Ideologia
di Luciano Pellicani
Ideologia
sommario: 1. Il secolo delle ideologie. 2. Dalle guerre ideologiche alle guerre di religione. 3. Ideologie e movimenti no global. 4. L'ideologia neoliberista e i suoi critici. □ Bibliografia.
1. Il secolo delle ideologie
Il XX secolo è stato definito il "secolo delle ideologie". Ed è stato anche definito il secolo della "fine delle ideologie". In effetti, è stato sia l'uno che l'altro, se per ideologie si intende ciò che intendeva Albert Camus: "Utopie assolute che si distruggono da sé, nella Storia, per il prezzo che in ultima istanza esigono".
Quando Camus scriveva queste parole - era l'anno 1946 - non si riferiva solo al nazismo, già precipitato nel nulla storico, ma anche al comunismo, anticipandone l'autodissoluzione. Oggi, dopo il collasso del sistema sovietico, possiamo senz'altro dire che Camus aveva colto nel segno: anche il comunismo ha palesato una vocazione autodistruttiva. Sia il nazismo, sia il comunismo, dopo aver suscitato irrefrenabili entusiasmi a motivo dell'esaltante meta che indicavano - il Regno millenario e la creazione di un uomo nuovo - e dopo aver instaurato dittature fortemente ideologizzate, sono usciti di scena lasciandosi alle spalle uno smisurato cumulo di macerie materiali e morali e una altrettanto smisurata scia di cadaveri. Talché si potrebbe definire il Novecento il secolo della riattivazione della mentalità chiliastica, centrata, in modo tipico, sull'attesa di un evento catastrofico-palingenetico: la rivoluzione come guerra planetaria fra i figli della Luce e i figli della Tenebra, destinata a concludersi con la creazione di un nuovo ordine cosmico. Il Regno millenario, per l'appunto.
Se effettivamente il Novecento è stato il secolo delle ideologie nel senso specificato da Camus, allora sorge, ineludibile, la domanda: quali sono state le determinanti della ricomparsa, nel bel mezzo del processo di secolarizzazione, del mito del Millennio?
Secolarizzazione - lo ha spiegato Max Weber - vuol dire, prima di tutto e soprattutto, "disincanto del mondo". Lo stesso Weber, muovendosi nel solco tracciato da Nietzsche, era giunto alla conclusione che gli abitanti della Città secolare dovevano prendere atto che erano "destinati a vivere in un'epoca senza Dio e senza profeti". Ma è accaduto esattamente il contrario: con l'Ottobre bolscevico è riapparsa la figura del profeta armato, annunciante una rivoluzione di significato epocale e tale da introdurre nella storia una cesura radicale; con essa e grazie a essa la 'politica ideologica' - concepita come prassi tendente a edificare, sulle macerie del vecchio mondo, un mondo nuovo, completamente rigenerato - ha acquistato una straordinaria potenza espansiva.
Certo, alla distanza, la previsione weberiana è stata pienamente corroborata: le ideologie rivoluzionarie - bolscevismo, nazismo, maoismo, ecc. - si sono estinte e tutto sembra indicare che, quanto meno nel mondo occidentale, lo spazio per i profeti e i leaders carismatici capaci di mobilitare le masse contro l'esistente si sia ridotto ai minimi termini. Resta il fatto che, per oltre settanta anni, la politica ideologica, tesa a materializzare l'utopia chiliastica, ha esercitato sugli spiriti un fascino accecante e ha trasformato il mondo intero in un'arena nella quale si svolgeva un duello mortale fra modelli di organizzazione sociale mutuamente esclusivi: la 'società chiusa' totalitaria e la 'società aperta' liberale.
È accaduto che nel cuore del processo di modernizzazione è emersa una colossale contraddizione: nello stesso momento in cui la modernità spingeva la secolarizzazione agli estremi limiti, sino a stimolare l'elaborazione di un cristianesimo completamente demitizzato, la politica ha assunto le forme e i contenuti tipici delle religioni millenaristiche. Tale contraddizione è particolarmente visibile nel marxismo. In esso, accanto a una critica spietata dell'ideologia come falsa coscienza, si trova una concezione della rivoluzione come l''ultima guerra santa' - l'Armageddon fra il partito conservatore e il partito distruttore - alla quale avrebbe fatto seguito il "Regno millenario della libertà". Ed è appunto questa la politica ideologica: una strategia per realizzare - secondo la celebre espressione coniata da Ernst Bloch - "un Regno di Dio senza Dio". Come tale, essa è una rivoluzione permanente; più precisamente una guerra di annientamento dell'esistente in tutte le sue forme. Di qui la natura intrinsecamente totalitaria della politica ideologica: essendo, infatti, la sua meta la riplasmazione totale della società e della stessa natura umana, essa non può non aspirare al potere totale.
La politica ideologica, inoltre, quando è stata perseguita con rigorosa consequenzialità, è sfociata nel terrore permanente e nell'istituzionalizzazione di un 'mondo a parte' (l'universo concentrazionario), nel quale sono stati scaricati gli elementi corrotti e corruttori che inquinavano la società. Pertanto, si può senz'altro dire che il tratto essenziale sotteso al totalitarismo è l'aspirazione a rigenerare il corpo sociale attraverso la purga permanente. In un sistema totalitario, il terrore è qualcosa di più di uno strumento di dominio: è uno strumento di purificazione. E infatti troviamo questa idea sia in Lenin che in Hitler. Per Lenin, il terrore permanente era indispensabile per "ripulire di qualsiasi insetto nocivo la maledetta società capitalistica"; analogamente, per Hitler, la missione storica della rivoluzione nazionalsocialista era quella di impedire la "bolscevizzazione ebraica del mondo" annientando i "focolai di infezione".
Il mito della rivoluzione palingenetica sarebbe rimasto nel laboratorio delle idee se in Europa non fossero accaduti avvenimenti traumatici capaci di toccare il vissuto di milioni e milioni di individui. Il primo fu la Rivoluzione francese, che scatenò quella che Guglielmo Ferrero ha chiamato la "guerra fra i geni invisibili della Città", ossia tra diversi e incomponibili principî di legittimazione del potere; poi, la rivoluzione industriale, o, più precisamente, la 'catastrofe culturale' generata dalla 'grande trasformazione'; infine, e soprattutto, la grande guerra con le sue devastanti conseguenze materiali e morali. Senza questi tre grandi traumi storici, è altamente improbabile che avremmo assistito alla nascita di movimenti rivoluzionari di massa, aventi come scopo la distruzione del vecchio mondo e la costruzione del mondo nuovo. Le idee palingenetiche degli intellettuali rivoluzionari non avrebbero mai contagiato milioni di individui, se questi stessi individui non fossero stati coinvolti in processi anomici di grande intensità e durata. Questo, quanto meno, è ciò che viene suggerito dalla sociologia dei movimenti messianici; la quale ha messo in evidenza che l'attivazione dell'attesa del millennio è, di regola, strettamente legata a una situazione di crisi a prospettiva catastrofica o comunque vissuta come tale.
Non è un caso, pertanto, che il 'secolo delle ideologie' sia iniziato con la grande guerra, le cui conseguenze psicologiche e sociali hanno profondamente alterato l'esistenza storica di buona parte delle nazioni europee. Quasi di colpo, quello che Stefan Zweig avrebbe battezzato il "mondo della sicurezza" andò in pezzi e fra le sue macerie apparvero i "terribili semplificatori" profetizzati da Jacob Burckhardt, capaci - con le loro suggestive diagnosi-terapie dei mali del mondo - di accendere l'entusiasmo delle masse e di mobilitarle contro gli ordinamenti esistenti. In tal modo, la politica tornò a essere quella che era stata durante la dittatura giacobina: una strategia tesa a materializzare il millennio attraverso l'annientamento implacabile del vecchio mondo, corrotto e corruttore. Il vecchio mondo era, naturalmente, la civiltà liberale, costruita ed egemonizzata dalla borghesia. Questa fu messa in stato d'accusa, sia dal bolscevismo che dal fascismo, in nome della rivoluzione permanente, dalla quale sarebbe scaturita una nuova civiltà, radicalmente altra rispetto a quella centrata sullo Stato di diritto, l'autonomia della società civile e l'individualismo possessivo-competitivo.
