Filosofia
Filosofia del cinema, da una parte, ed estetica cinematografica, dall'altra, benché strettamente connesse e talora sovrapposte al punto che spesso la loro distinzione si è fatta evanescente, sono però due ambiti della ricerca filosofica che la cultura del Novecento ha frequentato in circostanze e in modi assai diversi. Mentre l'estetica del cinema è andata costituendosi come disciplina autonoma grazie ai contributi di alcuni dei protagonisti della f. contemporanea (come per es. Walter Benjamin e Gilles Deleuze), la riflessione filosofica sul cinema ha avuto carattere occasionale e di scarso rilievo (benché l'apporto di Benjamin, di Deleuze e di altri sia rilevante non solo per l'estetica cinematografica ma anche per la filosofia del cinema).
Occorre anzitutto tener ferma la separazione fra la riflessione filosofica sul cinema e l'estetica del cinema. Infatti l'estetica cinematografica guarda al cinema ponendo in questione lo 'specifico' (appunto lo specifico filmico) di questa forma di espressione artistica e quindi ciò che la distingue dalle altre. Da questo punto di vista appaiono di grande interesse non solo le teorie dei filosofi, ma anche l'autoriflessione di registi, attori, cineasti, direttamente o indirettamente connessa alla domanda su che cosa significhi fare cinema. E questo sia a livello di poetica e di progetto estetico (un nome su tutti è quello di Sergej M. Ejzenštejn), sia a livello critico (cominciando con l'Espressionismo e in particolare con Friedrich Wilhelm Murnau, Fritz Lang, ma non dimenticando lo straordinario The cameraman, 1929, di Edward Sedgwick, con Buster Keaton), sia infine di entrambi (fra i molti autori si ricordano Jean-Luc Godard e François Truffaut). Invece la riflessione filosofica sul cinema cerca risposte a problemi che appartengono alla storia del pensiero e di cui si ipotizzano nuove soluzioni a partire dall'inedita esperienza visiva e percettiva che il cinema sembra aver reso possibile.Tali problemi, volendo tentare una prima ricognizione piuttosto sommaria ma non priva di un suo valore emblematico, riguardano rispettivamente: la concezione del tempo, l'idea di realtà, la funzione dell'interpretazione. Da notare come ciascuno di essi abbia una storia che precede di gran lunga e va ben al di là della storia del cinema, ma che il cinema, con la sua tecnica peculiare e innovativa, ha contribuito a ridefinire nel modo più suggestivo. Si consideri la pellicola cinematografica: essa è composta da fotogrammi che fissano in istanti separati il divenire, quel divenire che è il risultato del loro scorrimento artificiale. Si potrebbe allora dire che il divenire e quindi il tempo non è se non frutto di illusione ottica. Oppure si consideri una ripresa cinematografica quale che sia: la realtà è lì, di fronte alla macchina da presa, ma volendo riprodurla sullo schermo si deve usare tutta una serie di accorgimenti. Decidere intanto dove collocare la macchina da presa, se tenerla fissa o in movimento, e così via. Si dovrà concludere che la realtà non è se non oggetto di costruzione? Quanto ai materiali che serviranno ai fini della proiezione, anche in questo caso si dovranno operare tagli, scelte, accostamenti più o meno arbitrari. Insomma, l'effetto è pregiudicato dal cosiddetto montaggio. La conclusione sarà necessariamente che tutto è interpretazione e nient'altro che interpretazione? Dire che il cinema ha comportato per la f. una revisione dei suoi apparati concettuali è dire troppo. Tanto più che la f. si è mostrata assai poco sensibile, rispetto all'importanza del fenomeno, quando si è trattato di raccogliere le sollecitazioni che le venivano dal cinema e dalla sua rapida evoluzione. Nondimeno già la semplice rassegna dei problemi di cui sopra evidenzia quanto il nesso di f. e cinema sia ricco di implicazioni.
