Immagine
Nell'etimologia della parola già si profilano le ambiguità che hanno animato il plurisecolare dibattito sullo statuto e sulla funzione delle immagini. L'etimo è il latino imago, inis: da un lato 'imitazione', dall'altro 'forma visibile'. Le oscillazioni del significato sono complementari. L'i. è stata infatti concepita sia come una riproduzione della realtà che si offre alla vista (l'eikon dei Greci), sia come il risultato di una formalizzazione: non semplicemente riproduzione del sensibile, quindi, ma prodotto, costruzione formale. In queste ultime accezioni si rafforza la distinzione tra i. e res: l'i., in questo caso, si riconosce come apparenza (il simulacrum latino), o addirittura fantasma (dal greco phantasma, cioè "sogno", "visione"). Dunque, da un lato imita la cosa; dall'altro segnala la distanza dall'oggetto che (ri)produce. Rappresentazione/costruzione, res/forma, assenza/presenza: su queste tensioni si articola quella complessa polarità tra imitazione ed espressione che informa il dibattito filosofico sull'immagine.
La riflessione teorica ha problematizzato queste dialettiche, esprimendo, pur nella multiformità delle posizioni, due orientamenti principali: una linea di pensiero ha valorizzato gli aspetti mimetici, realistici dell'i., riflettendo sulla possibilità di colmare la distanza tra la rappresentazione e il rappresentato; una seconda linea, invece, ha insistito sull'i. non come riproduzione ma come produzione, come sistema formale chiuso, dotato di leggi proprie. L'essenza dell'i. cinematografica, da quest'ultima prospettiva, risiede non nella fedeltà, ma nello scarto rispetto al referente: la sua produttività estetica e intellettuale è incoraggiata proprio dai suoi fattori differenzianti.
André Bazin cerca di oltrepassare la riduttiva concezione dell'i. come riproduzione del reale per fare dell'analogia la forma di una vera e propria ontologia. Secondo Bazin tra il referente (l'essere) e la copia (l'immagine) vi sarebbe una somiglianza ontologica prima che morfologica: l'i. infatti "beneficia di un transfert di realtà dalla cosa alla sua riproduzione" (Bazin 1958; trad. it. 1986², p. 8). Egli individua le basi del realismo cinematografico nell'oggettività riproduttiva e nell'assenza dell'uomo 'sostituito' dall'occhio fotografico. A queste caratteristiche il cinema aggiunge la durata effettiva delle cose, il movimento. Bazin enfatizza la profondità di campo dell'i. cinematografica e il piano-sequenza, rifiutando invece le logiche del montaggio analitico, per recuperare la complessa ambiguità della visione "naturale". L'i. deve salvaguardare la continuità dell'esistente, evidenziando del mondo stesso l'intrinseco mistero. Nel pensiero baziniano si ritrova anche quel movimento reciproco tra soggetto e oggetto evidenziato dalla fenomenologia: il mondo si rivela attraverso l'i. proprio perché in essa si raggiungono reciprocamente le strutture oggettive della realtà e la soggettività di uno sguardo spettatoriale che costruisce liberamente il suo percorso di apertura alla verità. Alla luce di questa prospettiva ontologica, Bazin rilegge la storia dell'i. cinematografica, distinguendo tra i registi che credono in essa e quelli che credono nella realtà. I primi (David W. Griffith, Sergej M. Ejzenštejn, i registi del cinema muto tedesco o quelli della Hollywood del periodo classico ecc.) sostengono l'autonomia della rappresentazione rispetto al rappresentato e valorizzano le logiche formali (le componenti plastiche, il montaggio ecc.). I secondi, invece, sono convinti che l'i. debba rivelare le strutture profonde della realtà (si pensi solo all'uso della profondità di campo nel cinema di Orson Welles). All'i. autoreferenziale Bazin contrappone l'immagine-fatto del Neorealismo, capace di cogliere la realtà nel suo stato immediato, anteriore al senso, e di restituirne tutta l'ontologica ambiguità.