La fine della guerra ideologica scatenata dai movimenti rivoluzionari di massa contro la civiltà liberale ha indotto il politologo Francis Fukuyama (v., 1992) a proclamare, in un saggio destinato a suscitare un vivace dibattito internazionale, che eravamo niente di meno che alla vigilia dell'"avvento della supremazia dello Spirito ipotizzata da Hegel", sicché era legittimo parlare addirittura di "fine della storia". La civiltà occidentale aveva vinto su tutti i fronti. Le sue idee, i suoi valori, le sue istituzioni erano destinati a imporsi dappertutto. Il comunismo aveva perso in modo definitivo la sfida che, a partire dalla conquista del Palazzo d'Inverno, aveva lanciato alle società liberali. Per settant'anni, con la sua martellante propaganda rivoluzionaria, aveva tenuto sotto pressione l'Occidente, minacciandone la stessa esistenza. Ma ormai la sua alternativa aveva perso ogni attrattiva poiché, in luogo del benessere e della libertà, aveva generato miseria e oppressione. Sicché, davanti ai popoli della Terra non rimaneva che una prospettiva: affidarsi all'iniziativa privata, al mercato e alla democrazia pluralistica, in una parola, al liberalismo economico e politico. Pertanto - concludeva Fukuyama -, con il collasso dell'Impero sovietico e la conseguente uscita di scena del mito della rivoluzione proletaria, la previsione fatta da Daniel Bell (v., 1960) alla fine degli anni cinquanta - la 'fine delle ideologie' - era stata massicciamente corroborata: il mondo aveva cessato di essere un'arena militare nella quale si scontravano modelli di società alternativi e reciprocamente incompatibili, e i valori e le istituzioni dell'Occidente si avviavano a diventare i valori e le istituzioni dell'umanità intera.
2. Dalle guerre ideologiche alle guerre di religione
Se Fukuyama si fosse limitato a constatare la bancarotta planetaria del comunismo, molto probabilmente non avrebbe suscitato alcuna reazione. Che il mito della superiore razionalità dell'economia di piano sia svanito, è cosa di evidenza lampante. Di eguale evidenza è il fatto che il grande tema di oggi e di domani, per i paesi che sono caduti nella trappola del collettivismo burocratico-totalitario che definiva se stesso 'socialismo realizzato', è la creazione delle precondizioni per il fisiologico funzionamento della società civile, la cui base materiale è il mercato. Ma non è affatto evidente che l'umanità nel suo complesso si stia avviando verso l'American way of life. Al contrario, non pochi fenomeni di dimensioni macroscopiche costringono a ritenere che la pacificazione del pianeta Terra all'insegna dei valori e delle istituzioni della democrazia liberale e del capitalismo sia una prospettiva più simile a un wishful thinking che a una ragionata e ragionevole prognosi.
Fra tali fenomeni, quello più vistoso è senz'altro il fondamentalismo islamico, il quale rappresentava, già prima dell'11 settembre 2001 - quando le Twin Towers a New York furono abbattute dai terroristi suicidi di al-Qā'ida -, la smentita più clamorosa della tesi di Fukuyama. Esso, infatti, a partire dalla rivoluzione iraniana (1979), si è presentato sulla scena come una dichiarazione di guerra all'intera civiltà occidentale, di cui rifiuta ogni istituzione e ogni valore, dalla democrazia rappresentativa al mercato, dalla libertà individuale alla laicità dello Stato. Dopo aver proclamato la sharī'a legge dello Stato, l'ayatollah Ruḥollah Khomeini non si limitò a elevare una granitica barriera per impedire l'inquinamento spirituale della umma (la comunità dei veri credenti), ma fece qualcosa di più radicale: elaborò l'ambizioso disegno di porre l'Islam alla testa di tutti i popoli diseredati della Terra, sostituendo in tale ruolo rivoluzionario il comunismo marx-leninista. Questo grandioso programma fu espresso con la massima chiarezza nella lettera che egli, poco prima di morire, inviò a Michail Gorbaćëv. In essa, il carismatico leader della teocrazia iraniana chiese al segretario del PCUS di riconoscere pubblicamente che il comunismo era ormai ridotto a un fossile storico poiché, essendo privo di un principio spirituale, aveva lo stesso problema che stava trascinando nel nulla la società materialistica basata sull'adorazione del 'dio denaro'; e di riconoscere altresì che ormai sulla scena mondiale non restava che una sola forza in grado di perseguire l'obiettivo di liberare i popoli che si trovavano nella "prigione dell'Occidente e del Grande Satana": l'Islam.
Un siffatto programma costituisce una vera e propria reazione 'zelota' del sacro contro il processo di secolarizzazione. Infatti, i valori e le istituzioni della modernità sono rifiutati in quanto si fondano su una concezione della vita priva di valori religiosi. Non sorprende, pertanto, constatare che la costruzione ideologica degli islamisti si basa sulla contrapposizione tra la storia postcoranica e quella preislamica. Essa utilizza il concetto di ǵāhiliyya - l'oscura ed empia epoca precedente la 'rivelazione dell'Inviato di Dio' - per connotare come atei e materialistici i prodotti culturali dell'Occidente secolarizzato. A giudizio degli ideologi del fondamentalismo islamico, la crisi morale in cui versa l'umanità è la conseguenza logica e inevitabile del laicismo e del materialismo. Rifiutando la rivelazione, l'Occidente ha imboccato la via del culto idolatrico della ragione e della materia. Ma, mentre i tradizionalisti si limitano a chiedere che i popoli della dār al-Islām non si facciano contaminare dagli 'impuri' costumi dei popoli che vivono sotto la tirannia del Grande Satana, i fondamentalisti vanno oltre: dichiarano senza mezzi termini che l'Islam deve uscire dalla sua posizione difensiva e deve militarizzarsi per conquistare e distruggere dalle fondamenta la 'società senza Dio'. Così, infatti, suonano i loro slogan: "La società contemporanea è pagana, bisogna farne tabula rasa"; "Non ci sono che due partiti: il partito di Dio (Ḥizb Allāh) e il partito di Satana (Ḥizb al-Shayṭān); il primo deve condurre dappertutto la guerra santa senza tregua né pietà, sino all'instaurazione del governo di Dio"; "L'Islam è il sistema universale ed eterno per il futuro dell'umanità".
È evidente che ci troviamo di fronte a un grido di guerra lanciato contro la civiltà moderna, rea di aver voltato le spalle a Dio e alla rivelazione profetica; ed è altrettanto evidente che tale grido di guerra altro non è che la riproposizione di quello che fu il programma della Fratellanza Musulmana - l'associazione fondata nel 1928 dall'egiziano Ḥasan al-Bannā', madre di tutti i fondamentalismi del mondo islamico -, fissato dal loro massimo teorico, Sayyid Quṭb, in questi termini: "L'Islam è costretto alla lotta dall'obiettivo che è suo proprio, vale a dire la guida del genere umano. La guerra è un obbligo individuale, contro gli ostacoli alla predicazione, ma sotto la forma collettiva di un gruppo ristretto, organizzato e profondamente cementato. Gli avversari sono anch'essi degli individui, raggruppati in classi, in Stati, in coalizioni. Il ǵihād, in reazione, è dunque assolutamente necessario in tutta la sua ampiezza. E un ǵihād mondiale, permanente. Così, essere musulmano significa essere un guerriero, una comunità di guerrieri sinceri in permanenza, pronti a essere utilizzati o no da Dio, se lo vuole e quando lo vuole, poiché lui solo è il capo della battaglia" (cit. in Allam, 2002).
