Giovani
Sia nel linguaggio comune sia nel lessico delle scienze sociali regna una certa confusione in merito al contenuto al quale si fa riferimento quando si utilizzano le parole 'giovani', 'gioventù' o 'giovinezza'. Nel linguaggio comune questi termini indicano in genere una fase di transizione interposta tra l'infanzia e l'età adulta, per cui i giovani sarebbero coloro che non sono più dei bambini ma non sono ancora degli adulti.
La parola viene usata frequentemente nel linguaggio comune con marcate accentuazioni valutative sia positive che negative: per molti anziani, ad esempio, la gioventù evoca una sorta di età dell'oro della propria vita alla quale guardare retrospettivamente con una certa nostalgia, per altri la gioventù attuale, confrontata con la propria, porta i segni negativi della decadenza dei valori e dei costumi ("la gioventù d'oggi non è più come quella di una volta").
Alla gioventù, inoltre, si fa riferimento talvolta con accenti di stampo politico e ideologico: molti regimi di tipo rivoluzionario esaltano il valore della gioventù considerata come quella parte della popolazione capace di esprimere appieno i caratteri dell' 'uomo nuovo' non coinvolto o compromesso con le mentalità prevalenti nel precedente regime. Nelle società tradizionali, invece, dove prevalgono in genere forme di autorità e istituzioni di tipo gerontocratico, dei giovani viene sottolineata soprattutto l'immaturità, e ciò giustifica il fatto che essi non possono ancora assumersi le responsabilità che sono proprie degli anziani.
È evidente che per usare rigorosamente questi concetti nel discorso scientifico è necessario liberarli dalle incrostazioni valutative e ideologiche che spesso li accompagnano nel linguaggio comune.
Nell'ambito delle scienze sociali, tuttavia, la situazione terminologica non è affatto consolidata. Vi è incertezza, in particolare, sui significati dei termini 'adolescenza' e 'gioventù' e sui confini tra le realtà corrispondenti. Alcuni autori usano i due termini di fatto come sinonimi, mentre per altri essi designano approcci disciplinari diversi, nel senso che gli psicologi dell'età evolutiva tendono a parlare di adolescenza, mentre il termine gioventù (youth, Jugend, jeunesse) è usato prevalentemente dai sociologi. Altri ancora usano i due termini per distinguere fasi diverse, nel senso che la fase adolescenziale precederebbe quella giovanile del ciclo di vita.
Adottando quest'ultima prospettiva (adolescenza e gioventù come fasi distinte), la distinzione risulta abbastanza facile se si sottolinea l'importanza delle trasformazioni biosomatiche che accompagnano l'adolescenza. Possiamo infatti dire che questa ha inizio con le prime trasformazioni fisiche dell'organismo dopo l'infanzia (in proposito si parla anche di 'pubertà') e ha fine quando il corpo ha assunto una fisionomia relativamente stabile (ad esempio, la crescita della statura si è conclusa, gli organi sessuali sono in grado di svolgere le funzioni riproduttive, ecc.). In questo caso, giovani sarebbero coloro che sono fisicamente adulti (cioè, sostanzialmente, capaci di riprodursi), ma socialmente immaturi. Se però nella definizione dell'adolescenza, invece delle trasformazioni biosomatiche, si sottolineano le trasformazioni biopsichiche il problema si complica poiché queste sono influenzate sia da fattori connessi alla maturazione biologica sia da fattori sociali, e questi due ordini di fattori sembrano seguire dinamiche diverse o addirittura opposte. È infatti largamente provato che nelle società industriali avanzate, probabilmente per effetto delle condizioni ambientali e alimentari, si assiste a un processo di anticipazione delle trasformazioni fisiche successive all'infanzia (ad esempio, la comparsa del menarca nelle ragazze avviene oggi mediamente a un'età più precoce rispetto ad un secolo fa), mentre invece l'acquisizione della maturità psicosociale mostra la tendenza, opposta, alla posticipazione. Tra questi due processi si verifica quindi, almeno nella fase storica attuale, una divaricazione temporale. Non siamo dunque in grado di definire con precisione quando l'adolescenza finisce e quando inizia la fase successiva poiché, per fare ciò, dovremmo poter disporre di criteri certi per definire la soglia della maturità psicosociale; dobbiamo quindi rinunciare a tracciare un netto confine tra adolescenza e gioventù.In una prospettiva sociologica si può risolvere il problema terminologico rinviandolo alla definizione del termine ad quem, considerando cioè come giovani tutti coloro che, se da un lato hanno superato la soglia dell'infanzia, dall'altro non hanno ancora raggiunto appieno lo status di persona adulta. Sono coloro, in altri termini, che sono impegnati nel compito di diventare adulti. Questa definizione non è del tutto soddisfacente perché dice poco sulle caratteristiche della gioventù e insiste solo sulle caratteristiche che ai giovani mancano per essere adulti. Tuttavia, come vedremo in seguito, il compito di diventare adulti si configura in modi molto diversi in società ed epoche diverse così come all'interno della stessa società, e quindi i confini dell'età giovanile risultano variabili.Come ha acutamente notato M. Mead (v., 1935), non vi è un momento preciso in cui un ragazzo possa dire "ora sono un uomo", se la società non interviene per definirne le caratteristiche. La definizione di persona adulta varia nel tempo e nello spazio e l'acquisizione dello status di adulto risulta essere un processo graduale che può durare più o meno a lungo.
In pressoché tutte le società primitive non si può parlare di una fase specifica del corso della vita definibile come gioventù; il passaggio dall'infanzia all'età adulta avviene in modo rapido e viene sottolineato da elaborate pratiche rituali. Van Gennep (v., 1909), l'antropologo che per primo ha studiato tali "riti di passaggio", distingue in particolare tre fasi: i riti di separazione, i riti marginali e i riti di aggregazione. Coi primi gli individui vengono separati dal loro status precedente, coi secondi vengono introdotti in uno status intermedio che può durare più o meno a lungo, mentre i riti di aggregazione segnano l'ingresso permanente nel nuovo status di adulto. I riti marginali, che comportano generalmente elaborate cerimonie di iniziazione, segnano il periodo in cui un individuo è separato da uno status ma non ancora ammesso a quello successivo. Durante questo periodo gli individui vivono in gruppi, omogenei per sesso ed età, separati dal resto della società, in case, villaggi o territori appartati, nei quali vengono addestrati all'acquisizione dei ruoli adulti, ma nello stesso tempo mantenuti in una condizione di minorità. Tali gruppi sviluppano spesso forti sentimenti di solidarietà che tendono a perpetuarsi negli stadi successivi. Un caso interessante, perché prefigura la formazione di una fase giovanile specifica, è quello dei Nuba, una tribù del Sudan, nella quale i giovani vengono suddivisi in tre-quattro gruppi di età a ognuno dei quali vengono prescritti compiti e imposti addestramenti specifici: il primo gruppo (15-18 anni) aiuta nei lavori agricoli e nella costruzione dei recinti per il bestiame, deve superare prove di forza e può fidanzarsi; il secondo gruppo (18-21 anni) ha compiti lavorativi più importanti e può sposarsi ma non può costruirsi una casa; il terzo gruppo (21-23 anni) può dedicarsi alla costruzione di una casa per sé, la moglie e i figli; il quarto gruppo (23-26 anni), infine, gode di tutti i privilegi di membro adulto e può aspirare alle cariche del villaggio (v. Eisenstadt, 1956).
