D'ANNUNZIO, Gabriele
È nato a Pescara il 12 marzo 1863 da Luisa de Benedictis e da Francesco Paolo D'Annunzio (che, nato nella famiglia Rapagnetta, prese il cognome D'Annunzio che era del nonno Antonio da cui fu legittimato: di qui l'errata voce che Rapagnetta fosse il vero cognome e D'Annunzio solo uno pseudonimo del poeta). Indocile convittore per sette anni del collegio Cicognini di Prato (1° novembre 1874-1° luglio 1881), ne uscì che già il suo nome era largamente noto come quello di un nuovo, autentico poeta. Trasferitosi a Roma, il fanciullo-poeta fu subito entusiasticamente accolto negli ambienti letterarî e mondani e visse la sua ora "gioconda", tra le redazioni del Capitan Fracassa e poi della Cronaca bizantina (la cui terza serie, dal 15 novembre 1885, fu diretta da lui) e della Tribuna (di cui redasse dal 1884 al 1888, con varî pseudonimi, le cronache mondane), e i salotti più eleganti, passando dalla composizione di una poesia a un'esperienza amorosa. Il 28 luglio 1883 sposò Maria Hardouin, duchessina di Gallese, dalla quale l'anno dopo ebbe il primo suo figlio, Mario.
Al Piacere, scritto dal luglio al dicembre 1888, pubblicato nel maggio seguente, che può considerarsi come il coronamento artistico d'una prima fase dell'attività dannunziana, seguono molti anni poveri di eventi esteriori, per chi non voglia seguire il poeta, che sempre più si compiace di costruirsi una sua vita di eccezione, negli studî, nei viaggi, nelle avventure e passioni amorose, nelle disavventure economiche. Sono anni in sostanza caratterizzati da una prodigiosa intensità di lavoro, nel romanzo, nella poesia, nel dramma. Noteremo solo che con L'Innocente (1892), tradotto in francese col titolo L'Intrus, la fama del D'A. valica i confini d'Italia. Nel 1897 fu eletto deputato di Ortona a mare, per la XX legislatura ("bisogna che il mondo si persuada che io sono capace di tutto", egli disse in occasione di un giro elettorale), e Melchior de Vogüé lo salutò "député de la Beauté"; ma della sua attività politica non resta che il ricordo di un clamoroso gesto da lui compiuto nel marzo 1900, quando passò dall'estrema destra all'estrema sínistra, tra i deputati socialisti che lo accolsero plaudendo, illusi di una sua conversione alle loro idee. Non fu invece che un gesto, determinato da un improvviso compiacimento estetico per la battaglia che i socialisti allora combattevano. Nelle elezioni del 1900, portatosi candidato a Firenze, il D'A. non fu rieletto.
Nel 1898 egli si era chiuso in una villa sulla collina di Settignano, la Capponcina, e l'aveva trasformata e arricchita di cose rare e belle. Ma nel maggio 1910 il disordine economico arrivò a tal punto, che il D'A. dovette lasciarla ai suoi creditori, e andarsene "in volontario esilio" in Francia, dove non tardò a trovare un nuovo eremo, nella villa Saint-Dominique au Moulleau, tra Biarritz e Arcachon, sull'Atlantico. In essa egli continuò a lavorare febbrilmente, in italiano e in francese; e in essa nacquero, in occasione della guerra libica, Le canzoni della gesta d'oltremare, pubblicate dapprima sul Corriere della sera, e, tra esse, quella Canzone dei Dardanelli, famosissima per le sue invettive contro l'Austria e Francesco Giuseppe, che il Giolitti non permise fosse pubblicata integralmente.