Pertanto, non è sufficiente dire che l'obiettivo dei fondamentalisti è la re-islamizzazione delle società e degli Stati della dār al-Islām; occorre anche sottolineare che il loro programma è assai più ambizioso e inquietante. Essi vogliono scatenare una vera e propria guerra di religione per conquistare il mondo intero e instaurare il dominio della sharī'a (la Legge sacra, eterna e immutabile) su tutta quanta l'umanità. In altre parole, oltre a esigere la restaurazione della dār al-'adl - la 'Casa della giustizia' così come essa fu proclamata dal Profeta -, i fondamentalisti vogliono annientare la fonte dell'inquinamento della umma: l'Occidente secolarizzato. Di qui il doppio fronte nel quale essi sono oggi impegnati: contro i governi 'apostati' che, pur proclamandosi musulmani, di fatto hanno sostituito la sharī'a con leggi profane fatte dagli uomini; e contro quello che il leader di al-Qā'ida, Osama bin Laden (Usāma Ibn Lādin), ha bollato come il 'grande miscredente': gli Stati Uniti, massima potenza del sistema imperialistico che essi vogliono radere al suolo. Quindi, la loro guerra santa (il ǵihād) è al tempo stesso una guerra intestina - vale a dire una guerra fra musulmani; più precisamente una guerra scatenata dai religiosi per strappare il potere ai militari - e una guerra internazionale condotta con l'unica arma di cui i muǵāhidīn - i combattenti della guerra santa, dominati dall'ardente desiderio di diventare 'martiri della fede' (shuhadā') - dispongono, cioè il terrorismo globale, e con il dichiarato obiettivo di distruggere il perverso 'mondo degli infedeli', da cui promanano i miasmi materialistici che stanno avvelenando la umma.
Stando così le cose, si capisce perché il fondamentalismo islamico sia stato definito il comunismo del XXI secolo, così come, a suo tempo, il comunismo era stato definito l'Islam del XX secolo. Non diversamente dal marx-leninismo, il fondamentalismo islamico si presenta sulla scena come un movimento rivoluzionario animato dalla certezza di possedere un messaggio di salvezza a carattere ecumenico; e, analogamente a esso, ritiene di avere il diritto-dovere di condurre una spietata guerra permanente contro la malefica potenza al cui dominio sono sottoposti i diseredati della Terra. Si tratta, naturalmente, di una guerra totale, che deve essere condotta con tutti i mezzi e in tutte le sedi, fino all'annientamento del Grande Satana e al trionfo della verità e del governo di Dio.
Certo, l'insorgenza dei movimenti fondamentalisti non significa affatto che l'Islam in quanto tale abbia dichiarato guerra all'Occidente. Il fondamentalismo è una particolare interpretazione del Corano, la cui legittimità è contestata dagli stessi musulmani. Sta di fatto, però, che la visione fondamentalista del mondo - cioè quell'ideologia politica che divide il mondo in appartenenti all'Islam e in appartenenti a tutti gli altri gruppi, percepiti come nemici da combattere sino al loro annientamento - è diventata negli ultimi due decenni la più diffusa in tutto l'universo islamico. Accade così che i 'gihadisti' - gli attivisti del partito di Allāh, pronti a sacrificare la loro vita pur di colpire gli agenti e i simboli del Grande Satana -, a dispetto del fatto che sono una esigua minoranza, costituiscono una temibile forza, non solo perché sono determinati a usare i mezzi più spietati e subdoli per conseguire i propri scopi, ma anche perché esprimono l'intenso risentimento dei musulmani di fronte all'arrogante e imperialistica civiltà occidentale. Un risentimento le cui radici risalgono al tempo in cui i popoli della dār al-Islām, che per oltre mille anni erano vissuti nella narcisistica convinzione che la loro civiltà costituisse la migliore forma di organizzazione sociale mai apparsa sulla Terra, furono costretti a prendere atto che il mondo era diventato 'il paradiso degli infedeli e l'inferno dei credenti', in quanto l'Occidente aveva conseguito una superiorità materiale al tempo stesso umiliante e pericolosa.
La natura della sfida di fronte alla quale vennero a trovarsi i popoli musulmani, a partire dal momento in cui le potenze europee incominciarono a estendere i loro tentacoli sulla dār al-Islām, risulterà chiara se si tiene presente che ciò che contraddistingue la moderna civiltà occidentale non è solo la sua formidabile attrezzatura tecnologica, che impone alle civiltà 'altre' di imboccare la via dell''aggiornamento imitativo' onde evitare di essere travolte, ma è anche e soprattutto la formidabile potenza espansiva della sua cultura spirituale, la quale non conosce limiti di sorta. La modernità è una civiltà costitutivamente imperialistica, la cui istituzione centrale è il mercato. Il mercato, ex definitione, non ha frontiere: è un'istituzione a vocazione planetaria, che tende a sottoporre agli imperativi impersonali della logica catallattica tutto ciò che trova sul suo cammino - interessi, valori, credenze, istituzioni, tradizioni, pratiche consolidate, ecc. - e che procede come una smisurata valanga culturale che cresce su se stessa. E, in effetti, ovunque il capitalismo è penetrato, ha prodotto mutamenti cataclismatici che non hanno risparmiato nulla e nessuno. A motivo della sua 'creatività distruttiva' e del suo irrefrenabile dinamismo autopropulsivo, tutti i popoli della Terra sono stati forzosamente inglobati in un unico destino storico. Il risultato è stato che la civiltà occidentale ha preso ad assediare le culture 'altre' e le ha poste di fronte a una sfida di immani proporzioni, il cui contenuto essenziale è così riassumibile: trovare una risposta adeguata oppure essere degradate al rango di colonie del 'centro' capitalistico.
Un fenomeno del genere è una novità storica assoluta. Nel passato, ci sono state civiltà dotate di una grande potenza espansiva, capaci di irradiare la loro cultura al di fuori dell'area geografica in cui sono nate; ma nessuna di esse ha posseduto la forza di dilagare in ogni dove e di estendere il raggio della propria multiforme influenza sull'intero pianeta, aggredendo il codice genetico delle altre civiltà. È per questo che l'aggressione culturale permanente è ciò che caratterizza i rapporti fra l'Occidente e l'Oriente ormai da secoli. È vero che è uscito di scena il colonialismo nella sua forma politico-militare; ma non è uscito di scena il colonialismo culturale, talché i popoli orientali, pur avendo conquistato la loro indipendenza, sono rimasti alle prese con una tremenda 'sfida'. Essi si trovano di fronte a una cultura allogena che tende a sommergerli con il suo impressionante flusso di tecniche, di merci, di messaggi, di simboli e di valori; e ciò non può non alterare profondamente il loro tradizionale modo di vita e l'immagine che essi hanno di se stessi. È accaduto così che l'invasione culturale occidentale non si è limitata a fare scempio delle istituzioni, degli usi, dei valori che ha trovato sulla sua strada, ma ha anche straziato gli uomini, privandoli del loro habitat ancestrale e condannandoli a vivere in un mondo che si è progressivamente trasformato in una realtà estranea o addirittura ostile. Il capitalismo, aggredendo le società poste al di fuori della sua area di sviluppo endogeno, ha sradicato milioni di esseri umani, trasformandoli in una gigantesca massa alienata e, per ciò stesso, risentita. Questi milioni di individui - sparsi in tutte le aree culturali dove il sistema di mercato si è presentato come un'aggressiva e distruttiva potenza esogena - costituiscono, ormai da generazioni, il 'proletariato esterno' della civiltà occidentale.