Nell'intera storia della f. non c'è pensatore, si può dire, che non abbia affrontato il problema del tempo. Celebri le definizioni che ne dettero rispettivamente Platone e Aristotele. Secondo Platone il tempo è "l'immagine mobile dell'eternità", ossia una dimensione che tutto abbraccia ma resta identica a sé stessa pur nella trasformazione continua di ogni cosa. A sua volta Aristotele riteneva che il tempo fosse "il numero del movimento secondo il prima e il dopo", e quindi lo identificava con la misura stessa del divenire. Sarà poi sant'Agostino a spostare il discorso dal piano della fisica e della metafisica al piano psicologico. Il tempo, dice Agostino, è "distensione dell'anima", ossia percezione del trascorrere della realtà resa possibile dal fatto che la coscienza è coscienza del passato che non è più e coscienza del futuro che non è ancora. Venne così inaugurata una tradizione che mette il tempo in rapporto a come lo si intuisce e se ne fa esperienza. Tradizione, questa, che attraverso filosofi come I. Kant, F.W.J. Schelling, F.W. Hegel, per i quali tutti, nonostante le differenze, il tempo coincide con la sua intuizione e cioè con il 'senso interno', percorre tutta la storia del pensiero, ed è alla radice di una prospettiva come quella sviluppata da M. Heidegger.
Donde la domanda non solo e non tanto se il cinema abbia a che fare con il tempo e con le teorie filosofiche del tempo (ovviamente ha a che fare con l'uno e con le altre, non fosse che per il fatto di essere una forma di narrazione), ma se il cinema possa rappresentare per la f. un significativo elemento di riflessione all'interno di una problematica tanto importante, magari tale da costringere a un ripensamento dei suoi presupposti. Ebbene, il primo filosofo a far ricorso al cinema nel suo tentativo di ridefinire cosa sia il tempo fu H. Bergson. Il quale era partito dalla distinzione, su cui avrebbe continuamente insistito, fra durata reale e stato di realtà. La durata reale indica la vita com'è veramente, trasformazione e innovazione continua, sempre altra da sé, e quindi non vincolata, ma libera. Lo stato di realtà, invece, è una costruzione artificiale dell'intelligenza, che fissa, immobilizza, congela arbitrariamente il fluire, al fine di analizzare questo o quello, conoscerlo, ma lasciandosene sfuggire il senso, che può essere afferrato solo da un atto intuitivo.
L'intelligenza, sostiene Bergson in Évolution créatrice (1907), agisce sulla realtà come un meccanismo cinematografico. Essa pretende di isolare le istantanee, che sarebbero le une separate dalle altre e che danno luogo a una sequenza temporale allorché qualcuno le mette in rapporto e le vive come un continuum. Ma le cose stanno esattamente all'opposto. A produrre più o meno arbitrariamente la continuità non sono frammenti isolati e autonomi. È la continuità, invece, che subisce arbitrariamente frammentazione e divisione, producendo una percezione distorta (rispetto alla realtà del divenire) anche se necessaria (ai fini dell'analisi).
Che il cinema, facendo scorrere le istantanee, e cioè i singoli fotogrammi, riproduca agli occhi dello spettatore la continuità provvisoriamente negata sembra non togliere a Bergson il dubbio che il cinema sia espressione di un'epoca in cui il sapere è di tipo analitico, scientifico, e quindi poco incline a cogliere i valori spirituali della vita, che sono i valori dell'infinito rinnovamento, della libertà. Ma non è questo il punto. Semmai è invece da sottolineare come precisamente tali osservazioni bergsoniane abbiano aperto la strada a inedite considerazioni sul tempo e in particolare sul rapporto fra il tempo e l'istante. Ed è stata proprio la tecnica del cinema a offrire suggerimenti preziosi.
Per quanto riguarda il concetto di istante, a lungo e in vario modo la f. si è interrogata se esso sia parte del tempo, atomo o particella di cui il tempo sarebbe composto oppure se invece sia sciolto dal tempo, vera e propria estasi intemporale che semmai è epifania dell'eterno e dell'immutabile. Donde il paradosso, tipico della f. idealistica e romantica così come di quella nietzschiana, per cui l'istante, l'hic et nunc, sarebbe il luogo stesso dell'assoluto e del suo accadere nel finito. Con la differenza semmai che l'accento da una parte cade sul fatto che l'assoluto si storicizza e diviene, mentre dall'altra è il finito che si eternizza e rende possibile una specie di rapimento estatico.
