POMPEO Magno, Gneo (Cn. Pompeius Cn. filius Sex. nepos Magnus)
Uomo politico romano (106-48 a. C.). A 17 anni, nell'89 a. C., cominciò la sua carriera militare al seguito del padre Cn. Pompeo Strabone (v.) allora console e comandante d'esercito nella guerra sociale: si trovò quindi accanto al coetaneo Cicerone e partecipò alla conquista di Ascolo, la cittadella nemica. Nell'87 era di nuovo col padre, quando questi per ordine del Senato tentò di tagliare la strada ai seguaci di Mario, Cornelio Cinna e Sertorio, che stavano per penetrare in Roma: fu anzi egli a scoprire, dopo uno scontro rimasto indeciso presso la Porta Collina, che Cinna aveva corrotto dei soldati di suo padre perché lo uccidessero. Con sprezzo del pericolo salvò suo padre e sé stesso; ma rimase orfano poco dopo, erede sì di un immenso patrimonio, in specie di latifondi nel Piceno, e della correlativa clientela, però minacciato dalla vendetta dei Mariani trionfanti e, comunque, con avvenire incerto. Alle persecuzioni, che del resto non si accentuarono troppo contro un giovane pari suo, seppe sottrarsi: fu prosciolto infatti da un'accusa di appropriazione indebita nel bottino di Ascolo. A restaurare le incerte fortune sue e della sua casa pensò con una trovata in grande stile, appena si annunciò che Silla faceva ritorno in Italia (un suo precedente tentativo di avvicinarsi a Cinna non è di sicura autenticità): arruolò tra i suoi contadini e i suoi clienti del Piceno, nonché in genere tra i veterani di suo padre, tre legioni, che mise a disposizione di Silla nella campagna per la riconquista dell'Italia (83 a. C.).
Audace soldato si era mostrato fin da giovanissimo: ora si dimostrava un abile generale e, soprattutto, un rivoluzionario - tra politico e avventuriero - di finissimo fiuto. Se fosse sinceramente sillano è difficile dire, sia perché anche suo padre lo era diventato solo tardi e quasi contro voglia, sia in particolare perché la sincerità non è precisamente la qualità che può contraddistinguere lotte in cui la fazione e l'ambizione personale hanno molto più presa dei programmi. Certo più tardi P. dimostrerà di non sentirsi legato alle riforme costituzionali di Silla; e anche allora non sembra si preoccupasse molto che della sua situazione. La quale era naturalmente fortissima, appunto in grazia per un lato dell'indipendenza che egli aveva nei rispetti di Silla e per un altro lato dell'importanza grande, ma non di grandezza pericolosa, del suo aiuto.
Bandito dal senato, ancora in mano dei Mariani, s'incontrò con Silla, dopo avere già riportato una vittoria: e, salutandolo come imperatore, fu ricambiato di uguale appellativo. L'anno dopo (82) contribuì validamente alla vittoria col far cadere la roccaforte mariana di Preneste. Silla gli diede in moglie la figliastra Emilia (che sua moglie Cecilia Metella aveva avuto da M. Emilio Scauro); Pompeo per poterla sposare divorziò dalla sua prima moglie Antistia. Gli fu quindi affidata, come a legato di Silla diventato dittatore, la spedizione contro i Mariani di Sicilia e d'Africa, che stavano per affamare l'Italia tagliandole gli approvvigionamenti di grano. Entrambe le campagne (82-80) ebbero successo completo.
In Sicilia P. eliminò il console mariano Cn. Carbone; in Africa batté presso Utica le truppe di Cn. Domizio Enobarbo e del suo alleato Iarba re di Numidia. In Africa era andato con 6 legioni e con una grande flotta. Si capisce quindi che Silla e il senato si preoccupassero e facessero il tentativo d'intimare a P. di lasciare in Africa quelle legioni al suo successore, eccetto una. Anche il trionfo gli veniva negato, avendo egli combattuto sotto gli auspici di Silla. P. rispose con un'allusione a Silla quale sole declinante, che era un implicito richiamo alla forza che egli aveva nelle mani e può dare un indizio per comprendere il suo atteggiamento di fronte al dittatore: ottenne quindi il trionfo, sebbene illegale, il ritorno con una buona parte dell'esercito e il riconoscimento ufficiale del titolo di "Grande" (Magnus), datogli dai soldati sul campo. Il titolo, che in certo modo si contrapponeva a quello sillano di "Felice" diventato ereditario passò ai discendenti: lo tolse loro Caligola, ma lo restituì Claudio.
