Vedi Germania dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Sorta nella seconda metà dell’Ottocento da un cumulo di piccoli stati, la Germania è stata protagonista di un’incredibile evoluzione storica che l’ha portata a conquistare nel continente europeo una straordinaria posizione di vantaggio geostrategico. Se per lungo tempo ha costituito per i suoi vicini una minaccia dalla quale tutelarsi, nell’Europa sempre più interdipendente della seconda decade del 2000 si erge a garante della stabilità economica e modello di buone prassi politiche.
Uscita sconfitta dalla Seconda guerra mondiale, per tutto il corso della Guerra fredda la Germania è rimasta divisa in due entità statali separate, create nel primo periodo post bellico in corrispondenza delle diverse zone di occupazione nelle quali fu suddiviso il suo territorio: a ovest la Repubblica Federale Tedesca (Bundesrepublik Deutschland, Brd), nata dall’unificazione delle zone britannica, francese e statunitense, e a est la Repubblica Democratica Tedesca (Deutsche Demokratische Republik, Ddr), sulla zona di occupazione sovietica.
Il 3 ottobre del 1990 ha rappresentato una data cruciale nella storia nazionale: ha segnato la riunificazione delle due Germanie, in virtù dell’annessione nella Repubblica Federale di Germania dei cinque distretti orientali, più Berlino.
Se la Ddr ricadeva completamente nel raggio d’influenza sovietica, la Germania dell’Ovest aveva definito la propria politica estera su un doppio binario. Da un lato un forte europeismo, perseguito attraverso il rafforzamento di quell’asse franco-tedesco che è stato il principale motore del processo di integrazione europea; dall’altro, una chiara vocazione atlantista fondata su una solida relazione con gli Stati Uniti.
Proprio l’alleanza con Washington aveva costituito un imprescindibile caposaldo sia per la ricostruzione e il rilancio dell’economia della Germania occidentale nel periodo postbellico, sia in chiave di deterrenza contro la minaccia rappresentata dall’Unione Sovietica.
Dal 1990 in poi, tuttavia, è possibile riscontrare alcuni cambiamenti nella politica estera tedesca. Fermo restando l’interesse a mantenere buoni rapporti all’interno dell’Alleanza atlantica e il tradizionale orientamento filoeuropeista, il collasso dell’Unione Sovietica ha aperto per la Germania la possibilità di costruire un solido rapporto anche con la nuova Federazione Russa. La relazione è stata favorita dai comuni interessi, soprattutto dal punto di vista degli approvvigionamenti energetici, ma è stata anche temperata dalla naturale vicinanza politica, economica e geografica della Germania a quei paesi dell’Europa orientale che intrattengono rapporti più tesi con i russi. Per quanto riguarda invece gli Stati Uniti, la fase post-1989 ha fatto registrare un rapporto più controverso, soprattutto durante l’amministrazione di George W. Bush. I contrasti si sono manifestati apertamente nel biennio 2002-03 quando la Germania del socialdemocratico Gerhard Schröder ha guidato le fila degli oppositori alla guerra in Iraq. Gli anni Novanta sono stati cruciali anche per quanto concerne il ruolo della Germania nel processo di integrazione comunitaria. Il paese ha sostenuto in modo decisivo la nascita della moneta unica. Per far ciò la Germania ha dovuto rinunciare al marco, la valuta più forte d’Europa: Berlino ha però giudicato necessario questo passo per portare a compimento il progetto d’integrazione economica e per stemperare le apprensioni con le quali le principali cancellerie europee avevano guardato al processo di riunificazione tedesca.
La Germania ha anche sostenuto l’allargamento dell’Unione ai paesi dell’Europa centrale e orientale, geograficamente vicini e con i quali intrattiene importanti rapporti economici. Nel maggio 2013, Berlino si è espressa favorevolmente circa l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea (Eu), prospettando uno sblocco dall’impasse che per decenni ha frenato l’avvicinamento di Ankara a Bruxelles. Una delle ragioni della precedente opposizione tedesca era legata alla presenza in Germania di una comunità turca numericamente assai rilevante, accusata di aver costituito una sorta di società isolata e parallela che manteneva tradizioni e usi poco compatibili con una democrazia moderna.
Oggetto di controversia, e in alcuni casi di forte tensione, con i partner europei è l’atteggiamento tedesco seguito allo scoppio della crisi economica. La Germania ha puntato sull’adozione di stringenti misure di austerity che prevedono l’elargizione di aiuti finanziari ai paesi in difficoltà soltanto in cambio di chiari progressi sulla disciplina di bilancio e di radicali riforme strutturali. La conseguente adozione – da parte dei paesi più in crisi dell’eurozona di misure impopolari ha anche determinato la crescita di virulenti movimenti antieuropeisti.
