia non di prescrivere alcunché, ma di descrivere una prescrizione legislativa preesistente (v. Wright, 1963; v. Bulygin, in Comanducci e Guastini, 1987-1989, vol. I).Si potrebbe allora sostenere che la distinzione in questione sia una distinzione semantica. Il senso di questa tesi, però, non è del tutto chiaro, giacché vi sono almeno due modi diversi di raffigurare il campo della semantica. Talvolta si parla della semantica di un enunciato per intendere che a tale enunciato convengono i valori di verità (vero, falso). Talaltra si parla della semantica di un enunciato per intendere che tale enunciato è provvisto di riferimento. Ecco allora che la tesi del carattere semantico della distinzione tra linguaggio conoscitivo e linguaggio normativo può essere asserita o respinta da due diversi punti di vista.Si può dire che il linguaggio normativo ha una semantica, intendendo che anche gli enunciati normativi (non diversamente dagli enunciati conoscitivi) possono essere veri o falsi (v. Kalinowski, 1972). È, questa, una variante di quel modo di pensare che va sotto il nome di giusnaturalismo (v. § 2a): gli enunciati normativi 'descrivono' obblighi e diritti 'naturali'; i legislatori non creano diritto, si limitano a riprodurre un diritto preesistente in natura (inscritto nella natura umana, o nella natura delle cose, o nella ragione, ecc.). Da questo punto di vista, naturalmente, i linguaggi conoscitivo e normativo non presentano alcuna differenza semantica (salvo sostenere che i 'valori', descritti dal linguaggio normativo, sono cosa ontologicamente diversa dai 'fatti', descritti dal linguaggio conoscitivo).
Si può, per contro, negare che il linguaggio normativo abbia una semantica, intendendo che gli enunciati normativi non sono né veri né falsi, e adducendo che non esiste - o comunque non è percepibile ai sensi - una cosa come un 'diritto naturale' antecedente la legislazione positiva. Questa tesi, largamente diffusa, è una variante di quel modo di pensare che si suole chiamare positivismo giuridico (v. § 2a). Da questo punto di vista, vi è una distinzione semantica irriducibile tra linguaggio normativo e linguaggio conoscitivo.Si può dire, ancora, che il linguaggio normativo ha una semantica, intendendo che anche gli enunciati normativi (non diversamente da quelli conoscitivi) devono pur avere un riferimento: devono cioè riferirsi quantomeno a soggetti (cui la norma è rivolta) e a comportamenti (di cui si richiede l'esecuzione); diversamente, non si potrebbe neppure parlare di obbedienza e di violazione di una norma. Questo modo di pensare si è chiamato prescrittivismo (v. Hare, 1952; v. Ross, 1968; v. Scarpelli, 1985²). Sotto questo profilo, ovviamente, una distinzione semantica tra linguaggio conoscitivo e linguaggio normativo non si dà.Si può, per contro, negare che il linguaggio normativo abbia una semantica, intendendo che gli enunciati normativi non si riferiscono a nulla, giacché non sono altro che espressioni di emozioni o stati d'animo (un comando non differisce significativamente da un'esclamazione). Questo modo di pensare si è chiamato emotivismo (v. Stevenson, 1944; v. Ross, 1958). Da questo punto di vista vi è distinzione semantica radicale tra linguaggio conoscitivo e linguaggio normativo.Infine, si può sostenere che la distinzione in esame sia (né sintattica, né semantica, ma) pragmatica. Gli enunciati conoscitivi e normativi possono ben avere (come spesso hanno) la medesima struttura sintattica; gli uni e gli altri possono (e forse debbono) avere un riferimento (eventualmente, anche un identico riferimento). Ma diversi sono, di volta in volta, gli atti linguistici compiuti. Ad esempio, un identico enunciato come 'l'omicidio è punito con la reclusione' può essere usato indifferentemente per compiere un atto linguistico di descrizione o un atto linguistico di prescrizione. La sua sintassi e il suo riferimento non mutano: l'uso (e quindi il contesto) decide del carattere di un enunciato (v. Wright, 1963; v. Searle, 1969; v. Tarello, 1974; v. Alchourrón e Bulygin, 1979).
