Informazione, società della
Il termine "società dell'informazione" (information society) risale ai primi anni sessanta. Una ricostruzione delle origini del concetto (v. Duff e altri, 1996) attribuisce ad un giornalista giapponese (Michiko Igarashi) il conio originale del termine nel 1964. Gli stessi autori per altro riconoscono che la fonte prima dell'idea di società dell'informazione può essere fatta risalire all'economista di origine austriaca Fritz Machlup (v., 1962), che sin dalla fine degli anni cinquanta aveva posto l'attenzione sul crescente peso che la conoscenza andava assumendo nella economia americana. Egli stimava che dal 1947 al 1958 l'industria della conoscenza fosse cresciuta negli Stati Uniti ad un tasso doppio rispetto al prodotto interno lordo dello stesso periodo, e ricavava da tale considerazione la conclusione che l'economia americana si stesse avviando a divenire una "economia dell'informazione". Nel corso degli anni successivi altri tornarono sul tema, arrivando a stimare alla fine degli anni sessanta un valore delle attività economiche legate alla conoscenza (educazione, ricerca e sviluppo, servizi professionali, credito e assicurazioni, informatica e telecomunicazioni, intrattenimento) pari al 40% del prodotto interno lordo degli Stati Uniti (v. Marschak, 1968).È sulla base di queste considerazioni che nel 1973 il sociologo Daniel Bell pubblica l'importante saggio The coming of post-industrial society, nel quale teorizza una nuova fase dello sviluppo economico e sociale, chiaramente distinta da quella industriale in quanto caratterizzata dalla produzione non più di beni materiali bensì di servizi e beni informazionali. Confortato da successive autorevoli stime del peso crescente del "fattore informazione" nell'economia americana (v. Porat, 1977), nonché dalle innovazioni tecnologiche che si andavano delineando nel campo dell'informatica e della telematica, Bell torna con maggiore sicurezza sul tema in un saggio del 1980, nel quale non si limita a stimare che "quasi il cinquanta per cento del prodotto interno lordo, e più del cinquanta per cento degli stipendi e dei salari, deriva dalla produzione, dal trattamento e dalla distribuzione di beni informazionali e di servizi" (v. Bell, 1980, p. 521), ma parla espressamente di avvento di una "società dell'informazione" e ne tratteggia caratteristiche distintive e problemi in una prospettiva sociologica.
Tre sono le dimensioni che caratterizzano secondo Bell la nuova società e che possono essere qui assunti come elementi definitori della stessa: 1) la trasformazione, appunto, da una società che produce prevalentemente beni materiali ad una società di servizi e beni immateriali; 2) la centralità della conoscenza scientifica quale agente di innovazione tecnologica e di trasformazione sociale; 3) la creazione di una nuova "tecnologia intellettuale" quale strumento di analisi dei sistemi complessi e di gestione degli stessi (v. Bell, 1980, p. 501). È la fusione tra scienza ed ingegneria a costituire il "principio assiale" della nuova fase della società moderna. La conoscenza è destinata così, secondo l'autore, a sostituire il lavoro come fonte primaria del valore, con tutte le implicazioni d'ordine sociale e politico che ne potranno derivare.
Bell è uno studioso troppo attento per cadere vittima di un'analisi viziata ideologicamente. Tuttavia egli attribuisce un rilievo determinante per il passaggio di fase allo sviluppo scientifico e tecnologico, ed è stato per questo criticato (con qualche fondamento) per determinismo tecnologico. Soprattutto, nella migliore tradizione pragmatica d'oltre Atlantico, assegna a tale passaggio un valore senz'altro positivo e potenzialmente risolutivo dei problemi e dei conflitti evidenziatisi nella fase industriale, sottovalutando così sia gli elementi di continuità con l'età precedente sia i possibili fronti di conflitto di quella nuova. In quegli stessi anni, una visione più utopistica (quando non ideologica) della società dell'informazione verrà proposta da altri lavori usciti, soprattutto negli Stati Uniti e in Giappone (tra gli altri, v. Tofler, 1981; v. Masuda, 1981) ma anche in Europa (v. Nora e Minc, 1978).
In verità il dibattito sulla società dell'informazione era stato alimentato anche da un'altra posizione, bene espressa nel saggio di Alain Touraine, La société postindustrielle. In tale opera Touraine, pur riconoscendo e tematizzando alcune importanti trasformazioni della dinamica di classe rispetto alla fase dell'industrializzazione classica, sottolinea la persistenza e la "fondamentale importanza di conflitti e movimenti di classe nella società programmata" (v. Touraine, 1969, p. 33). In particolare egli condivide l'idea che la proprietà privata è destinata a perdere di importanza e ad essere sostituita dal possesso della conoscenza e dal controllo delle informazioni, ma afferma che proprio da tale possesso e controllo deriverà un nuovo fronte potenziale di conflitto che vedrà contrapposte, da un lato, una classe dominante di tecnocrati e, dall'altro, una composizione sociale più eterogenea del passato ma pur sempre controllata e condizionata negli stili di vita e nei comportamenti sociali dalla prima.
Ciò che importa notare in questa pur sintetica ricostruzione della posizione espressa da Touraine è l'idea che la società dell'informazione sia una società 'programmata' e controllata da una classe di 'tecnocrati' (si veda per altro, per una sostanziale revisione del pensiero di Touraine sull'argomento, la voce Società postindustriale). Questa idea, di una società dell'informazione concepita non come rottura bensì come perfezionamento dei sistemi di controllo (se non di dominio di classe) propri della società industriale moderna, si ritrova anche in altri studi di quegli anni (per una documentata rassegna, v. Kumar, 1995, cap. 2). In particolare, lo storico James Beniger (v., 1986), pur accettando la nozione di società dell'informazione, sostiene che essa non è altro che la manifestazione più compiuta di un processo di cambiamento sociale avviatosi più di un secolo fa e che egli chiama "la rivoluzione del controllo". L'avvento dell'era industriale avrebbe accelerato a tal punto i processi di trasformazione materiale e i flussi che attraversano i sistemi economici da richiedere un grande sforzo innovativo per mantenerne il controllo. Le moderne tecnologie informatiche non sarebbero, in questa prospettiva, che "l'ultimo sviluppo di una mai sopita rivoluzione del controllo" che ha avuto nelle grandi burocrazie pubbliche e private, nell'organizzazione taylorista della produzione e nelle moderne procedure contabili le sue pietre miliari.
Queste posizioni, se hanno il merito di richiamare l'attenzione sul ruolo persistente delle informazioni in tutti i sistemi di regolazione sociale e sulla dimensione di potere che le forme di trattamento delle medesime necessariamente implicano, riflettono per altro una concezione del controllo e delle strutture informative ad esso connesse che proprio a partire dagli anni settanta incominciava ad essere in via di superamento. Bell, da questo punto di vista, intuisce prima di altri i radicali cambiamenti in atto: in quegli anni, sotto la spinta di forze diverse (tecnologiche, culturali e politiche: v. sotto, cap. 2), si stava concretizzando una nuova 'rivoluzione del controllo', rispetto a quella teorizzata da Beniger, che avrebbe portato non già ad una società programmata centralmente e controllata - grazie alle superiori capacità di trattamento delle informazioni - dalle burocrazie pubbliche e dalle tecnostrutture delle grandi imprese multinazionali, bensì verso sistemi di regolazione sociale decentrati e reticolari, fondati più sul mercato che sulla gerarchia e resi possibili da una rivoluzione tecnologica giocata più sulla comunicazione (digitale) che sulla elaborazione centralizzata delle informazioni. Il passaggio tra questi due modelli è segnato dalla 'rivoluzione di Internet': non solo e non tanto una innovazione (ancorché di ampia portata) nell'ambito del più generale sviluppo delle tecnologie dell'informazione, quanto un vero e proprio 'salto di paradigma', un cambiamento culturale nel modo stesso di concepire l'architettura e l'uso sociale delle tecnologie dell'informazione e destinato a produrre effetti pervasivi e di lunga durata sulla società, l'economia e la politica.
Parrebbe opportuno marcare anche terminologicamente questo passaggio, dispiegatosi compiutamente negli anni novanta ma maturato tra i settanta e gli ottanta. Il termine "società-rete" (network society) proposto da Castells (v., 2000) coglie in modo senz'altro più appropriato la sostanza dei processi in atto. Per altro il termine "società dell'informazione" è ormai entrato nel linguaggio comune e pertanto si continuerà qui a farne uso, dando per inteso che con esso ci si riferirà alla variante più recente (decentrata, comunicativa e reticolare), perché è delle caratteristiche e dei problemi posti da questa nuova realtà che importa oggi discutere.
Alla 'rivoluzione di Internet' si è arrivati attraverso una maturazione durata circa vent'anni e racchiusa idealmente tra due date: il 1969 e il 1990 (per una ricostruzione, v. Leiner e altri, 2000). Il 1969 segna la realizzazione negli Stati Uniti della prima rete di interconnessione tra computer, chiamata Arpanet e destinata a favorire la cooperazione tra centri di ricerca legati allo sviluppo militare; il 1990 segua la messa a punto dei protocolli ipertestuali di comunicazione su cui si basa il world wide web, lo strumento più avanzato e pervasivo di gestione delle informazioni oggi disponibile. Tra queste due, poche altre date fondamentali vanno ricordate: il 1975, anno di ideazione del personal computer, destinato a divenire il componente essenziale delle moderne reti distribuite; il 1978, anno di invenzione del modem, apparato che consente a due computer di comunicare tra loro attraverso una semplice linea telefonica e che consentirà la nascita delle prime reti non istituzionali (Usenet nel 1979 e Fidonet nel 1983); infine il 1983, che può essere considerato l'anno di nascita di Internet, in quanto l'adozione in quell'anno del protocollo Tcp/Ip permise l'interoperabilità tra le diverse reti che nel frattempo si erano andate costituendo intorno ad Arpanet (che prese per questo inizialmente il nome di Arpanet-Internet e, dopo qualche anno, più semplicemente di Internet).
Il vero salto di qualità di Internet comunque, da strumento potente ma destinato ad un numero limitato di addetti ai lavori ad una infrastruttura di comunicazione digitale alla portata (potenzialmente) di tutti, si avrà con la nascita del world wide web, il cui linguaggio e i cui protocolli renderanno 'trasparenti' i livelli più tecnici di interconnessione tra computer e accessibili direttamente i contenuti informativi memorizzati in essi. Al dicembre 1999 si stimavano così in 60 milioni i servers presenti in Internet e in oltre 200 milioni gli utenti della stessa, sparsi in più di 200 paesi (v. Kahn e Cerf, 1999). La quantità di informazioni memorizzate e disponibili (se si considera che oggi circolano in Internet non solo dati e testi ma anche registrazioni audio e video digitali) è di difficile valutazione: le statistiche più attendibili indicano, alla metà del 2000, oltre 2 miliardi di pagine pubblicamente accessibili (l'equivalente di 10 milioni di volumi) e di una crescita del web di oltre 7 milioni di pagine al giorno. A ciò si devono aggiungere gli strumenti di comunicazione asincrona tra gli utenti della rete (posta elettronica, newsgroup), che permettono lo scambio e la diffusione di informazioni personali, in modo pressoché istantaneo, su scala mondiale e a costi contenuti. Più recente, ma fondamentale per lo sviluppo futuro di Internet, è l'estensione dei protocolli digitali su cui essa si fonda anche alla telefonia e al broadcasting radio-televisivo, con la conseguente convergenza su di un'unica architettura di tutti i mezzi di comunicazione oggi conosciuti (v. Informatica; v. Telematica).
