Iraq
"La prima vittima della
guerra è la verità"
(Erodoto)
Guerra a Saddam Hussein
di Igor Man e Monica Maggioni
20 marzo
Il presidente degli Stati Uniti George Bush, immediatamente dopo la scadenza dell'ultimatum a Saddam Hussein, annuncia in un discorso televisivo l'inizio della campagna Iraqi freedom. La guerra sarà dichiarata vittoriosamente conclusa il 1° maggio. Tuttavia il cammino per riportare l'Iraq alla normalità politica ed economica e per ricucire gli strappi che l'intervento unilaterale angloamericano ha creato nei rapporti internazionali resterà lungo e difficile. Caratteristica saliente di questa guerra è anche la sua trasformazione in evento mediatico, grazie alla possibilità di collegarsi in diretta di cui fruiscono gli inviati a Baghdad e nelle altre città irachene, e quelli embedded, al seguito delle truppe.
Saddam, e poi?
Casus belli
La prima vittima della guerra è la verità. Questa 'scoperta' viene attribuita a Erodoto. La menzogna è un'arma sofisticata, assai difficile da impiegare: se ben praticata può dare risultati straordinari, in caso contrario si ritorce a tutto danno del presuntuoso affabulatore; lo disse Cesare accingendosi a dettare quello che, oggi, chiameremmo un 'taccuino di guerra'. Ancora: sappiamo dalla Storia che per fare la guerra c'è bisogno di un 'pretesto' (casus belli); è una regola che sfuma nell'ipocrisia e alla quale nessuno, mai, si è sottratto. Senza andare troppo lontano, si possono ricordare i famosi pozzi di Ual Ual: gli attacchi sistematici di presunti 'ribelli' somali (c'è qualcuno che li abbia chiamati 'patrioti'?) a quella preziosa fonte d'acqua furono il 'pretesto' di cui si servì il regime fascista per combattere l'ultima guerra coloniale della Storia moderna. È noto che, essendosi gli attacchi dei ribelli fattisi più rari, bravi dubat spacciatisi per ribelli inscenarono finti attacchi e infine venne la guerra d'Etiopia.
Si vuole che nel 1991, quando oramai gli americani avevano deciso di fare la guerra a Saddam, l'Arabia Saudita nicchiasse. Ma ogni riserva dei prudenti wahabiti cadde allorché furono mostrate al principe reggente, Abdallah, drammatiche foto satellitari che documentavano un pericoloso ammassamento di truppe irachene a ridosso del fragile confine saudita. Poi si sarebbe appreso che quelle foto erano un falso, fabbricato dai Servizi. Last but not least: continua negli Stati Uniti e in Gran Bretagna lo scontro mediatico-politico fra quanti accusano Bush e Blair di aver detto il falso purché fosse guerra contro Saddam e quanti li difendono. Il falso: il Tiranno possiede armi di sterminio di massa, testate atomiche e testate missilistiche, gonfie di sterminatori agenti chimici. Nel rapido volgere di 45 minuti primi, l'Iraq può scatenare l'ira di Dio devastando Israele e "verosimilmente attentando alla sicurezza dello stesso mondo occidentale nei suoi terminali più sensibili". Era una 'balla gigantesca', non furono in pochi a sospettarlo, ma molti la scambiarono per verità sacrosanta: primi fra tutti i rappresentanti del popolo americano e i rappresentanti del popolo inglese. Certamente bisognava dimostrarlo, con forti pezze d'appoggio, l'assunto che l'Iraq costituiva un pericolo per noi occidentali anche per la 'sintonia' in atto tra Baghdad e lo Sceicco della Morte, "lui, Osama bin Laden, il terribile mandante dello stupro delle Torri Gemelle, lui, l'incarnazione diabolica del terrorismo suicida islamista". Ma le pezze d'appoggio non c'erano e occorreva muoversi per non naufragare nel ridicolo. Così opinione pubblica e parlamenti dovettero accontentarsi della 'parola': quella del presidente dell'Iperpotenza, uomo di fede soccorso dalla consultazione (quotidiana) della Bibbia, e quella del giovine, patriottico iperlaburista Blair, armonica 'spalla' di Bush.
Ma la menzogna corrode, peggio dell'acido muriatico, l'incauto che la pratica avventurosamente e, poiché - sino a prova contraria - siamo in democrazia, ecco il presidente borned again, come si autodefinisce Bush (cioè 'l'unto del Signore'), ammettere che le informazioni di cui disponeva, a un più accurato esame siano risultate in buona parte "non esatte", ma il tempo stringeva e, costituendo "in ogni caso" il Tiranno "un pericolo grave" se non a breve senz'altro sulla media distanza, al punto in cui stavano le cose tanto valeva attaccare. E venne la guerra. Per altro velocissimamente vinta dai Nostri. Una guerra che, in teoria, avrebbe fatto della dittatura irachena un paese-laboratorio dal quale sarebbe partito il flusso benefico - e contagioso - del vivere democratico.
Per dirla in parole povere, la Casa Bianca, in assoluta buona fede, ha pensato di prendere i cosiddetti due piccioni con una fava. Eliminare un regime di terrore (e il suo gestore paranoico, Saddam), mettendo le mani su un prezioso tesoro: le riserve energetiche dell'Iraq, in competizione con quelle dell'Arabia Saudita e ben più preziose, essendo il greggio iracheno light, vale a dire più facile e meno costoso da raffinare. Una volta presi i due piccioni, al costo di una guerra appunto veloce, ecco entrare in funzione il laboratorio: democrazia, democrazia, democrazia, dal Golfo fino al Maghreb, grazie giustappunto al 'contagio benefico'.
