D’Annunzio, Gabriele
Nella storia della lingua letteraria italiana Gabriele D’Annunzio (Pescara 1863 - Gardone Riviera, Brescia, 1938) occupa un posto di primo piano, per due ordini di ragioni. Innanzi tutto, si tratta di un autore che affronta moltissimi tipi testuali differenti (poesie di vario genere, novelle, romanzi, articoli giornalistici, prose liriche, tragedie in versi e in prosa, ecc.), cercando in ognuno di staccarsi dalle maniere correnti e di dar vita a opere marcatamente originali, in cui il suo stile inconfondibile lasci il segno. Lo scrittore che forse più di tutti in Italia ha tentato di fondere arte e vita tende a servirsi di elementi linguistici diversissimi, che gli permettano di allontanarsi il più possibile dall’uso comune, così come ama sperimentare sensazioni distanti da quelle provate dalla massa. Le concezioni estetiche dannunziane interpretano la letteratura come strumento privilegiato di conoscenza; naturalmente, non si tratta di una conoscenza razionale, ma piuttosto di intuizione o di illuminazione. Non sorprende allora che la sua attività di scrittore sia caratterizzata da un’instancabile ricerca linguistica, per la quale è stato definito «ulisside della parola» (Migliorini 1963: 294).
In secondo luogo, è stata riconosciuta da tempo la fortissima influenza esercitata da molte opere dannunziane sulla lingua letteraria degli scrittori delle generazioni successive. In particolare sono state accertate le riprese di elementi caratteristici dei maggiori testi poetici di D’Annunzio attuate anche da autori lontanissimi per gusto e sensibilità, come, per es., Montale (Mengaldo 1975: 13-106). Ma anche per la prosa, nonostante esistano ancora pochi studi, sembra di poter dire che la scrittura dannunziana ha offerto un modello per molti letterati novecenteschi; alcune sue innovazioni sintattiche, in special modo, hanno conosciuto una larghissima fortuna.
Benché abbia idee molto precise riguardo ai problemi linguistici, D’Annunzio non produce nessun testo teorico sull’argomento, limitandosi a pochi spunti asistematici. Inoltre, a differenza di parecchi scrittori coevi non prende mai un’esplicita posizione nell’ambito della ➔ questione della lingua. Il testo in cui si trova la riflessione più ampia sulla lingua letteraria è la dedicatoria del Trionfo della morte (1894), dove si indica la strada da seguire per i romanzieri moderni. D’Annunzio individua nella straordinaria ricchezza lessicale della tradizione letteraria italiana un serbatoio che gli scrittori moderni farebbero bene a sfruttare, non accontentandosi delle fonti più note, bensì valorizzando certi filoni minori, come, per es., le scritture religiose medievali, ricche di «meraviglie ancóra ignote che daranno l’ebrezza all’estremo esploratore». Ma la varietà degli usi lessicali non è in sé sufficiente; è necessario un intenso lavoro sulle strutture sintattiche, in modo da evitare i due difetti principali per la prosa: la monotonia del periodare e la mancanza di musicalità. A quest’ultimo proposito, viene espressamente rivendicata l’importanza fondamentale degli effetti fonici delle frasi: «le sillabe, oltre il significato ideale, hanno una virtù soggettiva e commotiva ne’ loro suoni composti».
Si possono leggere le indicazioni contenute in questo testo come un programma di lavoro, da cui D’Annunzio non si discosta mai, non solo nello scrivere romanzi ma anche per gli altri testi, tanto in prosa quanto in versi. L’atteggiamento linguistico dell’autore rimane sostanzialmente uguale di fronte ai vari generi letterari di volta in volta adottati. Notevoli appaiono le consonanze che si registrano a molti livelli tra prose e poesie, tanto più che il comportamento dannunziano è in questo assai diverso da quello dei principali scrittori del suo tempo. Tra i vari aspetti che ritornano in tutta l’opera dannunziana, il più rilevante è forse la grande ricchezza lessicale, espressamente rivendicata dall’autore, che arriva a vantarsi di aver adoperato nelle sue opere più di quarantamila vocaboli, quasi il triplo di quelli usati da Dante. Tale risultato viene ottenuto soprattutto dissotterrando ➔ arcaismi peregrini, attraverso i dizionari storici ma anche grazie a letture di testi minori. Un’origine antica hanno a volte anche i non molti neologismi dannunziani, come, per es., il fortunato velivolo, raro aggettivo poetico (riferito alla velocità delle vele) che l’autore usa per la prima volta come sostantivo, nel significato di «aeroplano».