Significativa è anche la riflessione sull'i. cinematografica condotta da Siegfried Kracauer. Per Kracauer essa eredita dalla fotografia una vocazione alla riproduzione e tende a restituire e attestare la realtà del fenomenico. Kracauer, tuttavia, si distingue dalla posizione ontologica di Bazin: l'i. non rivela l'essere, ma svolge piuttosto una funzione di documentazione dell'esistente, si presenta come una testimonianza del mondo eventualmente in grado di aprirsi agli aspetti meno valorizzati dalle consuete esperienze percettive (per es. il minuscolo, il transitorio, il casuale, l'inanimato). La quotidianità del mondo, materia grezza dell'i. cinematografica, si riscatta attraverso il cinema dalla banalità corrente, dalla stereotipia delle forme e ne esce sublimata, composta in una visione di-staccata dalla norma, in una particolare coniugazione tra la soggettività creativa dell'occhio umano e l'oggettività impersonale della riproduzione.
Nella riflessione di Pier Paolo Pasolini ‒ più vicina a una poetica personale che a una teoria ‒ la relazione ontologica tra l'i. cinematografica e la realtà arriva quasi all'identità, in quanto il suo significato, afferma, è tutto nella realtà, e il cinema coincide di fatto con essa. Di conseguenza l'i. del cinema è la lingua scritta della realtà, traduce il linguaggio dell'Essere. I segni del linguaggio dell'i., per Pasolini, non sono storicamente codificati: l'im-segno (così ne definisce l'unità espressiva) è illimitatamente offerto dal sordo caos delle cose, e il suo riconoscimento avviene non per convenzione quanto per una condivisione collettiva dell'esperienza dello sguardo in chiave archetipica e antropologica, sia pure variata dalle diversità psicologiche e sociali. Con tali premesse diventa decisivo interrogarsi non tanto sulla definizione pasoliniana dell'i., quanto sul suo concetto di realtà. La realtà, in Pasolini, è il mondo in divenire, dove soggetto e oggetto si appartengono e si relazionano. Il linguaggio opera dall'interno della realtà e consente alle cose non di essere rivelate da un punto di vista esterno, 'contemplativo', ma di autorivelarsi. L'i., dunque, è la cosa, coincide con essa perché costituisce l'unica possibilità per la cosa di definirsi, rispetto all'ambiguità originaria del mondo, diventando linguaggio. È quindi una visione che nasce nel soggetto per una sorta di pressione dall'interno della carne del mondo. Tra i. e mondo, quindi, vi sarà sempre una relazione non arbitraria o simbolica, ma di necessità ontologica. A differenza delle premesse ontologiche di Bazin (per il quale l'i. rivelava il reale ancora prima di essere linguaggio), Pasolini si concentra sulle strutture linguistiche dell'i. stessa per individuare una vera e propria "grammatica della cinelingua".
L'interrogazione sulle strutture dell'i., a partire dalla sua condizione di virtualità, è stata approfondita nei primi anni Ottanta dal filosofo Gilles Deleuze. Nello stato anteriore alla percezione, essa costituisce un piano di immanenza, è l'infinito di tutte le i. e coincide con il movimento, è immagine-movimento: "è l'oggetto, è la cosa stessa colta nel movimento come funzione continua" (Deleuze 1985; trad. it. 1989, p. 41). Tra le i. del cinema e quelle del mondo vi è un'assoluta identità proprio nel costituente ontologico del movimento. Nella sua pura virtualità si tratta di uno spazio attualizzabile e non linguistico: è un 'enunciabile'. Nella riflessione deleuziana l'i. come enunciabile sostanzia il cinematografico e fonda come possibilità l'esistenza attualizzata dell'immagine-enunciato, propria del filmico. Le relazioni tra virtuale e attuale, tra cinematografico e filmico, stabiliscono la complessità del mondo e del cinema. Le immagini-enunciato definiscono le forme della classificazione delle stesse immagini. Deleuze propone una prima grande tripartizione dell'immagine-movimento: quando essa è rapportata a un centro di indeterminazione (di fatto il soggetto) che sottrae il movimento alla sua indefinitezza, diventa immagine-percezione; la reazione alla percezione assume la forma di un'azione, generando l'immagine-azione (una rappresentazione organica del rapporto uomo-mondo, situazione-azione che esprime la forma classica del cinema); dalla percezione all'azione vi può essere un'inquietudine percettiva, un'esitazione nell'azione, ed è in questo stato intermedio che si determina l'immagine-affezione, espressione della qualità e della potenza del possibile (il primo piano di un volto in Griffith, gli spazi frammentati di Robert Bresson ecc.). L'allentamento dei legami tra percezione e azione, avviato dal Neorealismo