La guerra italo-austriaca, da lui sempre augurata, pone fine all'esilio. Il 5 maggio 1915 il D'A. pronuncia a Quarto la sua famosa orazione, che segna la fine della neutralità italiana. Il 12 è a Roma ed esplica in favore dell'intervento un'azione di primo piano, che ha il suo culmine nel discorso del Campidoglio (17 maggio); subito dopo, parte volontario per la guerra. I comandi vorrebbero risparmiarlo; egli si ribella: "Ella sa - scrive al Salandra il 30 luglio 1915 - che tutta la mia vita io ho aspettato quest'ora... Soffra che io cerchi la mia ultima gloria là dove la vede il mio amore". Così lancia dal cielo su Trieste il primo messaggio (7 agosto); il 20 settembre vola su Trento; continua in queste rischiose imprese, finché in un atterraggio forzato picchia con la tempia e il sopracciglio destro sulla mitragliatrice di prua del suo velivolo (16 gennaio 1916). Non si cura per un mese e così l'occhio è perduto; appena può, sebbene illustri clinici gli avessero predetto che se avesse ripreso a volare avrebbe perduto anche l'altro, risale sulla carlinga (13 settembre 1916). Alterna allora i combattimenti terrestri agli aerei; immagina, organizza, guida le incursioni aeree su Pola (nelle notti tra il 2 e il 3, il 3 e il 4, l'8 e il 9 agosto 1917, e poi altre volte) e su Cattaro (4 ottobre); si beffa a Buccari (notte tra il 10 e l'11 febbraio 1918) della taglia di ventimila corone che l'Austria aveva posta su lui sin dal primo volo su Trieste (v. buccari); propugna e dirige il memorabile volo su Vienna (9 agosto 1918). Cinque medaglie d'argento, una di bronzo, tre promozioni per merito di guerra, una medaglia d'oro (5 febbraio 1919) erano venute a premiare l'eroica attività del D'A. quando egli, nel giugno 1919, lasciò l'esercito.
Ne rivestì però la divisa quando, nella notte dall'11 al 12 settembre 1919, alla testa di 287 volontarî, partì da Ronchi alla volta di Fiume, che occupò il 12, obbligando il presidio interalleato a evacuare, due giorni dopo, la città. S'inizia così quell'impresa che valse a unire definitivamente Fiume all'Italia (vedi fiume). D'A., divenuto "comandante" della città, proclama l'8 settembre 1920 la Reggenza italiana del Carnaro; il 13 novembre dello stesso anno occupa Veglia, Arbe, Albona, che il trattato di Rapallo assegnava alla Iugoslavia; e si ritira solo quando le truppe regolari comandate dal gen. Caviglia debbono far uso delle armi ("Natale di sangue" del 1920). Ma fu una battaglia "non perduta". Il poeta si rifugiò allora in una vecchia modesta villa a Gardone Riviera che, ampliata e trasformata e arricchita dei ricordi di guerra, egli chiamò poi il Vittoriale degl'Italiani e offrì al popolo italiano (il definitivo atto legale è del 4 ottobre 1930). In essa il poeta, in rigorosa solitudine, è tornato alla poesia, e solo una volta ne è uscito per partecipare alla politica attiva: quando, il 3 agosto 1922, parlò alla folla milanese dal balcone del palazzo comunale tolto dai fascisti all'amministrazione socialista del tempo. Il 15 marzo 1924 è stato creato principe di Montenevoso.
Lo Scrittore. - Delle prime esperienze del poeta abbiamo un ricordo nella novella Le vergini, dove, pur senza nessuna intenzione satirica, il giovane D'A. si compiacque, di rappresentare le due sorelle maestre che gli appresero i primi rudimenti, e che sono immaginate protagoniste di una trista vicenda sessuale. Di esse il poeta colorirà quella verginale stupefazione, educata nell'esercizio arido della sillabazione e di altri offici scolastici, e segnerà anche, nel ricordo, il nativo contrasto tra il suo piccolo mondo di fanciullo e il mondo chiuso e convenzionale, apocalittico e pauroso delle due povere donne.