Il travolgente successo della Rete (come viene ormai chiamata) è essenzialmente dovuto ad alcune caratteristiche progettuali che si riveleranno particolarmente felici e che, in estrema sintesi, si possono indicare come segue (v. Shapiro, 1999, pp. 15 ss.): 1) l'interattività molti-a-molti: mentre il telefono e il telegrafo permettono la comunicazione uno-a-uno e i mass media classici (giornali, radio, televisione) la diffusione non interattiva uno-a-molti, chiunque abbia accesso ad Internet può comunicare virtualmente con tutti gli utilizzatori della rete. Si tratta di uno degli aspetti più rilevanti e potenzialmente innovativi (anche sotto l'aspetto sociale e politico) della Rete, in quanto trasforma gli individui che ne abbiano accesso da recettori passivi a partecipanti attivi di un processo di comunicazione a dimensione globale; 2) la natura digitale della Rete: le informazioni che circolano su di essa (qualunque sia la loro origine) sono codificate in bit (unità elementari di zero e uno). Ciò permette a chiunque di memorizzarle, manipolarle e riutilizzarle a piacere, con un incredibile salto di qualità nella flessibilità e nel potere di trattamento delle informazioni a disposizione dei singoli utilizzatori; 3) l'architettura distribuita: a differenza dei sistemi di comunicazione analogica (quali i telefoni con le loro centrali di commutazione) o delle primitive reti informatiche (fatte di terminali passivi connessi ad un computer centrale), la Rete è composta da nodi tutti dotati di capacità autonoma di calcolo e il flusso delle informazioni che circolano su di essa è governato da particolari nodi (detti routers) che ne ottimizzano il traffico secondo logiche di controllo distribuito. È questo uno degli aspetti di Internet concettualmente più nuovo e più ricco di implicazioni, in quanto garantisce ampia autonomia applicativa ai nodi e non impone (neppure a livello di governo della rete) logiche centralistiche di controllo; 4) infine la filosofia aperta e non proprietaria della Rete: qualsiasi computer (a prescindere dalle sue caratteristiche hardware e dal sistema operativo utilizzato) può connettersi e interoperare in rete, a condizione che rispetti gli standard minimi di base fissati dal protocollo Tcp/Ip: un protocollo non proprietario, liberamente utilizzabile da chiunque senza riconoscimento di royalties. A quest'ultima caratteristica si deve soprattutto la capacità aggregativa di Internet che ne ha decretato l'esplosivo successo.
La Rete non ha un proprietario ma è l'interconnessione cooperativa di tante reti controllate dai soggetti più vari (grandi agenzie pubbliche, università, organizzazioni non governative, imprese private, gestori di servizi ecc.); né possiede un'autorità centrale che la governi. Tutto è affidato ad un comitato tecnico, che solo nel 1998 ha ricevuto una qualche formalizzazione internazionale sotto la responsabilità degli Stati Uniti, e che si limita a definire la politica di attribuzione degli indirizzi e dei domini di rete.
È opinione condivisa che all'origine della 'rivoluzione di Internet' vi sia stato innanzitutto un nuovo 'paradigma' maturato all'interno delle scienze dell'informazione (v. Naughton, 1999). Alla fine degli anni sessanta nei principali centri di ricerca cominciava a farsi strada l'idea che le architetture informatiche centralizzate non avrebbero saputo reggere alla crescita esponenziale delle informazioni prodotte dalla ricerca scientifica moderna. A ciò si aggiungevano le preoccupazioni (alimentate soprattutto dai militari) di una eccessiva vulnerabilità di sistemi informatici centralizzati sempre più complessi. Essenziali (seppure indiretti) risulteranno poi gli stimoli, che venivano dalle moderne scienze della vita, circa la superiorità di organismi dotati di sistemi di controllo distribuiti, nonché sul valore della varietà e della selezione quali principî generativi di sistemi non solo naturali. È dall'insieme di queste considerazioni che derivarono i principî ispiratori della nuova architettura e soprattutto i criteri della sua progettazione evolutiva. E tuttavia difficilmente si sarebbe potuto arrivare a tali risultati se non si fosse dato anche un contesto sociale e politico favorevole.
Manuel Castells (v., 2000) individua due tendenze storiche che hanno accompagnato (anche se non determinato) la maturazione del nuovo paradigma tecnologico e ne hanno favorito l'evoluzione sopra descritta. La prima concerne la crisi dei sistemi a capitalismo organizzato e il fallimento di quelli socialisti. È un processo storico che si avvia con la crisi dei sistemi economici keynesiani della metà degli anni settanta e si conclude idealmente con il crollo dell'impero sovietico alla fine degli anni ottanta. Il risultato (che va ben al di là della ripresa del pensiero economico liberista) è stato un ripensamento radicale dello Stato, quale autorità razionale di programmazione economica e di regolazione sociale, e una rivalutazione piuttosto del mercato, quale strumento di valorizzazione delle capacità individuali e di costruzione di una intelligenza sociale concepita (alla Hayek) come 'fenomeno emergente', come prodotto cioè di un processo spontaneo e non governato di aggiustamenti reciproci. La seconda tendenza riguarda i movimenti sociali iniziati a Parigi alla fine degli anni sessanta e diffusisi rapidamente nelle aree metropolitane del mondo, dapprima come protesta giovanile quindi sotto altre forme di espressione del disagio sociale (movimenti pacifisti, femministi, ambientalisti ecc.). L'esito è stato l'affermarsi di una controcultura dai connotati libertari e anti autoritari, che contribuirà a sua volta a porre in primo piano i diritti degli individui di fronte allo Stato e alle grandi organizzazioni economiche, anche se bilanciati (almeno alle origini) da un forte senso di cooperazione comunitaria e di democrazia radicale.
Gli influssi di una cultura libertaria ma cooperativa - espressione, a ben vedere, anche della migliore tradizione delle comunità scientifiche (soprattutto americane), informali e creative, aperte al contributo di tutti senza gerarchie precostituite, ma anche meritocratiche e rigorose nel rispetto di alcune regole del gioco fondamentali - hanno certamente svolto un ruolo importante nel determinare la 'filosofia' di base di Internet. Sin dalla sua progettazione, la Rete non è stata infatti il risultato di un lavoro a tavolino, affidato da una qualche autorità superiore (e lungimirante) ad un gruppo unitario di progetto. È stata piuttosto il frutto di un processo sociale complesso, che ha visto coinvolti progettisti appartenenti a istituzioni e agenzie diverse ed anche dei semplici outsiders. Costoro hanno sottoposto le loro idee e i loro progetti al vaglio di una virtuale 'comunità di pari', aperta al contributo di chiunque ma esigente nel vagliare e nell'adottare solo le proposte migliori. Internet è così insieme un prodotto 'artificiale' (esito intenzionale di progettazione umana) e un organismo 'spontaneo' (conseguenza di un processo di selezione evolutiva non governato da alcuno) ed è forse l'esperimento più sofisticato e complesso di progettazione decentrata ed evolutiva di una infrastruttura tecnologica. E l'architettura che ne è scaturita non poteva che essere coerente con i principî di fondo di tale cultura: aperta, distribuita, neutrale rispetto ai fini applicativi, evolutiva (v. Lessig, 1999).
In quest'ottica, la Rete non costituisce semplicemente una infrastruttura tecnologica, ancorché molto innovativa e di forte impatto, ma diviene una metafora potente (in quanto funzionante e di successo) per una possibile forma di organizzazione sociale ispirata a principî di regolazione innovativi. Resta semmai da chiedersi se una organizzazione che si ispiri a tali principî sia in grado di uscire dai confini di comunità ristrette e omogenee (quale quella d'origine) e di reggere alle sfide del suo stesso successo e della sua generalizzazione. Sotto questo profilo, quello di Internet è un esperimento niente affatto concluso e le tensioni che si sono evidenziate in questi ultimi anni - tra spinte potenti alla sua totale privatizzazione e tentativi di imporvi un governo più centralizzato - indicano come la partita sia tuttora aperta a diverse soluzioni.
La 'rivoluzione di Internet' è dunque, per usare le parole di Castells, l'esito congiunto "dell'interazione di due forze relativamente autonome: lo sviluppo delle nuove tecnologie dell'informazione e il tentativo della vecchia società di ridisegnare se stessa usando il potere della tecnologia al servizio della tecnologia del potere" (v. Castells, 2000, vol. I, p. 61). Non si tratta di un esito deterministico (e perciò scontato): non lo è mai in generale il rapporto tra tecnologia e assetti sociali e non lo è a maggior ragione nel caso in questione perché il principio di neutralità rispetto ai fini applicativi, che ha guidato lo sviluppo della Rete, rende la stessa aperta a soluzioni sociali diverse. E tuttavia i suoi principî regolativi di fondo risultano in sintonia con una concezione del controllo e della regolazione sociale che anche per altre vie sembra emergere dalla crisi della modernità.
È opinione condivisa che il vecchio paradigma del controllo proprio della modernità sia ormai entrato irrimediabilmente in crisi. Alla base di tale paradigma vi è l'idea - formulata in chiave normativa da Frederick Taylor e colta nella sua compiuta valenza storica da Max Weber - che le società moderne siano macchine governate nel perseguimento dei loro fini da un sistema gerarchico piramidale, con al vertice un'autorità razionale in grado di tradurre gli obiettivi sociali in un efficiente sistema mezzi-fini e in una efficace linea di comando. In quest'ottica le organizzazioni sociali moderne si reggerebbero su di un sistema di regole proceduralizzate (standardizzazione), su una divisione funzionale del lavoro e delle competenze (differenziazione) e su un metodo di acquisizione, selezione e trattamento delle informazioni (razionalizzazione). Secondo questo modello, chi sta alla base dell'organizzazione è responsabile delle attività operative, i quadri intermedi delle scelte tattiche e il vertice della definizione dei fini e della formulazione delle strategie. In esso (come anche nelle varianti successive influenzate dalla teoria dei 'sistemi aperti'), l'informazione è alla base del controllo: è la conoscenza, tempestiva e appropriata ai diversi livelli, dell'ambiente e dello stato dell'organizzazione a permettere, mediante feedback negativi, il controllo del sistema (inteso come mezzo) rispetto ai fini e in risposta ad un ambiente variabile.
Ciò che importa notare è che in tale concezione le informazioni necessarie al controllo sono ritenute in sé 'auto-evidenti', portatrici di un valore di conoscenza immediato rispetto all'oggetto, e 'codificate', utilizzabili dal ricevente a prescindere dalla conoscenza del più ampio contesto che le ha generate. Tale presupposto, che si basa su una epistemologia positivista e su una teoria della comunicazione di matrice cibernetica, permette di ridurre la conoscenza alla raccolta ed elaborazione delle informazioni e la comunicazione allo scambio non problematico delle stesse tra un soggetto emittente ed uno ricevente. Come ha efficacemente argomentato Jean François Lyotard (v., 1979), tale concezione si può per altro reggere solo su una sostanziale condivisione dei fini e su un sistema comune di significati assunto come dato. Sono le "grandi narrazioni" della modernità (in primis quelle di emancipazione e progresso) che hanno permesso di legittimare l'autorità razionale e di definire un universo di significati conchiuso e capace di attribuire un valore di conoscenza immediato e una codifica non problematica alle informazioni.
Anche se l'incredulità nei confronti delle grandi narrazioni ha avuto inizio a livello filosofico tra le due guerre (ad opera di pensatori quali Friedrich Hayek, Karl Popper ed Isaiah Berlin), è il completo dispiegarsi della società industriale a mettere in crisi socialmente il modello della modernità. Innanzitutto l'applicazione sistematica della scienza ha accelerato oltre misura i processi di cambiamento, mettendo in seria difficoltà sistemi interpretativi basati necessariamente su una certa persistenza delle tradizioni culturali (v. Giddens, in Beck e altri, 1994). Ma è soprattutto il passaggio dalla società della scarsità a quella dell'abbondanza, la diffusione delle comunicazioni di massa e lo sviluppo delle opportunità formative e informative a far sì che un numero crescente di persone abbia sperimentato il "pluralismo delle esperienze e la sovrabbondanza delle scelte" e abbia potuto progressivamente prendere le distanze dalle "grandi narrazioni" della modernità. La condivisione scontata e non problematica di un universo di significati lascia così il posto all'autonomia dei giudizi individuali e al pluralismo delle culture (v. Jencks, 1989).