Un paragone impossibile
A chi obiettava agli amici americani che la democrazia non cresce rapida come la marijuana, anzi è di lentissimo sviluppo e ci vuole il seme, tanto seme, non basta il contagio, invariabilmente veniva fornita la seguente risposta: avete dimenticato un precedente importante, l'Italia. Abbattendo Mussolini e il suo regime dittatoriale, gli Alleati spianarono la strada alla propedeutica democratica. Non imposero la democrazia ma la consegnarono agli italiani, dopo aver loro donato il bene supremo: la libertà.
Commovente discorso, codesto, ma superficiale. Diciamo subito che è impossibile paragonare l'Italia di allora all'Iraq di oggi (non parliamo di 'civiltà', per amor di Dio, di 'supremazia ideologica' eccetera). L'Italia prima del Fascismo aveva avuto una sua storia liberaldemocratica. Quella nostrana era stata una democrazia imperfetta, ma dallo Statuto di Carlo Alberto alla Grande Guerra (quella 'romantica') qualche passetto sulla buona strada lo avevamo fatto. Il Fascismo non riuscì a fare tabula rasa dei suoi avversari; di 'dissidenti', chiamiamoli così, erano colmi Ministeri e Forze armate, tanto è vero che Mussolini fu costretto a farsi la sua brava Milizia personale, la MVSN, sprofondata nel pantano del ridicolo il 25 luglio. "Duce, Duce chi non saprà morire? Il giuramento chi mai rinnegherà?" cantavano (convinti?), ma il 25 luglio la Milizia non fece una piega. Anziché combattere preferì disertare. In massa.
Non basta: la diaspora antifascista era di tutto riguardo e infatti con la Liberazione arrivarono i Pertini, i Saragat, gli Sforza, i Nenni, gli Spinelli e dalle neocatacombe uscirono personaggi come De Gasperi, Bonomi, Tino, Gonella, Andreotti, Vanoni, Fanfani, Parri, Moro. Fu relativamente facile per gli Alleati affidare, sia pure per gradi, la gestione della Libertà agli italiani. C'è, poi, un elemento per me assai di peso nella rinascita italiana: proprio il 25 luglio. Quel fatale giorno il popolo italiano ebbe modo di compiere il più antico dei riti: la sconfessione del Tiranno, abbattendone la statua e distruggendo i simboli del suo potere.
In Iraq, invece, la Storia ha condannato quel nobile popolo a ignorare le libertà democratiche (fatte anche di atti formali) e gli angloamericani si sono visti costretti a giubilare da soli, a dare al paese un 'governo provvisorio' che rappresenta soltanto sé stesso.
Odio contro il Tiranno, odio contro l'Occidente
Ma è pur vero che Saddam Hussein teneva l'Iraq in sudditanza, alternando terrore e carota. Chi, come il sottoscritto, è stato più volte in quel paese popolato di gente seria, faticatrice, fiera, può testimoniare del clima angoscioso in cui si viveva. Al caffè bastava che un disgraziato avventore qualsiasi macchiasse inavvertitamente la fotografia del Tiranno che ogni giorno e su tutti i giornali campeggiava in prima pagina, perché venisse arrestato dal solito poliziotto in borghese, condotto nella sede del Ba'th (il partito unico, in fatto nazionalsocialista e non socialista come pretendeva) e sottoposto a snervante interrogatorio. Che spesso andava male. In tal caso il malcapitato finiva nell'amplesso feroce della polizia segreta. Se ce la faceva a superare la tortura, poteva sperare di 'cavarsela' con dieci anni di galera.
Quando l'Iraq nazionalizzò il petrolio (nel 1972-73) volai a Baghdad per un'inchiesta-indagine incentrata sui possibili sviluppi politici di quella decisione. All'aeroporto mi attendeva un distinto quarantenne, che annunciò di essere il funzionario del Ministero dell'Informazione incaricato di assistermi come guida-interprete-autista. Mi fu prezioso: nel suo inglese da laureato alla London School of Economics mi insegnò durante soli quindici giorni la Storia del petrolio, conosciuto in Mesopotamia migliaia di anni prima di Cristo. Marco Polo parla di 'sorgenti' di petrolio a Baku, sul Caspio, alla fine del 13° secolo. Dalla Bibbia 'traspare' che il petrolio e il bitume, sotto denominazioni diverse, furono usati per la Torre di Babele e per l'Arca di Noè. La nazionalizzazione dell'oro nero - mi spiegava - decisa dal presidente umanista Saddam Hussein, avrebbe mutato il corso della Storia del Medio Oriente, costringendo il mondo già colonialista a più umile politica, nel segno del pragmatismo. Non faceva che ripeterlo, ossessivamente, questo discorso il funzionario-assistente. Ma l'ultima sera gettò la maschera. Passeggiando sotto i portici dell'allora fatiscente via Rashid, mi confessò di odiare con tutte le sue forze il Tiranno spietato e paranoico, al punto di pregare il Dio clemente e misericordioso di chiamarlo a sé il più presto possibile, magari in grazia di una morte violenta. La furia disperata con cui mi apriva il suo povero cuore mi stupì, mi turbò. Successivamente, nel 1993, seppi della sua morte in galera. Dimenticavo: era sciita. Odiava Saddam e i suoi complici eppure riconosceva al dittatore intelligenza e cultura. "Non è un buffone come tanti altri raìs. Purtroppo intrinsecamente è una persona seria".