Sin dalle prime raccolte poetiche (Primo vere, 1879; Canto novo, 1882; nuove edizioni molto rimaneggiate uscirono rispettivamente nel 1880 e nel 1896) D’Annunzio tenta di distaccarsi dallo stile dei suoi contemporanei per dar vita, attraverso la ripresa di forme e schemi classici, a una poesia che ritrovi la sua forza primigenia. Il modello principale è ➔ Carducci, da cui viene ripreso tra l’altro l’uso della metrica barbara. Dopo una breve fase in cui guarda soprattutto a esperienze francesi, come la poesia ‘parnassiana’ di Théophile Gautier (a cui si accosta nei versi ‘mondani’ dell’Intermezzo di rime, 1883), D’Annunzio sperimenta una poesia anticheggiante. Nei testi dell’Isottèo e della Chimera (riuniti in volume nel 1890), vengono riproposti temi e immagini medievali e rinascimentali, e si cerca di ricreare anche dal punto di vista linguistico le atmosfere della letteratura italiana dei primi secoli. Si avvertono nettamente echi di poeti antichi, come gli stilnovisti o Lorenzo de’ Medici. In questa chiave si spiegano le riprese di forme metriche come la ballata, il madrigale e addirittura la sestina. La ricerca di una lingua poetica più semplice è evidente nelle due raccolte successive (Elegie romane, 1892; Poema paradisiaco, 1893), mentre le Odi navali (1893) sono caratterizzate da uno stile estremamente enfatico, coerente con la retorica nazionalista che domina il testo.
Le suggestioni esercitate dalla cultura greca sono alla base del progetto delle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, non portato a compimento (dei sette libri previsti solo cinque furono realmente scritti). Nel 1903 D’Annunzio pubblica tre raccolte: Maia, Elettra, Alcyone. A livello stilistico, Maia è caratterizzata dal contrasto tra le scelte metriche, poco meno che rivoluzionarie, e il rifiuto della modernità percepibile dal punto di vista della lingua. Ciò è manifesto soprattutto nel lunghissimo componimento intitolato Laus vitae. D’Annunzio vi sperimenta una versificazione tendenzialmente libera, in cui i predominanti novenari sono accostati senza schemi fissi a versi di misura inferiore; il tutto però è costruito secondo un’architettura ben precisa, in cui ha grande peso il valore simbolico dei numeri. Nel testo viene celebrato il potere primordiale e mitico della parola, che può manifestarsi solo a patto di liberare la lingua dalle incrostazioni causate dall’uso sciatto e banale tipico dei tempi moderni. Conseguentemente, la realtà contemporanea può essere rappresentata, ma solo a patto di venire trasfigurata. Un esempio notevole è la perifrasi di ben otto versi grazie alla quale D’Annunzio riesce a evitare la parola tramway (che peraltro utilizza in vari testi in prosa). Procedimenti piuttosto simili sono alla base della scrittura di Elettra, dove lo sperimentalismo metrico (per cui forme classiche come l’ode sono rinnovate dall’uso frequente del verso libero) convive con un intenso recupero di arcaismi, in particolare di matrice dantesca.
In Alcyone, riconosciuto unanimemente come il vertice della poesia dannunziana, l’autore sembra voler sperimentare tutte le situazioni liriche immaginabili, ciò che ha un preciso corrispettivo a livello formale, a cominciare dalla metrica; in quest’ambito si registra infatti una varietà di soluzioni veramente straordinaria: D’Annunzio «rompe gli schemi strofici, li dilata e li restringe, riducendo a volte il verso a una parola singola» (Beccaria 1993: 711). Altrettanto ricco è il repertorio lessicale utilizzato, che contempla frequenti arcaismi anche molto rari, in più di un caso recuperati dall’autore per mezzo dei dizionari (come alcuni nomi di piante: crambe, pancrazio, terebinto, ecc.). Nell’opera hanno largo spazio le evocazioni fonosimboliche; per es., nei primi versi della celebre lirica La sera fiesolana l’allitterazione di f ha l’evidente funzione di produrre una sensazione acustica analoga a quella del «fruscìo che fan le foglie».