italiano, segna l'emergere di i. ottico-sonore pure. L'integrazione organica uomo-mondo del cinema classico è messa in crisi dal cinema moderno: le situazioni sono sempre meno definite, lo sguardo non genera più l'azione, ma si sviluppa in pura visione delle cose, le azioni diventano fluttuanti, prevale l'erranza, l'aleatorietà. La costruzione di i. ottico-sonore pure, svincolate da ogni legame senso-motorio con il corpo, private di un rapporto di causalità, consente al cinema di accedere a dimensioni direttamente temporali e mentali, a una vera e propria immagine-tempo. Se nell'immagine-movimento l'i. stessa e il movimento erano inseparabili ma distinguibili, nell'immagine-tempo diventano indiscernibili: dalla rappresentazione indiretta del tempo si passa alla sua 'visione' diretta. La percezione, se non si prolunga in azione (l'i. 'attuale'), può ritornare all'oggetto ed entrare nei circuiti dell'i. virtuale. Da questo movimento di ritorno nella virtualità, nell'i. come enunciabile, emergono le immagini-ricordo, le immagini-sogno e le immagini-cristallo (i. dirette del tempo, in cui il presente che passa e il passato che permane coesistono)
Nelle riflessioni sul realismo (v.) e l'ontologia dell'i. si afferma che lo scarto tra l'oggetto e la sua rappresentazione è prossimo alla coincidenza. I teorici che vedono in essa una struttura formale pongono invece l'accento sul fatto che ogni i. presuppone, accanto alla mimesis, anche una poiesis, ovvero una logica di produzione. E quindi teorici come Rudolf Arnheim e S.M. Ejzenštejn, pur sviluppando posizioni molto diverse, sono convinti che la costruzione dell'i. implichi l'attivazione di procedimenti compositivi e di una forte mediazione formale.
Arnheim si muove nell'orbita teorica della psicologia della Gestalt. L'i., a suo avviso, è sempre uno schema, sottintende una mediazione, una riorganizzazione formale del visibile sulla base delle strutture della percezione. La sua forma è definita dai patterns mentali dei soggetti percettivi e dalle specifiche qualità del medium. Secondo Arnheim la specificità dell'i. cinematografica risiede proprio nei deficit riproduttivi del cinema (il discorso teorico che egli sviluppa fa riferimento in primis al cinema muto, caratterizzato ovviamente da una forte egemonia del visivo). Lo statuto 'differenziale' dell'i. filmica costituisce la garanzia dell'autonomia del cinema. Arnheim individua i più importanti fattori di differenziazione dalla realtà: la proiezione sulla superficie piana dell'inquadratura di oggetti e spazi tridimensionali; una sensibile riduzione della profondità; l'assenza di colore; i limiti dell'i., definiti dai bordi dell'inquadratura; la frammentazione della continuità percettiva, attraverso il montaggio; l'assenza degli stimoli percettivi non visivi (tattili, olfattivi, sonori ecc.). E il cinema afferma la propria qualità artistica proprio nell'articolare e valorizzare gli elementi differenzianti dell'i. in un quadro compositivo caratterizzato dal superamento della riproduzione del visibile a favore di una nuova forma visiva e dinamica.
Nel ricchissimo pensiero teorico di Ejzenštejn la qualità specifica dell'i. filmica non discende dalla supposta vocazione mimetica del nuovo medium. L'i. non deve essere riproduzione del dato ma ricombinazione degli elementi visibili e generazione del senso. Attraverso un articolato lavoro di formalizzazione cinematografica del segno, che trova nel montaggio il principio operativo dominante, essa può frantumare e ricomporre espressivamente il dato, può oltrepassare la rappresentazione di un referente particolare per accedere a una dimensione nuova e produrre una significazione globale di tipo eidetico (ossia legata alla funzione intellettuale dell'immagine-idea). Ejzenštejn distingue la rappresentazione (izobraženie) dall'i. (obraz): la prima attiene all'oggetto, ai suoi contorni visibili, consiste nella figurazione dei tratti che lo denotano immediatamente e ne istituiscono i limiti, mentre la seconda mobilita il senso dell'oggetto, ne sa cogliere ed esibire la struttura generale (obobščenie). Nell'i., inoltre, si rende visibile non soltanto la natura di ciò che in essa è presentato, ma anche l'atteggiamento elaborato dalla coscienza che la realizza. La dimensione rappresentativa delle i. costituisce un materiale figurativo di partenza in forma di frammenti: questo materiale è oggetto di una ridefinizione strutturale che tende all'astrazione attraverso la costruzione di un processo associativo. La concatenazione tra i frammenti (il montaggio) non è riproduttiva, ma produttiva: non restituisce una totalità predeterminata, ma costruisce una nuova struttura del senso, che non era presente nei singoli frammenti rappresentativi: "con la combinazione di due rappresentabili si ottiene la notazione di qualcosa che è graficamente irrappresentabile [...]