Ecco il punto: Saddam (purtroppo) è una persona seria. E questo spiega, o spiegherebbe, tante cose. Nella sua maggioranza la popolazione lo odiava, non fosse altro perché - diciamo a partire dalla infelice invasione del Kuwait - era stanca di soffrire privazioni e rinunce, di veder morire i bambini per mancanza negli ospedali di medicine di base, di semplici pappette. Non tollerava più l'arroganza dei gerarchi, le intemperanze quotidiane dei due figli maschi del Tiranno. Ma non è che per questo la gente fosse tutta in attesa della Liberazione. Un'abile propaganda era riuscita a ficcare in testa agli iracheni che causa e motivo di ogni afflizione fosse l'embargo, e solo quello. Il programma oil for food, che consentiva a Saddam di vendere una quota prestabilita di greggio utilizzando il guadagno in dollari a tutto beneficio del popolo, fu sempre disatteso, favorendo i membri del partito unico, i familiari dei soldati a danno della piccola gente povera. "È l'Occidente capitalista, reazionario, neocolonialista il solo e unico responsabile di tanta sciagura": così ossessivamente ha ripetuto la propaganda di regime a partire dall'infausta spedizione in Kuwait, sino, in fatto, all'altroieri. C'era del vero in tale propaganda. Cercherò di spiegarmi. Che Saddam sia stato un tiranno è pacifico. Ma che, ancorché rozzamente, egli abbia dato alla sua gente un welfare state è altrettanto vero. Che il partito unico, il Ba'th, fosse una mafia è un fatto, ma che desse - direttamente o indirettamente - da mangiare ad almeno un milione e mezzo di persone con un 'indotto' che raddoppiava questa cifra, è nella realtà. Certamente, considerata la rendita petrolifera, l'Iraq avrebbe potuto contare su un reddito pro capite di almeno 10.000 dollari l'anno. Le spese militari, le ruberie, l'embargo seguito alla sconfitta del marzo 1991, la pregressa interminabile cambiale accesa nel 1980 con l'improvvida guerra contro l'Iran, combattuta in nome d'una (presunta) laicità, con il placet (e gli aiuti) di Washington, la difficoltà di mantenere intatto l'equilibrio clanico sul quale si reggeva la relativa stabilità del regime, tutto ciò e altro ancora hanno vietato a Saddam di spartire la torta petrolifera con la larghezza, diciamo, di un Gheddafi. La vita grama sofferta dagli iracheni a partire dal marzo 1991, paradossalmente, invece di penalizzare il regime, vale a dire Saddam, ha alimentato un odio cupo, tenace verso l'Occidente neocolonialista, rapace e bugiardo.
Si è avuta (e verosimilmente esiste tuttora) una scissione mentale collettiva nell'Iraq piagato dalla sconfitta del 1991. L'uomo della strada odiava (o provava risentimento misto a paura per) il regime e contemporaneamente odiava l'Occidente americano 'complice del sionismo' e, per tanto, nemico della Grande Nazione Araba. L'istintivo bisogno di libertà, la rivendicazione di un più decente tenore di vita confluiscono in quel Nazionalismo orgogliosamente rabbioso, persino cieco, che André Malraux definiva il "ribollente minestrone". Ora che con il loro rapido ingresso (o invasione) in Iraq gli americani hanno tolto il coperchio alla ribollente marmitta incandescente del sentimento corrente, ecco traboccare ira, delusione, frustrazione e chi più ne ha più ne metta, di stati d'animo e di sentimenti, intendo dire. Emblematico l'abbattimento della statua gigante di Saddam: sono stati i GI del genio militare a fare tutto, davanti a neanche quattrocento iracheni. La cerimonia è stata trasmessa in mondovisione e magari qualcuno avrà pensato di assistere a una replica del 25 luglio in salsa mesopotamica, humuss o tehina. Invece, abbattendo quella statua in quella maniera, gli americani hanno (paradossalmente) ridato dignità al Tiranno. Pur odiandolo, gli iracheni hanno sofferto di essere stati espropriati, dallo 'straniero colonialista', di un loro sacrosanto diritto: quello di sentirsi padroni in casa propria e pertanto di decidere dei propri atti.
Errori perniciosi
Confisca della libertà ideologica: ecco il primo errore commesso dagli americani. Se gli esperti di problemi mediorientali della Oval Room si fossero presi la briga non dico di studiarsi un po' di Storia ma almeno di farsi proiettare il film Lawrence d'Arabia, forse certi errori non li avrebbero commessi. Il Ba'th era una mafia ed era sacrosanto scioglierlo (come si fece con il Fascismo) ma est modus in rebus, mentre gli americani, al solito, hanno fatto come il famoso elefante nell'altrettanto famoso negozio di cristalli: tutto distrutto, tutti cacciati via. Con il risultato di gettare sul lastrico e i mascalzoni e gli iscritti al 'partito PNF' (per necessità familiari), come si diceva in Italia al tempo del Duce.
Altro errore pernicioso, il 'tutti a casa' intimato ai soldati, insomma lo scioglimento delle Forze armate. Con il risultato di creare un'immensa armata Brancaleone, equipaggiata di mitra e di risentimento. Una bomba a tempo.
Ma, forse, l'errore più pesante e che dovranno (dovremo) scontare a lungo è stato quello di aver trascurato il Fattore R, il fattore religioso. Non è improbabile che nella Oval Room molti, se non tutti, credessero veramente che l'Iraq fosse un paese laico-laicista. Se si fossero preoccupati di sfogliare nella Library of Congress una qualsiasi guida turistica, i capi dell'amministrazione americana avrebbero, forse, finalmente capito come nell'islam (cioè in quell'immenso assemblaggio di uomini, idee, fatti e pensieri che chiamiamo tout court islam) non vige il famoso "date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio". Non c'è separatezza fra religione e prassi quotidiana: islam è una fusione totale (forse imperfetta, non so, ma tenace) di sociale, religioso, nazionale, politico. Tutti credono, anche chi non crede: così recita un apoftegma attribuito a quel mite maestro elementare di Ismailia, Hassan al Banna, che fondò i Fratelli Musulmani, vera 'testa dell'acqua' degli '-ismi' islamisti via via fioriti nel mondo a partire dal 1929. Tutti credono, anche chi crede di non credere. Facciamo il caso di Saddam. Nel 1991 va in Moschea e la TV lo mostra al popolo in preghiera, umile tra gli umili fedeli.