I sistemi di controllo e di regolazione sociale debbono di conseguenza farsi carico di una duplice sfida: quella della crescente complessità dell'ambiente in cui operano e quella della entropia interna che deriva dal venir meno di un sistema condiviso di valori e di fini. In un universo frammentato di significati gli stessi strumenti del controllo 'le informazioni' non possono più essere considerate né autoevidenti né tanto meno codificabili in modo non problematico. Esse (come affermano le epistemologie costruttiviste e del linguaggio) sono portatrici di un valore di conoscenza solo in quanto 'interpretate' dal soggetto: inserite cioè dentro uno schema della realtà che gli appartiene e che, per le ragioni anzidette, non è detto sia generalmente condiviso. La comunicazione non può più pertanto ridursi ad uno scambio di informazioni oggettivate e univoche tra un soggetto emittente ed uno ricevente. È necessaria una intesa preliminare sul significato comune da attribuire ad esse e tale intesa non può che essere rimessa ad un atto 'linguistico' (v. Poster, 1990, pp. 25 ss.): un atto di comunicazione intersoggettiva che sappia trasmettere la ricchezza dei contesti di appartenenza e metterne almeno una porzione in comune.
Le organizzazioni basate sulla conoscenza, quali le università e gli ospedali, sono secondo alcuni studiosi (v., tra gli altri, Peters, 1992; v. Frissen, 1999) l'esempio che più si avvicina ad un modello di regolazione in grado di misurarsi con le sfide della postmodernità. Tali organizzazioni si caratterizzerebbero per un sistema di controllo non gerarchico, con una struttura a forma di arcipelago o di rete, che lascia ampia autonomia a numerose e differenziate unità periferiche. Ciascuna di queste unità, in virtù della sua prossimità con l'ambiente, è in grado di prendere le decisioni strategiche più opportune nell'interesse dell'organizzazione. Il sistema di governo di tali organizzazioni si limiterebbe pertanto a facilitare le comunicazioni tra le unità e a svolgere una funzione 'metaregolativa': a fissare cioè le condizioni strutturali e procedurali che permettono una definizione negoziata e dinamica dei fini (e dei significati condivisi). È opinione diffusa che questo modello non sia più prerogativa delle sole organizzazioni professionali basate sulla conoscenza, ma si stia generalizzando a livello delle organizzazioni economiche e, seppure in misura minore, anche tra le amministrazioni pubbliche.
Qui importa sottolineare le analogie tra questo modello organizzativo e le caratteristiche di Internet sopra esposte: l'architettura a rete; l'autonomia delle unità applicative (o nodi) che la compongono; l'interattività tra di esse; la funzione 'metaregolativa' del sistema di controllo. L'accento non cade più così sulle capacità di memorizzazione e di elaborazione delle informazioni da mettere al servizio di un vertice decisionale sovraordinato, quanto sulla necessità di distribuire informazioni e potenza di calcolo tra le unità periferiche e, soprattutto, di garantire una comunicazione efficace tra di esse. In questo senso il nuovo "potere della tecnologia" viene messo al servizio di un modello reticolare e distribuito di controllo e regolazione sociale. Si vedrà nelle pagine successive quanto tale modello sia diffuso (o comunque si stia diffondendo) nella società dell'informazione e, soprattutto, in che misura sia compatto o non piuttosto segnato da tensioni interne tuttora irrisolte.
Gli importanti cambiamenti della società dell'informazione si sono manifestati in primo luogo e con più immediata evidenza nella sfera economica, dove anche il linguaggio comune ha inteso cogliere la novità ricorrendo a termini quali new economy o net-economy. La crescente letteratura sul tema può essere schematizzata in quattro tratti distintivi che caratterizzerebbero la 'nuova economia'.
In primo luogo la ormai soverchiante componente informazionale. Se alla fine degli anni settanta Bell stimava che quasi il cinquanta per cento del prodotto interno lordo degli Stati Uniti derivasse dalla produzione, dal trattamento e dalla distribuzione di informazioni e servizi (v. sopra, cap. 1), a metà degli anni novanta tale valore era di circa l'ottanta per cento per gli Stati Uniti e superiore al cinquanta percento per i maggiori paesi europei (v. OECD, 1996). Ma ciò che maggiormente è rilevante ai fini della dinamica economica non è tanto il peso in sé della componente immateriale, quanto l'importanza strategica che la capacità di generare conoscenza ha per la competitività e lo sviluppo. L'applicazione sistematica della scienza e della tecnologia alla produzione di beni e di servizi è ciò che fa la vera differenza tra la vecchia e la nuova economia, e la conoscenza viene ormai considerata un fattore produttivo più importante dello stesso capitale. Alcuni economisti ritengono di poter spiegare con l'aumento della produttività, che conseguirebbe appunto all'uso sistematico della conoscenza, la lunga congiuntura economica positiva che gli Stati Uniti hanno conosciuto nel corso degli anni novanta e che non ha precedenti per durata, intensità e assenza di spinte inflazionistiche nella storia economica occidentale. Anche se la tesi è controversa, per le difficoltà di applicare metodi di misura della produttività pensati per una economia materiale ai flussi immateriali della nuova economia, resta indiscutibile la novità strutturale che il problema già di per sé segnala.
Un secondo tratto distintivo concerne la dimensione globale che la nuova economia va assumendo (v. Held e altri, 1999; v. Globalizzazione). Il dato nuovo non è tanto il valore crescente del commercio estero (che già in precedenti fasi storiche ha assunto dimensioni relative confrontabili con quelle attuali), quanto il fatto che le attività economiche siano sempre più organizzate su scala planetaria, a prescindere dai vincoli di spazio e di tempo, e dettate esclusivamente dalla ricerca delle localizzazioni più convenienti in relazione alle strategie di business. Si tratta di una tendenza inimmaginabile in assenza di mezzi di comunicazione (materiali non meno che informazionali) quali quelli oggi disponibili e che produce effetti dirompenti per gli assetti sociali e politici tradizionali. L'estrema mobilità dei capitali infatti accentua oltre ogni dire il processo di 'distruzione creativa' del valore, eliminando impietosamente tutto ciò (imprese, territori, lavoratori) che non risulti competitivo in un confronto planetario. Come alcuni hanno notato (v. Berger e Dore, 1996), ciò non comporta necessariamente l'omologazione sociale e politica delle diverse realtà locali, anzi per molti aspetti tende a riprodurre quelle peculiarità che possono essere valorizzate a livello economico e, tuttavia, impone livelli di flessibilità e velocità di adattamento difficilmente compatibili con la salvaguardia sociale di quelle stesse specificità.
La straordinaria mobilità dei capitali (che tende ormai a sfuggire al controllo delle istituzioni politiche dei singoli Stati nazionali: v. sotto, cap. 7) è resa possibile soprattutto dalla globalizzazione dei mercati finanziari. La finanziarizzazione della economia di fine secolo è il risultato di un processo complesso, prodotto delle decisioni nazionali e internazionali di liberalizzazione delle piazze finanziarie mondiali, dell'applicazione sistematica delle tecnologie dell'informazione ai mercati dei capitali, ma soprattutto di alcuni importanti cambiamenti nei meccanismi distributivi del reddito e di allocazione del risparmio (v. Davis, 1996, pp. 11 s.). La tendenza è così verso la generalizzazione di un capitalismo degli shareholders, un capitalismo basato su una proprietà azionaria diffusa, mobile, particolarmente efficace nel finanziare l'innovazione, e che tende a sostituire (anche nei paesi europei e asiatici) le vecchie alleanze tra stakeholders: le grandi famiglie di imprenditori, le banche e (in parte almeno anche) le organizzazioni sindacali, che hanno esercitato per più di un secolo il controllo effettivo sulle imprese. Non tutti sono concordi nel valutare positivamente questa (per altro epocale e inarrestabile) trasformazione: vuoi per le conseguenze sociali e politiche che determina, vuoi soprattutto per i rischi che la totale deregolamentazione del mercato dei capitali può comportare (v. Hutton e Giddens, 2000).
Tutte le trasformazioni anzidette difficilmente avrebbero potuto per altro realizzarsi senza la trasformazione più importante: quella relativa all'organizzazione stessa delle imprese. La nuova economia è principalmente una economia reticolare: la flessibilità richiesta dai nuovi mercati e la capacità di ricercare in ogni parte del mondo i fattori produttivi più competitivi dipendono da una nuova forma di organizzazione economica, l'impresa-rete (per una sintesi della copiosa letteratura sull'argomento v. Castells, 2000, vol. I, cap. 3). Del modello organizzativo e del sistema di controllo che la contraddistingue si è detto diffusamente nel capitolo precedente (v. sopra, cap. 3). Storicamente è il risultato di un duplice movimento: quello di 'deverticalizzazione' che ha caratterizzato le grandi imprese a partire dagli anni settanta, e quello di organizzazione cooperativa dal basso delle piccole e medie imprese soprattutto nell'ambito delle cosiddette economie distrettuali (v. Powell, 1990). L'unità intorno cui si organizza il processo produttivo non è più l'impresa (come entità fisica e giuridica delimitata e riconoscibile) quanto un progetto di business che aggrega intorno a sé, in modo flessibile e dinamico, le imprese in grado di apportare al meglio le risorse e le competenze necessarie.
Una parte rilevante della letteratura che ha tematizzato queste importanti trasformazioni lo ha fatto a partire da una distinzione storica tra fordismo e postfordismo. Il primo si caratterizzerebbe per mercati stabili di massa, produzione in serie, concentrazione e centralizzazione delle imprese, modello organizzato di relazioni industriali, ruolo preminente dello Stato-nazione nella regolazione economica. Il postfordismo rovescerebbe in buona misura tali caratteristiche, distinguendosi per mercati volatili, specializzazione flessibile, individualizzazione dei rapporti di lavoro e crisi dei sistemi classici di relazioni industriali, marginalizzazione della funzione di regolazione economica degli Stati-nazione (v. Piore e Sabel, 1984; v. Lash e Urry, 1987). Non tutti hanno condiviso i termini generali e, soprattutto, le implicazioni storiche di tale distinzione (per un bilancio del dibattito, v. Kumar, 1995, cap. III). Ma al di là di un confronto sulla natura 'ancora capitalista' o meno della nuova organizzazione postfordista, che rischia di essere astratto e poco concludente, a chi scrive pare che una differenza sia difficilmente confutabile e tale da segnare in modo radicale l'intera dinamica delle relazioni sociali postfordiste: il ruolo fondamentale assunto dalla comunicazione nella nuova organizzazione produttiva (v. Marazzi, 1999).
La comunicazione, nell'accezione cibernetica di trasmissione di informazioni codificate, era di certo essenziale anche nell'organizzazione fordista. Ma la comunicazione a cui si intende qui fare riferimento, quale caratteristica distintiva della fase postfordista, è differente: è la messa in comune di conoscenze, è lo scambio di un sapere contestualizzato (e non ancora codificato), è la negoziazione tra interessi e punti di vista diversi che devono convergere in finalità comuni (seppure contingenti e fluide), è l'assunzione di impegni reciproci per il perseguimento efficace degli obiettivi stipulati. È (e deve essere) una 'comunicazione linguistica' nel senso pieno del termine (v. sopra, cap. 3). Nella logica processuale che contraddistingue la nuova economia, e che comporta la cooperazione aperta e non scevra di elementi competitivi tra soggetti diversi, è il 'linguaggio' a produrre organizzazione: è il fluire delle comunicazioni, il più possibile libero e non condizionato da gerarchie e status formali, a fare infatti la differenza e a segnare in positivo le performances di una organizzazione reticolare.