Nelle società antiche la formazione di gruppi di giovani si riscontra talvolta negli strati superiori: tipica in proposito è l'istituzione greca dell'efebia che originariamente (all'incirca dal 370 a.C.) era un sistema per l'addestramento civile e, soprattutto, militare dei cittadini-soldati. All'età di 18 anni i giovani liberi - gli efebi - venivano iscritti in speciali liste e ricevevano da appositi magistrati elettivi un'educazione militare, letteraria e musicale per poi essere assegnati al servizio di difesa delle frontiere e prender posto alla fine tra i cittadini a pieno titolo. Dopo la conquista macedone l'efebia perse il carattere di istituzione prevalentemente rivolta all'addestramento militare per trasformarsi in un circolo dove i giovani ricchi si dedicavano allo sport, alla coltivazione del gusto e alla discussione politica.
Anche l'antichità romana conosce istituzioni simili: i collegia iuvenum, sorti originariamente al tempo di Augusto al fine del tirocinio civile e militare dei giovani degli strati superiori e diffusi oltre che a Roma in molti centri dell'Impero, persero col tempo il carattere paramilitare per diventare circoli di discussione politica, di organizzazione di tornei sportivi, in breve, di formazione della classe dirigente politica e amministrativa dell'Impero.
Se nell'antichità possiamo parlare di una fase giovanile del ciclo di vita e di istituzioni destinate ad accogliere soltanto i giovani rampolli degli strati sociali più elevati, la condizione dei giovani nelle società medievali e fino alla soglia dell'età moderna si fa più differenziata. Non si può parlare di una vera e propria gioventù per la grande massa della popolazione contadina, fosse questa di servi o di agricoltori indipendenti. Coloro che raggiungevano l'età di 7-8 anni, ed erano pochi rispetto a quanti erano nati data l'elevata mortalità infantile, incominciavano a lavorare nei campi o andavano al servizio di qualche famiglia più benestante. Restavano quindi in una condizione di semidipendenza fino a quando non era data loro l'occasione di sposarsi e/o di ereditare la terra alla morte del padre, cosa che in genere non accadeva prima che raggiungessero i 25-30 anni (v. Gillis, 1974, p. 15). Anche per i figli dei nobili, e in genere dei ceti possidenti, lo status di giovane cessa con la trasmissione ereditaria del titolo e/o della proprietà. In molti casi, dove prevale la regola della primogenitura, i figli sottratti ai privilegi dell'eredità restano in una condizione di dipendenza, oppure si dirigono verso altri mestieri o professioni, oppure ancora entrano nel clero o in qualche ordine monastico. A parte la popolazione servile, per la grande massa di coloro che vivono della terra, siano questi nobili, grandi possidenti o piccoli agricoltori, vi è un nesso stretto tra eredità del fondo, matrimonio e acquisizione di una condizione di (relativa) indipendenza. Fino a quando questo non avviene, il giovane non acquista lo status di persona adulta.
Diversa era la situazione per quanto riguarda i ceti artigianali delle città: all'età di circa 7 anni i figli maschi venivano allontanati dalla casa dei genitori e affidati a un'altra famiglia, molto spesso in un'altra città e regione, in qualità di servi e apprendisti. Per tutta l'età premoderna e per tutti i ceti sociali, il gran numero dei figli e, soprattutto, il gran numero dei figli che morivano prima di raggiungere l'età adulta, non favoriva certo la formazione di vincoli emozionali forti tra i genitori e la loro prole (v. Ariès, 1960). Almeno fino alle soglie del XVIII secolo, l'istituzione dell'apprendistato comportava quindi che l'educazione e la 'formazione professionale' non fossero responsabilità dei genitori naturali, ma della famiglia del maestro presso la cui bottega i giovani apprendisti imparavano un mestiere. Gli apprendisti non ricevevano in genere una retribuzione in denaro, ma vitto e alloggio dalla famiglia del maestro. Vi erano leggi, ad esempio in Germania, che impedivano il matrimonio prima che l'apprendistato fosse concluso. Molto spesso, soprattutto nel tardo Medioevo, l'apprendista non rimaneva nella stessa bottega alla quale era approdato ancora bambino, ma migrava di città in città per affinare la sua arte, fino a quando, superate le prove previste dalle regole delle corporazioni, non veniva accolto nella corporazione stessa come membro a pieno titolo, talvolta proprio nella stessa città che aveva lasciato 10-15 anni prima o anche più. Soltanto allora il giovane usciva da una condizione di semidipendenza, poteva sposarsi, avere una famiglia propria e varcare così la soglia dell'età adulta.
Non vi era nulla di simile all'apprendistato, invece, per le ragazze: esse restavano in casa o andavano a servizio nel vicinato o presso parenti fino a quando non si sposavano. Quelle che non si sposavano, se non sceglievano la strada del convento, o della prostituzione, restavano per il resto della loro vita in condizione di dipendenza nella casa dei genitori o dei fratelli maggiori. Per le donne, quindi, ancor più che per i maschi, risulta difficile definire in quest'epoca i confini dell'età giovanile.
