Inghilterra
di Stefano Villani
Con la sconfitta nella battaglia di Castillon in Guascogna nel luglio del 1453, l’I. era uscita dal secolare conflitto con la Francia, avendo perso tutti i suoi possedimenti nell’Europa continentale, aeccezione di Calais. È significativo che a queste vicende M. faccia un rapido riferimento nel Principe, collegando la vittoria francese all’adozione di armi proprie (Principe xiii; alle pretese inglesi «sul reame di Francia» M. dedica inoltre un breve paragrafo nel Ritratto di cose di Francia, § 131, in SPM, p. 565).
La guerra civile delle Due Rose ebbe inizio sullo sfondo di questa sconfitta e vide la contrapposizione per la corona tra le due famiglie dei Lancaster e degli York. Dopo trent’anni di guerre, nel 1485 Enrico Tudor sconfisse a Bosworth Field nel Leicester shire, Riccardo III, accusato di aver usurpato la corona e di aver assassinato i legittimi eredi al trono. Incoronato re nell’ottobre del 1485, Enrico VII nel gennaio dell’anno successivo sposò Elisabetta di York, la figlia di Edoardo IV, come atto di pacificazione e di unione tra i due casati. Quando nel 1488 morì il duca di Bretagna Francesco II, che da tempo contrastava i tentativi di annessione di Carlo VIII di Francia, il re d’I., che sino a quel momento aveva tentato di mantenere una posizione neutrale tra i due Paesi, ruppe gli indugi e inviò truppe a sostegno della Bretagna nel 1489 e nel 1490, stringendo al contempo alleanza con l’imperatore Massimiliano e con Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia. Nel 1491 venne organizzata una terza spedizione militare inglese a sostegno della Bretagna. La situazione era però ormai disperata per il ducato e, nel dicembre, Carlo VIII assicurò le pretese francesi su quel Paese sposando la duchessa Anna di Bretagna. Quando nel marzo del 1492 il re di Francia dette riparo a Perkin Warbeck, un impostore che fingendosi figlio di Edoardo IV rivendicava il trono inglese, il conflitto ricominciò. Lo stesso Enrico, a capo di 15.000 uomini, salpò nell’ottobre del 1492 e mise sotto assedio Boulogne. Carlo VIII, che stava maturando l’impresa d’Italia, non voleva aprirequesto nuovo fronte con l’I. e, con la pace di Étaples del 3 novembre 1492, offrì a Enrico un generoso pagamento annuale come compenso per le spese sostenute per organizzare la spedizione militare (M. nel Ritratto di cose di Francia fa riferimento a questa «pensione che dava il re di Francia al re d’Inghilterra» concessa come «ricompensa di certe spese fatte» da Enrico VII: § 80, in SPM, p. 558).
Nel novembre del 1501, per suggellare l’alleanza con la Spagna, il primogenito di Enrico VII, Arturo, si sposò con Caterina, figlia di Ferdinando d’Aragona e di Isabella di Castiglia. Di lì a pochi mesi tuttavia, nell’aprile del 1502, il principe di Galles morì improvvisamente. Il re d’I. si affrettò a chiedere al papa la dispensa per permettere al suo secondogenito Enrico di sposare la vedova di suo fratello. Quando la dispensa giunse, la situazione internazionale era però mutata. Nel novembre del 1504, infatti, era morta la regina Isabella, e il vedovo Ferdinando d’Aragona voleva assumere il controllo della Castiglia a spese di sua figlia Giovanna e di suo marito Filippo d’Asburgo. Sia Ferdinando d’Aragona sia Filippo d’Asburgo tentarono di guadagnare l’appoggio di Enrico VII, il quale decise di rimandare il matrimonio tra la vedova del suo primogenito e l’erede al trono, per tener libera una pedina nel gioco matrimoniale (M. accenna a queste vicende in una lettera a Giovanni Ridolfi del 1505, LCSG, 5° t., p. 218).