Accade così che, ancora oggi, due cose contraddistinguono la condizione esistenziale dei popoli musulmani: il loro immenso senso di collera e di frustrazione e il fatto che vivono l'Occidente come una presenza al tempo stesso oppressiva e invadente. Oppressiva, per la sua schiacciante superiorità materiale, e invadente, perché la modernità costituisce una permanente minaccia per le tradizionali forme di vita della dār al-Islām. Queste, per i musulmani, sono di origine divina e, come tali, non possono essere oggetto di analisi critica, né, tanto meno, possono essere modificate. La sharī'a è la 'via' che Dio, tramite il suo Profeta, ha aperto davanti agli uomini, i quali non possono deviare da essa senza commettere un inescusabile peccato. Nell'Islam, diritto e religione sono indistinguibili, talché la scienza giuridica, essendo lo studio e la conoscenza della Legge divina, è una scienza teologica; il che fa del diritto musulmano un diritto sacro, indissolubilmente legato alla tradizione religiosa. E questa non è una componente o una dimensione della vita, che regola alcune questioni e dalla quale altre sono escluse: è un sistema di norme che avvolge e plasma l'intera esistenza. La sua giurisdizione è totale; al limite, persino totalitaria. Nella religione coranica la stessa idea di separazione tra Chiesa e Stato, autorità spirituale e autorità politica, è priva di significato. Autorità religiosa e autorità politica sono la stessa cosa. Di qui l'ostinata resistenza opposta dalle società musulmane alla modernità, la quale, infatti, comporta, prima di tutto e soprattutto, una vita senza valori sacri o, quanto meno, una rigorosa separazione fra il regno della politica e il regno della religione. In modo tipico, lo Stato moderno è uno stato laico, ossia uno Stato che, da una parte, non si identifica con un particolare credo religioso e, dall'altra, riconosce la legittimità di tutte le religioni. Esso, pertanto, è l'esatto contrario dello Stato così come esso lo si è sempre concepito nella dār al-Islām: una istituzione avente l'ineludibile funzione di garantire il dominio impersonale della Legge divina, dunque come l'espressione politica della stessa religione. Di qui la sentenza di Khomeini: "L'Islam è politico o non è". Una sentenza perfettamente in linea con la tradizione islamica, per la quale religione e Stato - dīn wa dawla - sono un'unica realtà, sicché ogni tentativo di separarli non può non essere considerato un empio allontanamento dalla Legge divina, statica e immutabile. E significa altresì che esiste un'incompatibilità di principio fra la sharī'a e la modernità. Questa è inscindibile dal processo di secolarizzazione, il quale ha posto fine al legame organico fra lo Stato e la religione e ha trasformato quest'ultima in una faccenda privata. Ma una religione ridotta a una faccenda privata è precisamente ciò che i musulmani rigoristi non possono accettare, poiché essa implicherebbe l'abbandono della sharī'a.
Non può sorprendere, pertanto, che - con la sola eccezione della Repubblica turca, fondata da Kemāl Atatürk su un completo laicismo - nei paesi della dār al-Islām l'intelligencija secolarizzata rappresenti una esigua minoranza, incapace di incanalare le masse verso la modernità. Tanto più che quest'ultima ha fatto intrusione nella vita dei popoli musulmani non solo come civiltà secolarizzata, centrata sulla ragione illuministica e sulla libertà individuale, ma anche come potenza imperialistica, animata da una smisurata volontà di dominio e di sfruttamento. Di qui lo shock dell'aggressione culturale occidentale che ha provocato nel mondo islamico uno stato di crisi endemica.
Il carattere imperialistico della modernità negli ultimi decenni è stato potentemente intensificato dal fenomeno della globalizzazione, cioè dal dilagare - a motivo dell'enorme riduzione dei costi dei trasporti e delle comunicazioni e dell'abbattimento delle barriere artificiali alla circolazione internazionale di beni, servizi, capitali, conoscenze e lavoratori - della logica catallattica; il che ha reso ancora più penetrante e minacciosa la pressione culturale dell'Occidente sui popoli della dār al-Islām.
In realtà, il fenomeno della globalizzazione non costituisce, propriamente parlando, una novità storica. Il capitalismo ha sempre avuto una vocazione planetaria, nel senso che la sua oggettiva logica di sviluppo tende a trasformare il mondo intero in un unico, smisurato Weltmarkt, retto dalla impersonale legge della domanda e dell'offerta. Ciò è tanto vero che già nel Manifesto del Partito comunista troviamo questa straordinaria descrizione dell'inarrestabile dinamismo planetario del capitalismo industriale: "La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi tutto l'insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l'immutata conservazione dell'antico modo di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'epoca borghese da tutte le precedenti. Tutte le stabili e irruginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall'età, si dissolvono, e le nuove invecchiano prima ancora di aver potuto fare le ossa. Tutto ciò che vi era di stabilito e di rispondente ai vari ordini sociali si svapora, ogni cosa sacra viene sconsacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella società, i loro rapporti reciproci. Il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia per tutto il globo terrestre. Dappertutto essa deve ficcarsi, dappertutto stabilirsi, dappertutto stringere relazioni. Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi. Con gran dispiacere dei reazionari, ha tolto all'industria la base nazionale. Le antichissime industrie nazionali sono state e vengono, di giorno in giorno, annichilite. Esse vengono soppiantate da nuove industrie, la cui introduzione è questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili - industrie che non lavorano più materie prime indigene, bensì materie prime provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti non si consumano soltanto nel paese, ma in tutte le parti del mondo. Al posto dei vecchi bisogni, a soddisfare i quali bastano i prodotti nazionali, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. In luogo dell'antico isolamento locale e nazionale, per cui ogni paese bastava a se stesso, subentra il traffico universale, una universale dipendenza delle nazioni l'una dall'altra. E come nella produzione materiale così nella produzione spirituale. I prodotti spirituali delle singole nazioni diventano patrimonio comune. Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà anche le nazioni più barbare. I tenui prezzi delle sue merci sono l'artiglieria pesante con cui essa abbatte tutte le muraglie cinesi, e con cui costringe a capitolare il più testardo odio dei barbari per lo straniero. Essa costringe tutte le nazioni ad adottare le forme della produzione borghese se non vogliono perire; le costringe a introdurre nel loro paese la così detta civiltà, cioè a farsi borghesi" (K. Marx, Manifesto del Partito Comunista, in Opere complete, Roma: Editori Riuniti, 1970 ss., vol. VI, pp. 489-490).
Ma "farsi borghesi" è esattamente ciò che gli zeloti dell'Islam rifiutano. Essi hanno una chiara percezione del fatto che lo spirito borghese è un micidiale nemico del sacro: ovunque penetra, genera il "disincanto del mondo" e, conseguentemente, la religione cessa di essere il regolatore unico della vita umana (individuale e collettiva). Una prospettiva che non può non essere giudicata empia da coloro che vivono nella fede e della fede. Di qui il fatto che la modernità appare loro come il Grande Satana: tentatore e subdolo nemico dell'uomo e di Dio. E se oggi gli ideologi e gli attivisti del fondamentalismo islamico vedono crescere di giorno in giorno l'uditorio al quale essi si rivolgono, ciò accade perché alle spalle dei popoli della dār al-Islām non ci sono che fallimenti lungo la via che avrebbe dovuto portare alla cancellazione - o, quanto meno, alla riduzione - del gap scientifico, tecnologico ed economico che li separava dalle società industriali. In particolare, il socialismo arabo è miseramente naufragato, lasciando così il campo libero alla predicazione di coloro che indicano nell'Occidente imperialistico e ateo la causa della crescente frustrazione nella quale si dibattono i popoli musulmani e che, quale rimedio alla loro umiliante condizione di 'proletariato esterno', invocano la restaurazione della 'sacra immutabile tradizione', il rifiuto di tutto ciò che è in qualche modo connesso alla invadente modernità e la mobilitazione permanente contro l'Occidente. I fondamentalisti, in breve, intendono risolvere la penosa crisi di identità nella quale si trovano i popoli musulmani, scatenando una guerra santa globale che ha come obiettivo l'annientamento di quelle potenze che hanno trasformato il 'mondo dei veri credenti' in un inferno.