Nel 79 P. trionfava, l'anno in cui Silla abdicava dalla dittatura. Questa abdicazione e la morte avvenuta l'anno dopo (78) crearono tutta una situazione nuova, tale senz'altro da sopprimere i possibili sviluppi dei rapporti con Silla, al quale P. non era più vincolato nemmeno da parentela, perché Emilia era morta nell'81, ed egli aveva sposato poco dopo Mucia, figlia del consolare L. Mucio Scevola. Anche se P. lo avesse voluto, nessun intervento armato era possibile nel 79, nell'atmosfera di restaurazione costituzionale creata dall'abdicazione di Silla; nel 78 il console M. Emilio Lepido, alla cui elezione P. aveva contribuito, si faceva iniziatore di un'azione autonoma per portare a fondo la restaurazione, cioè per abolire interamente gli ordinamenti sillani, e, fallite le vie legali, si dava l'anno dopo (77) ai mezzi rivoluzionari. P. non poteva che stare dalla parte della repressione: era l'unica che gli garantisse una posizione preminente. Diresse infatti insieme con Q. Catulo, già console nel 78, le operazioni militari contro i ribelli, che avevano il loro centro in Etruria. Se non partecipò, come sembra, alla battaglia alle porte di Roma, in cui la marcia di Lepido verso la capitale fu troncata, costrinse alla resa la piazzaforte di Modena. Lepido fu costretto a fuggire in Sardegna, dove morì. Il suo legato M. Perperna raggiunse con i resti delle truppe Sertorio in Spagna. Il movimento mariano riorganizzato da Sertorio in Spagna con l'aiuto degl'indigeni, il suo accordo palese con Mitridate re del Ponto e con i pirati del Mediterraneo, costituivano appunto allora una minaccia più lontana, ma più grave, per il governo di Roma. Contro Sertorio stava combattendo senza successo dal 79 il proconsole Q. Metello Pio. P. si presentava, per le sue doti militari, come l'unico possibile generale da mandare di rinforzo a Metello. Per la seconda volta quindi P., che non aveva ancora rivestito nessuna magistratura e perciò continuava ad essere un semplice cavaliere, otteneva un comando straordinario: in questo caso gli era riconosciuto un imperio proconsolare pari a quello di Metello.
Nel 77 P. partì dall'Italia, svernò forse nell'inverno 77-76 nella Gallia Narbonese. Nel 76 era, comunque, attivo in Spagna con 30.000 uomini e nello stesso anno riusciva a operare il congiungimento con Metello. Del resto la guerra proseguì per quell'anno e l'anno seguente con scarsi risultati. Nemmeno P. era all'altezza di Sertorio, né le sue truppe sapevano adattarsi, se non lentamente, alla guerriglia imposta dall'avversario. Solo nel 74, col rinforzo di due legioni fresche venute dall'Italia, il logoramento delle forze dei sertoriani cominciò a essere sensibile, accrescendosi l'anno dopo. Donde i malcontenti nel campo sertoriano, che portarono all'assassinio di Sertorio nel 72. Perperna, che, capo della congiura, assunse la successione, si rivelò subito una mente direttiva di gran lunga inferiore, tanto che poco dopo si lasciò prendere in imboscata da Pompeo. Con ciò la guerra era praticamente finita. A P. e al suo collega restò solo un compito di riordinamento. È notevole che, per evitare l'allargarsi dei sospetti, P. abbia distrutto le carte di Sertorio, un esempio che sarà imitato da Cesare, proprio quando sconfiggerà Pompeo.