Nel gennaio del 1506 Filippo e Giovanna, che dalle Fiandre erano diretti in Castiglia, furono costretti da una tempesta a sbarcare in I., e vennero ospitati a corte da Enrico VII. Trattenuti a Windsor per settimane, durante il loro soggiorno fu siglato un accordo che prevedeva prestiti sostanziosi da parte inglese agli Asburgo, in sostegno alla pretesa al trono di Castiglia di Filippo e Giovanna. Questi, da parte loro, acconsentirono a consegnare a Enrico VII Edmund de la Pole, duca di Suffolk, che come discendente degli York aspirava al trono d’I. e si trovava da qualche anno nelle Fiandre («la sua nave, dai venti sbattuta, / applicò in Inghilterra, la qual fue / pe ’l duca di Sofolchi mal veduta», scrive M. nel secondo Decennale, vv. 76-78). Peraltro, nel settembre del 1506 Filippo il Bello morì improvvisamente, e Ferdinando con facilità emarginò la figlia, che iniziò a essere conosciuta come ‘la pazza’.
Negli anni che seguirono, Enrico VII tenne l’I. al di fuori delle guerre europee. Furono avviate trattative con l’arciduca d’Austria e l’imperatore Massimiliano d’Asburgo per il matrimonio tra il principe di Galles con Eleonora d’Asburgo, figlia dell’arciduca Filippo, e di Enrico con Margherita d’Asburgo, figlia dello stesso Massimiliano. Tali trattative, che ovviamente avrebbero avuto un peso sugli equilibri europei, vennero seguite attentamente in Italia e, non a caso, si trovano molti cenni a esse nella corrispondenza privata e pubblica di M. (LCSG, 6° t., pp. 114, 181, 237, 246), il quale non manca di rilevare anche il ruolo diplomatico dell’I. nei conflitti tra Francia e Spagna sullo scenario italiano (LCSG, 6° t., pp. 199, 206, 217, 220, 425, 433, 442, 448).
Alla morte di Enrico VII, nell’aprile del 1509, salì sul trono il diciassettenne Enrico VIII che nel giugno sposò la vedova di suo fratello Arturo, mantenendo fede ai propositi di cinque anni prima. Il nuovo re, convinto di poter rivaleggiare con i sovrani di regni più grandi e potenti del suo, sin dall’inizio fece tutto il possibile per invertire la politica di pace che aveva caratterizzato la strategia dell’ultima parte del regno di suo padre. E quando nel 1510 si conobbe la volontà di Luigi XII di Francia di convocare un concilio per intimidire papa Giulio II con la minaccia di uno scisma, Enrico VIII riuscì a convincere il Consiglio di Stato dell’opportunità di rompere la tregua con la Francia (cfr. LCSG, 6° t., p. 499; cfr. anche p. 520). Enrico, pertanto, nell’autunno del 1511 aderì alla lega Santa promossa da papa Giulio II per contrastare la Francia. Dopo i primi esiti incerti, dovuti anche all’ambigua condotta di Ferdinando d’Aragona, Enrico stesso guidò l’esercito sul continente. Sbarcato a Calais nel luglio del 1513, vinse l’esercito francese a Guinegatte (ora Enguinegatte), presso Calais, e conquistò Thérouanne e Tournai. La battaglia di Guinegatte del 16 agosto 1513 passò alla storia come quella ‘degli speroni’ dato che si disse che i cavalieri francesi si erano serviti più degli speroni (éperons) per spingere i cavalli alla fuga che della spada (épée) per combattere. Contemporaneamente l’esercito inglese sbaragliava quello scozzese a Flodden, in una battaglia in cui venne decimata la classe dirigente della Scozia, da sempre alleata della Francia. Con la morte di Giulio II intervenne però un profondo mutamento degli scenari europei. Ferdinando d’Aragona si era sganciato dalla lega Santa, avviando trattative con il re di Francia, provocando lo sdegno di Enrico VIII e la preoccupazione del nuovo papa Leone X che, nel timore di un’alleanza Francia-Spagna, spinse in direzione della pace tra I. e Francia, inviando nei due Paesi, nel maggio del 1514, come mediatore il vescovo Ludovico di Canossa. Grazie a lui e all’arcivescovo di York Thomas Wolsey, venne dunque siglata a Londra una tregua di otto anni tra Francia e I., che fu suggellata dal matrimonio tra l’ormai anziano sovrano francese Luigi XII e la sorella di Enrico VIII, Maria Tudor. Il re di Francia concesse inoltre a Enrico VIII il controllo di Tournai e un tributo di un milione di scudi.