A partire dal XIV secolo, e in alcuni casi anche prima, fa la sua comparsa un'altra categoria di giovani: si tratta degli studenti che frequentano l'università, un'istituzione che incomincia a diffondersi nei maggiori centri di vita urbana dell'epoca e alla quale è affidato il compito di formare le professioni intellettuali (preti, funzionari, giuristi, medici). Le prime università sono comunità di docenti e studenti, reclutati questi ultimi dagli strati sociali più elevati (nobili, mercanti, professionisti); non vi è un'età fissa di accesso o di uscita dall'università, l'età degli studenti può variare dai 15 ai 30 anni e oltre. Le università, un po' come le corporazioni, godono del privilegio - concesso per decreto imperiale - di autogovernarsi, di stabilire cioè le proprie regole interne e di nominare le proprie autorità. I docenti e, soprattutto, gli studenti si spostano frequentemente da una sede all'altra in modo tale che le università finiscono per costituire una rete cosmopolitica tra i ceti intellettuali del continente europeo.
Sia tra gli apprendisti delle corporazioni sia tra gli studenti delle università si costituiscono veri e propri gruppi giovanili in forma di confraternite (compagnonnages in Francia, Gesellenverbände e Brüderschaften in Germania, brotherhoods in Inghilterra). L'ingresso in tali gruppi comporta generalmente elaborate cerimonie di iniziazione ed essi sono governati da una rigida gerarchia interna sulla base dell'anzianità. Tali gruppi hanno funzioni di integrazione dei novizi nell'istituzione (corporazione o università), di controllo sul loro comportamento in base al codice del gruppo e, talvolta, anche di rappresentanza degli interessi collettivi nei confronti delle autorità. In generale si può dire che queste organizzazioni giovanili svolgono una funzione di sostegno solidaristico nei confronti dei loro membri in una fase della vita in cui è loro negato l'accesso allo status pieno di adulto. Frequentemente, però, la presenza di tali gruppi genera tensioni e conflitti nella comunità. Nelle cronache si legge assai spesso di disordini provocati da questi gruppi di giovani nelle città in occasione del carnevale o di altre festività, disordini che nascono anche dalla rivalità latente tra studenti e apprendisti (v. Gillis, 1974; v. Levi e Schmitt, 1994).
La condizione giovanile è destinata a trasformarsi radicalmente con la società che emerge dalla rivoluzione industriale. Nelle campagne, già con il diffondersi dell'industria domestica (cioè la pratica di svolgere accanto al lavoro agricolo lavorazioni artigianali per conto di mercanti, pratica che viene chiamata putting out in Inghilterra e Verlag in Germania), aumentano le opportunità per i giovani di rendersi economicamente indipendenti dalla famiglia e di non dover aspettare la morte del padre o la divisione ereditaria per potersi formare una famiglia propria. Coloro poi che con la razionalizzazione dell'agricoltura vengono espulsi dalle campagne e sono costretti a migrare in massa verso le città e le nuove aree industriali sono quasi sempre giovani che trovano nelle manifatture un'occasione per emanciparsi più precocemente dai vincoli della famiglia contadina patriarcale.
Nelle città l'antica istituzione dell'apprendistato, che presupponeva un rapporto individualizzato e prolungato tra apprendista e maestro, entra quasi ovunque in crisi perché non più compatibile con organizzazioni produttive più differenziate e complesse che richiedono la presenza di una classe permanente di lavoratori salariati. Alla fine del periodo di apprendistato si riducono fortemente le chances di accesso allo status di maestro dell'arte e di produttore indipendente e l'ex apprendista si stabilizza in una condizione di lavoratore dipendente. Le stesse associazioni di apprendisti finirono spesso col trasformarsi in gruppi attivi nei movimenti di protesta sociale, sia in difesa del vecchio ordine artigianale (ad esempio, il movimento luddista contro l'introduzione delle macchine), sia nelle forme embrionali della lotta di classe.
È difficile, tuttavia, per coloro che andavano ingrossando le file del proletariato industriale, parlare di una fase giovanile del ciclo di vita. In fabbrica si entrava appena lasciata la sponda dell'infanzia (e, nelle prime fasi del processo di industrializzazione, anche prima) e i giovani operai, come risulta dal romanzo sociale dell'Ottocento, erano in realtà dei 'piccoli uomini' sottoposti alle stesse fatiche e alla stessa disciplina degli operai adulti.
Per i figli (maschi) dei ceti urbani benestanti, sia di origine nobile che borghese, la gioventù si presenta invece come una fase prolungata di preparazione e di attesa in vista dell'assunzione di posizioni adulte negli strati sociali superiori. I figli dei nobili, in misura maggiore o minore a seconda dei paesi e delle fasi storiche, si preparano prevalentemente per le carriere militari e burocratiche. I figli della borghesia professionale si orientano prevalentemente a seguire le carriere dei padri. I figli della borghesia industriale e commerciale si apprestano a ereditare la conduzione delle imprese familiari.
Nei ceti superiori si incomincia ad abbandonare la pratica di un allontanamento precoce dei figli maschi dalla famiglia; l'istruzione primaria avviene spesso entro le mura domestiche ed è affidata alla cura di istitutori che, da servitori di riguardo, quali erano un tempo nelle famiglie aristocratiche, assumono sempre più la figura di professionisti. Se non avviene in famiglia, l'istruzione è demandata agli istituti di istruzione che incominciano a diffondersi prima a livello elementare e poi, sia pure solo per una ristretta cerchia sociale, anche a livello secondario. Nell'Europa cattolica un ruolo importante è svolto dai collegi gestiti dagli ordini religiosi degli educatori (gesuiti e barnabiti, in particolare) che, nel solco della tradizione dei seminari dei nobili del XVI secolo, curano la formazione del carattere dei giovani figli della classe dirigente.
Anche le università sperimentano in questo periodo un profondo rinnovamento; ai settori tradizionali (diritto, filosofia, medicina e teologia) si affiancano, nel corso del XIX secolo, nuovi istituti e facoltà nelle discipline tecnico-scientifiche per la formazione dei quadri dirigenti delle nuove strutture produttive emerse dalla rivoluzione industriale. I giovani maschi appartenenti ai ceti superiori sperimentano quindi un lungo periodo di dipendenza in vista dell'inserimento nella vita attiva, sotto il controllo dell'autorità parentale o dell'istituzione educativa che agisce in loco parentis, mentre le figlie femmine vengono tenute in casa in attesa del matrimonio sotto l'attenta sorveglianza dei genitori.