Nel 71 P. tornava in Roma a tempo per partecipare all'ultima fase della guerra contro gli schiavi di Spartaco e condividere l'onore della vittoria con Licinio Crasso. Dall'accordo con Crasso gli derivava la possibilità d'imporre il riconoscimentò della sua candidatura al consolato per il 70, sebbene, per uno che non era nemmeno stato questore, fosse illegale e violasse particolarmente la legislazione sillana. Ma le truppe, che Pompeo questa volta non esitava a condurre sino alle porte di Roma in segno di ammonimento, facevano il loro effetto sul senato. Pompeo e Crasso erano eletti consoli; e M. Varrone scriveva un manualetto (εἰσαγωγικός) per istruire il novellino nei suoi compiti di supremo magistrato. Ancora prima della fine del 71 P. celebrava un nuovo solenne trionfo sulla Spagna.
Ormai, con la stessa sua elezione, egli aveva dimostrato di non avere più nessun rispetto per la costituzione di Silla e di cercare il suo sostegno nell'esercito e nelle masse popolari. Fu perciò solo una conseguenza che egli e Crasso si decidessero a dare il più forte colpo alla costituzione sillana, sia con l'abolire con la legge Pompeia Licinia de tribunicia potestate i limiti posti all'intercessione dei tribuni (l'altro vincolo di Silla, il divieto ai tribuni di adire ad altre cariche, era già stato abolito nel 75), sia col togliere ai senatori l'esclusività nella composizione delle giurie dei tribunali, che ora invece vennero costituite per un terzo di senatori, per un terzo di cavalieri e per un terzo di tribuni erarî (lex Aurelia iudiciaria dal proponente, il pretore L. Aurelio Cotta).
Deposto il consolato, P. rinunciava all'abituale proconsolato per rimanere a Roma a sorvegliare la situazione politica. Un nuovo campo di azione gli si prospettava. Il disturbo che l'organizzazione dei pirati con centro in Cilicia e con diramazioni in tutto il Mediterraneo dava non solo alle comunicazioni per mare e al commercio, ma anche alla vita dei paesi costieri, era andato crescendo. Nell'Italia stessa Gaeta, Miseno e perfino Ostia avevano dovuto subire delle incursioni. Roma se ne preoccupava da più di un trentennio, fino dalla campagna di M. Antonio nel 102. Si spiega quindi che P. potesse pensare d'erigere la sua potenza personale sull'autorità e sulle forze che gli venissero dall'incarico di combattere i pirati. Nel gennaio 67 un suo partigiano, il tribuno Gabinio, faceva la proposta di dare a questo scopo a un consolare per tre anni il comando con potestà proconsolare (imperium aequum cum proconsulibus) sul Mare Mediterraneo e sulle relative coste fino a 400 stadî entro il retroterra, mettendogli a disposizione 15 legati senatorî, 200 navi, tante truppe quante riteneva necessarie, 6000 talenti attici e forse anche dandogli la facoltà di attingere ulteriormente dalle casse dello stato e dei questori e appaltatori nelle provincie. Contro un tale smisurato potere di nuovo genere il senato naturalmente protestò, ma la proposta portata davanti ai comizî fu approvata, e il consolare da scegliersi, come tutti attendevano, fu P. Il quale con nuovo colpo di testa fece modificare la legge in modo da allargare ancora il suo potere e ottenere 500 navi, 20 legioni, 5000 cavalieri e, se già non era sancita prima, la facoltà incondizionata di disporre delle casse statali.
Il risultato fu pari all'attesa: diviso in 13 zone il mare, con una polizia sistematica, la pirateria era in tre mesi, se non distrutta (di fatti risorse poco dopo), ridotta all'impotenza. P. comprese pure che essa aveva origine in un vasto malcontento economico e cercò con una serie d'insediamenti (tra cui uno a Soli in Cilicia, che prese il nome di Pompeiopoli) di collocare gruppi di pirati, che gli si erano arresi. La rapidità con cui egli aveva agito suscitò dovunque ammirazione. Che nel porto internazionale di Delo si costituisse una speciale associazione (i cosiddetti Pompeiasti) per onorarlo è solo una delle distinzioni che gli toccarono.