Delle vicende anglo-francesi M. parla spesso nella sua corrispondenza con Francesco Vettori nella primavera e nell’estate del 1513. Come ha messo ben in luce Federico Chabod nel suo saggio Sulla composizione de Il Principe (1927), M. segue le vicende da osservatore interessato e da un punto di vista apertamente filofrancese. Cenni al ruolo inglese nel conflitto si trovano nelle lettere di M. prima dell’intervento diretto di Enrico VIII, in cui di fatto esprime l’idea che l’I. si facesse interamente «governare da Spagna» (lettera a Vettori del 20 giugno 1513). Dopo lo sbarco del re d’I. a Calais – «un re di Inghilterra ricco, feroce e cupido di gloria», come lo descrive in una lettera a Vettori del 26 agosto 1513 –, M. esprime all’amico la preoccupazione per la situazione di un re di Francia incalzato dagli inglesi; nella missiva emerge tutto il suo timore che questo rappresenti la «rovina di Francia». Nonostante questo evidente pessimismo, M. non cessa di sperare che abbiano torto quanti, come Vettori, sottovalutano il re di Francia e stimano eccessivamente Enrico VIII («Dubito», scrive al Vettori, «che voi facciate questo re di Francia nonnulla troppo presto, et questo re d’Inghilterra una gran cosa»). E persino dopo la sconfitta francese di Guinegatte, M. continuò a ritenere che la Francia non potesse in alcun modo esser considerata fuori gioco.
Discorrendo delle vicende contemporanee nei Discorsi, M. dà comunque un giudizio positivo di Enrico VIII, che definisce esplicitamente «prudente uomo». Accennando all’invasione inglese della Francia, egli loda infatti il re inglese per non aver trascurato anche in tempo di pace le istituzioni militari e soprattutto per aver condotto truppe nazionali e non mercenarie, nonostante i molti anni in cui quel Paese era stato «sanza far guerra» (Discorsi I xxi 7).
Quando Carlo V dichiarò guerra alla Francia, l’I., nel maggio del 1522, si schierò al fianco dell’imperatore e dall’agosto del 1523 partecipò direttamente al conflitto invadendo nuovamente le terre francesi. Dopo la battaglia di Pavia, Enrico VIII sollecitò Carlo V a spartire la Francia con lui. Di fronte al suo rifiuto, il re d’I. operò un rivolgimento delle alleanze e promosse la lega antimperiale di Cognac, di cui tuttavia non entrò a far parte. L’esercito imperiale scese in Italia nella primavera del 1527, saccheggiando Roma nel maggio. M., che sarebbe morto a poche settimane dal sacco, dopo il 1513 non sembra far più alcun cenno all’I., in quella fase protagonista secondaria della storia europea.
Di contro al vasto interesse che l’opera machiavelliana suscitò nell’I. cinquecentesca, l’attenzione verso la storia e la società britannica del suo tempo è dunque in M. assai limitato. Paese troppo distante culturalmente e politicamente dall’Italia, l’I. suscitava interesse negli italiani dell’epoca essenzialmente per l’impatto che le sue scelte di politica estera potevano avere sulle vicende belliche del continente.
Bibliografia: F. Chabod, Sulla composizione de Il Principe di Niccolò Machiavelli (1927), in Id., Scritti su Machiavelli, Torino 1964, pp. 139-93; J.J. Scarisbrick, Henry VIII, Berkeley 1968 (trad. it. Bologna 1984); S.B. Chrimes, Henry VII, London 1972; S. Brigden, New worlds, lost worlds. The rule of the Tudor, 1485-1603, London 2000 (trad. it. Alle origini dell’Inghilterra moderna. L’età dei Tudor, 1485-1603, Bologna 2003); S.J. Gunn, Henry VII (1457–1509), in Oxford dictionary of national biography, Oxford 2004, ad vocem; E.W. Ives, Henry VIII (1491–1547), in Oxford dictionary of national biography, Oxford 2004, ad vocem.