Quasi inevitabile riproporre questi temi e questi problemi in una dimensione apparentemente lontana ma di fatto assai congeniale alla f. come quella cinematografica. Effettivamente il singolo fotogramma è una perfetta immagine dell'istante sospeso ossia tolto al divenire e per così dire eternizzato, ma è anche rappresentazione di un microcosmo, di una totalità diveniente e progressiva. Proprio così l'ha concepito e l'ha utilizzato il cinema. Si prenda a esempio l'insistenza sul medesimo fotogramma per un tempo determinato oppure l'effetto dell'arresto del naturale scorrere della pellicola, il che è lo stesso. Il 'fermo' del fotogramma si verifica comunque alla fine della proiezione, ma può essere un elemento espressivo voluto dal regista in un momento qualsiasi della vicenda. Del resto l'atomismo fotografico appartiene alla natura del cinema e quindi in entrambi i casi viene fatto affiorare qualcosa che è già lì, che c'è anche se è nascosto o percepito unicamente a livello subliminale. Che conseguenze trarne? Intanto bisogna convenire che l'atomo di realtà rappresentato dal fotogramma ha una valenza espressiva fondamentale. Detto altrimenti, non è soltanto qualcosa che si nega nel fluire delle immagini, ma anche qualcosa che mentre si occulta al fine di produrre un'illusione di continuità reclama una precisa autonomia di significato. Tant'è vero che il cinema non fa che giocare su questa ambivalenza. E se macchine sempre più sofisticate permettono una riproduzione assolutamente realistica del movimento a partire dalla sua frammentazione e quindi dalla sua negazione, non c'è regista che non ricorra all'espediente di isolare un frammento di realtà, un'immagine, e quindi di sospendere e addirittura di sovvertire la sua dipendenza dal tempo per ottenere effetti di senso.
Non il tempo che tutto sottomette alla sua legge, la durata, decide dell'immagine e di ciò che essa ha da dire allo spettatore quanto a espressività, intensità, profondità, bensì l'immagine, il suo rapido dileguare, oppure il suo estatico star lì, decidono del tempo. Il tempo è messo in rapporto con la percezione che lo spettatore ne ha. E la percezione che lo spettatore ne ha dipende a sua volta dalla 'verità' dell'immagine, dalla sua portata semantica. Per evidenziare la quale il regista può addirittura liberarla dal tempo, fissarla a una sorta di istante eterno. Così come può farla scorrere sull'asse temporale fino ad allontanarla infinitamente dal momento presente. E questo spiega perché qualsiasi proiezione cinematografica produce nello spettatore un senso di disorientamento rispetto al tempo trascorso effettivamente dall'inizio alla fine del film.
Una conferma per via negativa viene dalla possibilità di accelerare o di rallentare lo scorrimento delle immagini. Accelerazione e rallentamento inducono reazioni d'ordine estetico (immagini accelerate di solito fanno ridere, e lo fanno ancor più se di per sé non sono affatto comiche, immagini rallentate appaiono cariche di pathos drammatico, evocano accadimenti fatali, fanno cenno alla morte benché nella forma di una liberazione dal dolore dell'esistenza), ma comportano anche mutamenti profondi sul piano ontologico, sul piano della realtà (che non è più quella che era e viene consegnata a un altro ordine di significati). La discontinuità la vince su quel continuum, su quella durata reale, su quel corso omogeneo delle cose che si suppone rappresenti la natura del tempo, ma che in fondo non esiste. A quale natura, a quale essenza si deve far riferimento, se basta un'accelerazione delle immagini a far 'saltare' il tempo e la sua legge, così come basta un loro rallentamento a rovesciare il tempo nelle figure a esso antitetiche (il nulla, la morte, l'istante eterno)?