La dura disciplina e la forte pressione per il raggiungimento degli obiettivi formativi alle quali sono sottoposti i giovani dai genitori e dagli educatori trovano una contropartita nell'aspettativa di poter accedere in seguito a posizioni sociali privilegiate in termini di ricchezza, potere e prestigio. I principî educativi di base ai quali è improntata l'azione pedagogica nei confronti dei giovani sono da un lato il 'rafforzamento della volontà' (intesa come capacità di porsi compiti ardui, di affrontarli e di vincere gli ostacoli che si frappongono alla loro realizzazione), dall'altro lato il 'differimento delle gratificazioni' (cioè, la capacità di sopportare sacrifici nel presente in vista di esiti futuri) e la 'segregazione tra i sessi' prima del matrimonio (il che comporta astinenza sessuale, oppure rapporti con prostitute o comunque con donne non appartenenti al proprio ceto sociale). L'attenzione per i giovani è tutta rivolta a fare in modo che i valori e i codici morali sottesi a questi principî vengano adeguatamente interiorizzati. Se ciò non avviene, si apre la strada della devianza, della possibile perdita di status sociale, della caduta nella 'gioventù traviata' di cui le classi popolari offrono un nutrito campionario. La gioventù incomincia a essere vista in una dimensione ambivalente, a un tempo come 'promessa' e come 'pericolo'.
Nelle istituzioni educative i giovani vengono mantenuti a lungo a stretto contatto con coetanei dello stesso sesso e ciò dà luogo alla formazione di gruppi solidaristici di carattere ludico, religioso, intellettuale o politico, ai quali è comune l'esaltazione dell'ideale romantico dell'amicizia maschile. Sulla base di questi gruppi giovanili si sviluppano assai spesso stili di vita, correnti culturali e movimenti politici che si contrappongono all'ordine morale, sociale e politico della società adulta. Dalla fine del XVIII e per tutto il XIX secolo si assiste al fiorire di un insieme molto eterogeneo di gruppi (dalle logge massoniche alle confraternite religiose, dai movimenti utopistici legati a figure come Saint-Simon, Mazzini o Fourier ai giovani bohémiens che popolano le grandi città) nei quali domina l'elemento giovanile, sia nella loro composizione, sia nell'ideologia della quale si fanno portatori: in una società in rapida trasformazione la 'gioventù', non ancora corrotta dal formalismo e dall'ipocrisia della società adulta, è vista come anticipatrice del rinnovamento morale e spirituale dell'intera società.
Verso la fine del XIX secolo, quando ormai il periodo di 'moratoria' dell'istruzione secondaria e superiore coinvolge una quota crescente - ancorché sempre assai ristretta - dei figli dei ceti medio-alti, i gruppi giovanili assumono più spesso una connotazione ideologica che si rivolge sia verso movimenti antimodernisti, nazionalistici e conservatori (come i boy scouts in Inghilterra e i Wandervogel in Germania), sia verso movimenti radicali e socialisti.In questo stesso periodo si accentua anche l'interesse dello Stato per la popolazione giovanile, non soltanto, come è ovvio, per effetto della diffusione dell'istruzione e della scuola pubblica, ma anche, e forse soprattutto, perché i giovani costituiscono la massa critica dei grandi eserciti territoriali coi quali gli Stati si affrontano sulla scena internazionale. La 'militarizzazione' della gioventù, che trova il proprio fondamento nella coscrizione obbligatoria, raggiungerà il culmine nelle grandi organizzazioni giovanili di massa dei regimi totalitari di stampo sia nazionalistico (ad esempio, la Hitlerjugend in Germania e la Gioventù Italiana del Littorio in Italia), sia comunistico.
Nelle società industriali avanzate i confini tra le varie età del ciclo di vita appaiono assai più sfumati e incerti che non nelle società che le hanno precedute. Non vi sono più veri e propri 'riti di passaggio' capaci di segnalare simbolicamente agli occhi degli individui che ne sono oggetto e della società l'ingresso nell'età adulta. Il conferimento di un diploma o il matrimonio rappresentano spesso tappe importanti, ma non segnano più in modo inequivocabile il passaggio alla fase successiva del ciclo di vita. Come abbiamo visto, ogni società e ogni epoca definiscono in modo diverso chi è adulto e chi non lo è ancora. Attualmente, ad esempio, nei paesi avanzati la maggiore età, connessa all'acquisizione dei diritti civili più importanti (il diritto di voto, la capacità di stare in giudizio e di assumersi degli obblighi contrattuali, ecc.), scatta al compimento del diciottesimo anno di età, ma non per questo chi compie 18 anni smette di essere giovane. In generale, si può dire che un giovane uomo, o una giovane donna, sono diventati adulti quando hanno varcato una serie di 'soglie': 1) hanno concluso la parte più rilevante del loro percorso formativo; 2) occupano una posizione relativamente stabile nella divisione sociale del lavoro; 3) non vivono più nella casa dei genitori; 4) si sono sposati; 5) si assumono, con la maternità e la paternità, delle responsabilità nei confronti di una nuova generazione (v. Cavalli e Galland, 1993).
Negli ultimi vent'anni, in tutte le società industriali avanzate, si sta verificando un cambiamento radicale nei modi coi quali queste cinque soglie vengono attraversate. In primo luogo, vi è una tendenza a dilazionare ognuno di questi 'passaggi': si concludono gli studi a un'età più avanzata, si entra più tardi nel mondo del lavoro, si lascia più tardi l'abitazione dei genitori, ci si sposa e si diventa padre o madre molto più tardi che non nei decenni precedenti. In secondo luogo, l'ordine col quale queste soglie vengono superate non è prescritto da rigide norme sociali. In terzo luogo, la distanza in termini di mesi e anni tra i momenti in cui viene varcata la prima e l'ultima soglia tende a diventare sempre più estesa.
Si tratta certamente di un fenomeno che ha radici strutturali nelle grandi trasformazioni demografiche (aumento della vita media), economiche (spostamento del centro di gravità delle attività produttive dal settore agricolo e industriale al settore terziario) e culturali (diffusione della scolarità di massa). Tuttavia, tale fenomeno non è distribuito in modo uniforme nella popolazione: l'estensione temporale di questa fase cresce salendo dai livelli più bassi ai livelli più alti della scala sociale.
Analizzando i dati di un'indagine campionaria condotta recentemente in Italia sui giovani tra i 15 e i 29 anni (v. Cavalli e De Lillo, 1993), si nota che coloro che non hanno ancora varcato nessuna delle soglie dell'età adulta (sono quindi ancora giovani a tutti gli effetti) sono il 70% dei giovani appartenenti allo strato sociale più alto, ma appena il 32% di coloro che provengono dallo strato sociale più basso. Analogamente, coloro che hanno varcato solo alcune, o quasi tutte, le soglie dell'età adulta, sono molto più numerosi negli strati bassi e medio-bassi che non negli strati elevati (v. fig. 1).