La conseguenza era che P. poteva ora aspirare a sostituire Lucullo nel comando della guerra contro Mitridate Eupatore re del Ponto. Non ne mancava ragione, in quanto Lucullo, stratega abilissimo, ma cattivo organizzatore e pessimo conoscitore di uomini, aveva sollevato il malcontento dei suoi soldati e per di più, dopo avere conquistato l'Armenia, si era lasciato giocare da Mitridate e costringere alla ritirata, fra il disordine del suo esercito. Del resto Lucullo era un sillano, e i tempi non potevano correre favorevoli per lui. Le resistenze che incontrò la proposta del tribuno C. Manilio di trasferire il comando a P. furono quindi dovute principalmente ai sospetti del senato contro P. Ma anche questa volta P. ottenne quel che volle: non gli fu di scarso aiuto Cicerone, che tenne la sua prima orazione politica (De lege Manilia o De imperio Cn. Pompei) appunto per sostenere la proposta di Manilio (66). Sostituitosi a Lucullo con un certo tatto, che gli evitò un conflitto, P. confermò le sue doti di buon generale e soprattutto di eccellente diplomatico.
Si alleò con Fraate di Partia contro l'Armenia, che sosteneva Mitridate, e, d'accordo con la Partia, sostenne il figlio omonimo di Tigrane d'Armenia ribellatosi al padre. Costrinse in tal modo Tigrane, per evitare il peggio, a rompere la sua solidarietà con Mitridate, come si vide quando quest'ultimo, rimasto solo e battuto da P. sul fiume Lico, non poté trovare rifugio in Armenia e dovette perciò ritirarsi fin nella Colchide, perdendo un'altra volta il suo regno pontico. P. poteva dunque riconoscere senza esitazione Tigrane come re di Armenia vassallo di Roma e lo accoglieva teatralmente per l'investitura nel campo romano. I Parti erano stati abilmente giocati ed ora potevano essere abbandonati. Era stato certo un giuoco, che avrà conseguenze secolari per Roma, in quanto poneva inizio alla rivalità tra i due stati per l'Armenia; ma in qualunque modo tale rivalità non era evitabile. Nello stesso 66 P. completava la cintura di stati che isolassero Mitridate col restituire la Cappadocia al suo re Ariobarzane. Organizzava poi il Ponto a provincia romana e fondava, in ricordo della sua vittoria al fiume Lico, Nicopoli in Armenia minore.
Mitridate intanto, dopo avere trascorso l'inverno 66-65 nella Colchide si ritirava nel 65 nel regno bosporano (Crimea e zone vicine) rimastogli, mentre P., che si era deciso infine al suo inseguimento, era ritardato da lotte nelle Colchide, poi tra gl'Iberi e gli Albani confinanti. Tanto ritardato, che preferiva tornare indietro e assestare le condizioni della Siria, che, dopo essere caduta per alcuni anni in mano di Tigrane, ora, sotto il restauratore Seleucide Antioco XIII Asiatico, si rivelava matura per l'annessione. Senza colpo ferire P. poteva annullare il regno seleucidico, compiendo dopo più di un secolo l'opera degli Scipioni e dando a Roma una delle sue provincie più fiorenti. La riorganizzazione dell'Asia era estesa anche agli stati più o meno dipendenti dalla Siria. Erano eccettuati dall'assorbimento nello stato romano e più o meno ritoccati i regni di Commagene, di Calcide e di Osroene. Alcune città, come Seleucia di Pieria, ottenevano la libertà. Maggiori complicazioni provocava la sistemazione della Giudea, dove il conflitto tra Sadducei e Farisei s'intrecciava al conflitto dinastico tra i due fratelli asmonei Ircano II e Aristobulo. Nella primavera del 63 P. riceveva a Damasco i due contendenti, di cui Aristobulo deteneva di fatto il potere. Decideva in favore d'Ircano e perciò doveva impegnarsi militarmente a sostenerlo. La Palestina poteva essere facilmente occupata, ma quando P. prendeva prigioniero Aristobulo, che era andato nuovamente a trattare nel suo campo, già posto nelle vicinanze di Gerusalemme, gli Ebrei della città insorsero e si fortificarono nel Tempio. Occorse un assedio di tre mesi perché fossero costretti alla capitolazione. P. penetrò, col più grave scandalo dei fedeli, nel sancta sanctorum del Tempio, meravigliandosi di non trovarvi immagine di divinità: non sembra che saccheggiasse i tesori del tempio. Ircano era posto sul trono, ma senza titolo di re, con quello solo di etnarca; e le città costiere non giudaiche (tra cui Gaza) incluse nel suo stato o erano proclamate autonome o erano fatte entrare nella provincia di Siria (63 a. C.).