Si può convenire che il discorso del legislatore esprima norme. Ma diverse sono le concezioni della norma presenti in letteratura (v. Bobbio, 1958 e 1970). A questo proposito si debbono ricordare almeno tre teorie.Una prima teoria, assai vetusta ed oggi alquanto screditata, ritiene che le norme giuridiche siano ultimamente riducibili a comandi (o imperativi che dir si voglia), sostenuti da minacce di sanzioni contro i trasgressori. Questa teoria si chiama imperativismo. Occorre sottolineare, peraltro, che l'imperativismo non è una descrizione empirica del discorso legislativo effettivo (sebbene talvolta così si atteggi): è, più semplicemente, una definizione stipulativa, in virtù della quale 'norma' è sinonimo di 'comando' (e anzi di 'comando sanzionato'). Le definizioni non vertono sui fatti, ma sulle parole, e dunque non possono essere smentite dai fatti. È pur vero che, nel discorso legislativo empirico, si incontrano enunciati che sembra arduo ricondurre al genere degli imperativi (ad esempio: 'la sovranità appartiene al popolo', 'tutti i cittadini possono riunirsi pacificamente e senz'armi', ecc.). Ma l'imperativismo sostiene che enunciati siffatti sono o imperativi mascherati, o frammenti di imperativi.Una seconda teoria, oggi ampiamente diffusa, ritiene che il riduzionismo imperativista sia ingiustificato, e che nel genere delle norme giuridiche si debbano distinguere almeno due specie: le norme che impongono obblighi e quelle che conferiscono poteri (v. Hart, 1961; v. Gavazzi, 1967; v. Bobbio, in Guastini, 1980). In seno alle norme che conferiscono poteri si possono distinguere ulteriormente: a) le norme di mutamento, o norme sulla produzione giuridica, le quali conferiscono a certi soggetti il potere di creare o modificare obblighi; b) le norme di giurisdizione, o norme sull'applicazione, che conferiscono a certi soggetti il potere di accertare e punire le violazioni di obblighi. Si può osservare che questa teoria, sebbene più articolata dell'imperativismo, non offre una tipologia soddisfacente delle norme giuridiche. Ad esempio, essa suppone, implicitamente, che tutte le norme siano norme di condotta: restano fuori del suo orizzonte tutte quelle norme che hanno a oggetto non il comportamento, ma altre norme (ad esempio le norme abrogatrici, le definizioni legislative, ecc.).Una terza teoria, recente, distingue due tipi di norme tra loro irriducibili: le norme prescrittive e le norme costitutive (v. Carcaterra, 1979; v. Guastini, 1985). Le norme prescrittive - ad esempio quelle del diritto penale - sono rivolte a certi soggetti (destinatari), ai quali richiedono un certo comportamento; come tali, possono essere eseguite o violate. Per contro le norme costitutive realizzano immediatamente uno stato di cose, senza richiedere alcun comportamento a chicchessia. Ad esempio, le norme abrogatrici ('è abrogato l'art. x della legge y') non prescrivono che un'abrogazione abbia luogo, ma direttamente conseguono il loro effetto (l'abrogazione di un'altra norma preesistente), senza la mediazione del comportamento umano; le norme che conferiscono status ('la maggiore età si acquista al compimento del diciottesimo anno') non prescrivono che una certa qualità sia da qualcuno riconosciuta a certi soggetti, ma direttamente ascrivono a quei soggetti la qualità in questione; e così via. Per tale ragione le norme costitutive non hanno destinatari e, dunque, non sono suscettibili né di esecuzione, né di violazione.