Il Ba'th e il Risveglio arabo
Bambino ribelle, capo di una piccola banda già alle elementari, buon tiratore di pistola a dieci anni, cresciuto senza il padre, Saddam non fa che angustiare la madre finché non lo prende con sé a Baghdad uno zio, ufficiale epurato per essere stato coinvolto negli anni Trenta in una delle varie congiure antibritanniche. Lo zio capisce che il ragazzo ha, come suole dirsi gergalmente, 'una marcia in più' sicché giuoca sul suo amor proprio esortandolo a presentarsi da privatista all'esame di ammissione al prestigioso liceo al-Kharkh di Baghdad, fucina di attivisti antimonarchici. Nel 1955 Saddam entra nel Ba'th, il partito 'socialista' della rinascita araba (Al-ba'th al-arabi), fondato da due intellettuali siriani, il cristiano Michel Aflaq e il musulmano Salah Bitar, nell'aprile del 1947. "Quella che sarà una forza di governo con migliaia di militanti in tutto il mondo arabo nasce in un caffè di Damasco. Sia il gruppo di Aflaq sia quello di Bitar erano circoli elitari (semiclandestini), ristretti a frange del mondo studentesco e intellettuale. La fusione è foriera di un rapidissimo sviluppo di massa grazie all'integrazione dei rispettivi programmi. Il riscatto culturale propugnato da Aflaq, basato sulla rabbia anticoloniale diffusa in ampi strati popolari, trova il suo completamento nel riscatto sociale, nell'emancipazione dalla miseria di cui parla Bitar. Così il panarabismo unisce il nazionalismo arabo con la tutela degli interessi delle masse. [...] L'obiettivo del partito, la nascita di una sola Nazione araba che vada dal Libano al Sudan, dall'Iraq al Marocco, coniuga il revanchismo culturale arabo con il miglioramento delle condizioni di vita popolari; l'unificazione, infatti, renderebbe gli arabi padroni delle loro enormi ricchezze che invece sono controllate dalle minuscole 'petromonarchie', gli sceiccati del Golfo: invenzioni delle potenze coloniali preoccupate di mantenere il controllo della grande risorsa, la più grande in assoluto: il petrolio" (S. Kiwan, R. Cristiano, Saddam Hussein, Roma, Edizioni Associate, 1991).
Se c'è un iracheno DOC, un ba'thista per eccellenza, costui è il giovine Saddam Hussein al-Tikriti. Va qui ricordato come l'Iraq sia l'infelice creatura partorita dall'Utopia di Lawrence, un fallimento perché se è vero che la Turchia viene sloggiata, grazie al genio tattico-strategico di Lawrence, dal territorio che diventerà Regno affidato al sognatore re Faisal, è vero del pari che codesto regno divenne in fatto colonia, ancorché 'invisibile', della Gran Bretagna. Il giovine Saddam fece carriera nel partito: per il suo zelo, per il viscerale odio portato ai Grandi Imperi e ai loro epigoni. O satelliti arabi. Il 14 luglio 1958 il colonnello Kassim, nasseriano convinto, rovesciò la monarchia con un golpe da manuale. Mentre la radio trasmetteva la Marsigliese, lasciò che il popolo festosamente facesse a pezzi il principe reggente, il primo ministro Nuri Al Said e un numero imprecisato di cortigiani. Letteralmente. Ero in servizio a Beirut e insieme con tre altri (pazzi) inviati, tutti e tre inglesi, noleggiai un vecchio DC3, che volando a bassa quota ci sbarcò a Baghdad. In quell'estate lontana, Baghdad era una moltiplicazione frenetica di Piazzale Loreto. Festanti ragazzi o vecchi senza più denti ma con tanta bile in bocca mi offrirono al modico prezzo di due fils (centesimi di dinaro) pezzetti di carne conciata dalla calura (50 gradi all'ombra) "garantiti per quelli del principe reggente". Se tanto mi dà tanto, posso immaginare che molti in Iraq siano rimasti delusi del fatto che i due figli maschi di Saddam siano stati uccisi dagli americani. Se li avessero dati al popolo, questi li avrebbe, appunto, fatti a pezzettini. Forse non a torto, non pochi in Italia e all'estero hanno criticato gli americani per aver ucciso con dispiegamento eccessivo di mezzi Uday e Qusay impedendo così che venissero trascinati in giudizio: sarebbe stato invece interessante ascoltarli. Non credo, proprio non credo: erano, i figli, due sciagurati amorali, forse anche sadici. Ma nulla di più. Contavano quanto una cicca di sigaretta russa, non sapevano niente, li affliggeva la noia cui reagivano con la violenza.