Questa radicale novità è, in buona misura, all'origine anche delle profonde trasformazioni del lavoro nella società dell'informazione. Se l'organizzazione rigida e standardizzata dei ruoli produttivi propria del fordismo era coerente con una regolamentazione di tipo normativo del mercato del lavoro e con forme di rappresentanza di tipo sindacale, l'organizzazione postfordista tende invece a produrre una sostanziale individualizzazione dei rapporti di lavoro. Ciò avviene sia dal lato della offerta che da quello della domanda. È la percezione di poter contare, in quanto portatori di conoscenze e competenze individuali, anche modeste ma valorizzabili economicamente nella loro specificità, a indurre un numero crescente di persone a cercare rapporti di lavoro autonomo, nella speranza (che spesso si rivela illusoria) di poter ottenere condizioni economiche migliori, maggiore indipendenza lavorativa e migliori opportunità di crescita professionale (v. sotto, cap. 6). Dal lato della domanda, la ricerca di flessibilità propria della nuova economia spinge a sua volta nella direzione di trasformare i rapporti di lavoro in prestazioni di servizio, al limite e idealmente nell'acquisto circoscritto e de-soggettivato delle competenze e conoscenze ritenute di volta in volta utili.
Ora, è proprio nella tensione tra la necessità di una comunicazione aperta e non condizionata (linguistica e cooperativa) e la tendenza opposta a 'mercificare' e a privatizzare la conoscenza e le informazioni economicamente rilevanti, che si estrinseca uno dei momenti più critici della moderna società dell'informazione. Solo di recente per altro si è cominciato a tematizzare questo aspetto essenziale.
I beni informazionali presentano caratteristiche del tutto particolari rispetto ai beni materiali (v. Shapiro e Varian, 1999). In primo luogo, sono beni che permettono, come di norma i beni pubblici, un consumo 'non rivale' (il fatto che qualcuno abbia letto un libro non impedisce ad un altro di leggerlo a sua volta e di ricavare dalla lettura la stessa utilità), ma a differenza dei beni pubblici consentono l"escludibilità' (la legge sui diritti di autore può impedire, ad esempio, la fotocopia del libro). La prima caratteristica permette in astratto la libera circolazione delle informazioni e la possibilità che tutti ne traggano benefici; la seconda rende possibile trattare l'informazione come un bene privato e ricavare da essa un valore commerciale (a costo però di escludere alcuni dal beneficio). Ne consegue, da un lato, che in assenza di opportuni diritti di proprietà (che permettano l'escludibilità e garantiscano un valore di mercato) non vi saranno, come per qualsiasi bene pubblico, incentivi individuali sufficienti a produrre beni informazionali ma, dall'altro, che imporre tali diritti potrà ridurre il beneficio complessivo per la società. Si aggiunga poi un'altra importante proprietà dei beni informazionali. Gli economisti li definiscono "beni-esperienza": beni il cui valore può essere giudicato appieno solo dopo che siano stati consumati. È difficile infatti farsi una idea del valore di una informazione prima di esserne entrati in possesso e di averla potuta inserire all'interno delle conoscenze già possedute, ricavandone un determinato apprendimento. Si tratta dunque di beni di difficile misurazione e che possono favorire comportamenti opportunistici. Ne deriva, secondo la ben nota argomentazione di Williamson sui costi di transazione, che l'allocazione dei beni informazionali attraverso un meccanismo puro di mercato può dar luogo a inefficienze.
Ai problemi posti da queste specificità dei beni informazionali sono state date nella società industriale fondamentalmente due risposte: la gerarchia, per le informazioni e le conoscenze intraorganizzative, largamente dipendenti da un contesto che li rende codificabili solo mediante l'autorità; e i diritti di proprietà intellettuale, per le informazioni e le conoscenze decontestualizzate, come tali scambiabili secondo logiche di mercato. Nella società dell'informazione entrambe queste soluzioni risultano segnate da forti tensioni. Innanzitutto il venir meno della gerarchia all'interno delle organizzazioni e la struttura aperta dell'impresa-rete rendono difficile delimitare il confine tra informazioni intraorganizzative e informazioni trattabili invece secondo logiche di mercato. Il crescente rilievo economico della conoscenza induce poi le imprese a forzare l'attuale legislazione sulla proprietà intellettuale a proprio favore, anche a scapito dell'interesse collettivo alla diffusione e allo sfruttamento sociale della conoscenza. Ne consegue un impulso a 'privatizzare' a tutti i livelli lo scambio delle informazioni economicamente rilevanti, ma a costo di un non trascurabile aumento di comportamenti opportunisti che rendono meno efficace la generazione, necessariamente cooperativa, di nuova conoscenza (v. Revees, 2000) e un suo utilizzo socialmente ottimale (v. Brin, 1998, cap. IV). La nuova economia richiederebbe in verità "un di più di fiducia" per permettere un livello di comunicazione all'altezza delle esigenze organizzative e conoscitive da cui dipende il suo successo. Ma ciò sembra entrare sempre più in conflitto con le esigenze di valorizzazione economica delle conoscenze medesime (v. Rifkin, 2000).
L'effetto di Internet su queste dinamiche è aperto a soluzioni diverse. Da un lato si registra infatti un orientamento, alimentato dagli ingenti interessi economici in gioco, a fare della Rete niente altro che un mercato elettronico per uno scambio più trasparente ed efficiente delle informazioni e delle conoscenze. E in tale direzione va buona parte delle realizzazioni commerciali sviluppate in questi anni. Dall'altro vi sono anche esperimenti (meno diffusi ma comunque non trascurabili) di un possibile uso della Rete come infrastruttura non di puro mercato ma al servizio di una più efficace comunicazione e collaborazione sociale, in grado di generare fiducia anche all'interno di relazioni a legami deboli (quali quelle che caratterizzano le imprese-reti di una economia globale) e soprattutto capace di creare nuova conoscenza e innovazione (si veda, anche per la sua rilevanza economica, l'Open Source Initiative: v. Lessig, 1999). Quale mix tra queste due tendenze finirà col prevalere, dipenderà non dalla Rete ma dai concreti rapporti sociali che si andranno strutturando intorno ad essa e a seguito delle trasformazioni sociali, culturali e politiche che essa stessa sta contribuendo a produrre.
"Viviamo in un mondo che è diventato digitale". In questa affermazione di Nicholas Negroponte (v., 1995) vi è tutta la sostanza della trasformazione in atto: non una semplice diffusione delle tecnologie digitali in ambiti circoscritti, ancorché importanti (come quelli economici appena analizzati), quanto la pervasività delle stesse nella quotidianità di ciascuno. Il confluire di informatica, telecomunicazioni, televisione, editoria e intrattenimento su di un'unica rete digitale sta modificando in profondità il modo di comunicare e di relazionarsi degli uomini tra loro. Come qualcuno ha osservato (v. Bressand in Schwartz, 1996; v. Rifkin, 2000), le nuove tecnologie dovrebbero essere chiamate "tecnologie relazionali" (r-technologies) piuttosto che tecnologie informatiche, in quanto stanno incidendo sempre più in profondità sui rapporti sociali, contribuendo a cambiare il modo stesso in cui gli uomini si pensano e si rappresentano nel loro rapportarsi reciproco.
Si tratta di un processo generale di trasformazione sociale di cui le nuove tecnologie sono insieme il prodotto e il principale motore di cambiamento. Tale processo ha la sua genesi in ragioni storiche di cui si è già avuto modo di dar conto nei capitoli precedenti. Qui importa notare come tali ragioni non si siano limitate a incidere sugli aspetti strutturali, ma abbiano prodotto effetti significativi anche sulla cultura, sulle motivazioni e sull'identità degli uomini che vivono in questa società. Sotto quest'ultimo profilo, il dato di fondo che emerge è in sé contraddittorio. Si è infatti in presenza, come forse mai prima d'ora nella storia dell'umanità, di una radicale 'individualizzazione dell'azione sociale' (v. Melucci, 1999): gli esseri umani dispongono oggi di capacità e risorse effettive per costruire la propria autonomia, per agire e riconoscersi come individui rispetto ad una società sempre più articolata e fragile nelle sue concrete possibilità di integrazione sistemica. Internet ha contribuito non poco a rendere possibile e ad accelerare questo processo, mettendo a disposizione degli individui, senza mediazioni istituzionali, informazioni e possibilità di relazioni prima impensabili (v. Shapiro, 1999). Contemporaneamente e paradossalmente si assiste alla crisi dell'identità individuale così come essa si era venuta costituendo nella fase moderna. Gli individui, nel momento stesso in cui conquistano il centro della scena, a cui aspiravano sin dall'inizio della modernità, sembrano incapaci di reggere una identità multipla e in perenne divenire, alla quale sembra difficile poter assicurare continuità ed unità (v.Identità personale e collettiva).
Una percezione di sé relativamente coerente ed unitaria, fatta di fatiche e di prove accumulate nel tempo e vissuta pertanto come risorsa di un processo di sviluppo personale dotato di senso, lascia il posto ad una coscienza proteiforme, costituita da un sé multiplo, terminale di una miriade di relazioni spesso incoerenti e tra loro sconnesse. Alla "coscienza storica", costitutiva di soggetti che si percepivano come interpreti delle grandi rappresentazioni della storia (i grand récits di Lyotard), si sostituisce la "coscienza post moderna", propria dell'uomo che vive nel presente e, abbandonata ogni pretesa di missione storica, si sente libero di vivere la propria vita e di cercare qui ed ora la propria realizzazione personale (v. Gergen, 1991).
Secondo alcuni osservatori di questa nuova condizione della coscienza umana (per l'ampia letteratura critica sulla post modernità, v. Kumar, 1995, cap. V), le conseguenze di questa trasformazione sarebbero decisamente negative: nelle relazioni fluide e transitorie del tempo presente si disintegrerebbe il sé reale ed unitario, verrebbe meno il soggetto sovrano, per quanto 'alienato', della modernità e quindi la possibilità stessa di una sua emancipazione storica. Altri, pur non rinunciando a segnalare i rischi connessi alla nuova condizione, credono di poter formulare su di essa un giudizio più aperto e positivo. Così Robert Lifton (v., 1993) afferma che la personalità molteplice e proteiforme dell'uomo post moderno segna uno stadio più maturo della coscienza umana: la plasticità che la contraddistingue gli permetterebbe infatti di convivere con le ambiguità di una realtà sempre più complessa e articolata e di sperimentare positivamente le innumerevoli possibilità che questa per la prima volta nella storia dischiude. Seppure da un punto di vista più astratto (filosofico-politico anziché antropologico), anche Lyotard (v., 1979) ritiene che l'abbandono delle grandi narrazioni apra la strada al libero gioco delle "piccole narrazioni", alla ricerca di un consenso dialogico non universale (alla Habermas) ma contingente, alla possibile definizione di contratti sociali circoscritti nello spazio e limitati nel tempo ma capaci nondimeno di fondare delle comunità aperte ed emancipative.
È difficile prender parte per l'una o per l'altra tesi e non solo perché si è dinnanzi ad una letteratura per lo più di tipo speculativo. La distanza tra le posizioni pare dovuta piuttosto al fatto che esse riflettono una realtà sociale tuttora aperta a soluzioni differenti. Anche in questo caso, molto dipenderà dall'uso sociale che verrà fatto delle moderne tecnologie comunicative e relazionali. Al di là infatti dei differenti giudizi nel merito, è possibile registrare una convergenza pressoché generalizzata circa il rilievo fondamentale che le tecnologie della comunicazione rivestono nel condizionare le dinamiche culturali e identitarie.