Il cinema, affermando che la discontinuità, non la continuità, domina il tempo, che può essere dilatato o contratto all'infinito, sembra dunque mettere in discussione l'idea bergsoniana della durata reale nel momento stesso in cui la pone a base del suo illusionismo percettivo. Ma mette anche in discussione l'idea agostiniana che solo il presente esiste, ma esiste come non esistente, in quanto a ogni istante già non è più o non è ancora. L'istante dal punto di vista cinematografico è espressione di un paradosso. Si nasconde nel fluire del tempo. Ma per sospenderlo, interromperlo, dilatarlo o magari anche negarlo.
Il cinema, ha scritto Pier Paolo Pasolini, "rappresenta la realtà attraverso la realtà" (Empirismo eretico, 1972, p. 233). Questo vale, entro certi limiti, per l'arte in genere, e infatti anche l'arte astratta sta in rapporto con la realtà, su cui lavora per sottrazione o per trasposizione, e di cui è il lato in ombra. Ma vale in particolare per il cinema, che fotografa la realtà così com'è, e la fotografa in movimento. Né ha molto senso obiettare che esiste anche un certo tipo di film in cui la realtà è dissolta in gioco di luce, e dunque della realtà in quanto tale non ne è più nulla, poiché qui si tratta non tanto di cinema quanto di pittura, sia pure pittura che si serve del mezzo cinematografico.
Tuttavia il cinema non è la realtà. Non è la realtà, ma la rappresenta. E questa rappresentazione non è pura e semplice mimesi, pura e semplice copia. Tant'è vero che se si pretendesse di catturare la realtà, fissarla con assoluta immediatezza, e poi riprodurla, semplicemente sistemando la macchina da presa di fronte a essa e lasciando che essa si imprima sulla pellicola, si otterrebbe un risultato deludente, anzi, un sorprendente effetto di straniamento. Si vedrebbero in tal modo scorrere sullo schermo immagini confuse e almeno in parte indecifrabili, e per di più sconnesse sia sul piano spaziale sia sul piano temporale, dal momento che lo spazio-tempo della realtà è altra cosa rispetto allo spazio-tempo del cinema. La pretesa di annullare la differenza dà infatti luogo a evidenti sfasature, quando addirittura non impedisce di riconoscere la situazione filmata.
Perciò la maggiore vicinanza del cinema alla realtà rispetto alle altre arti è pur sempre da intendersi come un avvicinamento a qualcosa che resta altro e di cui ci si può appropriare attraverso il medio della rappresentazione. Pensare, come negli anni Venti del Novecento pensava Dziga Vertov, che il cinema sia "la vita colta sul fatto" e che grazie al cinema si possa finalmente arrivare a dire: "questa è la realtà", appare come un'ingenuità. Certamente il cinema ha contribuito a formare una nuova percezione della realtà, oltre a farla conoscere, mostrandone i lati più nascosti e più remoti ma svelando anche il volto oscuro del quotidiano e addirittura facendo vedere l'invisibile (quanto meno invisibile a occhio nudo). Grazie al cinema lo spettatore ha imparato a far irruzione nel mondo degli altri come se fosse il suo mondo, ha capito cosa significa guardare le cose da un punto di vista che non è il suo e ha scoperto come anche i particolari più insignificanti potessero essere per lui fonte di sorpresa e di emozione. Ma la realtà del cinema è pur sempre realtà mediata, filtrata: anche se allo spettatore sembra di essere immerso in essa ed è comunque talmente vicina a lui che gli par di toccarla.
Secondo Benjamin (1936) il cinema è l'episodio culminante e finale di una vicenda secolare che ha visto l'uomo appropriarsi progressivamente della realtà che lo circonda. Realtà espropriata e alienata è quella del mito, del rito, della religione. La religione, per es., produce immagini che non sono per gli uomini, ma per gli dei, e infatti l'arte religiosa concepisce le sue opere in funzione di uno sguardo ex alto, come dimostra la loro collocazione, spesso in nicchie buie o in siti inaccessibili (o quasi) alla vista. Tali opere sono dunque fatte per qualcuno che sta lontano. Ma, impregnate come sono di mistero, sono anche fatte come se venissero da lontano. Una specie di 'aura' circonda queste immagini, che altro non è se non appunto il "provenire da una lontananza" (trad. it. 1966, p. 9).