La Germania è uno dei maggiori fornitori mondiali di aiuti allo sviluppo, il terzo contributore al budget delle Nazioni Unite (intorno all’8%) e il quarto per quanto riguarda i finanziamenti alle operazioni di peacekeeping (8% per il 2010): posizioni e percentuali rilevanti, che legittimano le pretese di Berlino di partecipare attivamente alle arene diplomatiche internazionali e di ottenere un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
La Germania è una repubblica federale composta da 16 stati, i Länder. La sua Costituzione affida il potere esecutivo nelle mani del governo federale che è retto da un cancelliere, mentre il potere legislativo spetta a un parlamento composto da due camere con differenti prerogative: il Bundesrat, che è l’organo federale attraverso cui i Länder partecipano alla funzione legislativa e all’amministrazione dello stato centrale tramite un numero di delegati proporzionale al totale di abitanti (da tre a sei seggi su un totale di 69), e il Bundestag, la dieta federale composta da più di 600 deputati eletti ogni quattro anni a suffragio diretto, nelle cui mani è riposto il cuore del processo di formazione delle leggi oltre che la possibilità di sfiduciare il cancelliere.
I 16 stati federati, ciascuno dei quali possiede propri organi di governo, detengono sia un importante ruolo nel processo legislativo centrale, sia prerogative esclusive in diverse sfere d’attività, specie nel campo dell’istruzione, in quello di polizia e nell’amministrazione. Data la non sincronia tra le elezioni dei parlamenti statali e quelle del parlamento federale, può capitare che la composizione politica del Bundesrat non corrisponda a quella del governo. La necessità di porre rimedio al deficit di governabilità da scontare in questi casi per quelle materie legislative di competenza del Bundesrat (quelle che tecnicamente necessitano della sua approvazione) e, allo stesso tempo, la volontà di non tradire l’impronta federale dell’assetto istituzionale tedesco hanno portato nel 2006 a una riforma costituzionale che ha ridimensionato alcune prerogative di questo ramo del parlamento federale, ampliando il potere degli organi elettivi a livello statale.
Le ultime elezioni federali, per la formazione del 18° Bundestag, si sono tenute il 22 settembre 2013. Ottenendo quasi il 42% dei voti e il 50% dei seggi, l’incumbent Angela Merkel ha nuovamente ricevuto dagli elettori tedeschi un chiaro segnale di approvazione della linea politica seguita finora, sia sul fronte interno sia in merito alla previdente strategia di gestione della crisi nell’eurozona. La coalizione formata dai cristiano-democratici (Christlich Demokratische Union Deutschlands, Cdu) della Merkel e dalla Christlich-Soziale Union in Bayern (Csu), il partito bavarese omologo della Cdu, ha conseguito così il suo miglior risultato elettorale dal 1990. Tuttavia per questo mandato dovrà fare a meno dell’altro partner usuale, il partito liberale tedesco Freie Demokratische Partei (Fdp), il quale non è riuscito a superare il 5% dei voti e, per la prima volta nella sua storia, non detiene alcun seggio nel Bundestag.
Per confidare su una maggioranza sicura, il partito della Merkel si è alleato, dopo due mesi di trattative, con il principale partito di opposizionedei socialdemocratici (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, Spd).
Composta da quasi 82 milioni di persone, la popolazione tedesca è la maggiore nell’Unione Europea. Negli ultimi anni si è registrata, tuttavia, una leggera diminuzione: nel 2011 il tasso di incremento demografico è stato negativo (-0,1%), il tasso di fecondità di 1,4 figli per donna, mentre il tasso di migrazione – molto diminuito rispetto agli anni Novanta – è di 6,7 su mille abitanti. I due principali flussi migratori verso la Germania hanno avuto luogo prima negli anni Sessanta, quando il paese aveva bisogno di manodopera e molti lavoratori sono arrivati dall’Europa meridionale, e poi negli anni Novanta, poiché, con il crollo dell’Unione Sovietica, numerosi tedeschi sono rimpatriati dalla Polonia, dalla Romania e dall’Unione Sovietica stessa.
La popolazione straniera residente in Germania consiste quindi principalmente di immigrati arrivati negli anni Cinquanta e Sessanta e dai loro discendenti: circa 3,5 milioni sono cittadini turchi, di cui circa 500.000 di origine curda. Il sistema educativo tedesco è caratterizzato dal principio del federalismo (formazione, scienza e cultura sono disciplinate e amministrate primariamente dai Länder) e dal principio del pluralismo ideologico e sociale.
La spesa per l’istruzione ammontava al 4,4% del pil nel 2011, poco al di sotto della media Eu28 del 4,9%. Secondo i dati del 2009 del programma per la valutazione internazionale degli studenti avviato dall’Oecd, la Germania ha la migliore performance delle prime cinque economie europee, sebbene la Finlandia abbia la miglior performance dell’Eu.