Anche del periodo passato al Cicognini, delle sue avventure fantasticate e vissute, il poeta doveva lasciare ricordo in due lunghe prose, raccolte nel tomo primo (1924) e nel tomo secondo (1928) delle sue Faville del maglio, nel Secondo amante di Lucrezia Buti (la prima redazione sarebbe del 1907), e nel Compagno dagli occhi senza cigli (redazione originaria, 1900). A parte i vezzi e le facezie cruschevoli ed erudite, che spesseggiavano in codeste prose, e a parte alcuni tentativi faticosi di trasfigurazione allegorica di non sempre significativi episodî di vita ragazzesca, i due scritti hanno molta importanza per il biografo e per il critico di poesia: questi può ritrovarvi pagine assai belle, delle più musicali e rarefatte e aeree, di memorie paesistiche, come quelle della collegiale prigionia, e il biografo può cogliervi molti segni di quel gusto estetico delle avventure, che doveva essere più tardi la logica dello scrittore come uomo d'azione.
Nel 1879, il D'A., ancora studente di liceo, pubblica a Chieti il suo primo volume di versi, Primo vere, e in quello stesso anno vede la luce a Prato un'Ode a re Umberto. Nel 1880 appare ancora, a Pistoia, una piccola raccolta di poesie dal titolo In memoriam, a rimpianto della nonna defunta, e che rammentava forme e motivi delle poesie dello Stecchetti e del Carducci, e ancora più delle Lacrymae del Chiarini. Il Chiarini, per l'appunto, era stato il critico che aveva parlato ai lettori del Fanfulla della domenica (2 maggio 1880) del Primo vere dannunziano, e, pur con prudenti riserve, era giunto a dire che molti di quei versi attestavano "luminosamente attitudini alla poesia non comuni". Primo vere rivede di lì a poco la luce a Lanciano nel 1880, accresciuto notevolmente di molte nuove liriche, compresi i Paesaggi e profili (all'acquarello), annunziati come una raccolta a parte. Il poeta stesso ha giustificato, in anticipo, la facile e concorde affermazione dei critici che hanno parlato d'imitazione carducciana; e in effetti Primo vere porta, in ogni passo, assai visibili tracce dell'influenza carducciana; sennonché vi è notevole l'accentuazione in senso edonistico e pagano dei più umani ideali e miti del maestro, e, al tempo stesso, un certo afflato, sia pur generico, nella rappresentazione di paesaggi affocati, preannunzio di quel gusto "solare" della natura, che sarà la nota più sentita e più sana della poesia del D'A. adulto.
Ma l'esplosione, di significato storico, dell'ingegno artistico del D'A. si ha col Canto novo (Roma 1882), che è ritenuto concordemente dai critici come il suo capolavoro giovanile, in cui si afferma prepotentemente la sua ispirazione di barbaro ingenuo in accesa e anelante comunione col mare, con la terra, col cielo, al di fuori di ogni preoccupazione di carattere storico e riflesso. Una poesia, "O falce di luna calante", viene frequentemente ricordata dai critici e dai lettori, per quel melodico pathos sospeso in un'atmosfera di sogno, con cui è risentito un tramonto lunare, a notte alta, sulle acque deserte del mare: vi si coglie quella nota di languidezza sensuale, che è uno dei due toni estremi a cui tende sempre l'arte del poeta, cui giovano le sensazioni o acri e violente, o smorzate, lente e crepuscolari. Contemporaneo al Canto novo è un libro di prose, Terra vergine (Roma 1882), a cui segue due anni dopo Il libro delle vergini (ivi 1884), nei quali, e specialmente nel primo, il D'A. non fa che risolvere in un ordinamento libero dalle leggi metriche le sue immaginazioni di paesista lirico e visivo. Fin da queste prose giovanili, intanto, si rivela la prepotenza lirica immediata dello scrittore, che egli tenta invano di disciplinare e ampliare in una riflessa visione di vita: tecnicamente, cotesta urgenza lirica primigenia, intollerante di diramazioni riflesse, si tradisce nello stesso ordinamento del periodo, che non ha una forza centripeta da cui emanino per necessità le immagini. Le quali, in soverchio lusso, si accampano sull'originario nesso lirico, analiticamente sovrapposte, derivate per geminazione; tanto