. Ma questo è montaggio! Sì. È la stessa cosa che facciamo noi nel cinema quando mettiamo in rapporto certi fotogrammi che appaiono univoci sotto il profilo rappresentativo e neutri per quanto riguarda il senso, in contesti e sequenze sensati" (1963-1970, 2° vol.; trad. it. 1986, pp. 4-5). Il lavoro di costruzione dell'i. si articola su diversi livelli di mediazione formale: il primo livello è interno alla singola inquadratura, cellula del film, e opera sulla composizione plastica, ossia sulla distribuzione/dislocazione, sul 'taglio' e lo 'scorcio' delle diverse componenti della scena all'interno del quadro (messa in quadro), in modo da evidenziare un "profilo compositivo generalizzato della messa in scena. Il secondo livello è il montaggio dei frammenti, la loro concatenazione in una forma-ritmo, in una linea del movimento, in un'immagine dinamica" (1963-1970, 2° vol.; trad. it. 1985, p. 319) motivata da un'unità di senso. Il rapporto di reciproca penetrazione e di unità tra rappresentazione e i. è presente anche nel primo livello, ma diventa particolarmente produttivo in questa fase della concatenazione di montaggio: "degli zoccoli che galoppano, la testa di un cavallo che corre, la groppa di un cavallo che fugge. Sono tre rappresentazioni. E solo dalla loro unificazione nella coscienza sorge il senso dell'immagine del galoppo di un cavallo" (1963-1970, 2° vol.; trad. it. 1985, p. 150). L'ultimo livello è quello dell'opera audiovisiva: in questo caso si tratterà di operare un coordinamento dei materiali visivi e sonori per la costruzione di una struttura polifonica. In ogni fase di costruzione dell'i., responsabile della produzione del senso è sempre un'operazione di montaggio.
L'i. per Ejzenštejn è essenzialmente mentale, una struttura interiore, dunque più vicina alla metafora (intesa non in chiave retorica ma come una dinamica di estensione/generalizzazione concettuale della figurazione) che all'icona, o alla materialità del visivo. La struttura dialettica del montaggio produttivo (proiezione formale di una dialettica più vasta, intesa come fondamento strutturale di ogni fenomeno) si propone infatti come una riproduzione dei processi logico-elementari attivati dallo spettatore: per questo il processo di costituzione delle i. cinematografiche mima e insieme esibisce il processo di formazione delle i. nello spettatore. L'i., quindi, non ha una realtà oggettuale ma mediata: in altri termini esiste non come risultato che si dà a vedere allo spettatore, ma come processo di percezione e intellezione che assume forma e senso grazie all'indispensabile cooperazione e coproduzione (variamente attiva/passiva a seconda delle fasi della riflessione ejzenštejniana) dello spettatore.
Le teorie sull'i. filmica come struttura di trasfigurazione, come dato e processo di costruzione, trovano nella riflessione semiotica motivi di approfondimento e di risistemazione. La nota distinzione, proposta da Charles S. Peirce, tra i tre tipi di segno (icona, indice, simbolo) riarticola anche l'interpretazione delle i. cinematografiche: l'icona rappresenta l'oggetto per via di similitudine o analogia, il segno indessicale implica un legame causale tra segno e referente, il segno simbolico si basa su una relazione interamente convenzionale tra il segno e l'oggetto di referenza. Nelle i. cinematografiche si possono trovare valenze di tutti e tre i tipi: iconiche (statuto analogico), indessicali (statuto ontologico) e simboliche (statuto culturale).
Nei primi anni Sessanta il profondo rinnovamento della riflessione teorica collocò gli interrogativi sull'i. al centro della questione della linguisticità del cinema, già sviluppata dai formalisti russi negli anni Venti. Jean Mitry, pur collocandosi in polemica con la nascente semiologia (v.) del cinema, individua nell'i. la materia di espressione propria del linguaggio cinematografico, e ne riconosce definitivamente la struttura segnica. Ogni i. filmica, afferma Mitry, è un segno a due gradi: da un lato, è il segno di ciò che riproduce; dall'altro, organizzata in serie, diventa segno una seconda volta, all'interno di una continuità discorsiva che implica di fatto l'esistenza di un linguaggio. Secondo Mitry, osserva F. Casetti, "l'immagine filmica è dell'ordine del linguaggio innanzitutto perché, come ogni linguaggio, istituisce un universo parallelo e autonomo che non si confonde con quello in cui viviamo" (1993, pp. 77-78).
