Gilgamesh
Leggendario eroe sumerico
Quinto re della I dinastia della città sumerica di Uruk ‒ della cui esistenza storica non sappiamo quasi nulla ‒ Gilgamesh era per due terzi dio e per un terzo uomo. Le sue gesta ispirarono numerosi poemi. È il protagonista di un'epopea babilonese e assira di esaltazione dell'amicizia virile
Gilgamesh è incluso, come divinità, in un elenco di nomi divini trovato a Shuruppak, l'odierna Fara, in Afghanistan, databile al 2600 a.C.: in quell'epoca, quindi, l'eroe era già entrato nella leggenda.
In lingua sumerica (Sumeri) ci sono pervenuti cinque poemi: Gilgamesh e l'oltretomba, Gilgamesh e Agga, Gilgamesh e Huwawa, Gilgamesh e il Toro Celeste, La morte di Gilgamesh. I testi devono risalire almeno all'epoca della III dinastia di Ur (2112-2004 a.C.), che vantava discendenze mitiche con i re di Uruk. Questi poemi erano piuttosto brevi e comunque slegati tra loro, non essendoci un'unica trama che li collegasse. Nel periodo antico-babilonese (20°-15° secolo a.C.), oltre ai cinque poemi sumerici, si diffuse una versione in lingua babilonese, che unificava in una sola vicenda i vari episodi legandoli con racconti nuovi. Questa versione si diffuse anche fuori dalla Mesopotamia. Alla fine del 2° millennio a.C. uno scriba di nome Sin-leqe-unnini sistemò definitivamente il testo.
Gilgamesh viene presentato all'inizio come uno spietato tiranno che aveva stremato il popolo di Uruk, impegnandolo nella costruzione di una superba cinta muraria a difesa della città. Le donne chiedono aiuto agli dei, che creano Enkidu, un essere primitivo e selvaggio che vive in armonia con gli animali, distruggendo le trappole approntate dai cacciatori.
Questi ultimi, preoccupati, chiedono a una fanciulla di presentarsi a Enkidu e di sedurlo. Subito dopo, però, quando l'eroe prova ad avvicinare di nuovo gli animali, viene sfuggito: non gli rimane allora altra scelta che seguire la fanciulla nella civiltà. Entrato a Uruk, Enkidu si scontra con Gilgamesh; presto però i due diventano amici e decidono di compiere insieme una grande impresa: entrare nella foresta dei cedri (in quello che oggi è il Libano) e uccidere il mostro Khumbaba che ne stava a guardia.
L'impresa riesce, ma irrita gli dei che avevano stabilito il ruolo di Khumbaba. Inoltre la dea Isthar, la Venere babilonese, respinta da Gilgamesh invia sulla Terra il Toro Celeste, ma i due eroi riescono a ucciderlo. La dea, a quel punto, lancia una terribile maledizione e, subito dopo, Enkidu si ammala e muore.
Incapace di rassegnarsi, Gilgamesh decide di mettersi in viaggio per raggiungere gli estremi confini del mondo e chiedere aiuto all'unico uomo immortale: Utnapishtim, il Noè mesopotamico, che aveva salvato nell'arca le specie viventi e l'uomo dal diluvio universale (il mito fu ripreso nella Bibbia) e, per questa ragione, aveva ottenuto la vita perpetua. Ma, richiesto di restare sveglio per una settimana, l'eroe fallisce la prova. Utnapishtim, impietosito, gli indica come consolazione dove trovare la pianta della giovinezza. Purtroppo, però, sulla via del ritorno, per una banale distrazione, la pianta viene mangiata da un serpente, che subito ringiovanisce cambiando pelle.
Nella saga di Gilgamesh, quindi, l'eroe fallisce nella sua ricerca sia dell'immortalità sia della giovinezza, ma la sua figura ispirerà quella dell'eroe greco Ulisse e perfino il pellegrinaggio della Divina Commedia di Dante.
Degli altri poemi sumerici esclusi dalla trama unificata del poema babilonese, Gilgamesh e Agga narra l'apparire sulle mura di Uruk dell'eroe, circonfuso di splendore, per volgere in fuga gli assedianti del re Agga (l'episodio richiama quello di Achille, che mette in fuga i Troiani con il suo urlo dopo la morte di Patroclo, nell'Iliade); La morte di Gilgamesh è molto frammentario, mentre Gilgamesh e l'oltretomba descrive il mondo dei defunti, in cui l'incauto Enkidu è rimasto prigioniero: anche questo episodio richiama la discesa di Ulisse nell'Ade.