che si potrebbe dire che una tal prosa, in un certo senso, manca di una vera e nativa sintassi. Nel Libro delle vergini, e più ancora in Terra vergine, osserviamo questo imbarazzo dell'artista a ritrovarsi, per il suo impeto istintivo di cantore sintetico, nelle forme sciolte e distese della novella. I migliori frammenti di questi due libri possono fare idealmente parte del Canto novo; e le impressioni crude e accecanti del paesaggio ci richiamano all'ispirazione panica sensuale del capolavoro giovanile dello scrittore. Al di fuori della nativa sintassi lirica corrispondente alle reali esigenze dell'artista, abbiamo una sintassi fittizia esemplata sullo stampo della prosa di scrittori non sempre consentanei e affini alla sua ispirazione; come in Primo vere il D'A. riecheggia Carducci e Stecchetti, così in Terra vergine egli si orienta nell'imitazione dei novellieri provinciali, modello eminente il Verga. Ma quel pathos oggettivamente umano, che è necessario a un narratore di vicende e passioni aliene dalla sua esperienza autobiografica, qui è abilmente simulato nel tono o addirittura scambiato e sostituito da un interesse tutto esterno e visivo, e da una curiosità e passione per le sole sensazioni di natura fisiologica. Appunto per ciò, la migliore di tali novelle giovanili rimane Le vergini (che poi, nelle Novelle della Pescara, fu intitolata La vergine Orsola, a coprire allusioni a persone reali, che ne suggerirono lo spunto), dove con ardore ed esattezza di particolari scientifici e con suggestiva penetrazione musicale è mirabilmente rappresentata la vita animale di una giovane soggiaciuta alla violenza dell'amore, poi ammalata, convalescente, e infine agonizzante di un falso parto. La prosa di quest'ultima novella, piegata a esprimere l'interiore vita fisiologica (il sensualismo profondo è, a suo modo, una forma d'interiorità) è un avviamento decisivo verso quel tipo di prosa introspettivo - psicologica che sarà inaugurato ampiamente col Piacere, e che, attraverso esperimenti varî e ambizioni spirituali sempre nuove, costituirà il travaglio del D'A. fino al Notturno (1921).
Di questo periodo giovanile, il libro di prosa che può essere accostato al Canto novo per la sincerità, l'impeto e la tenacia dell'ispirazione, è quello delle novelle di San Pantaleone (Firenze 1886; raccolte poi, con mutamenti, in Le novelle della Pescara, Milano 1902); in esso le forme distese e analitiche del racconto sono giustificate da una loro intima necessità lirica. L'ispirazione è sempre sensuale, ma si tratta d'una sensualità triste e incarnata oggettivamente in esseri primitivi, la quale, meglio che del ritmo impetuoso affermativo e sintetico del canto lirico, si giova delle analisi riflessive, fredde e crudeli nella loro precisione prosaica. Il turpe e l'animalesco, che suggeriranno al D'A., in ogni tempo, pagine esteticamente efficaci, trovano la loro prima felice espressione artistica in questi racconti; quello che era senso acre e bruciante del paesaggio ora viene dilatato e esteso dall'esperienza personale del poeta a tutto un mondo di "selvaggi" inediti dell'Abruzzo. Se il Canto novo era il libro dell'animalità soggettiva, impetuosa e vittoriosa, questo di S. Pantaleone è il libro dell'animalità oscura e triste, alienata oggettivamente nei faticosi e barbari figli della terra. Si tratta di due capolavori che, in forma elementare, presentano in abbozzo tutti i motivi dell'arte posteriore dello scrittore, che è giunto per ora a una prima espressione del suo mondo, e che, con sensibilità nuovissima, si colloca nella storia della poesia europea, orientata allora un po' tutta in senso naturalistico. Il D'A., per la sua parte, celebra la buona terra vergine, goduta nei suoi odori, nei suoi ardori, colori e sapori, con cuore faunesco di primitivo, e coglie anche lui i drammi dei figli della terra, non nella lotta per il pane e per il focolare come il Verga, ma in quella del sesso, nella bramosia bestiale del maschio per la femmina, e nell'ardore per tutte le sensazioni estreme, terrestri, marine e solari.