Ma l'elaborazione di una teoria semiologica sull'i. cinematografica è opera soprattutto di Christian Metz. L'i. in movimento, egli afferma, stabilisce con la realtà una relazione analogica il cui funzionamento implica l'attivazione dei codici che intervengono nella decodifica dell'oggetto reale. Con la messa in evidenza di questa pluralità di codici "tecnici", "misti", "antropologici" che determinano l'analogia, Metz insiste sulla necessità di andare oltre l'analogia stessa, considerando la valenza linguistica dell'i. filmica. L'ingresso dell'i. nel linguaggio è assicurato dalla messa in relazione reciproca delle i. stesse in grandi unità sintagmatiche, più ampie delle unità linguistiche e strutturate da una serie di codici specifici (i movimenti di macchina, la cosiddetta punteggiatura cinematografica ecc.) e non specifici. Le i. si articolano all'interno di una struttura discorsiva che si dà un senso narrativo e una dimensione spazio-temporale attraverso un insieme di procedure significanti: "passare da un'immagine a due immagini è passare dall'immagine al linguaggio" (1972; trad. it. 1975, p. 75).
Al di là delle diverse interpretazioni emerse nella teoria del cinema, l'i. filmica presenta alcuni caratteri di base che ne definiscono la struttura. Essa ha innanzitutto una doppia valenza. Da un lato, in quanto registrata e impressa sulla pellicola; dall'altro, in quanto, soprattutto, proiettata e destinata ad apparire su uno schermo: anzi, la sua oggettivazione effettiva è ottenuta soltanto nella proiezione schermica. L'i. filmica deve quindi essere attivata grazie al meccanismo di proiezione e presenta caratteri di impalpabilità, di assenza dei contenuti visibili e di virtualità. È quindi segnata dalla presenza di una configurazione visiva e dall'assenza degli oggetti e delle persone visualizzate. Anche se l'i. proiettata è un'immagine-movimento, di fatto il movimento percepito dallo spettatore è il risultato di un processo percettivo effettuato mescolando funzioni fisiologiche e intellettuali, in quanto la pellicola è costituita da una serie di i. statiche, registrate fotogramma per fotogramma. Ogni insieme impresso sulla pellicola è sempre immobile, eppure il cinema presenta un'i. in movimento perenne. L'i. filmica è il risultato di una proiezione che prevede nel cinema sonoro uno scorrimento a 24 fotogrammi al secondo (da 12 a 20 durante il muto) alternati a 24 i. di nero. Esce quindi dal nero, è quasi incorporata al nero, anche se appare allo spettatore da esso totalmente svincolata e nella sua apparente continuità mobile. Un teorico francese come Guy Fihman ha definito questo processo di oggettivazione di un'immagine-movimento attraverso la concatenazione di un insieme di i. statiche come la realizzazione dei principi del pensiero di Zenone. Secondo Fihman (1979, p. 181) il cinema data da quando Zenone ha pensato la sua filosofia. Ma, all'opposto, Deleuze, pur non affrontando i problemi fisiologici e intellettivi della percezione, afferma il carattere strutturalmente nuovo dell'i. filmica, che implicherebbe una riorganizzazione della percezione del mondo.