Accade poi che statue, effigi e simulacri vengano estetizzati: e ciò a misura che la secolarizzazione trasferisce l'aura dal piano cultuale al piano artistico. Venuta meno la potenza della religione, le sue immagini cessano di essere oggetto di culto e di devozione, non però di fruizione. Appunto, fruizione estetica, che conserva a suo modo il valore 'auratico' di qualcosa che continua ad apparire unico, sublime, più che umano. Quando però i mezzi tecnici hanno reso possibile la riproduzione sempre più perfetta delle opere d'arte, è stato inevitabile che se ne facesse esperienza in un modo più umano e meno sacrale. Il cinema è arrivato nel momento in cui l'esperienza artistica ha perso il suo carattere di su-blimità e di unicità per diventare qualcos'altro. Si potrebbe dire: un nuovo modo di abitare il mondo. Ed è qui che il cinema lascia venire in chiaro la sua portata conoscitiva, filosofica. Che cosa significa infatti abitare il mondo in senso cinematografico? Significa due cose apparentemente opposte. Lo spettatore è immerso nel mondo che gli è fatto scorrere davanti agli occhi, e dunque ne può partecipare in modo particolarmente intenso. D'altra parte il mondo in questione è del tutto fittizio, pura illusione ottica, fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni, e dunque ne può prendere tranquillamente le distanze. Insomma, lo spettatore è nello stesso tempo dentro il mondo e fuori del mondo. Dunque, è posto nella migliore prospettiva dalla quale giudicare il mondo stesso.
Tutto ciò in forza della specifica tecnica cinematografica. Se un'auto è lanciata in un inseguimento, a seconda di dove la macchina da presa è collocata lo spettatore viene di volta in volta a trovarsi o su quell'auto, o nei panni del passante che vede venirsela addosso, o in una terza postazione, da dove è possibile osservarne lo sfrecciare. Nondimeno lo spettatore è seduto sulla sua poltrona. Emozioni diverse si incrociano in lui e contribuiscono a formare un'immagine complessa della realtà. Un'immagine che è finzione ma che nello stesso tempo è realistica e anzi più che realistica, iperrealistica.
Che cos'è dunque 'realtà'? Il cinema non ha certo la pretesa di dirlo. Ma ne esibisce l'idea, la scompone, la problematizza. Idea, questa, che è piuttosto sofisticata, anche se si nasconde dietro tratti d'ingenuità. Sembra infatti che il cinema si presti a un doppio equivoco. C'è chi pensa che la realtà cinematografica sia la realtà tout-court, la realtà finalmente rispecchiata com'è veramente. E c'è chi pensa invece che non sia se non finzione, simulazione, illusione. Sennonché il cinema non è teatro e non è televisione. Non è teatro: la finzione della quarta parete non esiste, l'occhio coincide con la macchina da presa e quindi può spaziare ovunque senza dover simulare uno spazio che non c'è, insomma non si tratta di illusionismo ma semmai di scomposizione e ricomposizione della realtà. D'altra parte non è neppure televisione: quel che si vede non corrisponde a qualcosa che sta accadendo, non è riproduzione di fatti in tempo reale, bensì narrazione, racconto (e non importa che si tratti di fatti reali o fatti inventati). Per il cinema la realtà non è qualcosa che sta lì, in una sua compiuta oggettività, da catturare e da riprodurre mimeticamente. Ma non è neppure qualcosa che sta interamente nella macchina che la cattura e la riproduce, poiché la macchina non crea ma fotografa. Semmai è il risultato di un processo che fa pensare a una nascita, a un venire al mondo. Non, dunque, la rappresentazione di qualcosa che c'è già e neppure la rappresenta-zione di qualcosa che non c'è ancora. Semmai il venire al mondo di qualcosa (qualcosa che c'è già e tuttavia non c'è ancora) nella rappresentazione. La realtà viene al mondo, anzi, si fa mondo, a misura che viene rappresentata. Così come il mondo (la realtà divenuta mondo) non è se non in rapporto con l'occhio e con la mente, lo stesso vale per il cinema. E in rapporto significa che l'occhio e la mente non sono semplici strumenti di registrazione ma neppure che il mondo sorge da essi come dal nulla. È accaduto che si potesse credere o l'una cosa o l'altra. Donde, per analogia, l'idea del cinema come mimesi, da una parte, o come invenzione fantastica, dall'altra. Ma il cinema, che è essenzialmente montaggio, costruzione, dunque lavoro interpretativo, mette in di-scussione idealismo e realismo e non fosse che per questa via entra a pieno titolo in dialogo con la filosofia.