Il discorso cambia con Saddam. Sempre che ne siano capaci, gli americani dovrebbero fare in modo che il Tiranno venga arrestato e regolarmente processato. Egli, Saddam, merita un processo autentico, non sulla falsariga di Norimberga: un processo giusto, dal quale potremmo, noi occidentali presuntuosetti, ricavare una lezione importante. Su quello che è stato il colonialismo, sull'importanza del vettore religioso nel laico Iraq, sulla molla autentica che sollecita il cosiddetto nazionalismo dell'orgoglio, intimamente connesso con il cosiddetto Risveglio arabo, che coniuga l'odio fanatico di Osama con il legittimo desiderio di riscatto delle masse arabe. Queste esistono e continuare a trascurarne gli umori potrebbe significare gettare le premesse di una devastante nuova guerra mediorientale. Perché il punto è questo: per noi occidentali quello della Palestina è un annoso problema geopolitico da risolvere nel migliore dei modi possibile. Scontentando, cioè, e gli israeliani e i palestinesi ("La pace ha un prezzo", non si stancava di ripetere Ytzaak Rabin). Ma per le masse arabe il problema palestinese va visto in termini etici. Sia chiaro: un conto sono i rapporti di vertice della cosiddetta Autorità palestinese con i vari regimi arabi, un conto è il rapporto intimo, direi sacrale, del piccolo arabo qualunque con l'idea della Palestina-Nazione. Saddam, abile politico spregiudicato, ha intrattenuto con i palestinesi un rapporto ambiguo, badando più a 'compromettere' Arafat che ad aiutarlo sul serio. Da abile politico, è riuscito a cavalcare il destriero palestinese legando il suo ritiro dal Kuwait al problema Palestina. La fruttifera Conferenza di Madrid del 1991, cui seguirono gli accordi di Oslo, si deve a conti fatti alla sua 'provocazione'. Dieci e più anni dopo Desert storm, il problema palestinese continua a marcire, mentre, non senza fatica, si tenta di ridisegnare, o meglio di tingere con colori nuovi, la mappa mediorientale.
Finita la guerra
Passati alcuni mesi dalla fine della guerra in Iraq, un po' tutti, ora, si stracciano le vesti di fronte al (presunto) fallimento dei piani americani. Si aspettavano un'accoglienza tipo Roma giugno 1944 e, invece, la gente, con rare eccezioni, ha fatto subito capire ai soldati USA di considerarli alla stregua di invasori. Per di più è spontaneamente cresciuta una piccola guerriglia che svena e confonde i GI e chi li comanda sul terreno e sulle rive del Potomac. Il vero guaio è che il vertice americano dà l'impressione di non sapere esattamente cosa fare: per non sciupare una vittoria che, ancorché scamuffa, c'è stata, per avviare un popolo intero sul non facile sentiero della democrazia, per dare il definitivo assetto alla Palestina adesso che, con la irrimediabile sconfitta dell'esercito più pericoloso (quello iracheno), Israele può dormire fra due comodi guanciali (i terroristi suicidi sono una terribile realtà diversa).
Stando così le cose, ha scarsa, o punta, importanza che Saddam venga catturato o ucciso domani ovvero fra qualche tempo. Gli americani hanno tutto quanto serve per trionfare: i soldi, la potenza, gli amici giusti, il petrolio, sicché sembra lecito scrivere che la partita è ancora tutta da giuocare. Per quel che può valere il giudizio del vecchio cronista che ha speso buona parte del suo servizio-mestiere di giornalista nel Vicino Oriente, io ritengo che bisognerà aspettare ancora sei mesi o giù di lì per stabilire se gli americani siano riusciti (o no) a trasformare la loro brillante vittoria militare in un successo geostrategico. Sei mesi dovrebbero bastare a farci capire se, come penso, la guerriglia sia figlia dello spontaneismo ovvero costituisca una intifada irachena in nuce oppure, addirittura, un nuovo Vietnam. I vecchi imperi coloniali avevano il rispetto dei 'precedenti', praticavano lo studio della Storia, il coraggio dell'autorità. Non fingevano campagne di redenzione, mettevano in conto l'odio dei sottomessi, badando solo a che non superasse limiti fisiologici. Dopo la Seconda guerra mondiale, i vecchi imperi sono morti per consunzione interna e dunque per fatalità storica, se così può dirsi. La loro scomparsa ha creato un immenso vuoto geostrategico che, per forza di inerzia della Storia, gli Stati Uniti sono stati costretti a riempire. Ma gli Stati Uniti nascono da una rivoluzione di coloni contro l'Inghilterra imperiale sicché nel DNA degli americani latita l'esercizio imperialistico, la prassi colonialista. Ecco perché danno sempre l'impressione di voler nascondere la mano dopo aver tirato il sasso.
Giulio Andreotti, che è stato a lungo ministro degli Esteri, dice che è la Storia a darti i vicini e i partner ed è con loro che devi sbrogliartela per il bene comune, cioè per la pace. E allora critichiamo pure gli americani, diciamogli bene in faccia che stanno sbagliando, a nostro avviso beninteso, ma non mettiamogli i bastoni fra le ruote. La partita irachena è troppo complicata per lasciare che a giuocarla siano gli americani da soli. La vecchia Europa dovrebbe, umilmente, dire una volta ancora agli americani, che ci hanno dato la Libertà, poche ma sentite parole: voi mettete la potenza, noi mettiamo l'esperienza. In due si soffre meno e si riesce meglio. Tutto sta avere le idee chiare. È più facile a dirsi che a farsi perché l'Iraq è un paese davvero complicato. La maggioranza della popolazione è sciita, ma nella camera dei bottoni sono sempre stati ammessi i sunniti. Il paese galleggia sul petrolio ma non ha un grande sbocco al mare e questo lo affligge al punto di aver fatto una guerra contro il Kuwait per averlo (ecco il perché della prima Guerra del Golfo, altro che diritto internazionale umiliato. "E se il Kuwait avesse prodotto broccoli?" si chiese, con un titolo a tutta pagina, nel 1991, il New York Times). Non è tutto: il problema curdo non si risolve gasando (come ha cercato di fare Saddam) quelle popolazioni ovvero trescando con la Turchia neoislamica. Ci vuole una nuova politica, ricca di saggezza ma non priva di fantasia creativa. E non ultimo, premessa di ogni ineludibile assestamento, rimane l'equilibrio tribale. Saddam riusciva a mantenerlo alternando la corruzione alla persecuzione e viceversa. Ma lui è finito, kaputt, sicché bisognerà inventarsi un diverso approccio con quella realtà antica, se veramente si vuole ricostruire l'Iraq postmoderno, ideologicamente ancorato allo sciismo, religione di protesta. Incrociamo le dita.