Da questo punto di vista, l'esaurirsi della modernità coincide con la fine della 'società testuale'. Il modello testuale (proprio della stampa) ha costituito infatti il sistema principe di comunicazione della società moderna e ha condizionato le forme stesse del suo pensiero. Il modo ordinato e lineare con cui la stampa organizza i fenomeni ha favorito l'affermarsi di un pensiero logico-razionale. L'applicazione di standard e protocolli precisi nell'osservazione e descrizione degli avvenimenti ha incoraggiato il rigore, l'obiettività, la distinzione tra soggetto e oggetto, l'oggettivazione della conoscenza come 'prodotto' decontestualizzato e trasferibile. Ciò ha contribuito a rafforzare l'apprendimento individuale e l'autonomia cognitiva del soggetto e ha reso possibile l'idea stessa di autore e quella di proprietà intellettuale. I mezzi di comunicazione di massa più recenti (soprattutto la televisione) hanno solo parzialmente modificato il modello testuale, introducendo immediatezza ed emotività. Si è potenziata in tal modo la forza del messaggio, ma si è anche accentuata l'asimmetria (già presente nel modello testuale) tra autore e spettatore, facendo dei mass media 'caldi' lo strumento primario della socializzazione eterodiretta e della costruzione passiva del consenso propria del capitalismo organizzato e dello Stato dirigista (v. Ricciardi, 1998).
La vera rivoluzione rispetto al modello testuale non si ha dunque con la televisione ma con il passaggio alle nuove tecnologie relazionali. Queste abbandonano la forma finita, sequenziale ed esclusiva del testo e la sostituiscono con la forma aperta, parallela, relazionale e inclusiva dell'ipertesto. Mentre quelli a stampa sono prodotti che oltre a essere dotati di un inizio e una fine ben precisi sono caratterizzati da un supporto fisico che li rende facilmente identificabili e possedibili, l'ipertesto non ha un inizio ed una fine, ma solo un punto di accesso ad una rete potenzialmente infinita di documenti tra loro collegati. Non è dunque un prodotto finito quanto un processo in continuo divenire; non è fisicamente identificabile e difficilmente può essere posseduto, almeno nei termini tradizionali di una proprietà esclusiva. Per sua natura è piuttosto il risultato dello sforzo creativo e conoscitivo di una molteplicità di partecipanti che intervengono in qualità sia di autori che di lettori/fruitori. In questo senso l'ipertesto depotenzia il concetto di autore, come soggetto creativo individuale e autonomo, e lo sostituisce con una idea collettiva e collaborativa di attività autoriale (v. Rifkin, 2000, pp. 271 ss.). La comunicazione digitale ripropone così, almeno in parte, quelle caratteristiche di apertura, collaborazione paritetica e socialità che erano proprie della comunicazione orale pre-testuale. Le riproduce e le potenzia, mettendo a disposizione tutte le possibilità e la flessibilità dei moderni strumenti digitali e allentando i vincoli di tempo e di spazio che hanno sin qui caratterizzato il modo orale. Ma così facendo introduce anche delle novità importanti: innanzitutto un accesso diretto alle informazioni, senza più i filtri che derivano dall'autorità dell'autore e dal ruolo delle istituzioni della modernità testuale (v. Postman, 1992); e, in secondo luogo, la possibilità di comunicare con la stessa immediatezza delle relazioni faccia-a-faccia senza però condividere necessariamente un contesto reale e una comunità biotica (v. Martinotti, 1998).
Nella sua equilibrata analisi delle conseguenze che le nuove tecnologie della comunicazione stanno provocando, Andrew Shapiro (v., 1999) richiama l'attenzione sui possibili effetti negativi che possono derivare da un eccesso di disintermediazione e di personalizzazione delle informazioni. La disintermediazione è al centro della rivoluzione di Internet: è infatti la possibilità di accedere direttamente alle informazioni, aggirando gli intermediari istituzionali che le hanno da sempre controllate, a rendere effettivo quel processo diffuso di empowerment individuale che è la cifra costitutiva del tempo presente. Ma Shapiro mette in guardia dalle eccessive illusioni che una certa cultura, troppo ottimista sulle possibilità liberatorie di Internet, coltiva. La deriva del controllo lascia infatti irrisolto un problema importante: quello relativo alla validazione e alla selezione delle informazioni rilevanti. Gli intermediari - i gatekeepers, come egli li chiama, ovvero gli opinion leaders, i circuiti mass-mediali, le istituzioni culturali, gli esperti, i politici, ma anche (per le informazioni di mercato) le imprese e i mediatori commerciali - svolgono da sempre una funzione fondamentale di certificazione e di filtro delle informazioni, e lo fanno in forza di una legittimazione o (più semplicemente) di una reputazione di cui godono (e di cui debbono in qualche maniera render conto).
Nell'era di Internet l'onere della verifica e della selezione delle informazioni rilevanti tende a trasferirsi da costoro ai fruitori stessi delle informazioni. Ma non è detto che questi ultimi possiedano gli strumenti per svolgere la funzione di validazione e selezione richiesta. La conseguenza è insieme un eccesso e un degrado della qualità delle informazioni di cui gli individui (e la società nel suo insieme) dispongono per rappresentare la realtà e agire efficacemente dentro di essa (v. Shapiro, 1999, capp. XI e XII). L'informazione - come ci ricorda anche Postman (v., 1992, cap. IV) - può divenire fonte di confusione e non di chiarezza se non esiste una teoria o uno schema che possa attribuirle un senso, se viene meno quella funzione di filtro 'immunitario' che è stata tradizionalmente svolta dalle istituzioni. La percezione frammentata del sé e la 'perdita di senso' della realtà, di cui i critici della postmodernità si fanno giustamente carico, parrebbero dunque imputabili ad un processo di disintermediazione nel trattamento sociale delle informazioni che starebbe andando troppo oltre. Come annota alla fine della sua diagnosi Shapiro, ciò di cui si ha davvero bisogno non è tanto un di meno di mediazione quanto una mediazione più efficace.
Ma se il problema posto da Shapiro non è solo la conseguenza di una tecnologia che altera gli equilibri istituzionali della modernità, ma anche (e forse soprattutto) il venir meno di una cultura condivisa in grado di permettere alle istituzioni di esercitare la loro funzione selettiva e di attribuire un senso alle informazioni, allora una sua soluzione non è così facilmente prospettabile. Se è sempre più difficile infatti legittimare un controllo del sapere e delle informazioni da parte di esperti o istituzioni a ciò preposte, non sono neppure facilmente ipotizzabili altri metodi che possano risultare compatibili con le rivendicazioni di autonomia individuale e con la frammentazione degli universi di senso della postmodernità. Una risposta possibile è quella di trasformare la Rete in un mercato delle idee e delle informazioni. Gli strumenti tecnologici digitali consentono già ora di tenere agevolmente una sorta di contabilità delle scelte che gli utenti della Rete compiono rispetto alle informazioni disponibili, e il valore emergente da milioni di valutazioni individuali dovrebbe fungere da filtro-esperto, da indicatore del valore dell'informazione e da selettore sociale della medesima. È una ipotesi certo interessante in quanto coerente con il metodo evolutivo e bottom-up che caratterizza il paradigma di regolazione della postmodernità.
Ma se si tratta di una proposta forse utile per rendere più efficiente lo scambio di informazioni codificate all'interno di una organizzazione della conoscenza post-testuale (v. Brin, 1998, pp. 102 ss.), dubbi sorgono invece in merito all'efficacia della medesima come strumento di validazione e di selezione delle informazioni socialmente rilevanti. Il modello del mercato come sostitutivo della intermediazione istituzionale o esperta sconta infatti la totale atomizzazione del rapporto informativo: la Rete da un lato, con la sua offerta di informazioni; gli individui dall'altro, ciascuno con i propri punti di vista e bisogni conoscitivi. Le tecnologie della Rete permettono (anzi tendono a promuovere) la ricerca mirata di informazioni, l'esclusione automatica di quelle non gradite, la possibilità di entrare in relazione solo con realtà e persone che condividono i propri interessi ed ideali. Per un verso, queste possibilità sono per l'appunto una parte importante di quel processo di individualizzazione che costituisce il lato positivo ed emancipativo della 'rivoluzione del controllo' post-moderna. Ma vi è anche un lato oscuro, che Shapiro (v., 1999, capp. IX e X) ancora una volta ci aiuta a mettere in luce. La possibilità di filtrare efficacemente le informazioni, di costruirsi delle esperienze di vita su misura, ma anche di evitare i feedback negativi che possono venire dalla realtà, non solo rischia di impoverire cognitivamente l'uomo della società dell'informazione, ma porta inevitabilmente verso la perdita di un'esperienza comune condivisa, verso una ulteriore e più radicale frammentazione della cultura e degli universi condivisi di senso.
Sotto questo profilo, le 'comunità virtuali' che si vanno costituendo grazie alle tecnologie relazionali (v. Rheingold, 1993) offrono una esperienza contraddittoria. Rappresentano infatti un significativo modello alternativo di utilizzo della Rete: non come mercato bensì come infrastruttura in grado di potenziare la comunicazione linguistica e permettere la definizione dialogica di universi condivisi (seppur contingenti) di significato. E tuttavia la tendenza a farne delle comunità elettive e selettive, dalle quali è facile 'uscire' quando non se ne condividano le scelte, rischia di trasformarle in universi omogenei al loro interno e tra loro segmentati, che non comportano vincoli rispetto agli impegni comuni assunti e tali, dunque, da costituire più delle esperienze compensative (rispetto alle insoddisfazioni della vita reale) che degli effettivi momenti di crescita personale e di emancipazione sociale.
Se l'affermazione di un 'soggetto' capace di emanciparsi socialmente comporta - come sostiene Touraine (v. La formation ..., 1995) - la necessità che gli individui sappiano imporsi di contro sia alle comunità tradizionali che al mercato, allora le 'comunità virtuali' potrebbero davvero costituire un terreno proficuo per tale sperimentazione. Potrebbero offrire le condizioni relazionali necessarie (ma certo non sufficienti) per avviare concretamente la costruzione di una società che per la prima volta nella storia non sia un mero luogo interstiziale tra il mercato, le comunità tradizionali e lo Stato sociale. Ma perché un tale obiettivo diventi concretamente e storicamente possibile, sembra indispensabile che le nuove comunità relazionali sappiano trovare anche un giusto equilibrio tra inclusione ed esclusione, tra possibilità di uscita e vincoli rispetto agli impegni assunti. E, ancora una volta, ciò non dipenderà dalla tecnologia ma dalle azioni umane: in particolare dalle dinamiche di aggregazione della società civile e dalle scelte di quella politica.
Per la verità non sembra facile in una realtà sociale che tende sempre più a differenziarsi e a individualizzarsi trovare risorse (motivazionali, culturali e politiche) per ristabilire dei legami sociali che vadano al di là di aggregazioni compensative o di movimenti sociali single-issue, per lo più instabili e scarsamente determinati nel perseguimento dei loro obiettivi. Non è certo un caso che le uniche aggregazioni 'forti' che si stanno evidenziando nella crisi degli Stati-nazione e sotto le sfide della globalizzazione economica e della frammentazione sociale siano quelle che derivano dalla riscoperta in chiave antimoderna dei valori tradizionali di tipo religioso, etnico o territoriale. Il tema, per l'importanza che assume, richiederebbe in verità un'analisi più approfondita dei soggetti collettivi che hanno alimentato le dinamiche della società civile della modernità industriale e delle loro trasformazioni nel presente - analisi che la letteratura ad oggi disponibile ha svolto in modo non conclusivo, anche per le difficoltà oggettive di formulare valutazioni su processi che non hanno ancora trovato una direzione definitiva ed univoca.