La Germania ha uno dei sistemi sanitari universali più antichi in Europa: prevede che tutti i cittadini debbano registrarsi in un fondo malattia. La spesa sanitaria è dell’11,1% del pil; nel novembre 2010, nell’ambito delle riforme del welfare volte ad affrontare il problema dell’invecchiamento della popolazione, il governo ha varato una riforma del sistema sanitario che dovrebbe ridurre il deficit di bilancio nel lungo periodo e che dovrebbe far aumentare i costi dei trattamenti per i cittadini.
In Germania la maggioranza della popolazione è cristiana – protestante (34%) e cattolica (34%) –, mentre il 3,7% è musulmano. Le tutele normative alla libertà di religione di cui la Germania è dotata discordano con i recenti crimini legati alle discriminazioni etniche e religiose, soprattutto ai danni di musulmani, ebrei, rom e tedeschi di origine straniera, in particolare africana. Alcuni studi hanno rilevato, in particolare, una crescita dei sentimenti di ostilità verso la religione islamica: il disagio nutrito per la consistente minoranza turca sarebbe in questi anni mutato fino a comprendere tutti i musulmani, tanto che in Germania s’inizia a parlare di ‘islamofobia’. Otto Länder hanno adottato leggi che vietano alle insegnanti musulmane di indossare l’hijab durante il lavoro.
Le istituzioni politiche cercano comunque di inviare forti segnali all’opinione pubblica di sostegno all’integrazione. Ne è un esempio – assieme all’istituzione della Conferenza sull’islam – il fatto che nel neoeletto Bundestag si contano due parlamentari neri e una parlamentare di religione musulmana appartenente al partito cristiano-democratico.
Il governo ha adottato, invece, una posizione di forte contrasto rispetto alla Chiesa di Scientology, che è considerata un’organizzazione economica più che religiosa.
La Germania è all’avanguardia in Europa sulla tutela dei diritti delle donne. Il governo ha attuato generose politiche sulla maternità e ha adottato leggi sulla non discriminazione. Attualmente si discute, inoltre, una legge che imponga alle aziende di detenere nei propri board una componente femminile pari almeno al 30%. La Merkel è il primo cancelliere donna e il nuovo Bundestag detiene un numero record di donne, pari al 36% dell’intera camera. Allo stesso tempo, le donne sono tuttavia sottorappresentate nelle posizioni dirigenziali della pubblica amministrazione, delle università e dei tribunali, oltre che essere soggette talvolta a discriminazione salariale.
La Costituzione tedesca tutela la libertà di espressione e i media sono liberi e indipendenti; una sentenza della Corte costituzionale del 2003 ha stabilito che il controllo delle telefonate dei giornalisti può essere considerato legittimo solo in casi ‘gravi’. A giugno 2012, l’83% della popolazione aveva accesso a Internet. Il web non è soggetto a limiti, ad eccezione dei siti di pedofilia e propaganda nazista. Dal gennaio 2009 una legge antiterrorismo garantisce alle autorità maggiori poteri nel condurre sorveglianza occulta, con la possibilità di svolgere ricerche remote e segrete su Internet.
La Germania è la quarta economia mondiale e la prima in Europa. L’industria manifatturiera e i servizi ad essa collegati sono alla base dell’economia, pur non rappresentando la quota maggioritaria nella composizione del pil. Tra i principali prodotti vi sono macchinari industriali, autoveicoli, lavorazioni chimiche, acciaio, mentre la proporzione di beni ad alta tecnologia è meno rilevante rispetto ad altri paesi industrializzati (le esportazioni di tali beni ammontano al 14% del totale).
L’agricoltura conta solo per lo 0,9% del pil, ma il settore ha un ruolo importante per il tessuto sociale tedesco e rende la Germania autosufficiente per il 70% relativamente ai prodotti alimentari. Infine, i servizi rappresentano la quota maggioritaria del pil (71,2%) e il settore bancario è tra quelli più rilevanti, insieme al commercio al dettaglio e al turismo. Dal 2003 al 2008 la Germania è stata il primo esportatore mondiale, poi superata dalla Cina nel 2009; il rafforzamento delle economie dei paesi dell’Europa orientale e la crescita di domanda in Asia hanno contribuito a tale risultato.
Il valore delle esportazioni è passato dal 35,6% del pil nel 2003 al 46,7% nel 2007 e i principali prodotti esportati sono macchinari e attrezzature di trasporto, prodotti chimici, alimentari e tabacco, combustibili di origine minerale. La quota maggioritaria dei flussi è diretta verso i paesi dell’Eu (circa il 67%), in particolare verso Francia, Paesi Bassi, Regno Unito e Italia. Le esportazioni sono state un fattore chiave della crescita economica tedesca ma, allo stesso tempo, il ridimensionamento della domanda estera è stata una delle cause della crisi del 2009; grazie al riavvio di richieste di beni, soprattutto dall’Asia, nel 2010 la Germania ha registrato una crescita del 3,4%. Il livello delle attività economiche complessive è comunque tuttora modesto e nel 2013 l’economia tedesca – che si dimostra comunque tra le più forti dell’eurozona – è cresciuta appena dello 0,5%.