Igor Man
Diario di una giornalista embedded
Nel novembre 2002 negli Stati Uniti comincia a circolare la voce che il Pentagono sta selezionando un gruppo di giornalisti che andranno in Iraq al seguito delle truppe americane in caso di guerra. Il New York Times riferisce tra i primi la notizia usando un termine fino a quel momento poco noto: embedding. Mesi dopo diventerà una parola di uso comune: sono definiti embedded, "inclusi", i giornalisti che seguono l'avanzata delle truppe angloamericane attraverso il territorio iracheno, durante la guerra e dentro la guerra. E tra loro ci sono anche io.
I preparativi
Quella mattina di novembre, dopo aver letto il New York Times, ho deciso che ci avrei provato. Ho chiamato il Pentagono e spedito decine di fogli, moduli, dati, lettere di presentazione. Tutto quello che poteva servire come accredito, come forma di garanzia. Ma per mesi non se ne è saputo più nulla. Erano giorni in cui ammettere che il Pentagono stesse scegliendo giornalisti da portare al seguito equivaleva a riconoscere davanti al mondo intero di aver già deciso di fare la guerra e questo ancora non era possibile. Poi, senza troppe spiegazioni, alcune settimane dopo, un gruppo di giornalisti, quasi tutti americani e inglesi, è stato chiamato per i corsi di addestramento. Noi nulla. Fino a un giorno di marzo, quando è arrivata in redazione la telefonata dal comando centrale di Tampa, Florida: "Ok, c'è il posto per voi. Partite?". Bisognava essere in Kuwait nel giro di quarantotto ore. Organizzare zaini ed equipaggiamento per non si sa dove, per non si sa quanto tempo. Nel frattempo, all'indirizzo di posta elettronica sono cominciati ad arrivare i moduli dal Pentagono. Il primo, un documento di quattro pagine, elencava in dettaglio il materiale indispensabile che ognuno di noi avrebbe dovuto avere con sé: equipaggiamento leggero, innanzitutto; sacco pelo, qualche maglietta, pantaloni cargo (quelli con i tasconi) e desert boots (gli eterni stivaletti beige in tela e camoscio dei militari USA) su cui scrivere - a lato della suola - il proprio gruppo sanguigno. E sempre per il gruppo sanguigno, una medaglietta metallica stampigliata da tenere al collo (l'avevo vista prima di allora solo ai soldati nei film sul Vietnam). L'elenco proseguiva con salviettine igieniche in grande quantità, torcia elettrica, ciabatte di gomma, coltello da campo. Mentre lo scorrevamo l'impressione era di essere piombati in qualcosa a metà tra una gita dei boy scouts e un viaggio d'avventura per amanti delle scomodità.
In Kuwait
Organizzarsi è una corsa contro il tempo, ma due giorni dopo esatti io e il mio collega con la telecamera attraversiamo la hall luccicante dell'hotel Hilton di Kuwait City. Quattro tavolini coperti di moduli e tante divise ci fanno capire che siamo arrivati nel posto giusto. Max Bloomenfeld, riservista gentile di origine francese, si occupa di noi. È entusiasta dell'idea di introdurre i giornalisti alla vita militare e ce lo fa capire in ogni modo: "vedrete, sarà grandioso" esclama a ogni passo, con l'unico effetto di incrementare il nostro scetticismo. Ma il percorso è già tutto stabilito. Bisogna riempire ancora moduli, sottoscrivere le regole di embedding e ritirare la dotazione anticontaminazione chimica. Perdiamo un po' di tempo sul dossier che parla delle regole cui ci dovremo attenere: il Pentagono sostanzialmente ci chiede di non rivelare mai esattamente la posizione in cui ci troviamo, di non parlare di una missione mentre è ancora in corso e non rivelare con quale unità ci troviamo, almeno fino al momento in cui il nostro embedding sarà terminato. Un altro foglio ci spiega come verremo inseriti nelle unità e tra le righe si capisce che il nostro compito sarà quello di diventare praticamente invisibili, specie nel caso di combattimenti, missioni o spostamenti. Letto tutto quanto, firmiamo, con grande soddisfazione di Max che nel frattempo ha faticato a capire perché ci occorresse tanto tempo per mettere nome e cognome in fondo a un paio di fogli scritti in caratteri nemmeno troppo piccoli. Messa la firma, tutto si trasforma in una catena di montaggio. C'è un'altra serie di fogli. Questa volta ci chiedono caratteristiche fisiche, peso, altezza, malattie. Mentre leggo mi accorgo che una soldatessa mi sta misurando la lunghezza della gamba, la guardo con aria interrogativa , ma "no, non ti preoccupare, è solo per la tuta anticontaminazione" replica lei. Infatti veniamo a sapere che l'esercito americano ha preparato per ognuno di noi un kit completo: maschera antigas, tuta (in fatto l'unico indumento mimetico che ci sarà richiesto di indossare durante l'embedding), stivali di gomma, guanti e fiale di atropina autoiniettanti. Poi comincia l'addestramento. Sotto il sole a picco di Kuwait City a mezzogiorno, un ragazzone biondo venuto da Buffalo, New York, ci spiega come indossare in pochi secondi la maschera antigas, come riporla nella tasca di tela verde in modo da averla sempre pronta all'uso, come infilarci nei pantaloni e nella giacca della tuta in modo che nulla, ma davvero nulla, sia in grado di contaminarci dall'esterno, come mettere sopra il