P. aveva avuto agio di operare tranquillamente in Palestina, perché, quando era a Gerico, in marcia verso Gerusalemme, gli era giunta la notizia del suicidio di Mitridate, dopo che i suoi piani di attaccare l'Italia dal nord (se sono autentici) erano miseramente falliti e il figlio Farnace gli si era ribellato. Il regno del Bosforo era lasciato a costui; ma Fanagoria, la città principale, proclamata libera. Altri ordinamenti minori erano predisposti, tra cui l'arrotondamento dello stato di Galazia nelle mani di Deiotaro. Una Pompeiopoli era fondata in Paflagonia e una Magnopoli nel Ponto.
P. si accinse al ritorno con la coscienza di avere compiuto una impresa degna di Alessandro Magno, la cui figura echeggiava nel soprannome e imitava nella fondazione di città. Intorno gli stavano uomini greci di cultura, come Teofane di Mitilene (il quale scriverà una storia della sua impresa) che parlavano nel medesimo senso. P. era attratto da questa cultura greca: a Rodi, sulla via del ritorno, farà una visita, teatrale come era suo costume, in casa del filosofo Posidonio malato. Di fatto aveva contribuito all'estensione del potere di Roma come pochi. L'introduzione della Siria nell'impero, salvandola dal cadere definitivamente nelle mani dell'Armenia o della Partia, la conserverà ancora per secoli alla civiltà ellenistica e avrà conseguenze durature per la storia umana, anche quando la Siria sarà arabizzata. Ma P. vedeva in Alessandro il conquistatore, non il monarca. Per lui c'era un problema più immediato: lo sfruttamento del suo successo e dei poteri straordinari fino allora avuti per l'instaurazione definitiva della sua autorità. Aveva dimostrato in più occasioni di sapere minacciare con le armi in mano il senato. Non aveva però mai cercato di fondare un potere militare all'infuori dell'autorità che gli venisse legalmente conferita dal senato e dai comizî. Qui sta la sua duplice differenza da Silla. Per un aspetto non amava la dedizione alla causa del potere senatorio integrale, che spinse Silla all'abdicazione; ma per un altro non aveva nemmeno l'assenza di scrupoli costituzionali del dittatore nel raggiungere i suoi fini. P. mirava a un potere personale, a cui Silla infine (fosse conclusione della sua politica o conversione) dimostrò di non mirare. Ma fu in tutta la sua carriera rigidamente costituzionale. I soldati potevano essere una minaccia, non una fonte illegale d'autorità. Ora, sbarcando in Italia con le sue truppe nel 62, si trovò nel dilemma se portarle a Roma per imporre al senato nuovi comandi straordinarî per sé o scioglierle, fondandosi esclusivamente sul suo prestigio. Tutte e due le cose erano consone alla sua mentalità, e perciò errano gli storici moderni, come E. Meyer, che vedono nella decisione di P. in questo momento di sciogliere le sue truppe l'atto più caratteristico della sua politica. P. sciolse l'esercito, perché credette che in quel momento, a un anno dalla congiura di Catilina, in cui il senato aizzato da Cicerone era insorto contro una formazione militale, gli potesse giovare di più l'apparire in Roma da solo.