Deleuze si è occupato del problema del montaggio come problema specificamente filosofico (1983 e 1985). Lo ha fatto osservando come il montaggio sia una tecnica che prospetta la realtà in una luce di effettiva novità. La realtà non è più quella che era. Non è la rappresentazione di qualcosa di nascosto che viene portato alla luce e non è neppure la rappresentazione di qualcosa di accaduto (sia pure nella finzione rappresentativa) che viene riattualizzato. La realtà è quella che non era ancora mai stata. E lo è grazie al montaggio. Dunque il montaggio costringe a pensare ciò di fronte a cui la f. si è sempre trovata in grande difficoltà: per l'appunto il nuovo.
Non è un caso, secondo Deleuze, che Bergson, ossia proprio il primo pensatore a occuparsi di cinema (e a intuirne tutta la potenzialità anche se fra molte contraddizioni), abbia avuto fortissimo il senso dell'irriducibilità del divenire ai dati che ne costituiscono il momento iniziale e che quindi si sia interrogato su quel di più, su quella crescita, quell'aumento di essere che il tempo comporta. Ma perché la f. fa fatica a pensare il nuovo, come se il nuovo fosse per definizione impensabile?
Sono le domande che poneva un filosofo come E. Bloch nel suo Geist der Utopie (1918). Bloch considerava la teoria platonica della conoscenza alla stregua di una pregiudiziale destinata a gravare sull'intera storia della filosofia. Come può l'uomo conoscere, si chiede Platone, se non riconoscendo che quella tal cosa è proprio quella? Se non può farlo altrimenti, ciò significa che oggetto di conoscenza vera può essere soltanto ciò che è già conosciuto, ciò che da sempre è presente all'anima sia pure nella forma di un paradigma sepolto o dimenticato (quel paradigma che mi permette di riconoscere che quella cosa è proprio quella). Il nuovo, se le cose stanno così, non esiste. Di nuovo non c'è se non l'eterno che torna a farsi presente in me e mi ricorda ciò che è sempre, ciò che non è soggetto a mutamento: la verità. Conoscere è ricordare. Conoscere è trar fuori dalla memoria l'immutabile. Anamnesi: ecco il principio fondamentale che Platone ha introdotto e che, dice Bloch, non è mai stato veramente messo in discussione. Come avrebbe potuto esserlo, del resto? Se la verità è il rispecchiamento dell'immutabile, il sapere ha necessariamente carattere anamnestico. Il nuovo che fosse davvero tale (il divenire che mettesse di fronte a eventi la cui ragion d'essere non fosse eternamente data) neppure potrebbe essere riconosciuto come nuovo. Sarebbe pura insignificanza, nonsenso, assurdità. Eppure, prosegue Bloch, il divenire esiste, ed esiste non soltanto come teatro di vicende che nonostante le apparenze riflettono l'immutabile e cioè le figure archetipiche dell'essere. La storia sta lì a dimostrarlo. Lo storia non è che la continua irruzione del nuovo. Sia pure quel nuovo che non si sa come pensare. Lo insegna Bergson come pensare il nuovo, suggerisce Deleuze. Ma se di questo suo insegnamento si vogliono cogliere tutte le implicazioni, la via migliore da percorrere è quella che tiene conto di un'esperienza che Bergson non ha portato a fondo, anche se l'ha saputa anticipare: l'esperienza cinematografica. In questione, anzitutto, quel 'dato' che è colto dalla coscienza nell'istante e che appare come la cellula germinale della realtà, ossia l'immagine. Che cosa lega un dato all'altro, qual è il nesso? Secondo la scienza si tratta del principio di causa ed effetto. E indubbiamente è così. Ma con questo non si è ancora detto nulla del senso che sprigiona dalle immagini, dal loro stare insieme, dal loro essere orientate in un certo modo. Quand'anche si potessero individuare tutti i presupposti che