L’elevato grado di apertura e integrazione con il sistema mondiale, associato alla dimensione dell’economia tedesca, fa sì che le influenze reciproche siano forti: se la crisi statunitense ed europea ha avuto un impatto negativo sulla crescita tedesca, dall’altro lato la crisi tedesca ha avuto un impatto negativo sull’economia dei paesi dell’Europa orientale, che esportano molto verso la Germania. Di qui l’importanza di prendere misure coordinate per contenere il rischio di rallentamenti globali. Per rispondere alla crisi, regolamentare il settore finanziario e assicurare una più equa distribuzione dei costi e dei rischi, nel novembre 2010 la Germania ha varato una legge per la riorganizzazione e ristrutturazione delle istituzioni creditizie. Inoltre, il piano finanziario triennale fino al 2014 prevede un notevole sforzo di riassorbimento dell’indebitamento pubblico (oltre 82 miliardi di euro inquattro anni), finalizzato al pieno rispetto dei criteri di Maastricht.
La Germania è uno dei maggiori mercati di energia in Europa e ha quindi un forte impatto sulla politica europea e globale in questo settore. Attualmente produce energia con carbone, gas, energie rinnovabili e nucleare. Importa però circa i due terzi dell’energia consumata; in particolare importa petrolio, che conta per il 32,7% del consumo totale, e il gas, che grava per il 22,3% del consumo totale e arriva in larga misura da Russia (34,5% del totale) e Norvegia (33,8% del totale). Nel 2011 è entrato in funzione il gasdotto Nord Stream che, attraverso il Mar Baltico, collega la Russia alla Germania e al sistema di distribuzione europeo, con una capacità di trasporto iniziale pari a 27,5 miliardi di metri cubi di gas.
Il tema di maggiore discussione nell’ambito della politica energetica riguarda l’uso del nucleare. Attualmente la Germania produce col nucleare il 9% dell’energia consumata, una percentuale più o meno dimezzata rispetto a un decennio fa poiché nel 2001 il governo di coalizione formato da Spd e Verdi, di concerto con l’industria dell’energia, promosse un programma per la graduale eliminazione del nucleare entro il 2020. A seguito del disastro di Fukushima in Giappone e del maggior peso ottenuto sulla scena politica dai Verdi in conseguenza del risultato delle elezioni amministrative del 2011, la cancelliera Merkel ha dato una spinta decisiva a tale programma, annunciando il totale abbandono del nucleare entro il 2022. La sfida del governo tedesco diventerebbe dunque incrementare sensibilmente la produzione di energia rinnovabile e l’efficienza energetica. L’abbandono del nucleare si sta però traducendo, almeno nel breve-medio periodo, nella necessità di aumentare l’uso del carbone (il più inquinante tra i combustibili fossili). Da quando si è dato avvio al piano di progressiva chiusura dei reattori atomici del paese, il consumo di carbone è aumentato del 4,9% e la sua componente nel mix energetico totale si sta rapidamente avvicinando al 30%. Un valore altissimo per un paese europeo (il Regno Unito, per esempio, usa il carbone per produrre poco più dell’11% del suo fabbisogno energetico), che comporta rilevanti conseguenze in termini di impatto ambientale, soprattutto considerando che la Germania costituisce il maggiore consumatore di energia in Europa (Russia esclusa). La scelta di ridurre il nucleare ha anche implicazioni sul futuro della politica e della dipendenza energetica tedesca, dal momento che potrebbe far aumentare la dipendenza della Germania dalle importazioni provenienti dalla Russia, ma anche dalla Francia, per quanto riguarda il nucleare. Detto ciò, l’ambizioso proposito che la Germania si propone di raggiungere nel lungo periodo risponde a una precisa scelta di politica ambientale e consiste nel fare delle rinnovabili un caposaldo della produzione energetica entro il 2050. Queste ultime hanno contato per il 10% della produzione di energia nel 2011 rispetto al 3,4% del 2000. Negli ultimi anni sono stati offerti sostanziosi finanziamenti al settore – sviluppando in particolare biomassa ed eolico – al fine di raggiungere l’obiettivo del 35% entro il 2020.