Fu il suo errore decisivo, dovuto probabilmente all'ignoranza della situazione creatasi in Roma negli anni della sua assenza. Il suo gesto fece colpo solo nel senso che il senato fu felice di essere liberato dall'incubo della forza in mano a P. e lo dimostrò subito ponendo in dubbio la ratifica dei provvedimenti presi da lui in Asia e non pensando a distribuire terre ai suoi veterani andati in congedo. D'altra parte il popolo non lo sosteneva più come in passato, in parte sotto l'influsso del nuovo capopartito sorgente, Cesare, in parte diviso dalla volgare rivalità di bande prezzolate, in cui la lotta stava degenerando. Nonostante il fastoso trionfo celebrato nel settembre 61 P. era rimasto senza autorità: precisamente il contrario di quello che aveva pensato. Fu quindi costretto a cercare alleati in Licinio Crasso, il suo vecchio collega, e in Cesare. Cesare fu eletto col suo appoggio console per il 59 e promise in ricambio l'approvazione delle due misure che stavano a cuore a P.: difatti nel 59 una legge ratificava le decisioni di P. e un'altra stabiliva una commissione per la distribuzione di terre ai veterani, di cui P. fu chiamato a fare parte. È verosimile (per quanto sia stato contestato) che già verso la fine del 60 l'accordo tra Cesare, P. e Crasso fosse stretto nella forma di un vero impegno di mutua assistenza, senza valore di diritto, s'intende, a cui fu dato il nome improprio di primo triumvirato. Pompeo, che aveva già ripudiato tre anni prima la moglie Mucia, che lo tradiva, sposava la figlia di Cesare, Giulia.
Trascinato dal compromesso con Cesare, P. doveva anche accettarne l'estrema conseguenza: cooperare che gli fosse conferito il comando quinquennale nella Gallia Cisalpina, poi esteso alla Narbonese, che dava a Cesare la possibilità di conquistare il resto della Gallia e nello stesso tempo di tenere da vicino sotto il suo controllo armato l'Italia disarmata. Era un'ironica, ma logica conseguenza che P., per avere sciolto il suo esercito, dovesse cooperare alla politica di Cesare fondata sulle legioni. P. lo comprese presto e cercò di fare concorrenza all'amico-rivale. In Roma alle bande di Clodio, notoriamente favorevoli a Cesare, cercò di contrapporre quelle di Milone. Ma soprattutto cercò un nuovo comando straordinario nel 57, quando in Roma si fece sentire penuria di approvvigionamenti. Il suo piano era che gli fosse attribuito per la cura dell'annona un comando militare analogo a quello contro i pirati. Il senato nicchiò, e P. dovette accontentarsi d'un incarico onorifico, ma non sostenuto militarmente. Sia ricordato tra parentesi che in uno dei viaggi compiuti per procacciare del grano, nell'atto d'imbarcarsi su un mare tempestoso, P. pronunciò la famosa frase: "Navigare è necessario, vivere non è necessario".
La sua condizione migliorò nel 56 solo per due ragioni estrinseche: da un lato Cesare, vedendosi avvicinare la scadenza del suo comando, desiderava assicurarsene il prolungamento; dall'altra il senato, per timore di Cesare, tornava a guardare a Pompeo. Ciò rendeva possibile il nuovo compromesso sancito a Lucca nell'aprile 56 fra i triumviri. A Cesare era garantito il rinnovamento del comando; ma Pompeo e Crasso, dopo il consolato del 55, a cui si proponevano candidati con la sicurezza di riuscire, avrebbero dovuto avere anch'essi due comandi straordinarî quinquennali, rispettivamente in Spagna e in Siria. Il consolato del 55 parve quindi segnare la risurrezione di P. In quell'anno egli organizzava la costruzione di edifici rimasti famosi in Roma, fra cui un teatro in Campo Marzio a imitazione di uno visto a Mitilene e la fondazione d'un tempio a Venere Vincitrice. Nel 54 assumeva il proconsolato in Spagna, ma l'amministrava per mezzo dei suoi legati, restando a Roma.