A differenza di un'i. stampata o dipinta, quella filmica è costituita dal dinamismo della luce, sorta di materia mobile che delinea la composizione e disegna la forma cangiante e molteplice del visibile. Il cinema scrive con la luce, scrive sulla luce, costituisce un'avventura particolare nell'universo della luce, che è dinamica, in continua variazione, e ha una mobilità aggiuntiva. L'i. filmica è una configurazione di luce, ed è quindi una mobilità in continua trasformazione. Gli oggetti, le persone impresse sulla pellicola sono ricreati e trasformati in permanenza dalla luce, si sviluppano e si modificano grazie ai flussi continui e variabili della luminosità. Suo carattere fondamentale è tradizionalmente considerato l'illusione (o impressione) di realtà. L'i. filmica presenta generalmente un'analogia visiva con il mondo dei fenomeni ed è organizzata in modo da garantire un'impressione di realtà non solo grazie al lavoro di registrazione del visibile sulla pellicola effettuato dalla macchina da presa, ma anche grazie all'incorporazione del movimento e della durata nella stessa i. proiettata. Proprio il suo dinamismo sembra garantire gli effetti di profondità dello spazio e quasi di rilievo degli oggetti e dei corpi. L'illusione di realtà, d'altronde, è rafforzata dagli elementi di rappresentazione e di figurazione presenti nell'immagine. Essa infatti è fortemente segnata da molteplici aspetti di somiglianza con i referenti, di presentazione sostitutiva dei medesimi oggetti, di evocazione attraverso la descrizione o il ritratto di qualcosa. Questi effetti, che il procedimento di registrazione del profilmico assicura, sono definiti dalla qualità specifica del lavoro di messa in scena che contribuisce a sviluppare ulteriormente la mera datità rappresentativa in una dimensione figurativa e visiva. Il coordinamento di tutti gli elementi del visibile in un'i. coerentemente organizzata delinea la struttura visiva come una forma determinata, una configurazione formale. Nell'i. filmica, allora, la dimensione figurativa si intreccia e si sovrappone alla dimensione rappresentativa, di cui costituisce in fondo un livello stadiale più avanzato ed elaborato. Non solo nella messa in scena dei registi più impegnati nel disegno formale e pittorico, ma anche nella regia di alcuni autori legati soprattutto alla registrazione del visibile, le i. riuscite presentano un'essenziale determinazione figurativa che attesta la realizzazione di una consapevole formalizzazione.
L'i. filmica incorpora quindi la rappresentazione e/o la figurazione antropomorfica, correlata all'azione dei soggetti viventi e le integra con un lavoro di visualizzazione che costituisce un elemento qualificante particolare del cinema. Come orizzonte di intreccio di rappresentazione, di figurazione e di visualizzazione non ha una prevalente natura di rispecchiamento (riflesso) del mondo, ma al contrario si estende nell'orizzonte che lega il visivo alla sua rielaborazione formale e mentale e quindi all'immaginario. I suoi riferimenti infatti possono essere i fantasmi psichici non meno che i fenomeni visibili e le articolazioni rappresentative e figurative delle i. attestano insieme la contiguità del visibile schermico con l'immaginario, il suo definirsi nell'orizzonte psichico più che in quello mondano. Non bisogna dimenticare che l'i. è il punto di confluenza tra l'immaginario e il mondo, come rammenta Edgar Morin in Le cinéma, ou l'homme imaginaire. D'altronde lo stesso piano di significazione dell'i. è segnato da una sovrapposizione di strati di senso, che attestano un allargamento strutturale delle sue implicazioni semantiche (e formali). Già Ejzenštejn rilevava la compresenza nell'i. della forma visiva e dell'idea e la sua capacità di trasmettere e/o di produrre idee nello spettatore (1963-1970, 5° vol.; trad. it. Nell'interesse della forma, 1971). E Roland Barthes più recentemente ha sottolineato come l'i. filmica produca strati diversi di senso: un primo livello descrittivo e informativo, legato alla comunicazione, un secondo livello simbolico, che è poi quello della significazione, e un terzo livello più complesso, legato alla significanza e insieme alla materialità (immateriale) dell'i. e alle sue suggestioni possibili, un senso "evidente, erratico, ostinato", "fuori misura", "eccessivo… eccedente" (1970; trad. it. 1997, p. 116-17). Secondo Barthes questo terzo senso si esprime per es. in alcuni aspetti visivi particolari di Ivan Groznij di Ejzenštejn: "la compattezza del belletto dei cortigiani, spesso, calcato, oppure liscio, distinto; il naso stupido di uno, il disegno fine dei sopraccigli di un altro, il suo biondo slavato, la sua carnagione bianca e vizza, la piattezza curata della sua acconciatura, che