È opinione comune che gli ordinamenti (o sistemi) giuridici siano insiemi di norme gerarchicamente ordinati (v. Kelsen, 1945 e 1960; v. Bobbio, 1960; v. Raz, 1973). Si ritiene infatti che le norme di un sistema giuridico siano non già collocate sullo stesso piano, bensì disposte su piani diversi: ad esempio, la costituzione è sovraordinata alla legge; la legge, a sua volta, è sovraordinata alla sentenza; ecc.Peraltro di gerarchia tra norme si parla in almeno due sensi diversi. In un primo senso, certe norme sono sovraordinate ad altre giacché sono relative a esse, vertono 'su' di esse: insomma, sono metanorme rispetto a esse (v. Hart, 1961; v. Gavazzi, 1967; v. Bobbio, 1970). Si tratta dunque di una relazione logica tra metalinguaggio e linguaggio-oggetto. Ad esempio, le norme costituzionali che disciplinano la formazione delle leggi sono 'superiori' alle norme legislative appunto nel senso che, regolandone la creazione, vertono su di esse. In un secondo senso, certe norme sono sovraordinate ad altre da un punto di vista, invece, giuridico: nel senso che tale sovraordinazione non è cosa logica; è una relazione istituita dal diritto e provvista di conseguenze giuridiche (v. Troper, in Comanducci e Guastini, 1987-1989, vol. II). Ad esempio, in regime di costituzione rigida (un regime in cui è precluso alla legge di contraddire o modificare la costituzione) le norme costituzionali sono 'superiori' a quelle legislative nel senso che, in caso di contrasto, 'prevalgono' su di esse: cioè le leggi in contrasto con la costituzione possono essere disapplicate dai giudici o, secondo i casi, annullate da un apposito giudice costituzionale. Il primo tipo di gerarchia è, probabilmente, un carattere comune a tutti i sistemi giuridici evoluti. Il secondo tipo di gerarchia, per contro, è proprio di alcuni ordinamenti soltanto.
Si discute se i sistemi giuridici, oltre che gerarchicamente ordinati, siano anche: a) privi di lacune (completi); b) privi di antinomie (coerenti). Si dice che un sistema giuridico presenta una lacuna allorché a una fattispecie non è connessa alcuna conseguenza giuridica, talché, giudicando una controversia relativa a quella fattispecie, il giudice non può pronunciare una decisione fondata sopra una norma preesistente. Si dice che un sistema giuridico presenta un'antinomia allorché per una medesima fattispecie sono previste due conseguenze giuridiche tra loro incompatibili, talché, giudicando una controversia relativa a quella fattispecie, il giudice può pronunciare due decisioni confliggenti, entrambe fondate su norme preesistenti.A. Per ciò che attiene al problema della completezza (v. Conte, 1962; v. Alchourrón e Bulygin, 1971), taluni sostengono che necessariamente il diritto presenta delle lacune, giacché è ovvio che il legislatore non possa prevedere qualunque caso futuro. In presenza di una lacuna, i giudici non possono che sostituirsi al legislatore, facendo uso di un potere discrezionale. Una controversia non prevista dal diritto, infatti, può solo essere risolta mediante la creazione di una norma nuova ad hoc da parte del giudice.Altri sostengono invece che il diritto è necessariamente completo, nel senso che ogni possibile comportamento è giuridicamente qualificato. La tesi della necessaria completezza del diritto è stata argomentata in almeno due modi diversi (v. Bobbio, in Comanducci e Guastini, 1987-1989, vol. II). Taluni hanno ritenuto che ogni comportamento debba essere giuridicamente qualificato o come lecito o come illecito, per la semplice ragione che tertium non datur.