Quel che è certo è il superamento del dibattito teorico sulle classi nella società dell'informazione così come si era sviluppato negli anni settanta e ottanta (v. Lyon, 1988, cap. III). Lo scenario che oggi si presenta sembra largamente smentire le previsioni che venivano allora formulate, sia che andassero nella direzione di una persistenza (più o meno ammodernata) della struttura di classe capitalista, oppure di un tendenziale superamento della medesima. Ciò che ha sovvertito quelle previsioni è la trasformazione che la nuova società dell'informazione ha portato con sé: quel processo di individualizzazione dell'azione sociale che ha modificato in maniera sostanziale il modo in cui le differenze e le esclusioni producono aggregazione e coscienza collettiva (v. sopra, cap. 5). È un fenomeno che taglia trasversalmente la vecchia struttura delle classi (e degli attori sindacali e politici che le rappresentano), ponendo problemi e sfide radicalmente nuovi (v. Beck, 1992, cap. III). Si può comprendere la novità in tutta la sua portata ponendo attenzione alla dinamica delle disuguaglianze sociali degli ultimi venti anni. È ormai fuori discussione che le ineguaglianze di reddito siano significativamente cresciute nella maggior parte dei paesi sviluppati occidentali a partire dagli anni ottanta (v. Faux e Mishel, 2000). Il fenomeno è particolarmente evidente negli Stati Uniti, che costituiscono certo il caso estremo di crescita delle disuguaglianze di reddito tra tutti i paesi industrializzati, ma la cui evoluzione è anche particolarmente significativa in quanto essi rappresentano il modello di mercato del lavoro flessibile a cui guarda la maggior parte dei paesi sviluppati (v. Castells, 2000, vol. I, pp. 296 ss.). Meno conclusivi sono i dati relativi all'esclusione, vale a dire alla percentuale della popolazione al di sotto della soglia di povertà nei paesi occidentali: con riferimento sempre agli Stati Uniti, la significativa creazione di nuovi posti di lavoro negli ultimi anni sembra avere risollevato le sorti di alcune categorie sociali, ma è ben lontana dall'aver dato una risposta all'altezza del problema in tutta la sua complessità (v. Council of Economic Advisers, 2000). E nei paesi europei il ridimensionamento progressivo dello Stato sociale sta creando situazioni simili a quelle americane.
Date le dimensioni globali della nuova economia, particolarmente inquietanti risultano infine le statistiche sui differenziali di reddito tra paesi sviluppati e paesi del Terzo e del Quarto mondo. Anche se la crescita economica globale degli ultimi anni sembra aver migliorato le condizioni di vita di alcuni paesi poveri (v. Dollar e Kraay, 2000), le differenze relative tra paesi ricchi e poveri del mondo sono cresciute in modo evidente, e in un continente come l'Africa la famiglia media consuma oggi il 20% in meno di quanto consumasse venticinque anni fa (v. UNDP, 1998).
La ricerca delle ragioni di queste crescenti disuguaglianze è tuttora lontana da risultati soddisfacenti. Ma entrare nel merito di questa difficile questione non rientra negli obiettivi che qui ci si propone. Importa piuttosto chiedersi come mai, a fronte di una situazione di peggioramento relativo delle condizioni di vita, si assista ad un declino del conflitto sociale in tutti i paesi occidentali e all'indebolimento sistematico delle organizzazioni sindacali, che sembrano incapaci di rappresentare il nuovo mondo del lavoro.
Gli stessi partiti della sinistra socialdemocratica del resto hanno dovuto rivedere drasticamente i loro precedenti programmi politici nella direzione di una maggiore flessibilizzazione dei mercati del lavoro e di una riduzione dei sistemi di protezione sociale. Vi sono pure, per la verità, inquietanti segnali di disagio sociale (pressione immigratoria dai paesi più poveri, delinquenza diffusa quando non veri e propri riots nei ghetti delle grandi metropoli, movimenti di protesta in occasione dei summit mondiali), ma sono allo stato scarsamente influenti sulle dinamiche reali delle decisioni politico-economiche. È uno scenario, dunque, che sembra smentire sia coloro che ritenevano che la nuova società dell'informazione avrebbe permesso un concreto passo avanti in termini di progresso e di giustizia sociale rispetto alla modernità industriale, sia coloro che, prevedendo il perdurare di disuguaglianze e fratture sociali, si attendevano piuttosto la persistenza di conflitti e azioni collettive per il loro superamento.
Le ragioni di questa situazione, paradossale se giudicata col metro delle dinamiche sociali del passato, sono da ricercarsi appunto nel processo di individualizzazione che caratterizza la società tardocapitalista e nei cambiamenti dei regimi di mobilità sociale che lo accompagnano. Sono stati Erikson e Goldthorpe (v., 1993; v. anche Mobilità sociale e Classi medie) a proporre una teoria della strutturazione di classe che non fa più riferimento ad una posizione statica dentro la divisione sociale del lavoro (Marx) e neppure ad una subcultura omogenea (Weber), bensì alla condivisione dinamica di opportunità di vita e alle strategie di 'chiusura' di tali opportunità da parte di differenti sistemi sociali. Rifacendosi a tale impostazione, Gøsta Esping-Andersen (v., 1993) ritiene di poter sostenere, sulla base di un'ampia e documentata ricerca comparativa, che il regime di mobilità sociale proprio della società postindustriale sia diverso da quello che ha caratterizzato la società industriale. Nonostante le differenze anche di un certo rilievo che caratterizzano i diversi paesi analizzati, egli afferma che i flussi di mobilità e di fluidità che contraddistinguono il tardo capitalismo sono troppo intensi perché si possano ipotizzare 'chiusure' sociali significative sotto il profilo della formazione di nuove classi. Ciò sembra valere per i livelli più bassi della stratificazione sociale (ivi compresi, dunque, quei lavoratori generici, dotati di basso potere contrattuale e impiegati nei servizi meno qualificati, riguardo ai quali alcuni continuano invece a parlare di "proletarizzazione"); mentre il ruolo decisivo della conoscenza e dell'istruzione sembra favorire piuttosto il consolidamento di alcune 'chiusure' di tipo classista al vertice della scala sociale.
Ora, se la competizione crescente, la mobilità dei capitali e la flessibilità della nuova organizzazione delle imprese contrastano con le rigidità del passato e sembrano favorire un nuovo regime di mobilità sociale, quelle stesse tendenze fanno anche lievitare i livelli di incertezza e di rischio che la società dell'informazione deve essere disposta ad accettare e deve imparare a gestire. Molti ritengono a ragione che la società dell'informazione sia una società caratterizzata da livelli di incertezza e di rischio molto maggiori di quelli del passato (v. Beck, 1992; v. Bauman, 1999). Quello che deve far riflettere però è il livello soggettivo di propensione al rischio che in generale (seppure con differenze tra culture) sembra caratterizzare la realtà presente. È Richard Sennett (v., 1998) a fornire l'interpretazione più convincente di questo fenomeno davvero essenziale per la comprensione delle dinamiche della nuova società. Il rischio attiene principalmente agli spostamenti da una posizione sociale ad un'altra. Rifacendosi alla teoria dei "buchi strutturali" (v. Burt, 1992), egli ritiene che in presenza di organizzazioni fluide e poco strutturate, quali quelle proprie della società dell'informazione, tanto maggiori sono i "buchi", cioè le posizioni non ben definite e non presidiate da gatekeepers organizzativi o istituzionali, tanto più agevole è per gli individui spostarsi e cercare di occuparli.
È l'incertezza delle organizzazioni a rete ad accrescere dunque le possibilità di spostamento e le opportunità di mobilità sociale. In verità questa stessa incertezza rende di non facile lettura i processi di mobilità da parte dei soggetti che li sperimentano: non infrequenti risultano infatti le situazioni di mobilità apparente o gli spostamenti che si rivelano a posteriori negativi. E tuttavia è proprio l'incertezza e l'ambiguità ad alimentare la propensione alla mobilità e al rischio ad essa connesso: quanto più difficile diventa orientarsi nel sistema di stratificazione sociale, tanto più gli individui sono disposti a correre dei rischi per paura di perdere occasioni. La moderna cultura del rischio si distingue - secondo Sennett - per il fatto che "i mancati spostamenti sono presi come indicazioni di fallimento, e la stabilità sembra quasi una morte in vita". In una società dal dinamismo sempre più esasperato chi è passivo si sente a disagio e pertanto la destinazione (l'esito più o meno vantaggioso dello spostamento) finisce con il contare meno dell'atto in sé di partire (v. Sennett, 1998, pp. 83-89).
Nelle realtà tradizionalmente più aperte o più avanti nella realizzazione della società dell'informazione (ed è per questo che gli Stati Uniti costituiscono il modello a cui guardare) questa cultura è ormai ampiamente diffusa. Riguarda tanto i lavoratori generici, dotati di scarso potere contrattuale ma convinti comunque di poter trovare opportunità nell'effervescente mercato dei servizi delle aree metropolitane, quanto i professionisti della nuova aristocrazia tecnologica, disposti a rimettersi continuamente in gioco pur di poter entrare a far parte della ristretta élite dei 'vincitori'. E, per la verità, la nuova élite imprenditoriale dei settori dell'alta tecnologia, della comunicazione e della conoscenza è alquanto permeabile, almeno a coloro che possiedono i requisiti formativi indispensabili a farne parte (v. Esping-Andersen, 1993), ed è altresì caratterizzata sul piano culturale da connotati antielitisti e tolleranti delle differenze sociali (v. Lash, 1990; v. Brooks, 2000). Le fortune economiche nella società dell'informazione risultano infatti spesso costruite dal nulla, ma sono anche continuamente sottoposte alle sfide di una 'distruzione creatrice' che genera in misura considerevole vincitori ma anche perdenti. In una società "in cui il vincitore prende tutto" (v. Frank e Cook, 1995), le disuguaglianze tendono dunque ad accentuarsi, ma non si producono 'chiusure' rigide, si accresce semmai la propensione al rischio e la ricerca spesso esasperata di soluzioni individualistiche. Solo gli esclusi per ragioni 'ascritte', di razza, etnia, genere, età, handicap fisici o appartenenza a nazioni emarginate, risultano tagliati fuori dal nuovo regime di mobilità e dalla struttura motivazionale che da esso deriva e sembrano costituire l'unico fronte potenziale di conflitti strutturali permanenti nella società presente (v. Beck, 1992, cap. III).
In questo mutato regime di mobilità sociale vi sono senz'altro aspetti positivi. Oltre agli effetti più immediati sulla dinamica della nuova economia, particolarmente apprezzabili sotto il profilo sociale paiono essere le conseguenze motivazionali e cognitive favorevoli ad una società più aperta, non bloccata dentro i rigidi steccati delle gerarchie e degli status ma pronta ad accettare e a valorizzare le differenze e a sperimentare quelle soluzioni che si generano dalla varietà e dal confronto. Il rovescio della medaglia sta per altro nella difficoltà a vivere perennemente in una situazione di ambiguità ed incertezza, nell'erosione del senso della identità personale che ne deriva, nell'impossibilità di costruire una 'narrazione' convincente della propria esperienza di vita, con l'effetto di produrre forme esasperate di individualismo miope e possessivo (v. Sennett, 1998). Per la verità, questa situazione assai costosa sotto il profilo psicologico e fragile sul piano sociale sembra reggersi su di un precario equilibrio dinamico: una sorta di 'bolla speculativa' motivazionale che si autoalimenta nell'aspettativa che il dinamismo della nuova economia sia in grado di produrre all'infinito un saldo netto positivo tra mobilità ascendente e discendente. Ma non è affatto detto che ciò possa durare in eterno, non fosse altro che per fattori congiunturali che potrebbero determinare un'improvvisa quanto drammatica inversione di aspettative. La vera sfida che permane irrisolta per la società dell'informazione è allora quella di creare condizioni strutturali e politiche più stabili, atte a gestire a livello motivazionale l'incertezza e il rischio che consegue alla flessibilità della sua economia e ad una società in perenne mutamento.