I giovani appartenenti agli strati inferiori frequentano in genere percorsi scolastici più brevi, non possono aspettare a lungo prima di inserirsi in un'attività lavorativa retribuita e, soprattutto le ragazze, tendono a sposarsi presto e a mettere al mondo precocemente dei figli. Per certi versi si può dire che il prolungamento della gioventù è un privilegio dei figli e delle figlie degli strati sociali medi e superiori, la cui incidenza quantitativa peraltro, nelle società moderne, è in continua crescita. Il fenomeno compare tuttavia anche ai livelli sociali inferiori, sia pure più per necessità che per scelta, là dove il basso livello di scolarità e le condizioni del mercato del lavoro producono alti tassi di disoccupazione giovanile.
Questi processi sono comuni a tutte le società industriali avanzate, e tuttavia le differenze tra paese e paese sono assai consistenti. La diffusione della scolarità, ad esempio, che ha portato una quota sempre maggiore di giovani a restare nei circuiti educativi per un numero sempre maggiore di anni, è avvenuta nei diversi paesi in periodi storici diversi: negli Stati Uniti, già nel 1960, circa il 70% della popolazione tra i 25 e i 35 anni aveva ottenuto almeno il diploma della high school (grosso modo corrispondente alla nostra scuola secondaria superiore), mentre in Gran Bretagna la percentuale era quasi del 50%, in Francia poco meno del 30% e in Italia toccava appena il 12%. Trent'anni dopo, nel 1990, negli Stati Uniti circa l'85% della popolazione aveva conseguito un diploma di scuola secondaria superiore, in Gran Bretagna la percentuale era salita al 79%, in Francia al 66% e in Italia al 43%. Come si vede, nell'arco di un trentennio, l'Italia ha realizzato un grande incremento, ma il livello raggiunto è ancora assai lontano da quello degli altri paesi.
Nonostante questi sfasamenti temporali, la diffusione dell'istruzione e l'allungamento dei percorsi formativi è un processo generalizzato; si può dire che per una quota crescente della popolazione giovanile la condizione di giovane corrisponde alla condizione di studente. Diversi fattori sono responsabili di questo processo: da un lato l'economia moderna, sotto la spinta del progresso tecnico, produce una domanda di lavoro sempre più qualificato che richiede tempi lunghi di formazione, dall'altro lato i giovani sono sollecitati a proseguire gli studi nell'aspettativa che questo garantisca loro maggiori opportunità di mobilità sociale e, infine, l'istruzione e la cultura sono diventati dei valori che non possono più essere monopolizzati, come avveniva in passato, da ristrette cerchie sociali. Il prolungamento della fase giovanile è quindi in prima istanza una conseguenza del processo di scolarizzazione di massa che ha investito le società avanzate.
La conclusione dei cicli formativi non significa però ingresso immediato in un ruolo lavorativo stabile. In primo luogo, non è chiaro quando la fase formativa possa dirsi definitivamente conclusa. Molti giovani abbandonano la scuola senza conseguire un titolo di studio, ma alcuni di essi vi ritornano in un momento successivo, altri ancora vi ritornano, dopo più o meno lunghe esperienze extrascolastiche, per ampliare e approfondire la propria preparazione. I fenomeni dell'alternanza scuola-lavoro e della formazione continua, anche se ancora diffusi in misura limitata, indicano una tendenza e mettono in evidenza come sia spesso difficile stabilire la fine della fase di formazione. In secondo luogo, è sempre meno frequente che chi finisce la scuola entri immediatamente nella vita lavorativa, sia per le difficoltà che i giovani incontrano all'ingresso nel mercato del lavoro (disoccupazione giovanile), sia per le difficoltà di trovare un lavoro adeguato alle proprie capacità e aspirazioni (col rischio quindi di sottoccupazione o di occupazione incongruente con la formazione ricevuta), sia perché molti giovani preferiscono esplorare le opportunità loro offerte e le proprie preferenze e aspirazioni prima di accettare un lavoro che potrebbe condizionare in modo permanente le loro prospettive di vita futura. Per queste ragioni, dopo l'abbandono o la fine dell'esperienza formativa, molti giovani attraversano periodi di disoccupazione (in cui cercano attivamente un lavoro), periodi di inoccupazione (in cui, scoraggiati, non cercano lavoro perché non sperano di trovarlo) e periodi di lavoro precario (occasionale, a tempo parziale, stagionale, ecc.). Per molti, l'ingresso in una posizione lavorativa relativamente stabile avviene vari anni dopo la conclusione degli studi e ciò significa un prolungamento dei rapporti di dipendenza economica, ma anche psicologica, dalla famiglia di origine.
Se la prolungata transizione scuola-lavoro segna una fase qualitativamente nuova nel ciclo di vita sul versante della 'sfera pubblica', la transizione dalla famiglia d'origine alla formazione di una nuova famiglia caratterizza la stessa fase nella 'sfera privata'. Non vi è dubbio che l'uscita dalla famiglia dei genitori segni una tappa importante nel percorso verso l'acquisizione dello status di persona adulta. Tuttavia, anche all'interno della sola Europa occidentale, i comportamenti di de-coabitazione (per utilizzare il termine tecnico ormai in uso negli studi socio-demografici) variano molto da paese a paese. Si possono identificare grosso modo due modelli principali, un modello 'mediterraneo' e uno 'nordeuropeo': nel modello mediterraneo si assiste a una prolungata permanenza dei giovani nella casa dei genitori, mentre nel modello nordeuropeo, anche se la coabitazione coi genitori tende comunque a prolungarsi rispetto a qualche decennio fa, i giovani vanno più precocemente a vivere per conto proprio (v. fig. 2).