3. Ideologie e movimenti no global
Ma i nemici dell'Occidente non sono solo i militanti del partito di Allāh. A dispetto della bancarotta planetaria della rivoluzione marx-leninista, la contestazione ideologica della 'società aperta' non è affatto uscita di scena. Infatti, appena dieci anni dopo il crollo del muro di Berlino (1989) e la trionfalistica proclamazione della vittoria epocale del sistema di mercato, ha fatto irruzione sulla scena quello che è stato definito il 'popolo di Seattle', formato da decine di migliaia di giovani, i quali hanno messo in stato d'accusa i delegati dell'Organizzazione Mondiale del Commercio riunitisi, per l'appunto, nella città di Seattle. La grande protesta organizzata on line - la prima manifestazione telematica della storia - ha costretto il mondo intero a prendere atto del fatto che lo spirito anticapitalistico è tutt'altro che morto. Ciò risulta chiaramente dalle parole d'ordine del 'popolo di Seattle': "Il mondo non è una merce"; "Il mondo non è in vendita"; "Resistere alla tirannia delle corporations"; "Diritti umani, non profitto"; "La persona prima del profitto"; "Non per una globalizzazione migliore, ma contro di essa".
Il rifiuto della globalizzazione e della sua ideologia - il neoliberismo - è stato solennemente celebrato, nel gennaio del 2001, a Porto Alegre, dove ha avuto luogo il primo World Social Forum, intenzionalmente e provocatoriamente organizzato in coincidenza con il World Economic Forum di Davos. Nel documento finale del World Social Forum, concepito come una sfida morale e politica alle oligarchie che autocraticamente decidono del destino del mondo, si legge: "Davos rappresenta la concentrazione della ricchezza, la globalizzazione della povertà e la distruzione del pianeta. Porto Alegre rappresenta la speranza di un nuovo mondo possibile, in cui gli esseri umani e la natura siano al centro delle nostre preoccupazioni". Segue, puntuale, la denuncia delle enormi e intollerabili disuguaglianze esistenti fra il Nord e il Sud, imputate allo sfruttamento perpetrato da un nuovo tipo di colonialismo: quello che si presenta con il volto impersonale della globalizzazione e con le formule retoriche dell'ideologia neoliberista. Ma invano si cercherebbe nel Manifesto di Porto Alegre una qualche proposta. In maniera tipica, l'accento è posto esclusivamente sulla negazione e sul rifiuto. Porto Alegre si definisce semplicemente come 'l'anti-Davos' e i numerosi movimenti che a esso si richiamano non sembrano minimamente avvertire l'esigenza di articolare una piattaforma programmatica alternativa a quella del World Economic Forum. Fra tali movimenti, il più estremista - sia per i suoi fini che per i mezzi ai quali esso fa ricorso - è senz'altro quello dei cosiddetti black blocks. I suoi militanti, sparsi in tutti i continenti, sono poco numerosi, ma il loro ruolo - soprattutto durante lo svolgimento del G8 di Genova (2001) - è risultato particolarmente significativo, poiché essi, oltre a essere intensamente motivati da una ideologia che si richiama esplicitamente alla tradizione anarchica, si sono dimostrati in grado di operare secondo precisi schemi tattici, messi a punto utilizzando sapientemente Internet, e determinati a ricorrere all'azione diretta per dare il massimo di evidenza mediatica alla loro protesta. Nel modus operandi dei black blocks, di fondamentale importanza, per la loro valenza altamente simbolica, sono gli attacchi alla proprietà privata, istituzione-cardine attorno a cui ruota il mondo capitalistico-borghese che essi contestano frontalmente e al quale oppongono l'idea di un mondo nuovo, che sorgerà quando la "guerra di classe contro i ricchi" diventerà un fenomeno globale. Naturalmente, per i black blocks la violenza rivoluzionaria altro non è che una reazione difensiva contro la violenza che quotidianamente viene esercitata dal capitalismo globale e dai suoi 'cani da guardia'; come tale, essa è legittima. Ed è anche necessaria, poiché solo attraverso la violenza sarà possibile raggiungere la meta da essi agognata: una umanità organizzata in piccole comunità indipendenti e libere da ogni forma di costrizione.
Fra i teorici del neoanarchismo spicca, per il radicalismo delle sue tesi, John Zerzan. Egli propugna senza mezzi termini la fuoriuscita dalla civiltà e il ritorno all'età della pietra, quando non esistevano né la proprietà privata, né le classi, né, tanto meno, lo Stato, con i suoi apparati coercitivi e l'uso sistematico della violenza. Nel suo saggio Future primitive - considerato da molti il Manifesto ideologico degli Anarchici di Eugene (Oregon) - Zerzan ricorda che, prima dell'invenzione dell'agricoltura, "la vita era fatta di ozio, intimità con la natura, saggezza istintiva, uguaglianza fra i sessi e benessere". Non c'erano, naturalmente, classi e conflitti di classe: regnavano, sovrane, l'eguaglianza e la solidarietà. Le comunità primitive, erano, insomma, ciò che i pensatori anarchici hanno sempre indicato come la meta cui l'umanità deve tendere: una fraterna comunità di liberi e di eguali. Ma, con l'invenzione e la diffusione dell'agricoltura, l'armonia delle comunità primitive è andata in frantumi e l'umanità ha imboccato la via della civiltà, vale a dire la via del lavoro costrittivo, della gerarchia sociale, della distruzione dell'ambiente, della guerra e della schiavitù. Non siamo molto lontani da Rousseau e dal mito del buon selvaggio, che vive in armonia con la natura e con i suoi simili. Mentre Rousseau, però, non si faceva soverchie illusioni circa la possibilità di restaurare l'età dell'innocenza, Zerzan è dell'idea che la felicità perduta sia a portata di mano: è sufficiente abolire la divisione del lavoro, l'agricoltura, l'industria, il commercio, le scienze e la tecnologia; in altre parole, tutto ciò che definisce e caratterizza la civiltà moderna. "Una vita qualitativamente diversa - così Zerzan ha formulato il suo ideale anarchico - comporta l'abolizione dello scambio sotto qualsiasi forma a favore del dono e dello spirito di gioco. Al posto della coercizione al lavoro, l'obiettivo centrale e immediato è un'esistenza priva di imposizioni: il piacere senza impedimenti, l'attività creativa secondo le passioni dell'individuo e in un contesto pienamente egualitario": tutte cose che potranno essere ripristinate poiché, a suo giudizio, "diecimila anni di tenebre e schiavitù non resisteranno a dieci giorni di rivoluzione totale".
Il pathos esistenziale che anima questa costruzione ideologica è ciò che lo stesso Zerzan chiama "l'odio per la vita moderna", completamente tiranneggiata dagli impersonali imperativi del capitale, della scienza e della tecnologia, nonché l'aspirazione a cancellare tutto ciò che è indipendente dall'uomo per accedere al 'regno della libertà assoluta'. Affatto logica, date le premesse dalle quali Zerzan prende le mosse, la conclusione di Future primitive: "Il vero impulso umanitario e pacifico è quello che si dedica a distruggere implacabilmente la dinamica malefica nota come civiltà". Come dire: nessun compromesso con il sistema che ha esteso i suoi tentacoli sull'intero pianeta: la sua perversione è tale che l'unica soluzione è quella di raderlo al suolo, pietra dopo pietra, onde sgombrare il campo alla restaurazione delle forme di vita che hanno preceduto l'invenzione della civiltà e delle istituzioni, colpevoli di aver fatto del mondo un inferno popolato da vittime e carnefici.