La fortuna di Machiavelli in Inghilterra di Carlo Altini
M. fu autore molto noto nell’I. del 16° e 17° secolo. Anche senza considerare le traduzioni manoscritte del Principe e dei Discorsi realizzate negli anni Quaranta e Cinquanta del Cinquecento, conservate nelle biblioteche ma rimaste inedite, numerose sono le edizioni delle opere di M. pubblicate tra il 1562 e il 1595: le principali traduzioni sono quelle dell’Arte della guerra (1562, a cura di Peter Whitehorne) e delle Istorie fiorentine (1595, a cura di Thomas Bedingfield), ma importanti sono anche le edizioni in lingua italiana delle opere di M. che vennero stampate clandestinamente in Inghilterra. Negli anni Ottanta, infatti, l’editore John Wolfe – presso il quale vennero pubblicati, nel 1584, anche i Ragionamenti di Pietro Aretino – pubblicò a Londra, in lingua italiana, cinque opere del Segretario fiorentino con falsa indicazione sia dell’editore (apponendo nomi di fantasia) sia del luogo di edizione (utilizzando nomi di città quali Palermo, Piacenza e Roma): si tratta dei Discorsi (1584), del Principe (1584), delle Istorie (1587), dell’Arte della guerra (1588) e dell’Asino d’oro (1588). Tali opere non erano destinate al pubblico italiano, ma alle élites inglesi presso le quali la lingua italiana era sufficientemente conosciuta e la cultura del Rinascimento italiano ‘radicale’ godeva di notevole reputazione, da coltivare tuttavia nel segreto della vita privata e senza alcuna ostentazione pubblica. Gli schermi di prudenza e di dissimulazione – pienamente adottati, a proposito di M., dallo scrittore Gabriel Harvey, dal drammaturgo Christopher Marlowe e dal poeta John Milton – erano infatti necessari in quanto, in quest’epoca, leggere e far circolare M. significava appartenere alla schiera degli infedeli, degli empi e degli atei. Anche coloro che leggevano con interesse le opere di M., adottando i suoi principi morali e politici, erano costretti in pubblico a dimostrare distacco, se non disprezzo, riguardo agli insegnamenti ‘scandalosi’ del Segretario fiorentino; e fu così che Marlowe, malgrado la sua vicinanza agli autori del Rinascimento italiano ‘radicale’, aprì The jew of Malta (1589) presentando M. come la fucina di tutti i vizi privati e pubblici e come esempio paradigmatico della corruzione dell’Italia rinascimentale, con il suo lato oscuro fatto di intrighi e complotti in cui si agitavano lotte tra potenze continentali, papato e principati. Non mancarono però casi opposti di elogio pubblico di M. in opere come il Ragionamento dell’advenimento delli inglesi et normanni in Britannia (1556, traduzione dell’originale inglese non più disponibile) del vescovo Stephen Gardiner, che sottolineò l’importanza del metodo della ricerca storica e dei concetti elaborati dal Segretario fiorentino, soprattutto «il principe nuovo» e «le armi proprie», per la costruzione della nuova unità politica inglese.
Come accade a tutte le latitudini e in tutte le epoche nei riguardi di M., anche nell’I. moderna gli interpreti si divisero tra sostenitori e oppositori (Praz 1962, pp. 97-151; Procacci 1995, pp. 213-51). Da un lato vi erano coloro – come il politico Walter Raleigh, il già ricordato John Milton e i filosofi Francis Bacon (→) e James Harrington (→) – che affermavano l’importanza pedagogica e morale del suo insegnamento: M. mostra, infatti, come tutelare la ‘ragion di Stato’, raggiungendo la virtù politica e allontanandosi dai vizi e dalla decadenza (Orsini 1937, pp. 110 e segg.; Praz 1962, pp. 153-65), e propone un modello di principe giusto, perfetto politician, esperto nell’arte della guerra e della diplomazia, oltre che capace di temperare le esigenze della politica con quelle della morale. Dall’altro lato vi erano coloro – come il cardinale Reginald Pole (→) e il poeta John Donne (→) – che consideravano il machiavellismo sinonimo di satanismo politico e promuovevano un attacco frontale contro l’immoralità e l’empietà di M. e di tutti gli esponenti del Rinascimento italiano ‘radicale’, come Pietro Aretino, Pietro Pomponazzi e Giordano Bruno (Procacci 1995, pp. 87, 221). I critici di M. – soprattutto in ambiente puritano – giunsero addirittura a costruirne uno stereotipo negativo, quasi una «leggenda nera», facendone una personificazione del male e di tutti i vizi umani: da questo punto di vista, non furono gli unici in Europa a elaborare elementi retorici e di propaganda antimachiavelliana (e antimachiavellica), visto l’enorme successo del Contre Nicolas Machiavel (1576) del giurista francese Innocent Gentillet (→), che contribuì a creare l’immagine diabolica di M. come «nemico del genere umano» e autore di un «libro scritto con il dito del diavolo», secondo la celebre definizione del cardinale Pole. Su questa linea interpretativa l’uomo politico machiavellico era dunque considerato univocamente come spregiudicato, ambizioso e ateo, teso a raggiungere i propri scopi e interessi senza rispetto nei confronti di alcuna norma religiosa o morale. Si spiega così come fu necessario attendere il 1636 per vedere la prima traduzione a stampa dei Discorsi, il 1640 per quella del Principe e il 1674 per un’edizione dell’opera omnia di M., tutte per mano di Edward Dacres. Questa «leggenda nera» di M. non impedì però che importanti uomini inglesi di governo – per es., Thomas Cromwell – leggessero con attenzione il Principe, «opera maledetta», per trarne motivi d’ispirazione: l’impopolarità dell’autore, tuttavia, impediva di confessare la fonte di ispirazione.