tradisce il posticcio" (p. 116). Sono componenti che soltanto l'evidenza particolare e specifica, la dimensione materica dell'i. possono produrre e che in fondo non possono trovare un equivalente verbale. Per Barthes "il filmico è nel film ciò che non può essere descritto, è la rappresentazione che non può venir rappresentata" (p. 131): un'irriducibilità al verbale che vive dentro l'i., trascende i contenuti espliciti e si radica nella materia, nella fisiologia delle persone, qualcosa che le parole inseguono e cercano di spiegare, ma che resta radicata nella configurazione specifica stessa dell'i. e si rivela sostanzialmente intraducibile. Questa dimensione ulteriore rilevata da Barthes sottolinea in fondo l'alterità dell'i. filmica rispetto ai testi verbali e suggerisce una considerazione del cinema nella sua particolare configurazione visiva, contro le operazioni di riconduzione di questo ad altri orizzonti di pertinenza (la narratologia, per es., il linguaggio, i modi dell'enunciazione, secondo le varie ondate delle mode critiche affermate).In questa prospettiva è indubbio che il cinema ha elaborato nella sua storia non solo tecniche di montaggio o strutture narrative diverse, ma anche e soprattutto differenti tipologie dell'i., modelli diversi di configurazione filmica del visibile. E questi modelli hanno costituito in un certo senso il primo livello di oggettivazione e di significazione del testo filmico. L'avventura del cinema è anche la storia di macroforme visive diverse, che quindi attestano come la storia del cinema sia anche un sistema di differenze formali. Tra i modelli fondamentali di i. elaborati nella storia del cinema vale la pena rammentare almeno i seguenti:1) L'i. iperformalizzata sviluppata in particolare, ma non solo, nel periodo muto, da grandi autori, come Fritz Lang, Ejzenštejn, Georg W. Pabst, Robert Wiene, Marcel L'Herbier e Abel Gance. In questo orizzonte è possibile individuare ulteriori articolazioni: l'i. intensivo-deformata di Wiene e dell'Espressionismo, l'i. plastico-geometrica di Lang, l'i. dialettico-conflittuale di Ejzenštejn, l'i. organico-pittorica di Friedrich W. Murnau ecc.
2) L'i. verosimile e fortemente codificata del cinema hollywoodiano, esattamente programmata e realizzata secondo standard visivi estremamente elevati, che definiscono anche il visibile e il non visibile (Howard Hawks, John Ford, Frank Capra, William Wyler ecc.).
3) L'immagine-fatto del cosiddetto cinema della realtà propria del realismo francese, del Neorealismo e di parte della Nouvelle vague (Jean Renoir, Roberto Rossellini, i primi film di Luchino Visconti, Jean-Luc Godard, François Truffaut, Jacques Rivette ecc.).
4) L'immagine-colore, che delinea il visibile attraverso le dinamiche delle intensità cromatico-espressive (l'i. cromatico-espressiva di Ejzenštejn, di Vincente Minnelli, di Michelangelo Antonioni, di Bernardo Bertolucci, di Stanley Kubrick, di David Lynch ecc.).
5) L'i. sperimentale e non referenziale, che attesta la ricchezza e la varietà della ricerca dell'avanguardia, dal cinema astratto al Surrealismo, dal Dada fino alle esperienze estreme dell'Underground americano e all'orizzonte delle metafore della visione (da Viking Eggeling a Fernand Léger, da Man Ray a Kenneth Anger, da Stan Brakhage ad Andy Warhol).
All'interno di queste macrocategorie è possibile individuare modelli visivi ulteriori. La forte stilizzazione del sincretismo geometrico di Lang è profondamente diversa dalla stilizzazione distorsiva del caligarismo di Wiene, la ricreazione pop-simulativa del Godard dei secondi anni Sessanta è differente dal citazionismo pittorico di natura storicistica di Pasolini.Tutte queste opzioni di messa in scena, naturalmente, sono essenziali non solo rispetto alla configurazione specifica delle i., ma nell'oggettivazione delle poetiche e delle idee di cinema dei diversi registi. La rappresentazione del mondo non è quindi un carattere strutturale dell'i. filmica, ma è il risultato di una scelta di regia. Il cinema narrativo, d'altronde, non è l'unico esistente: l'avanguardia e l'Underground hanno creato un altro tipo di i. filmica, caratterizzata da una inventività del tutto particolare e da una forte componente autoriflessiva. L'i. filmica è quindi composizione visivo-dinamica, configurazione definita dal lavoro di messa in scena, che a volte si avvale delle strutture visive dei fenomeni e altre volte ricrea e allarga infinitamente l'orizzonte del visibile. Il cinema è nello stesso tempo l'i. forma di Lang e l'i. fatto di Rossellini, l'i. inconscio di Luis Buñuel e la metafora dell'i. di Brakhage. È in quello che si vede e in quello che non si vede: nell'i. e al di là di essa.
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