Ma da questo conchiuso mondo dei sensi il D'A. ha voluto uscire e ha tentato tutte le vie, dalle malizie dell'arte all'azione guerriera e politica; e questa sua storia avventurosa è uno dei capitoli più interessanti, più prodigiosi e al tempo stesso più ingannevoli che la storia della cultura europea possa vantare, per tutto un trentennio e più, dal finire del sec. XIX al primo quarto del nostro. Già l'Intermezzo di rime (1883) rappresentava un deviamento e una corruzione di quella che era la sostanza più originale della poesia dannunziana: libro, in gran parte, di oratoria afrodisiaca, più che d'arte. Sullo stesso piano sono da collocare l'Isotteo e la Chimera (1885-1888), costituiti, come confesserà lo stesso autore, da esercizî, giuochi, studî, ricerche, esperimenti tecnici, curiosità. Sono gli esercizî di Andrea Sperelli, il protagonista del Piacere, i suoi giuochi di dilettante raffinato, di "spirito essenzialmente formale". Una nuova sensualità è pure affermata in cotesti esercizî: la sensualità della parola, che spiega successivi tentativi di arte, come sarà fra gli altri la Francesca da Rimini, dove la rievocazione del mondo storico dugentesco è attinta attraverso la suggestione del più malioso verbalismo aulico e arcaico. Nel 1889, intanto, con Il piacere, abbiamo il primo libro delle confessioni dannunziane; e poiché ancora lo scrittore vive con ingenuità e abbandono la sua discordia di sensuale istintivo e di sofista spiritualeggiante, cotesto romanzo, a giudizio concorde di critici vecchi e recenti, è riuscito il romanzo migliore, il romanzo più sincero, in cui l'estetismo del protagonista è ancora una fede sicura di sé, che lo porta a vivere con abbandono quel mondo di lusso e di voluttà, a cui egli, nelle sue ambizioni ingenue di barbaro inurbato, tende con incontentabile e fresca curiosità. Interpretazioni del paesaggio romano, specialmente della Roma papale e seicentesca, sono passate, da quel romanzo, nella memoria di tutti, quasi come un commento e un arricchimento estetico, cresciuto spontaneamente, patina del tempo, su palazzi, fontane, chiese, vie e giardini della città: le notazioni poi sullo svolgimento estetico-mentale di Andrea Sperelli, sono un finissimo esempio di autobiografia spirituale, che non è rimasto senza influenza nella critica degl'interpreti del D'A. e nella stessa critica letteraria in genere.