Nell’Inghilterra di Elisabetta I e di Giacomo I il conflitto intorno al nome di M. fu indice di un ben più ampio conflitto tra gli esponenti delle diverse élites, a cavallo tra conservazione e mutamento, fra tradizione e modernità: in questo periodo la fortuna di M. superò i confini della storia letteraria e del pensiero politico per configurarsi come un momento di un conflitto egemonico sulla determinazione dei modelli etici, politici e religiosi dell’I. contemporanea (Raab 1964). Lo scontro tra queste opposte fazioni non riguardò dunque solamente problemi filosofici o teologici, ma si fondò su questioni politiche concrete, tra le quali la definizione del modello di monarchia (nelle sue varianti inglese, francese o turca) o la ricostruzione della tradizione repubblicana. E fu soprattutto quest’ultima questione a determinare una particolare fortuna di M. in I. (e successivamente anche nelle colonie americane) tra 17° e 18° secolo. Si tratta di un’interpretazione che guardava soprattutto al M. «cittadino e segretario della repubblica», autore dei Discorsi ed esponente della tradizione repubblicana (Skinner 1981). Questa immagine di M. è quella che maggiormente influenzò il repubblicanesimo inglese che contribuì alla nascita in I. della monarchia parlamentare e costituzionale, fino a giungere successivamente a esercitare un’influenza fondamentale sulla Rivoluzione americana, nello sforzo costituzionale dei founding fathers e nel dibattito che confluì negli scritti del Federalist. L’assunzione di un’esplicita teoria del conflitto, la riflessione sui diversi modelli di repubblica, le caratteristiche delle virtù civili, politiche e militari – tutti temi presenti nei Discorsi – divennero strumenti importanti di riflessione per gli autori repubblicani che ammiravano l’autorevolezza del «divino Machiavelli». Oltre a Harrington, numerosi erano gli scrittori, gli storici e i politici riformatori – i cosiddetti commonwealthmen – che interpretarono M. come esponente massimo del repubblicanesimo: da Francis Osborne a Marchamont Needham, da Henry Neville ad Algernon Sidney, da John Trenchard a Walter Moyle, da Thomas Gordon a Richard Price e a Joseph Priestley, M. venne elogiato come uno dei principali difensori della virtù civica e della libertà repubblicana (Pocock 1975; Pettit 1997). Nelle letture dei commonwealthmen, il M. repubblicano fu coniugato con il M. storiografo, con particolare riguardo alla storia delle repubbliche di Roma, Venezia e Firenze. Le opere da loro maggiormente analizzate furono i Discorsi e le Istorie fiorentine, che si ritrovano al centro anche delle letture machiavelliane di David Hume e di Adam Ferguson, attente soprattutto alle questioni di metodologia storica e di uso della storia per scopi di analisi politica.