Il tentativo di distanziarsi dalle principali tendenze letterarie coeve è alla base dell’intera produzione teatrale dannunziana. Sin dalla prima tragedia in prosa (La città morta) si nota il netto rifiuto del teatro naturalistico: D’Annunzio si sforza di attingere una lingua senza tempo, di recuperare una parola non compromessa con la contemporaneità. I personaggi si esprimono spesso attraverso immagini molto ricercate, e manca una qualsiasi caratterizzazione linguistica: le varie voci non sono distinte, ma riflettono nel loro insieme la ricerca di un tono non realistico.
L’ambientazione della tragedia in versi Francesca da Rimini (1901) ha come conseguenza principale l’adozione di un’ingente quantità di arcaismi, per lo più di ascendenza trecentesca. In molti casi si tratta di parole rare, appartenenti a terminologie specifiche (come, per es., i numerosi nomi di stoffe, come sciamiti, cambellotti, zetani, ecc.), la cui funzione sembra quella di riprodurre i più vari aspetti del mondo medievale. Anche i versi de La figlia di Iorio (1904), il capolavoro del teatro dannunziano, sono fittamente intessuti di forme arcaiche, che in quest’occasione servono come strumenti di generico allontanamento dal presente. Tra le fonti principali, va indicata la poesia religiosa due-trecentesca (a partire dalle laudi di Iacopone da Todi). Persino le didascalie sono spesso scritte in una lingua anticheggiante: vi si trovano infatti forme come vestimenta «vestiti» o parlatura «conversazione».
Dopo i tentativi, non perfettamente riusciti, rappresentati dai bozzetti di Terra vergine (1882) e dalle Novelle della Pescara (raccolte in volume solo nel 1902, ma già pubblicate quasi tutte negli anni Ottanta), testi stilisticamente molto discontinui, D’Annunzio offre la prima prova narrativa convincente col romanzo Il piacere (1890). La narrazione, che a livello tematico fonde elementi delle più avanzate esperienze letterarie europee, dal decadentismo allo psicologismo, dal simbolismo all’estetismo, si sviluppa in maniera non tradizionale, attraverso una serie di anticipazioni e flash-back che scardinano la successione degli eventi. Lo stile è interamente intonato a un registro ricercato e prezioso. Per dare una patina nobile alla pagina l’autore si serve di numerose grafie latineggianti o comunque libresche (ebrezza, imagine, romore, ecc.), molto spesso preferite alle varianti più correnti, soprattutto laddove maggiormente «l’attenzione s’indugia [...] sulla parola» (Praz 1930: 450). Per quanto riguarda il lessico, da ricordare oltre alle voci arcaiche le molte parole adoperate non nel significato corrente ma in quello che rimanda più da vicino all’etimo latino, come opprimere «coprire», risorgere «risollevare», sviluppare «liberare». Importanti inoltre i forestierismi, che servono a rendere il tono delle conversazioni mondane che sono parte integrante della rappresentazione. La sintassi è per lo più complessa, e in generale la prosa ha spesso un andamento classico, anche grazie all’uso intenso di artifici retorici quali gli accumuli, le assonanze, i parallelismi, i chiasmi, le figure della ripetizione.
Dal punto di vista linguistico, i successivi romanzi dannunziani (L’innocente, 1891; Il trionfo della morte, 1894; Le vergini delle rocce, 1895; Il fuoco, 1900) si muovono sulla stessa linea (Turchetta 1993). Numerose novità stilistiche (in linea con un rinnovamento tematico) si registrano nell’ultimo romanzo, Forse che sì forse che no (1910). Le principali sono: la tendenza a una sintassi frammentata nella narrazione; la preferenza per dialoghi di tipo teatrale, fatti di battute brevi, non interrotte da interventi del narratore, e scandite da ripetizioni e riprese; il largo spazio accordato al lessico tecnico relativo all’automobile e all’aeroplano (accensione, radiatore, sterzo, volante, fusoliera, ecc.), a volte sfruttato come base per originali similitudini. Alcune delle innovazioni stilistiche del romanzo indicano ormai un nuovo modo di intendere la prosa letteraria, che comporta anche l’abbandono della narrativa.