tutto gli enormi stivaloni di gomma e i guanti, e infine come fare in modo che muoverci in tutto questo sembri la cosa più naturale del mondo, incuranti della calura, della fatica e del respiro che attraverso la maschera è tre volte più stancante del consueto. Infine, con l'aiuto del sergente Morsovillo, impariamo a usare le fiale di atropina autoiniettante. Non possiamo fare meno di chiederci se davvero mai tutta questa roba ci servirà a qualcosa. E poi non è così semplice. Le fiale autoiniettanti non sono uno scherzo. I soldati ci spiegano, sempre sotto lo stesso sole a picco, che l'atropina certo fa da blocco nei confronti delle sostanze chimiche che agiscono sul sistema nervoso, ma al tempo stesso può essere a sua volta pericolosa se usata in modo sbagliato. Per un attimo la visione di un attacco chimico, del panico e della difficoltà di reagire adeguatamente mi si materializza nella testa, capisco che prima o poi dovrò dedicare qualche minuto in più allo studio del manualetto di istruzioni che c'è dentro la piccola sacca in tela verde. Nonostante tutto, però, quando Morsovillo ci dice che da quella sacca non dovremo separarci proprio mai, ci pare francamente un'esagerazione e per tutto il pomeriggio continueremo a pensarlo senza che nessuno si prenda la briga di smontare le nostre sicurezze. Il Kuwait per il momento sembra una specie di prova generale, una sorta di megaesercitazione per qualcosa che probabilmente non accadrà mai. Qui nessuno ha l'aria di essere in guerra davvero o, almeno, nessuno sembra come ognuno di noi se lo era immaginato. Al tramonto siamo già a un centinaio di chilometri dalla capitale kuwaitiana. Ci hanno caricato su un pullmino e ci hanno portato in quella che era una caserma dell'esercito del Kuwait e da sei mesi è una base americana a tutti gli effetti. Le costruzioni sono basse, a due piani, fatte solo di lunghi corridoi trasformati in camerate da file di brandine e sacchi a pelo allineati lungo i lati. Da stasera è anche casa nostra. Si dorme lì in mezzo. Basta poco a capire che per qualche tempo l'idea di privacy non avrà più cittadinanza nelle nostre giornate. La divisione tra uomini e donne viene rispettata solo in modo approssimativo e soprattutto non c'è distinzione alcuna quando si tratta di servizi igienici. L'unica separazione effettiva riguarda i piani. A ognuno corrisponde una fila di docce, di lavandini, di turche. Fine. Ma il ricordo dei dieci giorni passati a Campo 35 nelle settimane successive ci sembrerà la rievocazione di una vacanza esclusiva in un hotel a cinque stelle: un hotel dotato di docce, pareti in muratura e vetri a proteggere da un vento e da una sabbia che qualche volta assomigliano a un flagello divino. Scopriamo presto che la parte più difficile, per un embedded, è capire con chi parlare. Capire chi decide che cosa. All'epoca del Vietnam, quando i giornalisti si mischiavano alle truppe e saltavano sugli elicotteri militari per raggiungere il fronte, c'era almeno una certezza. Nessuno decideva nulla. Tutto stava nell'abilità del reporter di convincere il pilota o il comandante di turno, e ottenere così un passaggio prezioso verso la linea dei combattimenti. Oggi, in teoria, non è più così. Ognuno di noi ha ufficiali di riferimento cui chiedere una mano per capire cosa c'è da raccontare, dove si può andare. Nei fatti però le cose sono molto diverse. Al tenente colonnello Myers, un'algida trentenne venuta direttamente da Washington, chiediamo più volte consiglio su quando iniziare a volare con gli equipaggi, come muoverci per seguire meglio l'azione nel caso di un attacco americano all'Iraq. Le sue risposte ogni volta sono una sequenza di "non so", "è presto", "non è detto che un attacco ci sia davvero". Ma il peggio di sé il nostro colonnello con le trecce brune lo dà quando pretende di convincerci che le esercitazioni che stiamo vedendo sono prassi, pura routine, nulla a che vedere con la guerra che ci sarà. Dunque, perché vogliamo filmarle a tutti i costi? Inutile tentare di spiegarle che di qualsiasi cosa si tratti, il nostro scopo è proprio filmare tutto quello che avviene intorno a noi perché siamo reporter televisivi; ancor più frustrante sforzarsi di farle capire che dobbiamo per forza salire sugli elicotteri visto che, essendo embedded proprio con l'aviazione, si presuppone che partecipiamo alle loro missioni in volo. Myers nulla, un muro di gomma. Allora capiamo che la strada non è quella giusta. Bisogna cambiare strategia, tornare ai vecchi metodi diretti, tipo Vietnam. E la sera successiva, con passo deciso, ci infiliamo nella zona delle brande degli ufficiali alla ricerca del maggiore Moore, il comandante di una delle unità di Chinhook (i grandi elicotteri a due rotori impiegati per il trasporto di truppe e materiali) che si stanno addestrando in questi giorni. Moore, per fortuna, è simpaticissimo e appena gli chiediamo di andare a riprendere le esercitazioni in volo non ha un attimo di esitazione. Appuntamento alle sei dell'indomani mattina all'Air field. "Ci saremo di certo, Maggiore". Ovviamente non mi sogno nemmeno di mettere a rischio tutto, rivelandogli che non ho la più