L’anno della riunificazione e quelli immediatamente successivi sono stati determinanti anche per quanto riguarda il comparto difensivo della Germania: se da una parte l’annessione della Ddr ha portato alla dissoluzione del suo esercito popolare e all’incorporazione di circa 50.000 dei suoi membri nel Bundeswehr, l’esercito della Repubblica Federale Tedesca, dall’altra la fine della Guerra fredda ha determinato un notevole ridimensionamento del numero totale di truppe tedesche: i circa 550.000 soldati dell’ottobre 1990 sono stati negli anni più che dimezzati, fino ad arrivare ai meno di 200.000 attuali. Parallelamente alla riduzione del personale militare anche il budget destinato alla difesa ha subito progressivamente dei tagli rilevanti: una scelta, quella del ridimensionamento anche economico del settore militare tedesco, che non ha mancato di generare malumori tra i maggiori alleati della Germania, specie all’interno della Nato, i cui governi membri apparivano preoccupati del rischio di un disimpegno di Berlino nel campo della sicurezza multilaterale. Rimangono, per altro, ancora di stanza in Germania guarnigioni di soldati statunitensi (nel 2010 erano 53.642; gli Stati Uniti possiedono in Germania, a Ramstein, la loro base aerea estera più grande), britannici (22.000), francesi (2800) e olandesi (300).
Nel 2002 la Germania, contribuendo alla missione ISAF della NATO in Afghanistan, ha partecipato alla sua prima operazione di peacekeeping al di fuori del teatro europeo. Si trattò di una scelta politica delicata: il parlamento tedesco, con soli tre voti di maggioranza, deliberò l’invio di un contingente militare (il terzo più numeroso, dopo Usa e Regno Unito, tra quelli impegnati nella missione Isaf). Dal 2003 la Germania è a capo del comando regionale Isaf nel nord dell’Afghanistan e ha annunciato di voler estendere la propria presenza sull’area oltre il termine del 2014. Il tema della partecipazione dei soldati tedeschi a operazioni militari internazionali rimane particolarmente controverso nel dibattito pubblico tedesco, tanto dal punto di vista dell’opportunità politica quanto da quello della legittimità costituzionale. Basti pensare alla decisa opposizione alla guerra in Iraq espressa nel 2003 dall’elettorato tedesco e sostenuta nelle sedi multilaterali dall’allora cancelliere Schröder. Addirittura si è arrivati alle dimissioni del presidente federale Horst Köhler, nel maggio 2010, in seguito a un’intervista in cui aveva sostenuto l’utilità delle missioni internazionali della Bundeswehr per tutelare gli interessi commerciali della Germania. Oltre che in Afghanistan, soldati tedeschi sono attualmente impegnati nella Kfor in Kosovo. Poco più che simbolica è invece la partecipazione in teatri assai importanti per altre potenze europee quali il Libano, la Libia e il Mali. La Germania si è mantenuta rigorosamente non interventista anche nel ‘caso Siria’. A Bonn ha sede l’Occar, l’Organizzazione congiunta per la cooperazione militare in materia di armamenti, fondata nel 1996 da Germania, Francia, Inghilterra e Italia come centro d’eccellenza europeo per la produzione e lo sviluppo delle più moderne e tecnologiche attrezzature militari.
All’indomani della Seconda guerra mondiale, l’assetto politico e territoriale da dare alla Germania costituiva il principale tema di confronto tra Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Unione Sovietica, ma tutti i tentativi di definire un accordo per la redazione di un trattato di pace tedesco fallirono. La contrapposizione tra le due superpotenze favorì la divisione della Germania, consacrata con la nascita, nel 1949, della Repubblica Federale Tedesca (BRD) e della Repubblica Democratica Tedesca (DDR). A differenza della Germania orientale, imbrigliata nelle logiche e nella rigidità del blocco sovietico, la Germania occidentale acquisì, sin dall’immediato dopoguerra, un ruolo centrale in Europa e nel mondo occidentale. Il forte dinamismo economico e la solidità politica legata alla leadership di Konrad Adenauer fece assurgere la BRD a potenza di riferimento dell’Europa occidentale. Animata da un sincero europeismo, la classe dirigente tedesco-occidentale seppe anche sfruttare la politica comunitaria per superare le riserve che i principali governi europei nutrivano verso la rinascita politica e militare della Germania. In questa prospettiva va letto il ruolo propositivo svolto dalla BRD nella promozione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (1951), come anche dello sfortunato progetto di Comunità europea di difesa (1952-54). Quest’ultimo rappresentava un tentativo di conciliare il riarmo della Germania occidentale, necessario per fronteggiare un eventuale confronto militare con il blocco sovietico, con la salvaguardia dei paesi che durante la guerra erano stati vittima dell’aggressione nazista. Il fallimento del tentativo favorì uno spostamento della questione sul piano atlantico: in base agli accordi siglati a Parigi nell’ottobre 1954 la BRD entrava nell’Alleanza atlantica e aderiva, al contempo, all’Unione dell’Europa occidentale. In questo modo prendeva avvio il riarmo della Germania occidentale, che trovava comunque un limite nell’impossibilità di dotarsi di un armamento atomico.