La fortuna di M. nell’Inghilterra della seconda metà del Novecento è legata a un più ampio contesto filosofico e politico determinato dalla crisi del liberalismo e caratterizzato dal recupero della tradizione repubblicana. La necessità di ripensare i fondamenti e i caratteri della democrazia moderna e della società liberale, in un senso normativo e da una prospettiva non marxista, condusse infatti alla riscoperta del repubblicanesimo – non solo in I., ma anche negli Stati Uniti, per es. con i lavori degli storici Hans Baron, Zera Silver Fink, Felix Gilbert, Bernard Bailyn e Gordon Wood – cioè di una tradizione che ha costantemente accompagnato lo sviluppo della modernità politica insistendo su temi (per es., virtù, cittadinanza e bene comune) che sono affini, ma non identici, a quelli professati dal liberalismo. Da questi studi emergono differenti interpretazioni della tradizione repubblicana e del rapporto con l’insegnamento di M., soprattutto in relazione alle vicende legate allo sviluppo del costituzionalismo e del pensiero politico inglese in età moderna, oltre che del costituzionalismo americano successivo alla Rivoluzione del 1776. Il passaggio di M. dall’I. alle colonie americane – e il ruolo che la sua opera svolse durante gli eventi rivoluzionari e la costruzione della Costituzione americana – è uno dei temi maggiormente dibattuti dalla storiografia inglese contemporanea, per ragioni non solo di carattere storico-ricostruttivo o storiografico, ma anche di carattere filosofico-politico, così da ripensare i principi attuali dei modelli repubblicani, liberali e democratici, considerati affini, ma distinti. Tra queste interpretazioni si sono progressivamente create opposte famiglie di paradigmi repubblicani che hanno sottolineato continuità e discontinuità all’interno della tradizione, evidenti in particolare nella distinzione tra le prospettive «neoaristoteliche» e «neomachiavelliane» rappresentate dagli storici del pensiero politico John Greville Pocock (→) e Quentin Skinner (→). Con il progressivo esaurimento della prospettiva marxista, la teoria repubblicana ha dunque trovato una nuova e importante fortuna critica che, a partire soprattutto dagli anni Novanta, ha determinato il recupero della contrapposizione tra liberalismo e repubblicanesimo che aveva caratterizzato l’I. moderna e che aveva visto prevalere il liberalismo, considerata la sua più semplice composizione con il principio monarchico, da un lato, e con il principio democratico, dall’altro.
A Pocock e Skinner si deve la più organica sistematizzazione degli sforzi della critica novecentesca per liberare definitivamente, in seno alla cultura anglosassone, M. dalla sua «leggenda nera», su cui insiste invece Leo Strauss (→). Mentre nella storiografia inglese la modernità politica viene generalmente fatta coincidere con la tradizione del liberalismo (da John Locke a John Stuart Mill), per Pocock e Skinner esiste anche una modernità «repubblicana» di M., attiva successivamente nei suoi interpreti inglesi e americani: emerge dunque l’immagine rassicurante di un M. difensore del «vivere civile» contro la tirannide, civil servant della città di Firenze e umanista amante della filosofia degli antichi. Su questa strada il Segretario fiorentino viene allontanato dal machiavellismo e viene messa in luce l’importanza della sua opera nelle riflessioni politiche delle rivoluzioni inglesi e della Rivoluzione americana sul «vivere libero». Emerge così anche il nesso tra la modernità dell’insegnamento di M. e la critica delle teorie dello Stato moderno inteso come Leviatano: secondo Pocock e Skinner, infatti, in M. è lecito parlare di potere e di governo, non di Stato o di sovranità, e per questo motivo i Discorsi offrono una teorizzazione delle forme in cui si organizzano le società pluralistiche anche nell’epoca contemporanea della poststatualità, caratterizzata dal conflitto tra forze e istituzioni non interamente riconducibili alla macchina dell’amministrazione statale. Ma, al di là di questa comune cornice di riferimento, le interpretazioni machiavelliane di Pocock e Skinner divergono su alcune questioni centrali.