Ed è intorno a questo aspetto cruciale che verosimilmente potranno in futuro ricrearsi aggregazioni e alleanze sociali più stabili e politicamente consistenti rispetto ai movimenti sociali single-issue del presente - uno spazio (aperto e pragmatico) di azione collettiva capace di affrontare alcune grandi questioni che oggi permangono irrisolte: il problema dell'esclusione di masse crescenti della popolazione mondiale, con gli effetti potenzialmente dirompenti che tale situazione alla lunga comporterà; l'inconciliabilità tra una eccessiva divaricazione delle disuguaglianze economiche e una società post-tradizionale che deve necessariamente fondarsi sulla partecipazione e la costruzione dialogica del consenso; la necessità di garantire diritti sociali minimi di cittadinanza se si intende mantenere stabilmente alta la propensione al cambiamento e al rischio; la definizione di ritmi di sviluppo sostenibili non solo per l'ecosistema naturale, ma anche per quello sociale e culturale. Ma perché tali azioni sociali possano portare concretamente a dei risultati è necessario che si confrontino con un sistema politico rinnovato e capace di dare un seguito efficace alla domanda politica.
La 'rivoluzione del controllo' non può non riguardare anche lo Stato, l'istituzione per eccellenza del potere nella modernità. La crisi dello Stato moderno evidenzia i suoi primi sintomi intorno alla metà degli anni settanta (v. sopra, cap. 2) e il suo svolgimento risulta profondamente intrecciato con le trasformazioni dell'economia (globalizzazione), della società (individualizzazione) e della comunicazione (dai media di massa alla rivoluzione di Internet). Si configura inizialmente come interna alla forma dello Stato moderno, quale conseguenza di una domanda crescente di prestazioni che gli attori storici della società industriale (i grandi interessi organizzati del lavoro e del capitale) rivolgono allo Stato sociale keynesiano. Ne sarebbe derivata, secondo la politologia prevalente negli anni settanta e ottanta, una "crisi di governabilità", risultato di una forbice tra crescente deficit fiscale da un lato e perdita di consenso politico dall'altro (v. Governabilità). Oggi, dopo le trasformazioni degli ultimi quindici anni, la crisi attiene alla forma stessa dello Stato moderno. In discussione non è più la governabilità bensì la 'sovranità': quell'esercizio indiscusso e indiviso dell'autorità su di un territorio (o nazione) che sin dalle origini ne è stato il principio costitutivo. Lo Stato per la verità continua a esercitare un potere di influenza non trascurabile, ma è costretto a trasformarsi da soggetto sovrano in attore strategico - attore che riesce ad esercitare la propria influenza solo nella misura in cui negozia i propri obiettivi con altri partners, a cui non può più imporre d'autorità la propria volontà ma con i quali è costretto a condividere il potere (v. Spruyt, 1994; v. Castells, 2000, vol. II, cap. 5).
Le ragioni storiche di questa trasformazione sono da ricercarsi in due ordini di fattori. Innanzitutto nell'indebolirsi dell'idea di 'nazione'. La nazione, intesa come territorio fisico circoscritto e corrispondente (di fatto o per definizione politica) con una comunità omogenea, ha storicamente rappresentato la cornice di riferimento per la relazione tra lo Stato e la società. Lo Stato moderno è, per l'appunto, Stato-nazione: trae la sua legittimità dal rappresentare le istanze e i bisogni di una società ben definita, dal proteggere i cittadini (coloro che vivono entro il territorio della nazione) dalle minacce di altre nazioni, ma anche (con lo Stato sociale) dalle insicurezze economiche e sociali che possono venire da contingenze avverse. Ora, questa cornice di riferimento viene fortemente indebolita dal processo di globalizzazione dell'economia. Una parte importante dei flussi economici e quindi del benessere sociale degli individui che vivono in un determinato territorio dipendono sempre più da organizzazioni transnazionali (le impresereti e le organizzazioni economiche internazionali). Inoltre la mobilità dei capitali favorita dalla globalizzazione dei mercati finanziari indebolisce la capacità dello Stato di influire sulle decisioni economiche delle imprese presenti sul proprio territorio e di agire a protezione economica dei lavoratori che in esse operano. Ne consegue un progressivo allentamento del rapporto di obbligazione politica (legittimazione del potere in cambio di protezione e sicurezza) tra cittadini e Stato-nazione e si incominciano a manifestare forme alternative di aggregazione politica di tipo etnico o localistico. Forme di solidarietà più immediate e basate sulla somiglianza (di sangue, costumi o tradizioni), si sostituiscono alle solidarietà moderne, frutto di una condivisione politica di obiettivi tra diversi. La nazione tende a frammentarsi e lo Stato a indebolirsi, in un circolo vizioso difficile da spezzare (v. Held, 1991; v. Guéhenno, 1995).
Lo Stato-nazione è per altro messo in discussione non solamente dal processo di globalizzazione, che comporta una dislocazione del potere verso soggetti transnazionali, ma anche da quello di individualizzazione che erode dall'interno gli strumenti abituali del suo potere. Innanzitutto indebolisce le forme pluraliste o neocorporative di governo della complessità moderno-industriale. L'esercizio del potere statuale mediante negoziazione e delega alle organizzazioni di rappresentanza dei grandi interessi è reso meno efficace dalle difficoltà di queste ultime a ricondurre ad unità constituencies sempre più coinvolte in processi di mobilizzazione individualista. Ne consegue una diminuita capacità di integrazione sistemica da parte dello Stato, ma soprattutto una perdita di radicamento sociale dei partiti di massam che comporta la disarticolazione della società politica. Il sistema politico risulta così progressivamente tagliato fuori dai processi culturali di definizione della realtà e dalla possibilità di influenzare scelte e comportamenti politici attraverso i linguaggi e i codici che ne definiscono il senso. Nella società dell'informazione il potere è sempre meno imposizione esterna di una volontà e sempre più condizionamento dall'interno, attraverso il controllo (per quanto possibile) delle premesse cognitive e motivazionali dell'azione (v. Melucci, 1999). Ma queste nuove modalità di esercizio del potere sfuggono in buona misura alla dinamica della politica e al controllo dello Stato e risultano piuttosto sempre più condizionate dal processo di assorbimento della cultura da parte della sfera economica.Il segno forse più eclatante di questa nuova condizione del potere politico riguarda il controllo delle informazioni sensibili per la privacy (v. Privacy). Allo scenario oppressivo del Grande Fratello di orwelliana memoria sembra oggi sostituirsi l'assai più concreta e invadente violazione della privacy da parte di una miriade di 'piccole sorelle', di imprese che sfruttano sistematicamente, a fini commerciali, l'enorme massa di informazioni personali rese disponibili dalle nuove tecnologie (v. Castells, 2000, vol. II, p. 301). Meno evidente forse, ma senza dubbio più decisivo per i processi di devoluzione del potere, è il processo di colonizzazione della sfera culturale da parte delle imprese della nuova economia.
Come ha notato Jeremy Rifkin (v., 2000), l'economia informazionale utilizza i prodotti culturali così come l'economia industriale si era avvalsa delle risorse della natura. L'oggetto principale dei nuovi business attiene infatti direttamente alle esperienze di vita e di relazione (nel cinema e nella televisione come nella moda, nei centri commerciali come nei villaggi turistici, nei videogiochi come nell'intrattenimento educativo) e i linguaggi e i codici della postmodernità risultano di conseguenza sempre più condizionati dalle scelte della nuova 'industria culturale'. Così, i rapporti con la politica, un tempo centrali per la definizione della realtà degli individui, entrano in concorrenza con una infinità di altre relazioni significative che si stabiliscono all'esterno di essa e contribuiscono ad emarginarla quale principio organizzativo della vita sociale. Ma se per un verso è proprio la concorrenza che si genera tra fonti diverse di significato a creare le premesse cognitive e motivazionali per l'autonomia degli individui, la medesima autonomia rischia poi di essere resa ineffettiva dalla mancanza di un interlocutore che sappia tradurre l'influenza individuale in decisioni socialmente rilevanti. Questa situazione, in cui il potere sembra essere tanto più effettivo quanto più è inerte e passivo dinnanzi all'espressione immediata delle libertà individuali, è all'origine delle sempre più palesi difficoltà che la democrazia sembra vivere nella società dell'informazione.
Aspettative eccessive vengono infatti sistematicamente deluse generando disaffezione e rifiuto della politica. La progressiva perdita di consenso dei partiti maggiori e la crescente mobilità dell'elettorato, sono i sintomi evidenti di una divaricazione che, se non riesce più a produrre come nella società industriale conflitti espliciti, pur tuttavia è espressione di un disagio individuale diffuso e non meno preoccupante per le sorti della democrazia. Ora, la risposta alla progressiva disarticolazione e marginalizzazione della politica è passata sin qui principalmente attraverso un uso politico pervasivo delle moderne tecnologie della comunicazione. Innanzitutto si è fatto sempre più esasperato il ricorso ai mezzi di comunicazione di massa (in primo luogo la televisione) per costruire e rafforzare rapporti politici di tipo plebiscitario, mediante una identificazione diretta, acritica ed emotiva, con leaders politici dotati di forti abilità mediatiche. Si assiste inoltre ad un utilizzo sempre più sofisticato e pervasivo delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione per definire mediante feedback continui e diretti con l'elettorato (opinion polls) le politiche più convenienti a mantenerne il consenso. L'effetto congiunto di questi strumenti è per altro un ulteriore atomizzazione del rapporto politico, per cui ciascuno si riconosce non in una comunità, frutto di una costruzione processuale e comunicativa di obiettivi condivisi, bensì nelle immagini e nelle rappresentazioni cangianti ed emotive della politica spettacolo (v. Guéhenno, 1995). La società politica ne risulta così ulteriormente disarticolata e il rimedio finisce con aggravare il male.È interessante notare come, dentro questo scenario di crisi della democrazia, esista una forte tendenza ad utilizzare le nuove tecnologie relazionali per la costruzione di una più efficace partecipazione diretta (ma pur sempre atomistica) dei singoli alle decisioni politiche.
Da più parti (non solo dentro l'establishment ma anche tra i rappresentanti di quella controcultura radicale e libertaria assai diffusa tra gli utilizzatori di Internet) si teorizza infatti, quale possibile rimedio, il ricorso a forme di democrazia diretta che verrebbero appunto rese possibili da un uso della Rete a fini politici. In questa ideale "agorà informazionale" (v. Nora e Minc, 1978), i cittadini dovrebbero essere messi nelle condizioni di disporre di tutte le informazioni rilevanti e potrebbero così esercitare direttamente il potere di decisione politica, eliminando (o almeno ridimensionando significativamente) il ruolo di intermediazione esercitato nelle democrazie rappresentative dai professionisti della politica. Questa idea di poter correggere i problemi sempre più evidenti di una politica plebiscitaria con iniezioni di democrazia referendaria, sconta una concezione assai semplificata della politica e dell'uso in essa delle informazioni (per una critica, v. Maldonado, 1997, cap. I; v. Ceri, 1998; v. Shapiro, 1999, cap. XIV).