Altri hanno sostenuto che in ogni ordinamento giuridico è implicita una norma di chiusura, secondo la quale tutto ciò che non è espressamente vietato è permesso; cosicché un qualsiasi comportamento o ricade sotto il dominio di una norma particolare (che lo vieta) o ricade sotto il dominio della norma di chiusura (che lo permette): in entrambi i casi, il comportamento è qualificato.Altri ancora ritengono che il diritto sia, se non completo, almeno completabile 'dall'interno', e che pertanto ogni controversia ammetta, in principio, una soluzione corretta (v. Dworkin, Taking..., 1977, e 1985). La tesi della completabilità del diritto lacunoso è stata argomentata sostenendo che qualunque controversia non espressamente prevista può sempre essere decisa o mediante analogia, cioè estendendo a essa una norma che disciplini un caso simile, o facendo ricorso ai cosiddetti principî (generali o fondamentali) impliciti in ciascun ordinamento giuridico.B. Per ciò che attiene al problema della coerenza (v. Gavazzi, 1959; v. Bobbio, 1970; v. Kelsen, 1973), taluni osservano che nel diritto di fatto si incontrano sempre antinomie, giacché ogni ordinamento giuridico, fatalmente, viene formandosi in modo alluvionale, quale frutto di politiche legislative diverse e confliggenti: ieri il legislatore vietava il divorzio, oggi lo consente; la costituzione vieta discriminazioni per ragioni di sesso, la legge ammette salari inferiori per le lavoratrici; e così via. In presenza di un'antinomia, i giudici sono investiti di un potere discrezionale, giacché possono risolvere il caso loro sottoposto in due modi diversi, a seconda che preferiscano applicare l'una o l'altra delle due norme in conflitto (almeno in quei casi per i quali il diritto stesso non provveda criteri di soluzione dell'antinomia: v. Bobbio, 1970).
Altri, tuttavia, sostengono che il diritto è necessariamente coerente, argomentando che il linguaggio normativo (come quello conoscitivo) non ammette contraddizioni: come non possono essere entrambi veri due enunciati contraddittori ('Socrate è mortale', 'Socrate non è mortale'), allo stesso modo non possono essere entrambe valide due norme confliggenti ('il divorzio è vietato', 'il divorzio è permesso'). Una delle due norme non può che essere invalida.Altri ancora ritengono che, pur essendo il diritto incoerente, nondimeno le antinomie possono sempre essere risolte: o applicando la norma più recente e negando applicazione alla più antica; o applicando la norma gerarchicamente superiore a scapito di quella inferiore; o applicando la norma che meglio si adatta ai principî etico-politici su cui ciascun sistema giuridico è fondato (v. Dworkin, 1985 e 1986).
Nel linguaggio giuridico 'interpretazione' designa essenzialmente l'attività di attribuire senso o significato agli enunciati normativi contenuti nelle fonti del diritto (per esempio le disposizioni di legge): il senso di una disposizione normativa è ciò che comunemente si chiama norma (v. Guastini, 1985). La teoria dell'interpretazione è la sede in cui, tipicamente, si analizzano i diversi procedimenti adottati dagli operatori giuridici - soprattutto dai giudici - per attribuire significato ai documenti normativi: ad esempio, interpretazione dichiarativa, restrittiva, estensiva, logica, sistematica, evolutiva, adeguatrice, ecc. (v. Lazzaro, L'interpretazione..., 1965 e Storia..., 1965).La letteratura contemporanea in tema di interpretazione è segnata dalla contrapposizione tra formalismo e realismo (v. Viola e altri, 1974; v. Comanducci e Guastini, 1987-1989, vol. II).Il formalismo - di solito associato al normativismo (v. §§ 2a e 2b) - configura l'interpretazione come un'attività di 'accertamento'. Secondo questa teoria i documenti normativi sono dotati di un significato proprio antecedente l'interpretazione. I giudici trovano dunque nelle leggi delle norme precostituite: il loro compito è accertare con tecniche appropriate, dichiarare e applicare fedelmente queste norme già date. In tal senso l'interpretazione è un'attività intellettuale di tipo conoscitivo: il discorso interpretativo può essere vero o falso. È vera quell'interpretazione che riferisce l'esatto significato delle parole o, alternativamente, quella che penetra la reale volontà del legislatore (v. Jori, 1980; v. Jori e Pintore, 1988).