Ma, nei romanzi successivi, il misticismo estetico e sensuale di Andrea Sperelli non apparirà più sufficiente all'artista, che tenterà di forzarne gl'ideali confini, creandosi un problema umano per le vie equivoche della "compassione", e avremo il Giovanni Episcopo (1892), il libro pieno di condoglianza, alla russa; o per quelle altre vie vicine della "bontà", e avremo l'Innocente (1892), dove si osserva un curioso tradimento al programma dell'autore, poiché la bontà è così poco sincera da convertirsi inavvertitamente in cinismo. Infine il poeta tenterà la via d'un superiore volontarismo egoistico, che meglio si accordava al suo individualismo romantico, e avremo Il trionfo della morte (1894), dove è storiografato il dramma della volontà contemplativa e in cui l'urto fra l'astratto volere e l'astratto contemplare conduce il protagonista al suicidio; e poi Le Vergini delle rocce (1896), in cui il mistico della volontà sorregge la sua presunta forza iniziandosi a dottrine liberatrici ed energetiche, e infine il Fuoco (1900), dove il superuomo, serrato nel suo nuovo vangelo e intronato d'immagini e di filosofemi, significa per parabole la sua estetica vittoria sul mondo. Episodî di questa progressiva superumanazione sono contemporaneamente raffigurati nei drammi della Città morta (1898), della Gioconda (1899) e della Gloria (1899); e, anche quando il D'A. con la Francesca da Rimini (1901), con le Laudi (1903-04), con la Figlia di Iorio (1904), tornerà alla sua verace ispirazione panica, sensuale, faunesca o storico-estetizzante, egli troverà modo di sdoppiarsi per scrivere le pagine false e vuote della Vita di Cola di Rienzo (1905), avversa alla figura plebea del tribuno, e quelle d'inutile lirismo di Più che l'amore (1907). Le bellezze dei romanzi, venuti dopo il Piacere, son là dove il poeta inavvertitamente passa all'opposto polo del suo programma; nelle pagine di dolce e sensuale cinismo dell'Innocente, là dove è accettato e vissuto senza equivoci; nelle pagine del Trionfo della morte, in cui la vita, nella realtà delle sue miserie e delle sue abiezioni, urta contro la vanità del dramma cerebrale di Giorgio Aurispa (La casa paterna), e là dove nella visione del turpe, del malato, del mostruoso, come nella celebre descrizione del pellegrinaggio a Casalbordino, ritroviamo l'acre pessimista della carne, che aveva scritto i piccoli compiuti capolavori del San Pantaleone; nelle pagine del Fuoco, in cui insieme con la diffusa poesia della bellezza autunnale di Venezia si rappresenta quell'altro autunno degli anni della bella e non più giovane Foscarina. Si tace di parte alcuna del Giovanni Episcopo e delle Vergini delle rocce, poiché questi sono due romanzi che più di ogni altra opera dannunziana hanno la rigorosa coerenza della falsità, senza la grazia neanche di uno di quei sorrisi o toni violenti di paesaggio che pur hanno trovato nel D'A. un interprete mirabile, e che sono stati da lui modulati altre volte in maestrevole accordo con lo stato d'animo fondamentale del racconto. L'ultimo romanzo in cui l'autore tenta di oggettivare le sue crisi di sensuale e di egoarca è il Forse che si forse che no (1910): esso può considerarsi come la riduzione all'assurdo dell'astoricismo estetico del superuomo, poiché l'azione vi si consuma fuori di ogni conflitto con la morale storica. Quel nascosto conflitto tra umanità e superumanità che era stato al fondo d'ogni costruzione romanzesca del D'A., qui è completamente abolito; i personaggi si muovono e boccheggiano in una atmosfera irrespirabile; da ciò il lirismo acceso dello stile. Anche il paesaggio è interpretato in una folle frenesia dei sensi, la quale però, in qualche tregua, lascia affiorare il canto e la musica più discreta e dolce della tristezza dei sensi caduchi: motivo che tornerà nella più recente produzione dannunziana.