Crasso e P. insieme, con i loro due comandi militari, avrebbero potuto forse equilibrare la potenza di Cesare accentrata ai confini d'Italia. La sconfitta e la morte di Crasso nella guerra contro i Parti (53), che era un'eredità della politica di P., distruggeva ogni possibilità di equilibrio e metteva solo in evidenza la schiacciante superiorità di Cesare. Dal 53 comincia quindi la manovra di P. per ridurre al più presto Cesare alla condizione di privato, impedendogli sia di ambire da lontano al consolato per il 48, sia di tenere la provincia di Gallia sino alla fine del 49, come probabilmente era reso possibile a Cesare dalla legge che gli aveva conferito il comando. D'altra parte nel 52 P. si assicurava il rinnovamento per cinque anni del comando in Spagna, in modo da avere a disposizione delle truppe, quando Cesare, secondo i suoi calcoli, non le avesse dovuto più avere. I disordini in Roma lo favorivano, buttando sempre più il senato fra le sue braccia. La lotta civile conseguita all'assassinio di Clodio nel gennaio del 52 consigliava il senato ad affidare a P. un comando straordinario per la restaurazione dell'ordine. Poco dopo era nominato console senza collega, che egli stesso si sceglieva alcuni mesi più tardi (tra il giugno e il settembre) nella persona di Metello Scipione, di cui sposò la figlia Cornelia, Giulia essendo morta nel 54. Nel 50 l'esercito di Cesare era praticamente diminuito di due legioni, che, per quanto destinate alla Siria, restavano per allora in mano di P. Nel 50 stesso la situazione precipitava per il fallimento delle trattative con Cesare. Nel dicembre P. era invitato a difendere la repubblica; nei primi del 49 era intimato a Cesare di abbandonare la provincia.
Non è facile ricostruire nella situazione caotica di quegli anni che cosa movesse di volta in volta P. e il senato. Vista nel complesso, prescindendo dal minuto giuoco delle trattative, la politica di P. si rivela solo come un'ulteriore conseguenza dell'errore di essere rimasto disarmato e di essere costretto a non riarmarsi se non nei limiti in cui la pratica costituzionale poteva permettergli, avendo ai fianchi un senato favorevole, ma pavido di ogni armamento. Donde lo sforzo vano di disarmare Cesare. Quando Cesare, respingendo l'ultimatum del senato, varcava il 10 gennaio del 49 il Rubicone, la sorte era segnata fra chi coerentemente cercava l'autocrazia nella forza militare e chi voleva solo un potere legittimato dal senato. P. era costretto a sgombrare l'Italia e passare in Illiria e di lì in Macedonia, dove a Tessalonica si trasportò il senato: la base militare principale di P. fu però Durazzo. Cesare non lo seguì subito, perché si assicurò le spalle domando la Spagna fino allora pompeiana e lo stato di Marsiglia ostile a lui; solo in Africa i Pompeiani rimasero padroni del campo, ma senza immediate conseguenze per la situazione dei due contendenti.
È verosimile che P. pensasse di rinnovare la gesta di Silla, che con le forze dell'Oriente aveva riconquistato l'Italia. Il calcolo era sbagliato nel senso che i mariani non avevano avuto forze lontanamente paragonabili alle dodici legioni, nella maggioranza di veterani, che Cesare poteva mettere in campo e a cui P. non aveva da contrapporne che nove. L'unico vantaggio di P. era di attendere a piè fermo e con truppe fresche avversarî che dovevano venire d'oltremare e quindi erano sprovvisti di base. Furono appunto le condizioni che, dopo lo sbarco difficile in due armate separate dei cesariani, resero possibili i successi iniziali di P. intorno a Durazzo. Egli non solo liberò la città dal blocco dei cesariani, ma li sconfisse anche in uno scontro.