La tesi fondamentale di Pocock è che, proprio grazie ai Discorsi, il repubblicanesimo classico di Aristotele e Cicerone è giunto prima alla Rivoluzione inglese e poi alla Rivoluzione americana: nella modernità, dunque, la tradizione dominante nel «mondo atlantico» non è il liberalismo, ma il repubblicanesimo. Pocock individua come peculiarità del repubblicanesimo la concezione aristotelica della polis – intesa come comunità organizzata che persegue il bene comune attraverso la partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica –, che persiste nell’idea romana di res publica. Tale tradizione viene recuperata nel pensiero rinascimentale fiorentino, in particolare da M., che procede a definire una concezione della repubblica come organizzazione di uomini liberi dotati di virtù e capaci di costruire la propria storia. Questa concezione si diffuse successivamente nell’I. del 16° e del 17° sec., così da diventare uno dei fattori culturali alla base del progressivo contrasto tra la monarchia e il Parlamento, e infine emigrò al di là dell’Atlantico per giungere ai rivoluzionari americani, in particolare John Adams, Thomas Jefferson e James Madison. Al termine di questa storia di lungo periodo il repubblicanesimo, e in particolare l’insegnamento di M., divenne momento fondativo della Rivoluzione americana, che può dunque essere considerata l’ultimo grande atto dell’Umanesimo civile del Rinascimento fiorentino, a sua volta erede della tradizione classica greco-romana: il cittadino di M. e dei repubblicani inglesi e americani è la reincarnazione dell’uomo come animale politico (zoon politikòn) di Aristotele. Il repubblicanesimo moderno – anche quello di M. – è quindi una forma di aristotelismo politico, o una riformulazione della scienza politica esposta da Aristotele nella Politica. Secondo Pocock, infatti, le idee proprie della tradizione dell’Umanesimo civile fiorentino identificano l’uomo onesto e probo nel cittadino dedito al bene comune, trasportano la virtù nella sfera politica e rendono dipendente la virtù del singolo dalla virtù della città: non esiste politèia, o res publica, se non esiste virtù, e viceversa. Ma se il fine della politica è la virtù ed essa si nutre della partecipazione dei cittadini alla repubblica, per Pocock è necessario riconoscere che l’Occidente – caratterizzato da masse spoliticizzate e da «folle solitarie» – ha tradito la missione indicata dal repubblicanesimo classico e moderno: invece di sedere sul banco degli imputati per la sua ‘immoralità’, il M. di Pocock diventa il principale critico delle miserie della cultura politica contemporanea.
Skinner non condivide la concezione secondo cui M. e i repubblicani moderni sarebbero pensatori aristotelici: essi sono piuttosto «neo-romani», ispirati a scrittori quali Livio, Cicerone e Sallustio, la cui fortuna nella cultura politica dei comuni italiani è già radicata nel 13° sec., cioè prima del compiuto «ritorno» dell’aristotelismo politico in Occidente. Secondo Skinner la posizione «neo-romana» di M. – che viene sviluppata e discussa da un altro importante teorico del repubblicanesimo, Philip Pettit – è attenta soprattutto alla questione dell’autogoverno repubblicano della città ed è meno interessata al tema del bene comune; inoltre produce una concezione della libertà (intesa come assenza di potere arbitrario) ben diversa da quella dei classici greci, tanto che la partecipazione politica non viene promossa in quanto tale (come nell’idea di zoon politikòn), ma solo come antidoto alla tirannide. La libertà teorizzata da M. non è la libertà «positiva», ma una particolare forma di libertà «negativa»: l’individuo partecipa alle vicende della res publica non già perché quella sia la sua destinazione naturale – l’uomo di M. non è un animal politicum, ma un essere esposto alla «corruzione», che tende a trascurare i propri doveri verso la collettività –, ma per impedire che in mano ad altri il governo degeneri in una tirannide. La partecipazione politica non si configura dunque come un fine ultimo, ma come un fine mediano per lo sviluppo della virtù della repubblica. La virtù tematizzata nelle pagine dei Discorsi non è infatti la virtù del singolo, ma è la virtù del corpo cittadino nel suo complesso: M. presenta la virtù come la qualità necessaria per far vivere libera la repubblica, insistendo sul nesso costitutivo tra virtù e libertà politica. In questo modo Skinner rivaluta l’idea del conflitto nella teoria politica di M. e sottolinea la distanza del Segretario fiorentino dalle teorie repubblicane fondate sulla concordia ordinum che caratterizzano l’Umanesimo civico fiorentino, per es. di Leonardo Bruni e di Donato Giannotti. Si tratta dunque di risultati che valgono tanto per l’interpretazione storica di M. quanto per l’interpretazione delle sue teorie, all’interno di un più ampio tentativo di recuperare il repubblicanesimo e il suo ideale di libertà politica.
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