Ancora più radicale, se possibile, la contestazione ideologica del capitalismo globale elaborata da Hakim Bey - pseudonimo dell'etnologo americano Peter Lamborn Wilson -, autore di un pamphlet che ha esercitato un'influenza non modesta sulla galassia dei movimenti no global: T. A. Z. The Temporary Autonomous Zone. Il punto di partenza di Hakim Bey è un attacco frontale alla concezione marx-leninista della rivoluzione: "Rivoluzione, reazione, tradimento, la fondazione di uno Stato ancora più forte e opprimente. Una maligna trappola del destino, un incubo nel quale non riusciamo a sfuggire quale malefico Eone, quell'incubus: lo Stato, uno Stato dopo l'altro, ogni paradiso comandato da un altro angelo malvagio" (v. Bey, 1991; tr. it., p. 13). Occorre cancellare la società borghese dalla faccia della Terra, ma non per sostituirla con lo Stato onniproprietario, e per ciò onnipotente, come hanno fatto i partiti comunisti quando si sono impossessati del potere. All'idea di rivoluzione, che ha tradito tutte le speranze suscitate con le sue ingannevoli promesse, deve sostituirsi quella di "insurrezione che fiorisca spontaneamente in una cultura anarchica". Essa, tuttavia, non potendo sfidare lo "Stato megacorporato dell'informazione", deve mirare alla creazione di Zone Temporaneamente Autonome (TAZ). "La TAZ - scrive Hakim Bey - è come una sommossa che non si scontra direttamente con lo Stato, un'operazione di guerriglia che libera un'area (di tempo, di terra, di immaginazione) e poi si dissolve per riformarsi in un altro luogo, in un altro tempo, prima che lo Stato la possa schiacciare. La TAZ è una tattica perfetta per un'era nella quale lo Stato è onnipresente e onnipotente, eppure simultaneamente pieno di crepe e vuoti [...]. La TAZ deve essere capace di difesa; ma sia l'attacco che la difesa dovrebbero, se possibile, evadere la violenza dello Stato che non è più una violenza significativa. L'attacco è portato a strutture di controllo, essenzialmente a idee; la difesa è l'invisibilità, un'arte marziale, e l'invulnerabilità, un'arte occulta fra quelle marziali. La Macchina di Guerra Nomade conquista senza essere notata e si muove prima che la mappa possa essere aggiornata" (ibid., pp. 16-17). Si tratta, in definitiva, di istituzionalizzare quella che Hans Magnus Enzensberger ha chiamato "la guerra civile molecolare", al tempo stesso permanente ed elusiva, con l'obiettivo dichiarato - rectius: urlato - di annientare la civiltà moderna, poiché solo da tale annientamento potrà finalmente materializzarsi il "sogno anarchico, lo stato senza Stato, la Comune, la zona autonoma di durata, una società libera, una cultura libera".
Come si vede, le forme che la contestazione del capitalismo ha assunto dopo la fine del 'secolo delle ideologie' sono, almeno in parte, diverse da quelle che hanno dominato la scena internazionale nel XX secolo; ma non è punto cambiata la visione della storia che le sostiene e le anima, che continua a basarsi su uno schema tipicamente gnostico: uno stato di perfezione originario - l'Eone dell'Armonia dell'Uomo primevo con la Natura e con se stesso - disintegrato dall'apparizione di una perversa istituzione - la proprietà privata - che ha generato l'Eone della corruzione generale al quale farà seguito l'Eone della restaurazione dell'Armonia universale, quando - distrutto il capitalismo globale e tutto ciò che a esso è connesso - gli uomini potranno finalmente organizzare la loro vita comunitaria al di fuori di ogni forma di coercizione. Di qui l'imperativo categorico di fare tabula rasa dell'ordine esistente.
Nel marxismo troviamo lo stesso schema di fondo e troviamo altresì la stessa idea pantoclastica della rivoluzione: essa - le parole sono di Marx - deve "fare piazza pulita del vecchio mondo spettrale" essendo questo il "regno dell'homo homini lupus" e della "corruzione universale". Ma, mentre nella gnosi di Marx lo sviluppo delle forze produttive, strettamente legato alla scienza e alla tecnologia, è considerato un momento storicamente necessario della inarrestabile marcia dell'umanità verso il 'Regno millenario della libertà', nell'anarchismo ontologico dell'era globale nessuna istituzione della civiltà moderna viene risparmiata. Anzi, proprio quelle istituzioni che Marx considerava vettori di progresso e di civiltà - la scienza, l'industria e la tecnologia - sono messe in stato d'accusa poiché a esse viene imputata la condizione di degradazione in cui è precipitata l'umanità. Donde l'esaltazione di tutto ciò che può scompaginare la società industriale, che Hakim Bey ha spinto sino a invocare il caos quale precondizione della liberazione dalla tirannia del capitalismo globale. "Il nostro progetto - così il teorico della TAZ ha riassunto il senso della rivolta neoanarchica contro il mondo moderno - è il Caos. Andare attraverso il Caos, cavalcarlo come una tigre, abbracciarlo (anche sessualmente) e assorbire parte della sua shakti, della sua linfa questo è il Sentiero di Kali-Yuga. Nichilismo creativo" (v. Bey, 1991; tr. it., p. 113).
Ebbene: quella che Hakim Bey presenta come una forma superiore di nichilismo, centrata sull'idea che dal caos sorgerà una 'umanità nuova' finalmente affratellata, non costituisce affatto una novità storica. Già durante la Rivoluzione francese François-Noël Babeuf aveva lanciato una dichiarazione di guerra alla società borghese proclamando: "Tutti i mali sono al culmine; non possono ulteriormente aggravarsi; a essi non si può porre rimedio che con un sovvertimento totale! Tutto si confonda dunque! Tutti gli elementi si imbroglino, si mescolino e si scontrino! Tutto rientri nel caos e dal caos esca un mondo nuovo e rigenerato!" (F.-N. Babeuf, Le tribune du peuple, Paris: Guffroi, 1795-1796; tr. it., Il tribuno del popolo, Roma: Editori Riuniti, 1969, p. 244). L'anarchismo ontologico non fa che riprendere il progetto babuvista in un contesto caratterizzato, da una parte, dalla bancarotta planetaria del comunismo e, dall'altra, dalla trasformazione del mondo in un gigantesco 'villaggio globale' a motivo dell'esplosione dei mass media. Il che costringe a giungere alla conclusione che il capitalismo, pur essendosi imposto come il modo di produzione più razionale e dinamico, non è riuscito a conquistare le anime. Le resistenze morali che esso, a dispetto dei suoi spettacolari successi, continua a incontrare indicano che c'è qualcosa nell'uomo che si rifiuta di accettare l'idea che tutto debba essere regolato dalla legge (amorale) della domanda e dell'offerta, di fronte alla quale ogni altra considerazione deve cedere il passo.
Ma c'è qualcosa di più profondo che spinge la sinistra antagonista al rifiuto totale della civiltà moderna; c'è quello che Ernst Bloch chiamava il "sogno dell'incondizionato", vale a dire l'ardente desiderio - presente in tutti i movimenti apocalittici - di un mondo 'totalmente altro', che sorgerà dal rovesciamento dialettico del mondo rovesciato. Di qui il radicale nichilismo che caratterizza le ideologie neoanarchiche, tutte animate dalla convinzione che il mondo così com'è - orribilmente colmo di errori e orrori - non dovrebbe esistere. In esse continua ad agire quella potente passione pantoclastica che ha sempre dominato i movimenti rivoluzionari, icasticamente fissata dal giacobino Rabaut Saint-Étienne con la formula: "Tout détruire pour tout refaire à neuf".