In Italia, ad esempio, dove questo fenomeno appare più accentuato anche rispetto agli altri paesi dell'area mediterranea, all'età di 29 anni poco meno del 50% dei giovani maschi vive ancora coi genitori. La ragione per la quale si abbandona il tetto paterno è in Italia quasi sempre il matrimonio. Ad esempio, i giovani che intraprendono gli studi universitari tendono a iscriversi nella sede dove risiedono o comunque nella sede più vicina, continuando ad abitare coi genitori, anche per la carenza di strutture residenziali. Inoltre, i giovani che vivono da soli sono una minoranza molto piccola: nel 1983 erano solo 47.000, il 2% delle famiglie composte da una sola persona (v. ISTAT, 1985). Anche le coppie non sposate si collocano a un livello molto basso rispetto ad altri paesi: sempre nel 1983, se ne contavano in Italia solo 192.000, l'1,3% dell'insieme delle coppie conviventi in famiglie mononucleari, ma solo il 3% di queste erano composte da giovani in età inferiore ai 25 anni. È possibile che i dati dell'indagine ISTAT sottostimino il fenomeno per il fatto che le coppie conviventi non sposate sfuggono più facilmente alla rilevazione, ma la sua ampiezza deve essere comunque assai modesta. Una conferma diretta viene dai dati, certo più attendibili, relativi al numero dei bambini nati fuori dal matrimonio: anche se tra il 1970 e il 1990 il tasso di nascite 'illegittime' è aumentato dal 2 al 6%, resta a livelli molto più bassi dei paesi del Nordeuropa (v. fig. 3).
In Danimarca, ad esempio, ma ciò vale per tutti i Paesi Scandinavi, quasi un bambino su due nasce da coppie conviventi non sposate; in Francia e in Gran Bretagna circa un bambino su tre nasce 'illegittimo' e il fenomeno mostra la tendenza a crescere rapidamente di anno in anno. Il fatto, tuttavia, che in tutti i paesi, sia pure con diversa intensità e partendo da livelli diversi, il numero di nascite fuori dal matrimonio tenda ad aumentare permette di prevedere che nel lungo periodo il modello nordeuropeo è destinato a diffondersi anche nell'area mediterranea. Questo modello presenta una diversa sequenza di passaggi: si esce dalla famiglia dei genitori per vivere da soli oppure in comunità di coetanei, si formano in questa fase delle coppie di fatto le quali, assai spesso solo dopo la nascita del primo figlio, decidono infine di sposarsi.
Si assiste infatti in tutti i paesi a un dilazionamento del matrimonio: dopo un trend secolare alla riduzione dell'età dei coniugi al primo matrimonio, dal 1965 in poi per i Paesi Scandinavi e dal 1975-1980 in poi per gli altri paesi europei si manifesta un trend opposto a sposarsi più tardi (v. figg. 4 e 5).
Con la prolungata permanenza dei figli in famiglia mutano anche i rapporti coi genitori. Tali rapporti sono caratterizzati nella fase giovanile da un'ambivalenza di fondo: da un lato, i giovani acquisiscono una crescente indipendenza dalle figure dei genitori, dall'altro lato, restano sostanzialmente in una condizione di dipendenza, se non altro perché non producono le risorse per il loro mantenimento. In realtà, tra dipendenza e indipendenza vi è sia contrapposizione sia complementarità. Infatti, solo la sicurezza acquisita nei rapporti di dipendenza, soprattutto la sicurezza di poter contare in ogni caso sul sostegno affettivo dei genitori, consente di sviluppare la capacità di esplorazione autonoma del mondo e quindi anche di acquisire indipendenza. Questa dialettica tra dipendenza e indipendenza dipende dagli stili di esercizio dell'autorità parentale, i quali possono sia inibire che promuovere l'acquisizione di autonomia.
La natura del rapporto tra genitori e figli si coglie nel modo più evidente in relazione alla frequentazione di coetanei e, in particolare, di coetanei dell'altro sesso. Non vi è dubbio che per un giovane il 'gruppo dei pari' sia molto importante; in esso egli impara a gestire rapporti non asimmetrici dal punto di vista dell'autorità, sperimenta regole di cooperazione, impara a rispettare gli altri e a farsi rispettare, trova sostegno in persone che hanno i suoi stessi problemi e riceve segnali in risposta ai suoi comportamenti che lo aiutano a definire la propria identità.
Nel corso dell'adolescenza e della gioventù la struttura e la composizione del 'gruppo dei pari' si trasformano: nella prima fase il gruppo è quasi sempre composto da coetanei dello stesso sesso e spesso si formano rapporti di amicizia diadici; in seguito si formano frequentemente gruppi misti di ragazzi e di ragazze e, infine, si costituiscono coppie relativamente stabili mentre si attenuano, anche se raramente scompaiono del tutto, i rapporti coi gruppi amicali delle fasi precedenti.
I genitori sono spesso ambivalenti nei confronti delle compagnie frequentate dai loro figli: pur riconoscendone l'importanza, vivono con un certo disagio il fatto che una parte della vita dei figli sfugga al loro controllo. È certo comunque che i rapporti genitori-figli, quando i figli sono ormai diventati dei giovani-adulti, tendono a diventare meno asimmetrici e che i figli tendono a godere di gradi di libertà crescente pur continuando a vivere in famiglia. Mentre un tempo l'indipendenza si acquisiva lasciando la famiglia e andando a vivere per conto proprio, oggi l'indipendenza si acquista, entro certi limiti, all'interno della famiglia stessa. Tempi e modi di questo processo variano però moltissimo da famiglia a famiglia: in genere nelle famiglie di ceto medio e superiore le restrizioni si protraggono più a lungo, ma non sono molto diverse per figli maschi e figlie femmine, mentre nelle famiglie di classe operaia i figli maschi godono precocemente di maggiori libertà e le restrizioni sono spesso riservate soltanto alle figlie femmine.
Abbiamo visto come nelle società moderne una parte consistente della popolazione viva per un numero considerevole di anni in una situazione intermedia, definibile soltanto in negativo: i giovani non sono più dei bambini e degli adolescenti e non sono ancora degli adulti, hanno raggiunto (salvo casi patologici) la maturità biologica e psicologica, ma non ancora la maturità sociale. L'estensione temporale e la diffusione di questi fenomeni di ritardato ingresso nella vita adulta costituiscono la base sulla quale si sviluppano valori, orientamenti, atteggiamenti e stili di vita particolari che vengono comunemente designati col termine di 'cultura giovanile', anche se sarebbe più corretto parlare di 'subcultura' (v. Rositi, 1978; v. Lüdtke, 1989). Per capire i tratti di questa subcultura è importante cogliere come siano mutate le condizioni nell'ambito delle quali avviene il processo di formazione dell'identità personale.