Il realismo, per contro, configura l'interpretazione come un'attività di 'decisione' (v. §§ 2a e 2b). Secondo questa teoria non esiste affatto una cosa come il significato proprio delle parole. I documenti normativi non hanno altro significato se non quello deciso, di volta in volta, dall'uno o dall'altro giudice discrezionalmente, in accordo con il suo senso di giustizia o, più in generale, con le sue preferenze etico-politiche. Dunque l'interpretazione è atto di volontà, non di conoscenza, e i discorsi interpretativi non sono né veri né falsi (v. Tarello, 1974 e 1980).Si osservi che il modo corrente di tracciare la distinzione tra legislazione e giurisdizione poggia su un retroterra formalistico: la legislazione è raffigurata come creazione di diritto, un'attività politica di contenuto altamente discrezionale; la giurisdizione è raffigurata invece come un'attività tecnica, l'applicazione di decisioni altrui a casi concreti. Questo modo di pensare, largamente diffuso nella cultura giuridica moderna, sta a fondamento di importanti istituti tuttora vigenti, quali la separazione dei poteri (la quale suppone appunto che altro sia creare il diritto, altro applicarlo), il controllo di cassazione sulla 'esatta' applicazione della legge (il quale suppone che vi sia una, e una sola, interpretazione 'vera'), i controlli di legittimità in genere. Dal punto di vista del realismo, per contro, una netta distinzione tra creazione e applicazione di diritto non si dà: i giudici, lungi dall'accertare, dichiarare e applicare norme già date, creano essi stessi il diritto (e anzi non vi è altro diritto se non quello creato dai giudici).Tra queste posizioni estreme, naturalmente, non mancano tesi intermedie. Merita di essere ricordata, ad esempio, la teoria secondo cui le norme hanno una 'trama aperta', cioè un significato parzialmente indeterminato, e quindi un campo di applicazione non ben delimitato. In altre parole, il campo di applicazione di ogni norma presenta un 'nocciolo' luminoso e, attorno a esso, un'area di 'penombra'. Il punto può essere chiarito con un semplice esempio: il termine 'calvo' sicuramente si applica a chi non abbia neppure un capello; sicuramente non si applica a chi abbia una chioma fluente; ma quanti capelli occorre avere per non essere calvi? quanti occorre perderne per diventarlo? Analogamente, nel diritto si incontrano casi 'chiari', che sicuramente ricadono nel (o fuoriescono dal) campo di applicazione di una certa norma, e casi 'dubbi' o controversi, in relazione ai quali l'applicazione della norma è discutibile. Gli interpreti, secondo questa tesi, fanno uso di discrezionalità soltanto nei casi dubbi. I formalisti hanno il torto di non vedere i casi dubbi; i realisti hanno il torto di ignorare i casi chiari (v. Hart, 1961 e 1983; v. Carrió, 1979²).
Altri ancora distinguono tra un'interpretazione conoscitiva e un'interpretazione volitiva. Conoscitiva è l'interpretazione offerta dalla scienza giuridica, la quale (si suppone) si limita a elencare tutti i possibili significati di una data disposizione normativa, senza presceglierne alcuno. Volitiva è l'interpretazione dei giudici (e, più in generale, degli organi dell'applicazione), i quali scelgono e impongono un significato determinato a preferenza di tutti gli altri possibili (v. Kelsen, 1960).