L'intensa attività del D'A. nel ventennio 1890-1910, come narratore ed esegeta dell'opera propria e predicatore dei suoi miti, è accompagnata da una copiosissima produzione in versi, nei quali è da cogliere l'accento più alto e disinteressato della sua arte. Nei romanzi la preoccupazione teorica del maestro di vita, dell'artefice di un'intuizione nuova del mondo, del superatore cerebrale dei proprî limiti, aduggia e soverchia un po' troppo il fine della poesia, la quale rimane un po' come l'ancella di un'ambizione erotico-intellettuale dell'autore. A due opere di teatro, particolarmente, alla Francesca da Rimini e alla Figlia di Iorio, e ai quattro volumi delle Laudi (1903-1912) si raccomanda la gloria poetica del D'A., se si gustino non nella loro forma compatta, ma in singoli episodî e parti. Del 1891 sono le Elegie romane, e di esse Il piacere può considerarsi la lunga glossa narrativa: il paesaggio romano è il protagonista di codeste elegie, intonato alla tristezza o alla gioia delle passioni d'amore del poeta. Sono liriche che suggeriscono una spirituale passionalità, ma l'artifizio letterario si ripete un po' troppo sistematicamente in ognuna di esse. Più decisamente e visibilmente artifiziose riescono le liriche del Poema paradisiaco (1893), che sarebbero le liriche corrispondenti allo stato d'animo maturato nel Giovanni Episcopo e nell'Innocente: dovrebbero essere le liriche della bontà, mentre sono soltanto le liriche della stanchezza sensuale. Pochissimi frammenti si salvano di codesta raccolta, intonati alla bontà "animale", la bontà con cui il D'A. rivive la vita della natura, la sola legittima e consentanea al temperamento dello scrittore. Nella Francesca da Rimini, il lettore troverà alcune pagine di musica pura; la ferocia medievale delle armi e la sensuale soavità degli amori sono due note care al più genuino poeta, e qui sono accolte e trasfigurate, ma talvolta anche vanificate, in un superiore gusto dell'arcaico e del prezioso. Il poema di sangue e di lussuria è come illeggiadrito in poema sensuale delle parole prese in sé e per sé, amate e cantate per la loro rarità storica e per la loro melodia. Più fonda è l'ispirazione poetica nella Figlia di Iorio, in cui ritorna l'Abruzzo mistico, lussurioso, superstizioso, cupo, delle novelle di S. Pantaleone. Anche questo è un poema sensuale delle parole; ma nenie, arie d'amore e di religione, riti, superstizioni, tutto ciò che può dirsi fantasia e poesia di popolo, è più energicamente temprato e inquadrato nel familiare paesaggio d'Abruzzo: non sono protagonisti Aligi, o Lazaro di Roio, Mila di Codro, Candia della Leonessa, Ornella, ma la terra vergine, che noi già conosciamo dalle novelle giovanili. Dramma paesistico e non dramma di persone, e appunto perciò il più felice poemetto drammatico del D'Annunzio.
Delle Laudi è unanime il consenso per il terzo volume, Alcyone, che si ricollega all'ispirazione naturalistica del Canto novo, e sono meritamente celebri, e nella memoria di tutti, La morte del cervo, L'otre, La sera fiesolana, Bocca d'Arno, La pioggia nel pineto, L'oleandro, Versilia, Undulna, Il novilunio; ma anche del primo volume, Maia, Laus vitae, pur tra prolissità e astrattezze allegoriche, il lettore ama rileggersi il canto de Le donne, rievocate in pacata lontananza di musiche, La terra paterna, Le tre sorelle, l'Inno alla madre mortale, non quali inni d'amore domestico, ma quali intense nostalgie paesistiche: e poi Ver blandum, rievocazione della vita musicale del cielo e dei colli fiorentini, e, per l'ispirazione centauresca e agonistica sempre cara al D'A., Il canto amebeo della guerra, e, per il gusto della vita brulicante e mostruosa di vizî e di passioni, Le manie mediterranee e Le città terribili. E infine, di Elettra, secondo volume delle Laudi, il lettore preferirà, alla poesia civile che ci richiama alle più giovanili Odi navali (1892-1893), la poesia di alcune città del silenzio, idoleggiate e vissute come immagini stesse, d'aria, di pietra, d'acque e di luce, della muliebrità; e del quarto volume, costituito unicamente dalle Canzoni della gesta d'oltremare coglierà più che i motivi patriottici o le rievocazioni storico-erudite, le note di cruda rappresentazione carnale della ferocia delle battaglie e delle ferite, o quelle della tristezza dolce e lenta dei morituri e della tristezza del poeta stesso, deserto cantore di gesta lontane.