Non sorprende, pertanto, che l'insorgenza dei movimenti no global sia stata paragonata alla contestazione degli anni sessanta, quando gli studenti del mondo occidentale trovarono nella 'teoria del gran rifiuto' di Herbert Marcuse la giustificazione filosofica della loro condanna della società opulenta; né che i black blocks abbiano indicato nell'opera di un discepolo di Marcuse - The subversion of politics di George Katsiaficas (v., 1991) - una delle fonti ispiratrici della loro dichiarazione di guerra alla civiltà moderna. Ma è Toni Negri colui che la stampa americana, non appena è stato pubblicato Empire, ha enfaticamente salutato come il 'filosofo del popolo di Seattle'. Egli non ha avuto alcuna esitazione ad affermare con la massima sicurezza che, proprio grazie al fenomeno della globalizzazione, stanno formandosi le condizioni strutturali di un nuovo ciclo rivoluzionario. A suo dire, il proletariato globale - la 'moltitudine', massa planetaria che ribolle, minacciosa, come un'immensa lava capace di travolgere tutto e tutti - non solo sarà in grado di resistere eroicamente agli "attacchi implacabili del Capitale imperiale", ma, grazie alla "sua volontà di essere contro e al suo desiderio di liberazione", diventerà quanto prima il soggetto cosmico-storico capace di "far erompere la lotta di classe attraverso tutto il mondo della vita" sino alla soppressione di quel "putrido e tirannico anacronismo" che è la proprietà privata dei mezzi di produzione. Questo è in sintesi il messaggio di Hardt e Negri (v., 2000) contenuto in Empire, nel quale - a dispetto del fatto che nel 2001 il "Time" abbia inserito Toni Negri nella classifica annuale dei sette più importanti 'innovatori' - le uniche novità riscontrabili sono lessicali: la 'moltitudine' sostituisce il proletariato; l''Impero' il capitalismo; la 'globalizzazione' il colonialismo; il "big government che dirige la grande orchestra delle soggettività ridotte a merci" lo Stato quale comitato d'affari della borghesia; la "resistenza creativa dei militanti comunisti" il partito dei rivoluzionari di professione.
Tutto ciò rende manifesto che nella cultura della sinistra antagonista sono, sì, cambiate quelle costruzioni simboliche che Vilfredo Pareto chiamava "derivazioni", ma i "residui" sono rimasti quegli stessi che hanno mobilitato generazioni di rivoluzionari a partire dal momento in cui il mito gnostico del rovesciamento violento del mondo rovesciato ha fatto il suo ingresso sulla scena, inaugurando così l'"epoca della speranza nella rivoluzione". In effetti, a ben guardare, il progetto fondamentale della sinistra antagonista resta quello fissato da Engels con le seguenti parole: appiccare un "incendio generale" per bruciare le "vecchie istituzioni" dal momento che queste, dopo la "colpevole caduta" nel "regno della alienazione", sono tutte "degne di perire". Il che porta alla conclusione che, anche in quella che è stata definita l''età post-ideologica', l'aspirazione a creare la società perfetta attraverso la politica della tabula rasa non è punto evaporata; come non è punto evaporata la versione roussoiana del peccato originale, secondo la quale il male radicale non è inerente alla natura umana, bensì è da imputare alla sconvolgente apparizione di una perversa istituzione - la proprietà privata - che ha scatenato l'hobbesiano bellum omnium contra omnes. Donde la visione demonizzante del capitalismo: esso è il diabolico demiurgo responsabile della depravazione dell'uomo e della corruzione del mondo, sicché l'annientamento del sistema descritto da Marx come "un Moloch che pretende il mondo intero come vittima a lui spettante" è la conditio sine qua non della liberazione e della rigenerazione dell'umanità. E poiché capitalismo e civiltà occidentale sono inestricabilmente intrecciati, il progetto rivoluzionario di annientare il capitalismo altro non è che il progetto di annientare la civiltà occidentale: lo stesso, dunque, del fondamentalismo islamico, anche se le motivazioni ideologiche dei no global sono ben diverse da quelle dei muǵāhidīn. Chiaramente, la bancarotta planetaria della rivoluzione marx-leninista non ha affatto significato la sparizione dei nemici interni dell'Occidente, i quali continuano a vedere nella civiltà moderna una perversione dell'ordine naturale e, dunque, una realtà che va rifiutata e combattuta nei suoi principî costitutivi. Talché si può dire che quando Alberto Asor Rosa (v., 1992) ribadì che, nonostante il collasso del comunismo, la missione storica degli intellettuali 'progressisti' restava quella di "obbligare l'Occidente a vedersi, e dunque aiutarlo a dissolversi", trovava espressione una passione nichilistica tutt'altro che estinta; anzi, pronta ad accendere gli animi non appena la congiuntura storica fosse divenuta favorevole. Che è, poi, ciò che è effettivamente avvenuto a partire dal momento in cui la rivoluzione mediatica, con i suoi potenti strumenti di comunicazione transnazionale, ha reso possibile organizzare la contestazione globale del capitalismo globale.
4. L'ideologia neoliberista e i suoi critici
Subito dopo il crollo del muro di Berlino, non pochi sentenziarono che fra le sue rovine non c'era solo il comunismo, ma anche il modello socialdemocratico, basato sul compromesso fra lo Stato e il mercato; e sentenziarono altresì che ormai ogni forma di interventismo statale nell'economia era destinata a essere considerata nient'altro che una sopravvivenza di una tradizione politico-ideologica che aveva fatto definitivamente il suo tempo. Il liberismo doveva regolare la vita economica dei paesi industriali avanzati poiché, diversamente da quello che avevano sostenuto i keynesiani, intelligente era il mercato autoregolato, non già lo Stato. Sicché, esisteva solo un modo per imboccare la via dello sviluppo: adottare il laissez faire e aprirsi al mercato mondiale. Lo imponevano gli impersonali imperativi dell'economia, fra i quali di decisiva importanza era il libero movimento dei capitali. Bloccare tale movimento - o solo frenarlo - avrebbe significato violare il principio fondamentale della ratio: l'utilizzo delle risorse scarse là dove esso risulti più conveniente.
In effetti, il capitalismo globale è un sistema di mercato senza frontiere, nel quale i tassi di interesse, i tassi di cambio e i prezzi azionari dei vari paesi sono strettamente legati fra loro e i mercati finanziari esercitano una potente influenza sull'andamento generale della vita economica. Il risultato è un gigantesco sistema circolatorio, il quale, dopo aver attratto i capitali nei mercati e nelle istituzioni finanziarie del centro, li ripompa verso la periferia. È per questo che il sistema capitalistico globale è stato paragonato a un impero. Esso, oltre a dominare un'intera civiltà - quella occidentale -, domina anche, sia pure indirettamente, il suo 'proletariato esterno', vale a dire tutti i popoli che, pur non facendo parte del sistema, sono coinvolti nel suo irrefrenabile dinamismo. Ma si tratta di un dominio sui generis, dal momento che esso si manifesta in forme del tutto impersonali. Nel capitalismo globale non sono gli uomini che esercitano la sovranità, bensì la logica catallattica, la quale non conosce confini di sorta e, precisamente per questo, tende a dilagare in ogni dove e a imporre i suoi imperativi funzionali a tutto e tutti.
I risultati ottenuti nei primi anni dalla globalizzazione dell'economia sono stati tali che persino i partiti dell'Internazionale socialista hanno incominciato a parlare il linguaggio del mercato, hanno accettato la politica delle privatizzazioni e hanno rinunciato all'idea della programmazione. Inoltre, il fenomeno della globalizzazione, riducendo progressivamente le capacità di manipolazione delle macrovariabili dello sviluppo da parte dello Stato nazionale, ha inferto un duro colpo al paradigma keynesiano su cui per decenni si era basata la politica riformatrice della socialdemocrazia europea. Come risultato, l'affermazione planetaria della new economy è stata salutata come la rivincita di Hayek su Keynes e la politica economica del Washington consensus è stata esaltata come la sola e unica via verso la crescita e lo sviluppo. E a coloro che obiettavano che affidare la distribuzione dei diritti sociali e delle chances di vita esclusivamente al mercato significava violare il 'contratto sociale' tacitamente stipulato fra i governanti e i governati, gli ideologi del neoliberismo rispondevano con l'idea del trickle down, secondo la quale i benefici della crescita della ricchezza sarebbero arrivati - sia pure lentamente, goccia a goccia - anche alle categorie sociali più povere.
