Nobile pisano (m. 1289). Seguì dapprima la parte ghibellina; poi si accostò al partito guelfo dei Visconti, adoperandosi per il trattato che Pisa strinse nel 1272 con Carlo d'Angiò. Dopo un breve bando da Pisa acquistò prestigio per una incursione pisana nel porto di Genova; alla Meloria nel 1284 si ritirò invece con le sue navi, dando così adito a voci di tradimento. Nel 1285, eletto Capitano del popolo per 10 anni, tentò un accordo coi guelfi cedendo a Lucca e a Firenze alcuni castelli, mentre continuava la guerra con Genova. Per rafforzare il suo potere, si associò il nipote Nino Visconti, col quale compì riforme favorevoli al basso popolo. Guastatosi poi col Visconti, si alleò con l'arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini e con la nobiltà ghibellina. Il Visconti fu cacciato, ma poco dopo l'arcivescovo, col concorso delle casate ghibelline, fece imprigionare il conte (1288), che, chiuso nella "muda" dei Gualandi, fu lasciato morire di fame insieme con i figli e nipoti. L'episodio ha ispirato uno dei più alti e celebri canti della Divina Commedia di Dante (Inf. XXXIII): la tragedia dell'amore paterno impotente a operare in pro dei figli; la ribellione appassionata del poeta contro chi coinvolge i figli nelle colpe, vere o presunte, dei padri.