L'espressione 'ragionamento giuridico' si riferisce, propriamente, ai ragionamenti compiuti da qualsiasi operatore giuridico (sia egli un giurista, un giudice, un funzionario amministrativo, o altro) e per antonomasia ai ragionamenti compiuti da giudici. Si osservi, però, che il termine 'ragionamento' è ambiguo. Talvolta si usa il termine per riferirsi al procedimento intellettuale attraverso cui un giudice perviene alla sua decisione. Talaltra si usa lo stesso termine per riferirsi al modo in cui un giudice giustifica (motiva) la sua decisione. Le due cose sono ben distinte: nel primo senso il ragionamento è un evento psicologico; nel secondo senso è un discorso. Il rilievo della distinzione è ovvio: non è per nulla detto che la motivazione della sentenza rifletta fedelmente quanto è accaduto nella mente del giudice; può darsi, ad esempio, che il giudice decida in vista di un certo scopo, ma motivi la decisione facendo appello a una norma. La teoria del ragionamento giuridico, in ogni caso, è analisi logica, non psicologica: il suo oggetto è costituito dalle tecniche argomentative effettivamente impiegate dai giudici nel motivare i loro provvedimenti (v. Aarnio, 1977 e 1987; v. Alexy, 1979; v. Gianformaggio, 1986; v. Peczenik, 1983; v. Taruffo, 1975; v. Wróblewski, 1983²; v. Comanducci e Guastini, 1987-1989).A un'indagine empirica, tali tecniche risultano assai varie (v. Lazzaro, 1970; v. Perelman, 1976; v. Tarello, 1980). Per esempio, qualcuno ha raggruppato le argomentazioni giudiziali in quattro classi fondamentali:
a) argomenti che fanno riferimento a una presunta volontà del legislatore, ricostruita (o ipotizzata) con tecniche appropriate;
b) argomenti che fanno appello al significato comune delle parole contenute nella legge;
c) argomenti che invocano principî di giustizia, solitamente ritenuti impliciti nel sistema giuridico o in qualche sua parte;
d) argomenti che giustificano una decisione adducendo la bontà o opportunità dei suoi prevedibili effetti (v. Harris, 1979).Nondimeno è assai diffusa, nella cultura giuridica moderna, una teoria, di chiara matrice formalista (v. § 2f), secondo cui il ragionamento giudiziale è sempre riducibile a un sillogismo (v. MacCormick, 1978), nel quale: premessa maggiore è una norma generale precostituita ('tutti i ladri devono essere puniti'); premessa minore è la descrizione dei fatti oggetto di giudizio ('Tizio è un ladro'); conclusione è una norma individuale ('Tizio deve essere punito'). Questa teoria tende a raffigurare il ragionamento del giudice come un procedimento certo e stringente, che non coinvolge valutazioni o scelte.
Essa suppone, tra le altre cose:
a) che il giudice trovi sempre, precostituita, una norma univoca applicabile al caso;
b) che i fatti della controversia possano essere oggettivamente accertati;
c) che il giudice sia animato da spirito di fedeltà alla legge, e pertanto si limiti ad applicare a casi concreti le decisioni del legislatore;
d) che il giudice si astenga dal perseguire finalità sue proprie, e dunque decida senza prendere in considerazione le conseguenze prevedibili della sua decisione.
Non è chiaro, peraltro, se la teoria in esame abbia carattere conoscitivo o normativo: se sia, cioè, una descrizione (probabilmente falsa) del modo in cui i giudici motivano realmente, o invece una raccomandazione, rivolta ai giudici, circa il modo in cui dovrebbero motivare. La teoria normativa, di origine settecentesca, secondo cui i giudici devono ragionare deduttivamente a partire da norme precostituite, è palesemente ispirata da alcuni valori politici del liberalismo, quali la certezza del diritto (ossia la prevedibilità delle decisioni) e la fedeltà del giudice alla legge (v. Ferrajoli, 1989).La teoria sillogistica del ragionamento giudiziale è stata criticata, da parte realista (v. § 2f), con un duplice argomento 'scettico' (v. Tarello, 1962):
a) per ciò che riguarda la premessa maggiore del sillogismo, si è osservato che le norme non sono già date nel discorso legislativo. Nella legge non si trovano 'norme', ma solo formulazioni normative (enunciati) di significato ambiguo e indeterminato, che si prestano a interpretazioni molteplici. Pertanto, le norme sono il prodotto di decisioni interpretative, largamente discrezionali;
b) per ciò che riguarda la premessa minore, si è osservato che ogni 'fatto' è suscettibile di molteplici 'descrizioni', ciascuna delle quali prelude all'applicazione di una norma diversa (ad esempio, un medesimo evento, lo scambio di un oggetto contro una piccola somma di denaro, può essere raffigurato sia come compravendita, sia come donazione dissimulata).