Ma, alla distanza, è accaduto esattamente il contrario. La new economy ha aperto quella che l'ex vicepresidente della Federal Reserve, Alan Blinder, non ha esitato a definire la "nuova età della disuguaglianza". La sua caratteristica principale, in effetti, è lo spostamento senza precedenti del denaro e del potere dal lavoro al capitale. Ciò accade perché la globalizzazione pone in diretta concorrenza non più i lavoratori dei singoli paesi, ma i lavoratori del mondo. Si stabilisce così, da una parte, il circuito dei top managers - in cui i guadagni vanno alle stelle -, dall'altra, il circuito dei prestatori d'opera a livello esecutivo (sia manuale che intellettuale), nel quale, in nome della massima efficienza, le retribuzioni vengono drasticamente compresse verso il basso. Generosa con i possessori di capitali e di know how particolarmente apprezzato dal mercato internazionale, la nuova economia globale ha significato, per la maggior parte dei lavoratori, redditi stagnanti o addirittura ridotti, instabilità occupazionale e ansietà crescente. La paga di un manager, negli Stati Uniti, può arrivare a essere 400 volte superiore a quella di un normale lavoratore e il presidente di una corporation può guadagnare 3.000 volte di più di un suo dipendente. Nel 1995, il reddito del 20° degli Americani più ricchi è risultato essere ben 78 volte superiore a quello del 20° degli Americani più poveri, laddove nel 1960 era solo 30 volte superiore. Sempre nel 1995, l'1° della popolazione possedeva il 40° della ricchezza nazionale, vale a dire il doppio della quota da esso posseduta vent'anni prima. Chiaramente, sta accadendo che, in luogo del livellamento delle condizioni materiali di vita previsto da Alexis de Tocqueville, negli Stati Uniti è in atto uno spostamento massiccio della ricchezza dai più poveri ai più ricchi. Ciò ha prodotto il fenomeno, quasi sconosciuto in Europa, dei working poors, dei poveri che restano poveri pur lavorando regolarmente. Il risultato è che la fascia di coloro che vivono all'insegna di una silente disperazione è cresciuta enormemente ed è altresì cresciuta enormemente la fascia di coloro che vivono esercitando professioni criminali. Tant'è che le carceri americane ospitano circa 2 milioni di detenuti, mentre altri 4 milioni di cittadini sono in attesa di giudizio.
Di fronte a queste cifre, persino un liberale popperiano come George Soros è giunto alla conclusione che, mentre durante la guerra fredda la società aperta era minacciata dai "fondamentalisti della pianificazione", attualmente essa è minacciata dai "fondamentalisti del mercato". Questi, secondo Soros, sono ciechi e sordi di fronte al fatto che, se è vero che senza mercato non si dà democrazia pluralistica, è altresì vero che esiste una tensione permanente fra il primo e la seconda. Affinché i diritti di cittadinanza (civili, politici e sociali) siano universalmente fruiti, il sistema di mercato deve essere corretto dalla presenza di istituzioni pubbliche specificamente deputate a ridurre, nei limiti del possibile, l'area della povertà e dell'esclusione. Per contro, i fondamentalisti del mercato giudicano autenticamente liberale solo una società nella quale tutte le attività sociali e le interazioni umane siano considerate alla stregua dei rapporti transazionali, cioè fondate esclusivamente sul contratto economico, e valutate in base a un unico parametro: la convenienza. Di qui l'idea, formulata a più riprese e con la massima energia da Hayek, secondo la quale la giustizia sociale altro non sarebbe che il residuo di una mentalità tribale, affatto incompatibile con i valori e le esigenze di una società autenticamente libera. Del tutto consequenziale, data la pretesa di identificare la civiltà liberale con l'ordine catallattico, la richiesta che lo Stato torni a fare il guardiano notturno della proprietà privata e il garante della correttezza del gioco della concorrenza.
Ebbene: a giudizio dei critici del fondamentalismo del mercato, un tale modello, teorizzato a chiare lettere e difeso con un oltranzismo quasi feroce dai neoliberisti, non può non sfociare nel culto idolatrico del denaro e del successo economico, quindi in una forma distorta di società aperta; non può, inoltre, non suscitare diffuse e fondate preoccupazioni circa il futuro della stessa democrazia. Tant'è che, alla fine del 2000, la più autorevole rivista dell'establishment economico americano, "Business Week", ha dovuto prendere atto che da un sondaggio risultava che ben tre cittadini su quattro ritenevano che le corporations avessero acquistato "troppo potere su troppi aspetti della vita sociale" e che le scelte dei governi erano pesantemente condizionate dal capitale finanziario. Il che sta a indicare che lo straripamento della logica catallattica incomincia a essere percepito come una minaccia per il 'sogno americano'.
Peraltro, che il mercato autoregolato possa progressivamente erodere le fondamenta morali della società è una preoccupazione di vecchia data, enunciata non solo dai critici socialisti del capitalismo, ma persino da un liberale come Max Weber. Questi, in Economia e società, ammonì a tenere costantemente presente che "dove il mercato è abbandonato alla sua autonormatività, esso conosce soltanto la dignità della cosa e non della persona, non doveri di fratellanza e di pietà, non relazioni umane originarie di cui le comunità personali siano portatrici. Queste costituiscono altrettanti ostacoli al libero sviluppo della nuda società di mercato; e gli specifici interessi di questa, a loro volta, costituiscono lo specifico banco di prova di tutte quelle relazioni. Il mercato libero, cioè non vincolato da norme etiche, con il suo sfruttamento della costellazione degli interessi e con il suo mercanteggiare, è nella sua radice estraneo ad ogni affratellamento" (v. Weber, 1922; tr. it., vol. I, p. 620). Insomma, il mercato autoregolato sacrifica, sull'altare della massima efficienza e del profitto, l'eguaglianza e la solidarietà e, per ciò stesso, non può non entrare in rotta di collisione con il principio etico-politico che sta alla base della civiltà moderna: l'universale fruizione dei diritti. Il mercato è, certamente, il motore della crescita economica e dell'innovazione; ma, altrettanto certamente, non può essere abbandonato alla sua autonormatività senza produrre un sistema perverso, basato sull'asservimento della società agli impersonali imperativi dello sviluppo; cioè un sistema nel quale l'economia - "regno dei mezzi" - stabilisce, in modo automatico e impersonale, i fini che devono essere perseguiti, quali che siano i costi umani. Accade così che negli Stati Uniti gli improvvisi licenziamenti di massa, che sconvolgono la vita di migliaia e migliaia di famiglie e persino di intere comunità, non solo sono diventati frequenti, ma vengono considerati dagli ideologi della new economy del tutto normali, quasi che fossero accadimenti naturali, al cospetto dei quali le vittime non possono fare altro che chinare, rassegnate, la testa. Di fronte a fenomeni di tale natura e ampiezza, non può certo sorprendere che la new economy sia stata ribattezzata Judas economy e che sia stata accusata di aver tradito i lavoratori.
È chiaro, dunque, che oggi nel mondo occidentale esistono due modelli di economia di mercato: quello socialdemocratico, centrato sul Welfare State quale garante della universale fruizione dei diritti di cittadinanza; e quello che Edward Luttwak ha battezzato "turbocapitalismo", che conosce solo un valore, il successo delle imprese, e che, conseguentemente, valuta ogni cosa in base alla redditività che essa è in grado di garantire. Pertanto, due diverse - e incompatibili - visioni della 'giusta società' sono oggi l'una di fronte all'altra: la visione liberista e la visione socialdemocratica. E, dal momento che - questa è la conclusione cui è giunto recentemente il premio Nobel per l'economia Joseph Stiglitz (v., 2002) - "la globalizzazione non funziona per molti poveri del mondo, non funziona per gran parte dell'ambiente e non funziona per la stabilità dell'economia mondiale", non è detto che la concezione socialdemocratica dei rapporti fra l'economia e la società - data per morta e seppellita alla fine del secolo scorso - non ottenga una clamorosa rivincita. Resta il fatto che i cittadini della comunità europea hanno opposto finora una energica resistenza al 'vento neoliberista' e che persino i governi di destra si sono ben guardati dallo smantellare lo Stato sociale.
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