Negli anni del governo cristiano-democratico la BRD mantenne un atteggiamento di chiusura nei confronti della Germania orientale: alla mancata accettazione dei confini orientali della DDR, il governo federale abbinava il suo mancato riconoscimento giuridico. In base alla cosiddetta ‘dottrina Hallstein’ (1955), qualunque governo straniero (con l’eccezione di quello sovietico) che avesse riconosciuto la DDR avrebbe automaticamente rotto le relazioni con la BRD. Questa politica entrò in crisi nel corso degli anni Sessanta, a seguito della costruzione del Muro di Berlino (1961) e poi con l’avvio del processo di distensione. L’avvento al potere dei socialdemocratici nel 1969 marcò un’inversione di tendenza, con il tentativo, promosso durante il cancellierato di Willy Brandt, di normalizzare le relazioni tra la Germania occidentale e quella orientale. La politica orientale (‘Ostpolitik’), che giunse a compimento nel 1973, portò al riconoscimento reciproco tra DDR e BRD, nonché a una serie di accordi tra quest’ultima e i principali paesi del blocco orientale.
In questi anni la Germania riprese la guida del processo di integrazione europea, concentrando lo sforzo comune verso le tematiche economiche e monetarie. Di fronte agli squilibri dell’economia globale sviluppatisi a partire dai primi anni Settanta, la Germania promosse la creazione del Sistema monetario europeo (1979) che portò, nei decenni successivi, alla promozione dell’unione economica e monetaria avviata con il Trattato di Maastricht (1992) e perfezionata fino all’entrata in vigore dell’euro. Le vicende del 1989 e il crollo del Muro di Berlino si sovrapposero all’azione in ambito comunitario. La politica inter-tedesca per la riunificazione e quella per l’integrazione europea, pur procedendo formalmente su binari separati, di fatto si fusero. Durante il cancellierato di Helmut Kohl la politica europea risultò funzionale anche per affrontare in modo efficace il vuoto generato a Oriente dal dissolvimento dell’impero sovietico.
La proiezione internazionale della Germania poggia principalmente su tre pilastri: Unione Europea; atlantismo e multilateralismo; cooperazione internazionale e missioni di pace. Su tutti e tre i fronti la Germania riesce a ricoprire un ruolo di primaria importanza che vorrebbe fosse ufficialmente riconosciuto anche attraverso la partecipazione permanente al club più esclusivo della diplomazia multilaterale mondiale: il Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite. Tale pretesa si è concretizzata nel cosiddetto ‘Gruppo dei quattro’ (G4), composto da Germania, Brasile, Giappone e India. La storica posizione che il gruppo è impegnato a sostenere nei vari round negoziali che dalla metà degli anni Novanta accompagnano il dibattito sulla riforma del più importante organo delle Nazioni Unite prevede un allargamento del Consiglio con l’aggiunta di dieci membri: quattro non permanenti, con mandato non rinnovabile, e sei permanenti (oltre ai quattro seggi destinati ai membri del G4, sono previsti altri due seggi per due stati dell’Africa).
Sebbene la Germania non sia ancora riuscita a ottenere un seggio, ha comunque raggiunto l’obiettivo di influenzare in modo decisivo le scelte da intraprendere su alcune delle più importanti questioni di politica internazionale. Anche trascurando l’ambito europeo (all’interno del quale la linea politico-economica comune è stata delineata sul modello tedesco), Berlino ha trovato altre sedi in cui esprimere la sua volontà. Lo dimostra la partecipazione al P5+1, lo spazio diplomatico in cui in questi anni si sono uniti gli sforzi per discutere con l’Iran del programma nucleare. Il gruppo, composto dai cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza più la Germania, è stato fondato nel 2006 su iniziativa dei tre componenti europei per offrire una proposta alternativa di negoziato globale con l’Iran, e ha raggiunto un accordo nel novembre 2013. La presenza della Germania al tavolo di questa lunga trattativa è strategica, giacché essa rappresenta il partner commerciale chiave dell’Iran e mira a tutelare i suoi interessi nel paese. Il valore degli scambi tra Teheran e Berlino ha raggiunto nel 2010 quasi 4,7 miliardi di euro; in Iran si trovano inoltre le filiali di circa 50 imprese tedesche e i rappresentanti commerciali di più di 12.000 aziende. Nelle negoziazioni, la Germania vuole assicurarsi che né l’avanzamento del programma nucleare iraniano né le eventuali sanzioni avanzate dalle UN compromettano lo sviluppo di nuovi accordi con l’Unione Europea e – soprattutto – le proprie relazioni bilaterali con Teheran. Le camere tedesche di industria e commercio hanno stimato, infatti, che le sanzioni economiche contro l’Iran potrebbero costare più di 10.000 posti di lavoro in Germania e provocherebbero un significativo impatto negativo sulla sua crescita economica.