stanno alla base di un certa situazione, essa nondimeno si presenterebbe (specialmente se si è coinvolti in prima persona) carica di una sua irriducibile enigmaticità o comunque di un di più che sfugge alla causalità. "Perché è accaduto quel che è accaduto? E perché proprio a me?". Naturalmente è possibile rimuovere domande del genere e definirle insensate, patetiche, vuote. Non così però se si riflette sul fatto (ed è questo l'apporto originale del pensiero di Bergson) che in ogni momento la realtà lascia meravigliati e attoniti, ma non perché le cause siano ignote, bensì perché la causalità è insufficiente a spiegare la sovrabbondanza di significati che investe i fenomeni a misura del loro essere inseriti in orizzonti di senso e quindi del loro essere governati da un intrinseco finalismo. Impossibile credere che la causalità sia tutto e che il telos non concorra a governare retroattivamente il processo. La causalità è un'astrazione. Naturalmente è indispensabile per poter intervenire sulla realtà. E la scienza giustamente se ne serve, vi fa affidamento. Ma a patto di ipotizzare che lungo l'asse temporale il fluire dei fenomeni avvenga in modo meccanico e omogeneo. Sennonché tutto ciò è contraddetto dall'esperienza. Solo per astrazione l'istante è effetto di quello che lo precede e causa di quello che lo segue. Intuitivamente si sa che nell'istante tutto è ogni volta in gioco e che dunque l'istante è una dimensione dove la realtà, così com'è venuta configurandosi, è trascesa verso qualcosa che non può essere predeterminato. Potenza delle immagini: si vorrebbe che fossero semplici espressioni dell'idea astratta del prima e del dopo, segmenti che il meccanico scorrere del tempo mette in rapporto secondo il principio di causalità cui sarebbero destinate a sottostare, e invece sono loro, le immagini, che orientano il divenire, lo liberano dalla necessità, lo immettono nell''aperto'. Così afferma Bergson. E con ciò Bergson, osserva Deleuze, mentre si oppone al determinismo meccanicistico avanza una concezione del divenire che non solo l'esperienza in genere, ma l'esperienza cinematografica in particolare confermano. Deleuze (il quale ricorda bensì che Bergson ha fatto riferimento al cinema come esempio negativo di temporalità astratta, ma per osservare che si è trattato soltanto di un curioso abbaglio che nulla toglie all'intuizione di fondo) appoggia la sua tesi su due concetti, quello di immagine-movimento e quello di immagine-tempo. Immagine-movimento è l'immagine che fa parte in modo integrale di un flusso da cui non può essere isolata. Si dirà: e il fotogramma? Ma proprio il fotogramma è la dimostrazione dell'assunto. Infatti il fotogramma s'imprime nella memoria insieme con quelli che lo precedono e lo seguono, né si dà un istante in cui non c'è più l'immagine che precede e non c'è ancora l'immagine che segue. Se si desse, questo istante, avrebbe ragione Zenone, il movimento sarebbe illusione e l'immagine non farebbe che ricadere in sé stessa, chiusa nella propria fissità e impenetrabilità. Proprio il contrario di quanto l'esperienza (e specialmente l'esperienza cinematografica) attesta. Quanto all'immagine-tempo, essa secondo Deleuze è una scoperta successiva rispetto all'immagine-movimento. Ed è la definitiva confutazione dell'idea che il tempo possa essere considerato come la dimensione in cui gli eventi accadono secondo una misura che, sempre uguale a sé stessa, li fa scivolare nell'indifferenza, nell'insignificanza. Si prenda la scena di un film neorealista. Un interno dove si vedono oggetti sciupati, corrosi. Una donna incinta. Lo sguardo posato da questa donna sul suo ventre. La macchina da presa si sofferma su