Giovanni XIV
Pietro III, che fu vescovo di Pavia dal 971/972 al 983, divenne papa nell'autunno del 983 con il nome di Giovanni XIV. La sua carriera politica ed ecclesiastica, precedente alla consacrazione papale, fu favorita soprattutto dagli imperatori Ottone I ed Ottone II e dall'imperatrice Teofane, ma già la sua elezione a vescovo di Pavia era stata ottenuta grazie all'appoggio di Ottone I, che si trattenne in Italia dal 966 al 972. Nulla sappiamo di certo sulle sue origini. Secondo una notizia contenuta nel Liber pontificalis (p. 259), la sua città natale dovrebbe essere stata Pavia. Alcuni storici (C. Manaresi, E. Hoff) ritengono che appartenesse alla illustre famiglia degli Obertenghi: indipendentemente da ogni concreta attribuzione, è comunque lecito supporre che Pietro discendesse da una nobile famiglia.
Che in lui sia da identificare il cancelliere di Ottone I che portava il suo stesso nome e fu in carica tra il 971 e il 973, è questione ancora aperta tra gli storici; quel che è certo è che il vescovo di Pavia fu, dopo la morte di Ottone I, in stretto contatto con il figlio e successore di questi, l'imperatore Ottone II. Egli è infatti l'unico vescovo italiano la cui presenza sia più volte documentata alla corte di Ottone II, quando questi risiedeva al di là delle Alpi, negli anni tra il 973 e il 980. Pietro di Pavia ottenne così, dietro sua richiesta, nel novembre 976 a Nimega la conferma di tutti i possessi della sua chiesa vescovile e la concessione dell'immunità. Probabilmente egli risalì il Reno in compagnia di Ottone II e festeggiò il Natale 976 a Colonia insieme alla corte. Non sappiamo quanto a lungo Pietro si sia in seguito trattenuto a nord delle Alpi, ma è attestato che nel giugno 980 il vescovo di Pavia si trovava presso la corte imperiale. Egli compare infatti in un diploma di Ottone II, datato da Aquisgrana, per i figli del conte Rimbaldo di Treviso, in favore dei quali Pietro era intervenuto presso il sovrano. Dopo la morte di Uberto, vescovo di Parma, che dal 966 era stato arcicancelliere per l'Italia, Pietro fu chiamato a ricoprire questa carica.
Poco sappiamo dell'attività di Pietro nella sua diocesi. Il vescovo sembra aver tentato, in un primo tempo, di porre sotto il proprio controllo il monastero di S. Salvatore di Pavia, fondato dall'imperatrice Adelaide. Il monastero, tuttavia, era stato posto sotto la protezione della Sede apostolica da Giovanni XIII nel 972, per venire incontro al desiderio dell'imperatrice. Con una sua lettera, il papa informò Pietro di questa situazione e gli vietò di attentare ancora ai diritti di S. Salvatore. Più tardi Gerberto di Aurillac, nella sua qualità di abate di Bobbio, ebbe a sua volta a lamentarsi, in una lettera indirizzata a Pietro di Pavia, perché questi aveva collaborato all'alienazione di beni del suo monastero. Alla discesa, nel dicembre 980, di Ottone II in Italia, dove l'imperatore si trattenne fino alla sua morte, avvenuta il 7 dicembre 983, il vescovo di Pavia ed arcicancelliere per l'Italia divenne presto uno dei suoi principali consiglieri. Come prima di lui Uberto di Parma, anche Pietro svolse funzioni che potremmo definire di "vescovo di corte": accompagnò spesso il sovrano durante i suoi viaggi in tutta Italia e divenne così il più importante tramite fra l'imperatore e i vescovi ed abati della penisola. Ciò appare evidente, ad esempio, nei suoi interventi, registrati nei diplomi imperiali, in favore delle chiese vescovili di Cremona, Lucca e Lodi e dei monasteri di S. Clemente a Casauria e S. Vincenzo al Volturno. In un caso egli intervenne anche in favore di un mercante di Como.
Tra l'agosto 981 e l'aprile 983, Pietro svolse un'intensa attività quale "missus domini imperatoris" presiedendo una serie di placiti, soprattutto in diverse località dell'Italia centrale. Al seguito del vescovo compaiono, in quelle occasioni, i giudici di Pavia e di altre città italiane; alle assemblee giudiziarie parteciparono inoltre parecchi conti e vescovi. Tra costoro vi era anche il vescovo Gerberto di Tortona (979-983), che agiva anch'egli in qualità di "missus" imperiale, e che era stato in precedenza cancelliere di Ottone II (978-979). In qualche caso - come a Salerno nel dicembre 981 - Pietro prese parte ad un placito presieduto personalmente dall'imperatore. Ottone II affidò al suo "missus" e arcicancelliere anche il delicato compito di appoggiare il monastero di Farfa nei suoi tentativi di recuperare possessi che gli erano stati sottratti.