Dunque i giudici non 'accertano' i fatti del caso, ma li qualificano discrezionalmente.Insomma, il giudice non 'trova' premesse normative già pronte, suscettibili di trattamento deduttivo: si costruisce egli stesso, ex post, le premesse idonee a giustificare la decisione cui è pervenuto in modo discrezionale. La discrezionalità giudiziale si manifesta non nel dedurre la decisione da certe premesse, ma nella scelta di certe premesse a preferenza di altre egualmente plausibili. Su questa base qualcuno ha suggerito di distinguere tra due livelli di argomentazione: la giustificazione 'interna' della decisione, ossia il sillogismo teorizzato dai formalisti, e la giustificazione 'esterna' della decisione, ossia l'insieme di argomenti idonei a motivare la scelta delle premesse del sillogismo stesso (v. Wróblewski, 1983²).Questa teoria descrittiva del ragionamento giuridico è talvolta associata a una teoria prescrittiva secondo cui è preferibile che i giudici decidano in vista dei risultati prevedibili delle loro decisioni, piuttosto che deducendo, o fingendo di dedurre, tali decisioni dalle formulazioni normative che trovano già fatte ad opera del legislatore (v. Tarello, 1962; v. Summers, 1982).
Si usa chiamare scienza giuridica lo studio dottrinale o dogmatico del diritto, ossia l'attività di interpretazione e sistemazione del diritto abitualmente compiuta dai giuristi accademici (v. Bobbio, 1950; v. Jori, 1976; v. Villa, 1984; v. Hernández Marin, 1989). Nella letteratura contemporanea sono state affacciate principalmente due teorie della scienza giuridica: la teoria normativista, nelle sue molte varianti, e quella realista (v. § 2a).Generalmente parlando, la teoria normativista configura la scienza giuridica come un discorso su norme, intese, secondo i casi, o come comunicazioni linguistiche prescrittive, o come entità sovraempiriche appartenenti al mondo del 'dover essere' (v. Bobbio, 1950 e 1970; v. Kelsen, 1960; v. Kalinowski, 1969). La teoria realista configura invece la scienza giuridica come un discorso su fatti, e più precisamente sui comportamenti (le decisioni) dei giudici e, in genere, degli organi dell'applicazione: conoscere 'realisticamente' il diritto vuol dire non già accertare norme, ma prevedere in qual modo i giudici decideranno un certo tipo di controversia (v. Ross, 1958).Il normativismo si atteggia, solitamente, a teoria descrittiva della scienza giuridica: una teoria che cerca di chiarire e razionalizzare le operazioni intellettuali che i giuristi, di fatto, compiono abitualmente. Il realismo si atteggia, per lo più, a teoria prescrittiva della scienza giuridica: una teoria che propone ai giuristi un modello di scienza, ricalcato sulle scienze sociali empiriche, che non corrisponde per nulla a ciò che i giuristi fanno realmente. Ancora: il normativismo in genere tende ad accreditare il carattere scientifico della dogmatica giuridica moderna così com'è; il realismo considera la dogmatica giuridica non una scienza, ma piuttosto un'attività politica diretta a influenzare le decisioni dei giudici (una politica de sententia ferenda).