Alla Fiaccola sotto il moggio (1905), che può considerarsi come una ripresa, assai meno felice, di temi affini a quelli della Figlia di Iorio, alla Nave (1908) e alla Fedra (1909), nelle quali è ripresa, con diversa materia, l'ispirazione storico-estetizzante della Francesca, ci contenteremo di accennare; come accenneremo soltanto alle opere scritte in Francia: Le martyre de Saint Sébastien, opera di corrotto sensualismo religioso; Le Chèvrefeuille (il Ferro nella traduzione italiana), ritardata ripresa del motivo moralistico del Più che l'amore sulla necessità di superare il delitto; La Pisanelle; Parisina, commedie e drammi intelaiati sul consueto schema storico-estetizzante.
Nelle ultime sue opere, dalla Contemplazione della morte (1913) alla Leda senza cigno (1916-18), dalle Faville del maglio (1911-14) al Notturno (1921), il D'A. abbandona il metodo fino allora tenacemente seguito di obiettivare nei personaggi dei romanzi le sue vicende e crisi spirituali. L'oggettivazione richiedeva una fede assoluta e una tensione di sforzi, per i quali comincia a mancare ogni sostegno nella realtà storica. Così l'indiretto romanzo autobiografico si scioglie a poco a poco in un semplice diario, e noi, in queste opere, abbiamo il giornale del poeta, scritto giorno per giorno, e spesso con un abbandono che dà al suo stile una nuova dolcezza melodica e una magica trasparenza di luce; il poeta giunge perfino a un alleggerimento, e qualche volta a un dissolvimento della sua antica sintassi prosastica. E, se nella Contemplazione ci dispiace il tono ieratico del discorso, sotto il quale s'indovina il cuore dell'ulisside che trova allettante e acuto l'ultimo "errore" da compiersi leggendo e postillando a suo modo i versetti del Vangelo (prelezione al Martirio di S. Sebastiano), nella Leda e nelle Faville del maglio c'è in molti tratti una leggerezza e una raffinatezza d'espressione, una rapidità e semplicità di periodo, da cui si può trarre l'impressione che una più sincera spiritualità muova le parole del poeta. Tale impressione è rinnovata anche da parecchie pagine del Notturno; sennonché l'inalienabile ambizione eroica dello scrittore e la sua stessa natura di poeta celebrativo degl'istinti giovani e vittoriosi ci fanno dubitare che questi preliminari d'un D'A. più discreto e più lieve possano avere il loro sviluppo e il loro epilogo in un'opera che, come le Laudi hanno cantato la canicola, canti l'ombra, la triste e inquieta vecchiezza e l'approssimarsi della morte.
Le opere sono tutte stampate o ristampate a Milano, Treves. Il 24 giugno 1926 si è costituito un Istituto nazionale che sta curando con eccezionale magnificenza l'edizione di tutte le opere del poeta.
Bibl.: Cfr. i due voll. di R. Forcella, con la bibliografia dal 1863 al 1885, Roma 1926 e 1928, B. Croce, La lett. d. nuova Italia, 3ª ed., IV, Bari 1929; G.A. Borgese, G. D'A., Napoli 1909; A. Donati, G. D'A., Roma 1912; A. Gargiulo, G. D'A., Napoli 1912; E. Palmieri, Crociere barbare, Milano 1921; E. Thovez, L'arco di Ulisse, Napoli 1921; A. Bruers, G. D'A. e il moderno spirito italiano, Roma 1921; id., G. D'A., Roma 1924; F. Pasini, G. D'A., Roma 1925; F. Flora, D'A., Napoli 1926; E. Cozzani, G. D'A., Milano 1930; A. Meozzi, G. D'A., Pisa 1930; A. Sodini, Ariel armato, Milano 1931 (biografia); Min. d. Marina, G. D'A. combattente al servizio della R. Marina, Roma 1931; M. Paz, La morte, la carne e il diavolo nella letteratura romantica, Milano-Roma 1931.