Nella primavera-estate del 982 Pietro partecipò alla spedizione di Ottone II nell'Italia meridionale e alla grande battaglia contro i Saraceni. Dopo aver superato il confine dei territori bizantini nell'Italia meridionale, Ottone II compare nei protocolli di parecchi diplomi con il titolo di "imperator Romanorum"; l'uso di questa intitolazione deve essere collegato soprattutto con un problema di concorrenza con l'imperatore di Costantinopoli. L'impiego della formula "imperator Romanorum" per indicare Ottone II deve essere probabilmente attribuito all'iniziativa del suo arcicancelliere, che figura quale interveniente nel primo dei diplomi in cui compare questa intitolazione. Infatti proprio quando, nel 976, l'appellativo di "imperator Romanorum" era stato impiegato una prima volta in due diplomi di Ottone II, emanati però al di là delle Alpi, Pietro di Pavia si trovava alla corte imperiale. Egli deve essere perciò considerato o l'ispiratore dell'intitolazione "romana" di Ottone II, o almeno colui che ne era stato il tramite. Dopo la sconfitta nello scontro con i Saraceni del luglio 982, Pietro tornò a Roma con Ottone II e l'imperatrice Teofane. Di qui egli intraprese ancora alcuni viaggi in qualità di "missus" e presiedette placiti in diverse località. Nell'aprile 983 partecipò, insieme a Gerberto di Tortona, entrambi in qualità di "missi" imperiali, ad un placito presieduto da papa Benedetto VII. Nel maggio-giugno successivi, Pietro era fra i partecipanti ad un'assemblea di grandi, laici ed ecclesiastici, di provenienza italiana e transalpina, nel corso della quale fu rinnovato il trattato con i Veneziani, e in cui - forse non casualmente - figura per la prima volta anche Pavia.
Non sappiamo esattamente quando Pietro sia stato eletto papa dopo la morte di Benedetto VII. Secondo la Vita dell'abate Maiolo di Cluny, l'imperatore avrebbe offerto in un primo tempo la dignità papale al cluniacense, ma questi avrebbe rifiutato. Pietro accompagnò l'imperatore nei suoi spostamenti durante tutta l'estate e ancora in autunno, nel corso di una nuova spedizione in Puglia; di qui essi tornarono a Roma passando per Capua. In un diploma del 24 agosto 983 Pietro compare ancora come vescovo di Pavia. Altri punti di riferimento cronologici si possono dedurre da una nuova proposta di datazione dei diplomi di Ottone II del 983 (D. Alvermann). Secondo i risultati di tale ricerca, Pietro comparirebbe come arcicancelliere negli escatocolli dei diplomi imperiali fino al novembre 983.
Probabilmente Pietro fu elevato al soglio pontificio solo nel novembre-dicembre 983, dopo il ritorno a Roma dell'imperatore. La durata del pontificato, indicata dalla maggior parte delle fonti in otto mesi, va letta come un valore arrotondato, dedotto dalla data di morte di Giovanni XIV. Le prime notizie cronologicamente abbastanza sicure sul pontificato di G. si riferiscono al dicembre 983. All'inizio di questo mese il papa consacrò, per intercessione dell'imperatore, il diacono Alone come arcivescovo di Benevento. Con un privilegio del 6 dicembre 983, G. concesse al nuovo arcivescovo il pallio e il diritto di consacrare i vescovi di quattordici sedi vescovili. Il giorno successivo Ottone II morì; erano presenti il papa, l'imperatrice Teofane e altri ecclesiastici. G. si preoccupò di organizzare le esequie imperiali e fece in modo che il corpo di Ottone II venisse deposto in un antico sarcofago all'entrata orientale del vestibolo di S. Pietro, detta "il Paradiso". Con la morte di Ottone II G. perse il suo principale appoggio. Poiché a Roma contava su ben pochi fautori, la sua situazione si fece presto difficile. Non sono praticamente pervenuti documenti databili ai mesi successivi che testimonino di una sua attività come papa. A parte il già citato privilegio per Benevento, solo pochi altri documenti, privi di datazione, potrebbero essere collegati al pontificato di G.: una conferma dei possessi per il monastero di Echternach ai tempi dell'abate Ravangero e un mandato per il duca anglosassone Aelfric. Nell'aprile 984 tornò dall'esilio a Costantinopoli Bonifacio VII (v. Bonifacio VII, antipapa), che era stato privato per ben due volte della sua carica dall'imperatore Ottone II. L'imperatore bizantino, dopo la morte del suo concorrente occidentale, aveva assicurato il suo appoggio a Bonifacio, per ridurre o addirittura annullare l'influenza dei fautori di Ottone II a Roma e nell'Italia meridionale: erano soprattutto i Principati longobardi di Benevento, Capua e Salerno a costituire i punti di forza della politica imperiale di Ottone II, e la cosa, in un'ottica bizantina, appariva molto pericolosa. Bonifacio VII ritrovò abbastanza rapidamente consenso e appoggio, agevolato dalla difficile situazione in cui si trovava G., che aveva ottenuto il pontificato solo con l'aiuto dell'autorità imperiale: G. fu così arrestato e deposto (anche se non si hanno tracce di un formale procedimento di deposizione) e rinchiuso in Castel S. Angelo. Qui G. morì, di fame o di veleno, dopo una prigionia di quattro mesi il 20 agosto 984. È dubbio che G. sia stato sepolto in S. Pietro già durante il pontificato di Bonifacio VII. Secondo la testimonianza della maggioranza delle fonti, G. fu sepolto presso la tomba di Giovanni VIII, che si trovava presso la "portam iudicii". L'Anonimo Ticinese colloca al contrario la tomba di G. nella cappella dell'arcangelo Raffaele.
L'epitaffio (Die Ottonenzeit), visto da Mallio che l'attribuì a Giovanni X, non dice nulla della sua fine tragica. Vi si ricorda invece il nome con il quale fu vescovo di Pavia (v. 2: "qui Petrus antea extiterat"), il suo legame con l'imperatore Ottone II (v. 4: "imperatori Octoni dulcis fuit atque praeclarus") e le doti di eloquenza (v. 6: "dulcis in eloquio […]"), mitezza e carità (v. 7: "subiectus placidus, pauperibus pius") con le quali seppe governare il popolo romano (v. 5: "commissum populum Romanum in omnibus instruens").
fonti e bibliografia
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