Di recente si è diffusa in letteratura la distinzione tra due tipi di discorsi sul diritto. È stato osservato che vi sono due modi di parlare di norme: dal punto di vista 'interno' e dal punto di vista 'esterno' (v. Hart, 1961; v. MacCormick, 1981). È 'interno' il discorso di coloro che accettano un dato sistema giuridico e, accettandolo, ne usano le norme per valutare il comportamento proprio e altrui ('la tale condotta è lecita'), per avanzare pretese ('ho diritto di agire in questo modo'), ecc. È 'esterno' il discorso di coloro i quali né accettano né respingono un dato sistema giuridico, ma si limitano ad osservare i comportamenti e gli atteggiamenti dei consociati ('di fatto alcuni ladri sono puniti', 'la tale norma è sentita come vincolante da parte di alcune persone', ecc.). Questa distinzione torna utile per chiarire che, secondo il normativismo, la scienza giuridica è un discorso interno sul diritto (né potrebbe essere alcunché di diverso). Secondo il realismo, per contro, i discorsi interni hanno significato normativo, non conoscitivo; pertanto la dogmatica non ha alcun carattere scientifico; una 'scienza' giuridica degna del nome dovrebbe consistere in un discorso puramente esterno.Da un altro punto di vista si potrebbero raffigurare le diverse concezioni della scienza giuridica come altrettanti modi di analizzare il linguaggio dei giuristi. Intuitivamente, un codice civile è cosa diversa da un manuale di diritto civile, giacché il codice adempie a una funzione normativa o prescrittiva, mentre il manuale adempie a una funzione informativa o conoscitiva. Tuttavia, sotto il profilo sintattico, i manuali non sono poi troppo diversi dai codici. Infatti, nel descrivere il diritto, i giuristi usano comunemente enunciati deontici, ossia enunciati in termini di 'obbligo', 'dovere', ecc. (v. Mazzarese, 1989). Essi, dunque, a differenza degli altri scienziati sociali, dicono non ciò che è ('i ladri sono / non sono puniti'), ma ciò che deve essere ('i ladri devono essere puniti'). Gli enunciati di questo tipo, in principio, non sono diversi da quelli usualmente impiegati dallo stesso legislatore. Nel discorso legislativo gli enunciati deontici hanno ovviamente un significato normativo (esprimono norme). Ma qual è il significato di tali enunciati quando sono usati da giuristi? A questa domanda sono state offerte non meno di quattro risposte: le prime due costituiscono altrettante varianti della teoria normativista della scienza giuridica; le due rimanenti sono riconducibili alla teoria realista.
Una prima tesi sostiene che gli enunciati dei giuristi vertono su 'norme', e ne asseriscono l''esistenza' (v. Kelsen, 1960). Così, ad esempio, dire che qualcuno ha un obbligo significa che esiste una norma la quale comanda a costui di comportarsi in un certo modo (v. Hart, 1961). Questa tesi presenta numerose versioni, connesse ai diversi modi di concepire le norme e la loro esistenza.Una seconda tesi sostiene che gli enunciati dei giuristi sono enunciati interpretativi, ossia enunciati (di forma ellittica) che attribuiscono significato alle disposizioni legislative (v. Bobbio, 1950). Da questo punto di vista, la scienza giuridica si riduce a un metalinguaggio che analizza il discorso del legislatore (v. §1g).Una terza tesi sostiene che gli enunciati dei giuristi, in quanto sono formulati 'dal punto di vista interno', costituiscono iterazioni di norme (v. Scarpelli, 1967). In altre parole, i discorsi dei giuristi, più che descrivere norme, le ripetono: sono essi stessi discorsi normativi.Una quarta tesi sostiene che gli enunciati dei giuristi, lungi dal descrivere norme (in un senso o nell'altro di questa espressione), prevedono fatti (v. Ross, 1958). Ad esempio, dire che qualcuno ha un obbligo significa che costui probabilmente incorrerà in un male (una sanzione) qualora non tenga una certa condotta. È appunto questo il senso dei discorsi che gli avvocati rivolgono ai loro clienti.
(V. anche Giurisprudenza; Giusnaturalismo e giuspositivismo; Interpretazione giuridica).
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