un'immagine che dice il passare del tempo e magari l'angoscia per ciò che non è più, per ciò che non è ancora. Questo significa: non il tempo contiene l'evento, e cioè l'immagine che lo esprime, bensì l'immagine contiene il tempo, lo qualifica, lo guida. È questa l'immagine-tempo.Precisamente sull'immagine-movimento e sull'immagine-tempo opera il montaggio. Di cui non ci sarebbe bisogno, e che anzi neppure sarebbe concepibile, se il cinema fosse rimasto quello che era alle origini, quando la macchina da presa, fissa, era piazzata davanti a un piano immobile che fungeva da scena teatrale e quando il tempo della ripresa e il tempo della proiezione coincidevano, tempo neutro, uniforme, astratto. Ma poi la macchina da presa ha accompagnato l'azione, sia scorrendo su binari paralleli, sia incrociandola, sia sovrapponendosi a essa. Il piano, da immobile che era, si è fatto mobile, pluriverso, fluido. Né si può più parlare di piano, ma di un'infinità di piani, e di una profondità di campo tendenzialmente infinita. L'immagine-movimento non fa che corrispondere a questa possibilità espressiva. A loro volta il tempo della ripresa e il tempo della proiezione si separano. Dunque non c'è più un unico tempo che scorre secondo una misura data una volta per tutte, ma ci sono tempi diversi, tempi la cui cadenza e il cui ritmo conoscono salti, sospensioni, contrazioni. Il ritmo del tempo della ripresa è dettato dall'esigenza di prefigurare la narrazione, caricarla di significato, accenderne virtualità non immediatamente percepibili. Invece il ritmo del tempo della proiezione è dettato dalla necessità di fare della narrazione un tutto che eccede la somma delle parti, e le tiene insieme, ma in una prospettiva aperta sul possibile. L'immagine-tempo ne è la condizione.
La realtà (meglio, la pretesa che la realtà sia data in quanto tale all'occhio che la osserva come qualcosa di oggettivo) è decostruita, scomposta, messa in prospettiva. Infiniti sono i piani su cui è dislocata, infiniti i tempi che ne scandiscono il divenire. Ma se il cinema porta alla luce questa doppia infinità, tocca al cinema, per dirla con Benjamin, ricomporre l'infranto. Esattamente quel che il cinema cerca attraverso il montaggio. Fatto diventare semplice materiale da costruzione, il mondo è restituito allo spettatore come se fosse il suo mondo, benché mondo non ancora mai visto e ancora tutto da scoprire, mondo tanto più perturbante quanto più visto dall'interno e come se fosse il proprio. Da dove viene questa specie di magia tipicamente cinematografica? Dal montaggio, appunto. Che non è se non interpretazione, a riprova della vocazione del cinema per la f., se è vero che la f. è essenzialmente ermeneutica. Quanto poi alla questione tipicamente filosofica se l'interpretazione comporti la trasformazione del mondo in favola, o se, trasformando il mondo in favola, l'interpretazione non lo consegni alla sua verità, fragile verità, misteriosa verità, è questione che va al di là del cinema. A meno che non si voglia spingere il rapporto filosofia-cinema fino a vedere nel cinema un mito filosofico per un tempo senza più altro mito che questo.
W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (1936), in Schriften, Frankfurt a. M. 1955 (trad. it. L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino 1966); G. Deleuze, Cinéma 1. L'image-mouvement, Paris 1983 (trad. it. Milano 1984); G. Deleuze, Cinéma 2. L'image-temps, Paris 1985 (trad. it. Milano 1989).
Per un panorama complessivo dei rapporti tra filosofia e cinema e dei diversi indirizzi espressi dalle scuole di pensiero, v. anche le voci estetica del cinema, teorie del cinema, montaggio, tempo e le biografie dei singoli teorici. *