Non avendo ancora assunto ruoli adulti, o avendoli assunti solo in parte, i giovani vivono in una condizione di attesa che potremmo chiamare di 'incertezza biografica'. Parlando dei meccanismi sociopsicologici che caratterizzavano i processi di formazione dei giovani nelle società che hanno preceduto quella contemporanea, abbiamo posto l'accento sul principio del differimento delle gratificazioni e sottolineato come questo principio funzionasse in vista di uno scopo determinato e desiderabile rispetto al quale risultava giustificato rinunciare alla soddisfazione immediata. Questo scopo consisteva nella possibilità di accedere a una posizione sociale elevata (mobilità sociale), ovvero di ereditare la posizione professionale e sociale del padre. Nelle società contemporanee il processo di crescita e di formazione non ha più un esito scontato e prevedibile. Per coloro che sono impegnati in un percorso di formazione, il futuro contiene un numero pressoché illimitato di esiti possibili. Più che un processo teso al raggiungimento dello status di adulto l'adolescenza diventa così una condizione, certo non permanente, ma tuttavia abbastanza persistente da dar vita a forme di cultura specifiche delle fasce d'età coinvolte che contengono anche nuovi orientamenti di valore.
Un tratto saliente di tale cultura è un'accentuata valorizzazione del 'sé'. La maggior parte dei giovani non sono più posti di fronte a un destino sociale ineluttabile, non dovranno più, come succedeva alla gran parte dei loro coetanei in epoche passate, seguire le orme dei padri e dei nonni, ma hanno di fronte a sé una pluralità di opzioni e opportunità, reali o soltanto immaginarie, tra le quali scegliere. Per poter scegliere, tuttavia, devono interrogarsi sulle loro reali aspirazioni, devono chiedersi cosa vuol dire per loro 'autorealizzarsi', quali sono le loro preferenze, le loro scale di valori. Per dirla nei termini della teoria della scelta razionale, devono rendere trasparente a se stessi la loro 'funzione di utilità'. La gioventù diventa così l'età dell'esplorazione del sé, della costruzione della propria identità individuale. L'aspirazione all'autorealizzazione diventa un valore fondamentale proprio perché gli individui possono intervenire attivamente, con le proprie scelte, a plasmare il proprio destino, il quale non dipende più quindi soltanto dalle condizioni esterne nelle quali essi si trovano a vivere. Per cogliere questo aspetto, vari autori hanno parlato di valori "postmaterialistici" (v. Inglehart, 1977), di "neoindividualismo" e di "cultura del narcisismo" (v. Lasch, 1978), di "nuovo modello culturale" (v. Zoll, 1992).
L'esplorazione di 'sé' implica la capacità di 'guardarsi nello specchio', di riconoscersi negli atteggiamenti e nei comportamenti degli altri nei propri confronti. Gli altri diventano lo specchio nel quale scorgere la propria immagine riflessa, con la quale costruire la propria identità. In questo gioco reciproco la 'comunicazione', non solo delle informazioni e delle idee ma anche dei sentimenti e delle emozioni, diventa un valore cruciale e i referenti principali diventano i coetanei (il 'gruppo dei pari') coi quali l'adolescente e il giovane passano gran parte del proprio tempo, molto spesso, semplicemente a conversare.
Un aspetto importante della cultura delle nuove generazioni riguarda il modo di rapportarsi al tempo. Il tempo, per molti giovani, tende a essere una dimensione indeterminata. Il futuro, quello delle scelte fortemente irreversibili (lavoro stabile, matrimonio, figli), è percepito come lontano, o comunque allontanabile rinviando tali scelte. L'orientamento temporale è prevalentemente concentrato sul presente. È possibile parlare in proposito della presenza in settori consistenti della popolazione giovanile di una "sindrome di de-strutturazione temporale" (v. Cavalli, 1985). Essa comporta una concezione del tempo storico nella quale non vi sono elementi di continuità tra passato, presente e futuro e in cui gli eventi (spesso ridotti alle azioni di singole personalità) si susseguono senza l'identificazione di nessi significativi; una narrazione della propria biografia priva di svolte nella dimensione del ricordo, e di progettualità nella dimensione delle aspettative; una gestione del tempo quotidiano senza ritmi prestabiliti e legata all'imprevedibilità e al caso.
Questa concezione del tempo si combina poi con le caratteristiche dell'ambiente sociale della famiglia e con i tratti della personalità dando luogo a due varianti principali: vi sono giovani per i quali l'assenza di una concezione strutturata del tempo e, soprattutto, di progettualità a medio-lungo termine è legata al desiderio di non restringere, con scelte troppo precoci, l'orizzonte dei futuri possibili, mentre ve ne sono altri per i quali è legata a una forma di carassi (debolezza della volontà) che inibisce la capacità di compiere delle scelte. I primi sono più frequenti nei ceti medio-alti, soprattutto in famiglie dotate di elevato capitale culturale; i secondi, invece, prevalgono nei ceti bassi e medio-bassi.
I tempi quotidiani relativamente rigidi (quelli dello studio e dell'eventuale lavoro) lasciano ai giovani consistenti quote di 'tempo libero' da riempire con attività amicali, ludiche, sportive, di divertimento e, per una minoranza consistente, di impegno sociale e più raramente politico.
Tra le attività del tempo libero dominano le attività espressive e, in particolare, la musica. Vari studi documentano che l'ascolto, e più raramente, la produzione di musica, in situazioni sia individuali che collettive, trovano la massima frequenza proprio in corrispondenza delle fasce giovanili della popolazione. Le varie generazioni di adolescenti e di giovani si differenziano le une dalle altre soprattutto in relazione ai gusti, ai generi musicali e agli idoli che di volta in volta raccolgono le schiere di ammiratori più numerose. È da notare in proposito che vi è una forte omologazione dei gusti musicali nella cultura giovanile a livello internazionale, la popolarità di cantanti e di gruppi musicali si estende a tutta una generazione senza tener conto dei confini nazionali. Ciò dipende, tra l'altro, dall'elevato grado di esposizione dei giovani ai mezzi di comunicazione di massa e dal grado di internazionalizzazione dell'industria stessa dei media e, in particolare, delle emittenti televisive espressamente rivolte a un pubblico giovanile.