Come si è richiamato altre volte nel corso di questa analisi, il punto essenziale è che le informazioni non sono mai di per sé autoesplicative e assumono un valore di conoscenza, e dunque di indirizzo decisionale, solo in quanto interpretate dal soggetto. L'essenza della politica - tanto più all'interno di scenari altamente incerti e plurali quali quelli della società dell'informazione - è allora innanzitutto quella di definire il significato e la rilevanza delle informazioni che entrano nel processo decisionale a partire da una interpretazione dell'ambiente il più possibile condivisa. La funzione dei professionisti della politica nelle democrazie rappresentative non è mai stata solo quella di trasmettere meccanicamente le istanze dei rappresentati, bensì quella di interpretare tali istanze e formulare giudizi intorno a cui costruire una opinione dei cittadini il più possibile condivisa e ragionevole. Ciò si presta (e si è ampiamente prestato) ad abusi, a deformazioni ideologiche della realtà, ad un esercizio nascosto quanto pervasivo del potere quale strumento di definizione simbolica della realtà. Ma non vi sono scorciatoie: le tecnologie dell'informazione, per quanto potenti e sofisticate siano, non potranno mai sostituirsi alla responsabilità degli uomini nell'interpretare la realtà e nel prendere decisioni. E questa è un'attività eminentemente sociale, che richiede il confronto e la condivisione degli obiettivi e non la mera sommatoria (o contrapposizione) di interessi definiti in solitudine.
In questa prospettiva, sembra allora assai più promettente, quale rimedio per la crisi della democrazia, un utilizzo delle nuove tecnologie relazionali finalizzato a rendere più efficace la comunicazione e il confronto tra i cittadini nel tentativo di rivitalizzare uno spazio pubblico di dibattito sulle grandi questioni che si pongono nella società dell'informazione. Ciò richiede di non marginalizzare, ma piuttosto di rendere più controllato, da parte di cittadini informati e partecipi, il ruolo degli intermediari politici. Particolarmente pertinenti sul punto paiono allora le riflessioni del comunitarismo politico (v. Etzioni,1995), che ravvisa nell'evoluzione e nell'estensione delle primitive 'reti civiche' la possibilità di costruire un nuovo community network capace di rigenerare una democrazia autenticamente partecipativa (v. Schuler, 1996). Ancorare delle comunità costruite sulle potenzialità relazionali della Rete a delle specifiche e concrete realtà locali avrebbe senz'altro il merito di evitare i limiti delle 'comunità virtuali di interesse', elettive e spesso disimpegnate, che popolano il mondo astratto e compensativo del ciberspazio (v. sopra, cap. 5). E a livello locale potrebbero svilupparsi anche forme più efficaci e controllate di intermediazione politica. La potenziale interconnessione di tali comunità in una rete a dimensione mondiale potrebbe poi favorire un superamento dei limiti localistici tipici delle comunità territoriali tradizionali e permettere (idealmente) di sviluppare un dibattito cosmopolita, che possa dare luogo ad una opinione pubblica rinnovata e all'altezza dei problemi posti dalla globalità. Forse solo a queste condizioni la Rete potrà aspirare ad essere "non solo una tecnologia di libertà ma anche uno strumento di democrazia" (v. Shapiro, 1999, p. 219) e potrà contribuire fattivamente ad evitare "il conflitto cieco tra mercati aperti e comunità chiuse" (v. Touraine, Lettre à Lionel ..., 1995, p. 42) che potrebbe altrimenti costituire lo scenario prossimo venturo della società dell'informazione.
Bauman, Z., La società dell'incertezza, Bologna 1999.
Beck, U., Risk society: towards a new modernity, London 1992 (tr. it.: La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma 2000).
Beck, U., e altri, Reflexive modernization. Politics, tradition and aesthetics in the modern social order, Cambridge 1994 (tr. it. parziale in: Beck, U., Giddens, A., Lash, S., Modernizzazione riflessiva. Politica, tradizione ed estetica nell'ordine sociale della modernità, Trieste 1999).
Bell, D., The coming of post-industrial society, New York 1973 (tr. it.: La società post-industriale, Milano 1991).
Bell, D., The social framework of information society, in Microelectronics revolution (a cura di T. Forester), Oxford 1980, pp. 501-549.
Beniger, J., The control revolution: technological and economic origins of the information society, Cambridge, Mass., 1986 (tr. it.: Le origini della società dell'informazione: la rivoluzione del controllo, Torino 1995).
Berger, S., Dore, R., National diversity and global capitalism, Ithaca, N.Y., 1996 (tr. it. parziale: Differenze nazionali e capitalismo globale, Bologna 1998).
Brin, D., The transparent society. Will technology force us to choice between privacy and freedom?, Reading, Mass., 1998.
Brooks, D., Bobos in Paradise, New York 2000.
Burt, R., The structural holes. The social structure of competition, Cambridge, Mass., 1992.
Castells, M., The information age: economy, society and culture, vol. I: The rise of the network society; vol. II: The power of identity; vol. III: End of millennium, Oxford 2000.
Ceri, P., Quale teledemocrazia?, in La tecnologia per il XXI secolo (a cura di P. Ceri e P. Borgna), Torino 1998.
Ceri, P., Borgna, P. (a cura di), La tecnologia per il XXI secolo, Torino 1998.
Council of Economic Advisers, Economic report of the president, February 2000.
Davis, P.E., Pension funds. Retirement-income, security and capital markets: an international perspective, Oxford 1996.
Dollar, D., Kraay, A., Growth is good for the poor, World Bank paper, http://www.worldbank.org/research/growth/absddolakray.htm, 2000.
Duff, A.S., Craig, D.D., McNeill, D.A., A note on the origins of the information society, in "Journal of information science", 1996, XXII, 2, pp. 117-122.
Erikson, R., Goldthorpe, J., The constant flux. A study of class mobility in industrial society, Oxford 1993.
Esping-Andersen, G. (a cura di), Changing classes. Stratification and mobility in postindustrial societies, London 1993.
Etzioni, A. (a cura di), New communitarian thinking. Persons, virtues, institutions and communities, Charlottesville , Va., 1995.
Faux, J., Mishel, L., Inequality and the global economy, in On the edge. Living with global capitalism (a cura di W. Hutton e A. Giddens), London 2000.
Frank, R., Cook, P., The winner-take-all society, New York 1995.
Frissen, P.H.A., Politics, governance and technology. A postmodern narrative on the virtual State, Northampton, Mass., 1999.
Gergen, K.J., The saturated self: dilemmas of identity in contemporary life, New York 1991.
Guéhenno, J-M., The end of the nation-State, Minneapolis, Minn., 1995.
Held, D., Democracy, the nation State and the global system, in "Economy and Society", 1991, XX, 2.
Held, D., McGrew, A., Goldblatt, D., Perraton, J., Global transformations: politics, economics and culture, Cambridge 1999.
Hutton, W., Giddens, A. (a cura di), On the edge. Living with global capitalism, London 2000.
Kahn, R.E., Cerf, V.G., What is the Internet (and what makes it work), http://www. internetpolicy.org/briefing/12_99_ story.html, 1999.
Kumar, K., From postindustrial to postmodern society. New theories of the contemporary world, Oxford 1995 (tr. it.: Le nuove teorie del mondo contemporaneo. Dalla società post-industriale alla società post-moderna, Torino 2000).
Jencks, C., What is post-modernism?, London 1989.
Lash, S., Sociology of postmodernism, London 1990.
Lash, S., Urry, J., The end of organized capitalism, Cambridge 1987.
Leiner, B. e altri, A brief history of the Internet, http://www. isoc.org/internet-history/A Brief History of the Internet.htm, last version 3.31, 14 Apr 2000.
Lessig, L., Code and other laws of cyberspace, New York 1999.
Lifton, R.J., The protean self: human resilience in the age of fragmentation, New York 1993.
Lyon, D., The information society: issues and illusions, Cambridge 1988 (tr. it.: La società dell'informazione, Bologna 1991).
Lyotard, J.F., La condition postmoderne, Paris 1979 (tr. it.: La condizione post-moderna. Rapporto sul sapere, Milano 1981).
Machlup, F., The production and distribution of knowledge in the United States, Princeton, N.J., 1962.
Maldonado, T., Critica della ragione informatica, Milano 1997.
Marazzi, C., Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell'economia e i suoi effetti sulla politica, Torino 1999.
Marschak, J., Economics of inquiring, communicating, deciding, in "American economic review", 1968, LVIII, 2, pp. 1-8.
Martinotti, G., Squinternet. Ordine e disordine nella società digitale, in (a cura di P. Ceri e P. Borgna), La tecnologia per il XXI secolo, Torino 1998.
Masuda, Y., The information society as postindustrial society, Bethesda, Md., 1981.
Melucci, A., Diventare persone. Nuove frontiere per l'identità e la cittadinanza in una società planetaria, in Limiti della modernità. Trasformazioni del mondo e della conoscenza (a cura di C. Leccardi), Roma 1999.
Naughton, J., A brief history of the future: the origins of the Internet, London 1999.
Negroponte, N., Being digital, New York 1995 (tr. it.: Essere digitali, Milano 1995).
Nora, S., Minc, A., L'informatisation de la société, Paris 1978 (tr. it.: Convivere con il calcolatore, Milano 1984).
oecd, The knowledge based economy, estratto da 1996 Science, technology and industry outlook, Paris 1996.
Peters, T.J., Liberation management. Necessary disorganization for the nanosecond nineties, London 1992 (tr. it.: Liberation management, Milano 1993).
Piore, M.J., Sabel, C.F., The second industrial divide: possibility for prosperity, New York 1984 (tr. it.: Le due vie dello sviluppo industriale, Torino 1987).
Porat, M., The information economy: definition and measurement, U.S. Department of commerce, Washington, D.C., 1977.
Poster, M., The mode of information. Poststructuralism and social context, Cambridge 1990.
Postman, N., Technopoly. The surrender of culture to technology, New York 1992 (tr. it.: Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia, Torino 1993).
Powell, W.W., Neither market nor hierarchy: network forms of organization, in "Research in organizational behavior", 1990, XII, pp. 295-336.
Revees, R., Sounds of silence, in "Prospect", March 2000.
Rheingold, H., The virtual community: homesteading on the electronic frontier, Reading, Mass., 1993 (tr. it.: Comunità virtuali. Parlare, incontrarsi, vivere nel ciberspazio, Milano 1994).
Ricciardi, M., Le comunità virtuali e la fine della società testuale, in La tecnologia per il XXI secolo (a cura di P. Ceri e P. Borgna), Torino 1998.
Rifkin, J., The age of access: the new culture of hypercapitalism, where all of life is a paid-for-experience, New York 2000 (tr. it.: L'era dell'accesso. La rivoluzione della new economy, Milano 2000).
Schwartz, P., R-Tech, in "Wired", june 1996, IV, 6, http: //www.hotwired.com/collections/virtualcommunities/4.06-rtechpr.html.
Schuler, D., New community networks. Wired for change, Reading, Mass., 1996.
Sennett, R., The corrosion of character. The personal consequences of work in the new capitalism, New York 1998 (tr. it.: L'uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Milano 1999).
Shapiro, A.L., The control revolution: how the Internet is putting individuals in charge and changing the world we know, New York 1999.
Shapiro, C., Varian, H.R., Information rules: a strategic guide to the network economy, Boston, Mass., 1999 (tr. it.: Information rules. Le regole dell'economia dell'informazione, Milano 1999).
Spruyt, H., The sovereign State and its competitors, Princeton, N.J., 1994.
Tofler, A., The third wave, New York 1981 (tr. it.: La terza ondata, Milano 1987).
Touraine, A., La société postindustrielle, Paris, 1969 (tr. it.: La società postindustriale, Bologna 1970).
Touraine, A., La formation du sujet, in Penser le sujet (a cura di F. Dubet e M. Wieviorka, Paris 1995.
Touraine, A., Lettre à Lionel, Michel, Jacques, Martine, Bernard, Dominique... et vous, Paris 1995.
UNDP (United Nations Development Program), Human development report 1998, New York 1998.