Cesare non si perdette d'animo. P. invece, a quanto sembra si lasciò illudere. Trascinato dal rivale con abile manovra in Tessaglia, consentì a una battaglia campale, presso Farsalo, in cui fu pienamente battuto (9 agosto 48 del calendario pregiuliano). Smarrito d'animo si rifugiò dapprima a Lesbo, per trovare la moglie e il figlio, poi, per consiglio di Teofane da Mitilene, cercò scampo e aiuto in Egitto, trascurando di andare nella provincia di Africa, dove pure aveva i suoi fedeli. Fu l'ultimo errore della sua vita, a cui da luce di paradosso l'ostinazione con cui, durante tutta la sua carriera, P. aveva sempre difeso l'indipendenza dell'Egitto, sia per averlo suo cliente personale, sia per impedire che sull'Egitto fondasse il suo potere un rivale. Giunto infatti presso la costa egiziana, per invocare ospitalità, P. fu ucciso dai messi del giovane re Tolemeo XIV, che voleva rendersi favorevole il vincitore (settembre 48). La testa di P. fu poi portata a Cesare, quando questi giunse a sua volta in Egitto, nell'inseguire il rivale.
Il sogno di P. era stato di vedersi riconoscere dal senato una posizione di preminenza personale, che del resto era ammessa anche in linea teorica da pensatori, come Cicerone, sebbene sia probabile che questi nel delineare la figura del princeps senatus nel De republica non pensasse, come volle E. Meyer, a P., bensì, come ha intuito E. Ciaceri, a sé stesso. Ma il senato si acconciò alla sua autorità solo per difendersi dalle legioni di Cesare. E perciò la sua azione, che poteva impedire la formazione di un potere militare, ma non distruggerlo quando si fosse costituito, era destinata a fallire. È vero che, di contro alla tesi di Th. Mommsen, che vedeva in P. un semplice rivale sfortunato di Cesare, E. Meyer ha sostenuto che la politica di P. fu ripresa da Ottaviano, allorché il pugnale dei congiurati sembrò condannare la dittatura militare tendente alla monarchia di Cesare. Ma questa acutissima tesi è solo parzialmente vera. Senza dubbio Ottaviano costituì il suo principato sul presupposto dell'autorità del senato e lo organizzò sul conferimento d'imperî straordinarî, che ricordano da vicino quelli di P.: basta dire che i legati di cui si varrà Ottaviano per le provincie imperiali imitano quelli che P. ebbe a disposizione nella guerra contro i pirati. Ma una cosa essenziale Ottaviano imparò da Cesare: a tenere a sua disposizione le legioni. E perciò diventò Augusto.
Fonti: Le fonti principali sono Plutarco, vite di Pompeo e di Cesare, nonché, in misura minore, quelle di Silla, Sertorio e Lucullo; Appiano, Guerre mitridatiche e Guerre civili; Cesare, Sulla guerra civile; Dione Cassio, Storia romana, specie i libri XXXVI-XLII; l'epistolario di Cicerone (tra cui ci sono lettere di P.) e in misura minore le sue orazioni; Flavio Giuseppe, Guerra Giudaica, I, e Antichità Giudaiche, XIII. Il poema Farsalia di Lucano è fonte storica di scarsissima importanza. È impossibile anche solo elencare le fonti minori, che diano notizie di valore, tanto sono abbondanti.
Bibl.: La raccolta migliore dei fatti in W. Drumann, Geschichte Roms in seinem Übergange von der republikanischen zur monarchischen Verfassung, 2ª ed. a cura di P. Groebe, IV, Lipsia 1908, pp. 332 segg. Si cfr. inoltre Th. Mommsen, Römische Geschichte, III (trad. it., Storia di Roma antica, III, i, Torino 1925); G. Ferrero, Grandezza e decadenza di Roma, I, Milano 1902; E. Meyer, Cäsars Monarchie und das Principat des Pompeius, 3ª ed., Stoccarda e Berlino 1921; Cambridge Ancient History, IX (1932), con eccellente bibliografia. Per le campagne militari, G. Veith, Geschichte der Feldzüge C. Julius Caesars, Vienna 1906, e J. Kromayer e G. Veith, Antike Schlachtfelder, III, Berlino 1912. Si vedano anche le bibilografie di: cesare; cicerone; mitridate.