La nuova fase si apre con le Faville del maglio, serie di brevi testi di vario argomento, pubblicati per lo più tra il 1911 e il 1914 sul «Corriere della sera» e raccolti molti anni dopo in due volumi. Ma la realizzazione più compiuta si ha col Notturno, scritto nel 1916 ma pubblicato solo nel 1921. D’Annunzio dà vita a una prosa lirica, in cui hanno grande importanza gli effetti fonici (è lo stesso autore, d’altronde, ad alludere a una parola che si fa musica), e in cui ogni singolo elemento dovrebbe esprimere una diversa emozione. L’andamento prevalente del testo prevede sequenze di brevissimi periodi isolati graficamente dall’a capo; il verbo tende a scomparire, e di conseguenza sostantivi e aggettivi acquistano un peso semantico inconsueto (Beccaria 1975: 285-318). Si tratta di un tipo di sintassi che avrebbe influenzato molta narrativa novecentesca, in particolar modo per le descrizioni (Coletti 1993: 313). In linea con la precedente produzione in prosa di D’Annunzio è invece la tendenza a nobilitare con parole scelte certi aspetti banali della realtà, come quando si dice che per evitare una fastidiosa stilla (cioè una «goccia che cade»), si cerca di «serrare il mastio alla cannella», vale a dire di «stringere la vite del rubinetto».
Nella sua ultima opera, il Libro segreto, D’Annunzio perviene imprevedibilmente a una sorta di «sperimentalismo espressionistico» (Serianni 2000: 1110). Se dal punto di vista sintattico si registra una sostanziale continuità col Notturno, il lessico accoglie, accanto ai consueti ➔ cultismi, parole di tutt’altro segno, come quelle proprie del turpiloquio (pisciare, smerdare, coglione, ecc.), fatto pressoché inusitato per D’Annunzio. Inconsueta anche la frequenza di forme inventate dall’autore sul modello di parole latine o greche, come ignispicio «divinazione fatta per mezzo del fuoco», o myrionyma «che ha innumerevoli nomi». Il testo ospita inoltre inserti in inglese, francese e spagnolo, in latino e in dialetto (accanto alla parlata della terra d’origine di D’Annunzio, l’abruzzese, trova spazio il veneziano, moderno e antico). Una novità si nota già al livello grafico: vengono eliminate le maiuscole dopo il punto fermo (ma esse sono mantenute quasi sempre all’inizio d’un nuovo capoverso); il compito di segnalare il confine tra i vari periodi è affidato a un doppio spazio bianco.
Interesse pari a quello delle opere maggiori di D’Annunzio offre la sua scrittura giornalistica, intensamente praticata nell’ultimo ventennio dell’Ottocento (Trifone 1991). L’aspetto più vistoso è senza dubbio la grandissima quantità di parole straniere accolte nella pagina, assunte da molte lingue anche non ovvie come il giapponese (per es., guesha e samouraï). Si tratta spesso di termini rari, non ancora impiegati da altri giornalisti o scrittori. Per il resto, si registrano notevoli somiglianze tra il D’Annunzio giornalista e il D’Annunzio scrittore d’arte, a cominciare dalle consuete forme anticheggianti funzionali al raggiungimento di un registro aulico.
Su un intenso sfruttamento delle risorse della retorica è basata l’oratoria dannunziana, legata alle vicende della Grande guerra e in seguito dell’avventura di Fiume (Leso 1994: 736-43). Le tecniche suasorie di D’Annunzio prevedono tra l’altro l’uso incalzante di vocativi, interrogative dirette, accumuli di sostantivi o aggettivi, strutture in crescendo. La connotazione mistica di molti discorsi fa sì che spesseggino espressioni proprie del linguaggio religioso (miracolo, martiri, messaggeri di fede, nei secoli dei secoli, ecc.). Il D’Annunzio oratore esercitò un’influenza molto forte sui discorsi di Mussolini e in generale sulla retorica fascista.
Persino nella scrittura epistolare è palese una grande attenzione per gli aspetti formali. D’Annunzio non sembra mai concepire la lettera come un puro strumento per scambiare informazioni; viceversa, si serve molto spesso di mezzi espressivi simili a quelli adoperati nei suoi testi letterari: nelle oltre diecimila lettere dannunziane si trovano parole non utilizzate negli scritti destinati alla pubblicazione, tra cui arcaismi rari e coniazioni d’autore.
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