La rilevanza della voce tedesca nei tavoli di concertazione europei è determinata soprattutto dalla posizione di vantaggio geostrategico che Berlino si è abilmente ritagliata in tema di relazioni economiche internazionali. Agendo su un duplice fronte (continentale e mondiale), la Germania ha sfruttato al massimo la sua forza commerciale, accentuando così il divario esistente tra la sua situazione economica e quella dei paesi (generalmente dell’Europa del Sud) in disavanzo. Nell’ultimo decennio, lo stato tedesco ha visto crescere il suo avanzo commerciale (benché ci sia stato un calo della domanda negli anni di crisi) e rafforzarsi la sua posizione come esportatore. La Germania è dunque il terzo esportatore e importatore mondiale, con una quota sulle esportazioni mondiali pari al 7,7% nel 2012, contro l’11,2% della Cina e l’8,4% degli Stati Uniti. La forza di tali numeri (la Germania è uno dei pochissimi paesi ad avere invertito lo squilibrio delle partite correnti con la Cina) ha consentito a Berlino di resistere alle pressioni in arrivo da Washington a Pechino, che vedevano nelle politiche di austerity adottate in Europa un freno decisivo alla ripresa economica.
In Europa, per la Germania non c’è partita. Da prima della crisi finanziaria a oggi, la quota tedesca sull’export complessivo è rimasta sostanzialmente invariata al 24% (quasi un quarto del totale delle esportazioni EU27) e la bilancia commerciale risulta in avanzo rispetto a ben 18 paesi. Nel vecchio continente Berlino ha raggiunto quindi tutti i suoi obiettivi economici, sostenuti dalla moneta unica e da una politica bancaria che si sposano perfettamente con le esigenze di un paese dalle massicce esportazioni industriali.
La Germania del 21° secolo ha dato dunque forma a un nuovo mercantilismo che le assicura un’indiscussa supremazia sul continente. L’unico elemento che potrebbe destabilizzare la preminenza tedesca è il clima di ostilità che si sta diffondendo in Europa, manifestato sia da vari governi, che temono le ripercussioni di una tale subalternità, sia da buona parte delle opinioni pubbliche, sempre più convinte che la Germania sfavorisca l’interesse comune per privilegiare il proprio.
Il governo tedesco promuove da tempo un accordo internazionale per prevenire i cambiamenti climatici e persegue l’ambizioso obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra del 40% entro il 2020. Dopo l’entrata in vigore, nel 1994, della ‘Convenzione quadro sul cambiamento climatico’, l’anno successivo si è riunita a Berlino la prima conferenza delle parti contraenti. La Convenzione ha adottato un mandato che prevedeva impegni vincolanti per i paesi industrializzati (ma non per i paesi in via di sviluppo) rispetto alla riduzione dei gas serra: per questo può essere considerata l’atto propedeutico alla successiva formulazione del Protocollo di Kyoto. Nel 2007, sotto la presidenza tedesca, il G8 ha trovato un accordo in base al quale il riscaldamento globale non deve superare gli 1,5-2,5 gradi: un obiettivo che impone di dimezzare le emissioni nell’arco dei prossimi 40 anni. Nel marzo dello stesso anno il Consiglio europeo, ancora una volta guidato dalla presidenza tedesca, ha deciso di ridurre le emissioni di anidride carbonica del 20% rispetto ai livelli del 1990, entro il 2020. Attualmente, nell’ambito dei negoziati multilaterali sui cambiamenti climatici, il governo tedesco si prefigge i seguenti obiettivi: la definizione degli impegni di riduzione delle emissioni sulla base dell’Accordo di Copenaghen; la conferma ufficiale dell’obiettivo di mantenere il riscaldamento globale entro i 2 gradi; una maggiore efficacia del processo di revisione delle eventuali carenze nelle misure pensate per raggiungere l’obiettivo e la possibilità stessa di modificarne la soglia limite, abbassandola di un ulteriore mezzo grado; un accordo sui meccanismi di controllo (misurazione e verifica) a livello internazionale; l’elaborazione di un accordo legalmente vincolante nell’ambito della Convenzione quadro sul cambiamento climatico.
Secondo un suggestivo parallelo storico-politico, Angela Merkel in Germania ha goduto dei frutti delle riforme varate dal suo predecessore Schröder, proprio come nel Regno Unito Tony Blair governò un paese ammodernato dalle drastiche riforme di Margaret Thatcher. Nei suoi primi due governi da cancelliere la conservatrice Merkel ha infatti potuto vantare il calo progressivo dei disoccupati (da 5 agli attuali 3 milioni) e il miglioramento dei conti pubblici e della bilancia commerciale tedesca, grazie alle riforme del mercato del lavoro, dei sussidi, delle pensioni contenute nell’‘Agenda 2010’ del socialdemocratico Gerhard Schröder. Provvedimenti impopolari, così tanto che gli elettori punirono Schröder alla prima occasione, aprendo la strada all’ascesa della Merkel. Era insomma stata la sinistra riformista a mettere mano al sistema Germania per snellire lo stato sociale e ridare capacità competitiva all’economia guardando al futuro. Merkel ha gestito l’applicazione di quelle riforme, ne ha goduto gli effetti.