I gusti musicali non sono però il solo segnale di differenziazione tra le generazioni; queste si segnalano anche per l'abbigliamento particolare, la foggia dei capelli, il linguaggio, verbale e non verbale, col quale i giovani comunicano tra loro. Si tratta di segni esteriori di appartenenza, la cui visibilità consente di distinguere le varie generazioni di giovani che si succedono le une alle altre con rapidità crescente. Non stupisce peraltro che i giovani siano particolarmente soggetti alle mode; si tratta infatti di una popolazione composta da individui che non hanno ancora definito una propria identità e che quindi assumono delle identità collettive provvisorie che consentono a una generazione di differenziarsi dalle generazioni anche solo di pochi anni più anziane. Gli esperti di marketing e di pubblicità identificano i giovani come un vero e proprio segmento di mercato nel settore degli articoli sportivi, dei prodotti musicali, dell'abbigliamento, dei mezzi di trasporto (soprattutto, motociclette). I giovani godono infatti di una fetta di reddito non trascurabile - derivante sia dal loro lavoro sia da trasferimenti da parte dei genitori - utilizzando la quale possono attuare decisioni autonome di acquisto. Certi fenomeni di moda, inoltre, hanno la tendenza a diffondersi per imitazione passando dalle generazioni più giovani a quelle più anziane; le 'mode giovanili' vengono spesso adottate anche da persone che giovani non sono più, ma che in tal modo ambiscono a 'sembrare giovani'. Quando una moda giovanile si diffonde a generazioni più anziane viene presto abbandonata dai giovani che sono quindi disposti ad adottare un nuovo stile (un nuovo 'look') e così il ciclo della moda si riproduce.
In alcune fasi storiche la subcultura giovanile si configura come una controcultura che si contrappone ai valori e ai modi di vita dominanti nella società adulta e diventa la base sulla quale si sviluppano dei movimenti e dei comportamenti collettivi. Così, ad esempio, intorno alla fine degli anni sessanta in America e in Europa sono sorti movimenti giovanili con un proprio profilo ideologico-politico di stampo rivoluzionario o pseudorivoluzionario, che hanno trovato nei grandi campus delle università americane e nei maggiori centri universitari delle città europee un teatro assai visibile di espressione. La nascita di questi movimenti collettivi può essere ricondotta a una costellazione di fattori: i primi accenni di distensione internazionale dopo gli anni di rigida contrapposizione della 'guerra fredda', la guerra in Vietnam e l'opposizione alla coscrizione obbligatoria, la crisi delle istituzioni di istruzione superiore sotto la spinta di nuove masse di studenti, la difficoltà di raccordare le esigenze di una popolazione giovanile istruita con le rigidità del mercato del lavoro e della stratificazione sociale.
Dalla metà degli anni settanta in poi, salvo sporadici episodi di breve durata, non si assiste più nel mondo occidentale al formarsi di movimenti collettivi che trovano nella condizione giovanile il terreno specifico di aggregazione. Compaiono, invece, fenomeni collettivi del tutto diversi e di segno contrastante: da un lato manifestazioni musicali, in particolare concerti di musica rock, che aggregano pacificamente decine di migliaia di giovani, dall'altro lato episodi, legati per lo più al tifo sportivo, che vedono gruppi di giovani impegnati in contrapposizioni anche violente e in azioni vandaliche. La frequenza di tali episodi è andata crescendo per tutti gli anni ottanta in tutti i paesi europei e, anche se coinvolge solo minoranze di giovani, segnala l'esistenza di un potenziale aggressivo che trova modo di esprimersi solo in comportamenti distruttivi (v. Roversi, 1990).
In generale, tuttavia, la cultura giovanile non è per definizione conflittuale rispetto alla cultura adulta; più spesso esprime non tanto il conflitto quanto lo 'scarto' generazionale che si produce inevitabilmente in società soggette a rapidi processi di mutamento. La sua funzione consiste infatti nel creare identità e appartenenza transitorie per coloro che si stanno staccando dalla sfera protetta della famiglia d'origine per affrontare il lungo cammino verso l'età adulta.
Abbiamo visto come, con il prolungamento della fase giovanile del ciclo di vita, per una quota crescente di giovani il percorso di formazione dell'identità adulta si protragga fino alla soglia dei 30 anni e anche oltre e come quindi sia diventata, per così dire, fisiologica, una condizione di 'incertezza biografica'. Non tutti i giovani però sono in grado di affrontare senza correre rischi questo periodo di "adolescenza protratta" (v. Keniston, 1968) o di "moratoria psicosociale" (v. Erikson, 1968). Non sono pochi i giovani che incontrano seri ostacoli, che 'si fissano' in una fase intermedia o che passano alla fase successiva portandosi dietro il peso dei problemi irrisolti della fase precedente. Si manifestano così fenomeni di 'disagio', più o meno intenso e più o meno esplicito, che definiscono l'area dei cosiddetti 'giovani a rischio', dove il rischio consiste nella probabilità di incamminarsi verso percorsi di devianza che possono manifestarsi in modi molto diversi per forma e gravità.I fattori di rischio sono individuabili in una situazione familiare disturbata (famiglie incomplete, genitori separati o assenti, violenza sui minori e tra i coniugi, ecc.), nell'accumulazione di insuccessi scolastici e nel conseguente abbandono precoce dei percorsi formativi, nella frequentazione di ambienti prossimi o addirittura dediti ad attività illegali, nelle difficoltà di collocazione stabile nel mondo del lavoro e, in generale, in situazioni di forte disadattamento. Prende forma in proposito il fenomeno della cosiddetta 'associazione differenziale', la tendenza cioè di giovani che hanno caratteristiche simili e sono passati attraverso esperienze analoghe a costituire gruppi di pari, la cui dinamica interna rafforza la propensione a comportamenti devianti. Tali fattori esercitano quasi sempre un effetto cumulativo, nel senso che ogni esperienza negativa aumenta la probabilità che siano negative anche le successive, dando luogo quindi a vere e proprie 'carriere' devianti. Queste si manifestano in forme assai diverse che vanno dalla malattia mentale, all'uso di sostanze psicotrope e alla tossicodipendenza, alla piccola o grande criminalità.Il fenomeno della tossicodipendenza, ad esempio, che ha mostrato un andamento crescente a partire dalla fine degli anni settanta in tutti i paesi avanzati dell'Occidente, riguarda soprattutto i giovani; in Italia si calcola che circa l'80% dei tossicodipendenti si colloca nella fascia d'età tra i 19 e i 30 anni.
Nonostante i fenomeni della devianza giovanile siano in crescita ovunque e suscitino un giustificato allarme, non bisogna dimenticare che riguardano pur sempre una minoranza, anche se consistente, della popolazione giovanile: recenti indagini, che hanno cercato di costruire un indice sintetico di propensione alla trasgressione delle norme, indicano nell'8% la quota di giovani che presentano tendenze alla devianza (v. Cavalli e De Lillo, 1993). (V. anche Adolescenza; Disoccupazione; Droga; Famiglia; Generazioni; Infanzia; Subculture).
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