Nel primo governo (2005-09) era inevitabile che ciò accadesse. Era un governo di Grande coalizione proprio con i socialdemocratici orfani di Schröder. Occorreva far ‘digerire’ ai tedeschi le riforme. Nel suo secondo governo (2009-13) l’alleanza con i liberali in crisi di idee e di leadership e la progressiva perdita della maggioranza al Bundesrat avevano frenato le misure più incisive. Unica scelta vigorosa era stata la svolta energetica, con la decisione di uscire dal nucleare entro il 2022, imposta personalmente dalla Merkel sull’onda dell’‘effetto Fukushima’, l’emozione dopo la catastrofe dell’impianto atomico giapponese.
Si doveva quindi attendere la vittoria dei cristiano-democratici alle elezioni del settembre 2013, preannunciata dai sondaggi, per vedere finalmente un programma di governo che esprimesse la visione della Merkel sul futuro della Germania, che puntasse a realizzare alcuni punti chiave, con cui lasciare una traccia nella storia tedesca non legata solo al suo primato di donna cancelliere. Ma ancora una volta il risultato elettorale ha costretto a una Grande coalizione. L’annientamento degli alleati liberali (FDP per la prima volta sotto la soglia di sbarramento e quindi fuori dal Bundestag) ha spinto di nuovo Angela Merkel sul terreno che in fondo forse le è più consono: la mediazione, non gli slanci ideali, l’accordo di compromesso più che i principi da perseguire.
Il Koalitionsvertrag tra Unione (CDU-CSU) e socialdemocratici (SPD) esprime in 185 pagine questo bisogno di accordo senza scosse, di politica pragmatica che si fa buona amministrazione e poco più. Proprio quello che i tedeschi dimostrano di gradire in Merkel e nella classe politica in generale. I punti qualificanti comunque non mancano e sono le sfide che il terzo governo Merkel, probabilmente il suo ultimo, deve ora perseguire. Ma sono quasi tutti punti qualificanti altrui, della SPD o della CSU bavarese. La Merkel ha mediato e fatto accettare al suo partito l’accordo finale. In sintesi, ecco i punti principali:
1) Mindestlohn, il salario minimo garantito, rivendicazione storica della sinistra. Sarà introdotto dal 2015, con deroghe possibili fino al 2017. 8 euro e 50 l’ora, oneroso per il sistema produttivo soprattutto nelle regioni dell’Est.
2) Più garanzie per il lavoro interinale e parttime. Riducendo la flessibilità introdotta dall’Agenda 2010, contratti a termine limitati a 18 mesi, altrimenti poi scatta l’assunzione. Dal nono mese in poi il salario degli interinali sarà equiparato a quello dei dipendenti.
3) Pensioni minime a 850 euro al mese dal 2017. Nuove deroghe alla pensione a 67 anni: ad esempio, con 45 anni di contributi si potrà andare in pensione a partire dai 63 anni di età. Tutte riforme dunque richieste dall’SPD, che imporranno un esborso notevole alle casse pubbliche.
4) Si aggiunge la promessa elettorale dei cristiano-democratici di una Mütterrente: già dal 2014 aumento delle pensioni alle mamme che hanno avuto figli prima del 1992, finora escluse da un beneficio introdotto per gli anni successivi.
5) L’altra novità clamorosa per un paese di automobilisti, con 12.000 chilometri di autostrade, sarà l’introduzione di un pedaggio per gli stranieri, richiesto dai bavaresi e a cui la Merkel aveva inizialmente detto di no.
Si vede dunque come l’agenda del suo terzo governo sia di fatto imposta dai partner di governo. Merkel sembra essersi ancora una volta limitata a fare da arbitro, salvo imporre la sua linea ormai consolidata nella politica europea: solidarietà e responsabilità sono due facce della stessa medaglia. Quindi no alla condivisione del debito (Eurobond e affini). Aiuti solo a fronte di riforme strutturali e tagli ai bilanci pubblici indebitati. No ad ogni ipotesi di ‘bail-out’ ed anzi ‘bail-in’ dei creditori e correntisti delle banche in crisi, come avvenuto per Cipro.
Nessuna sorpresa dunque: scontata su questi temi l’adesione della SPD, che sulla politica europea negli anni scorsi ha sempre votato con la maggioranza, con la sola differenza di un maggiore accento (nei toni più che nella sostanza) sugli incentivi alla crescita.
Nessun grande slancio. Al massimo il terzo governo Merkel dovrà affrontare l’oggettiva difficoltà di imporre ancora in Europa una austerità che il nuovo programma di Grande coalizione contraddice nei fatti. Si prevedono 23 miliardi di investimenti in quattro anni. Anche se formalmente l’obiettivo di azzerare il deficit del bilancio statale è confermato per il 2015, sono in pochi a credere che Wolfgang Schäuble, riconfermato ministro delle finanze, riesca davvero a mantenere questa promessa. Questa rimane la sfida del governo Merkel.