pallida idea di dove sia l'Air field o di come la si raggiunga. Il primo pezzo è fatto, questo conta. Adesso risolveremo anche gli altri problemi. Torno alla mia brandina. Chris, il luogotenente mormone che dorme accanto a me, sta ancora fissando sullo schermo del computer le foto di sua moglie Jennifer e della loro casa nuova a Savannah, Georgia. È lui la persona che fa per me. Chris ha vissuto due anni come missionario a Mestre e si ricorda ancora piuttosto bene l'italiano. È simpatico, disponibile con tutti. Il suo unico segno di durezza affiora ogni volta che sente uno dei suoi uomini usare un linguaggio poco corretto. Allora non intende più spiegazioni e attua la ritorsione: decine di flessioni sulle braccia ogni volta. "Push" ordina al soldato che ha trasgredito fissandolo dritto negli occhi. Spiego a Chris il nostro problema e gli domando di darmi una mano a organizzare il trasferimento all'alba verso l'Air field. In un attimo è tutto pronto e a quel punto mi pare doveroso ricambiare la gentilezza: "Vuoi fare un colpo di telefono a casa?". "Stai scherzando, non sento Jenny da due mesi" mi risponde con il volto che si è già disteso in un sorriso infinito. Quando torna dopo dieci minuti non smette di ringraziarmi e mi racconta tutta la sua storia, come ha conosciuto sua moglie, il fatto che forse avranno presto un bambino. Così con un colpo di telefono è cambiato tutto. Da perfetti estranei siamo diventati amici, abbiamo condiviso una cosa importante. E noi abbiamo imparato qualcosa che terremo a mente in tutte le sei settimane con le truppe. Anche nei momenti più duri, quando è più difficile farsi accettare, quando si viene guardati con sospetto e diffidenza, un colpo di telefono o una connessione a Internet valgono più di mille spiegazioni: da quel momento in poi si diventa più vicini, veri compagni di viaggio. E in fondo i soldati condividono con noi quello che hanno: il cibo, l'acqua, le tende. In cambio diamo loro una possibilità di contatto con casa. E qui nulla conta di più.
Verso l'Iraq
I giorni prima dell'attacco corrono veloci, con i soldati che prendono le misure ai reporter e noi che ci abituiamo a un gergo sconosciuto, a capire i ritmi, a riconoscere i gradi sulle divise. Poi una mattina Chris arriva e dice "Questa notte parla il Presidente". Ci guardiamo, sappiamo tutti cosa vuole dire e sappiamo anche che per noi è tempo di accelerare le cose. Non possiamo stare ad aspettare l'invasione dell'Iraq da qui, da Campo 35 in Kuwait, bisogna trovare il modo di muoversi. Scopriamo che i primi ad avanzare, nel nostro gruppo, saranno gli uomini di big windy (elicotteristi che verranno impiegati per il trasporto di truppe e materiali e il supporto logistico) e dunque bisogna ad andare a parlare con il maggiore Anthony. È un omaccione alto, che ride sempre, il beniamino dei suoi uomini perché si preoccupa di ognuno di loro. Qualcuno mi sussurra all'orecchio che, tra l'altro, è un pastore e qualche mese fa in volo ha sposato due soldati della sua unità. Ma stavolta il sorriso del maggiore si spegne in fretta: "Monica, vorrei aiutarti ma non so come fare". Mi spiega che non è tutto big windy che si muove, ma solo un piccolo gruppo avanzato di una quindicina di soldati e piloti, che verrà distaccato con gli uomini dell'11° reggimento, i piloti degli Apache, gli elicotteri d'attacco. I suoi uomini, quelli che viaggeranno nel convoglio via terra, dovranno garantire il supporto logistico. "Non abbiamo spazio per farti entrare in Iraq in elicottero. Se vuoi andarci a tutti i costi dovrai farlo via terra. E non abbiamo nemmeno spazio nelle jeep quindi, se insisti, devo metterti nel retro di un fuoristrada Humvee o schiacchiata tra due militari in un camion da cinque tonnellate". Per noi è perfetto, comunque. Significa che riusciremo a muoverci verso l'Iraq immediatamente, subito dopo i primi bombardamenti, con l'inizio dell'operazione di terra. "Fa niente. Non è importante. Per noi il problema è arrivare in Iraq il più in fretta possibile" diciamo al maggiore. "Ok. Ma il convoglio partirà tra 36 ore da Udairi, il campo avanzato nel deserto. Io però vi posso far dare un passaggio solo stasera. Da domani nessuno si muove più fino a nuovo ordine". "Messaggio ricevuto". Corro indietro come una folle verso la nostra zona, chiamo Silvio Giulietti, il mio collega addetto alle immagini. C'è solo il tempo di fare i bagagli e lasciare indietro le cose che non servono. Major Anthony è stato chiaro. "Se ingombrate troppo vi lasciano indietro". Così prepariamo due zaini minimi. L'attrezzatura occupa tutto lo spazio possibile. Riusciamo solo a infilare un paio di magliette a testa e poco altro.
Meno di un'ora dopo siamo già in viaggio verso Udairi in pieno deserto del Kuwait, vicinissimo alla frontiera irachena. La guerra non è stata ancora dichiarata ufficialmente, ma a questo punto sappiamo perfettamente che è già cominciata. Ora succede tutto a una velocità incredibile, niente a che vedere con le attese e i pensieri che ci lasciamo alle spalle. Iniziano i bombardamenti, gli iracheni rispondono con lanci di missili contro le basi americane nel deserto e per noi sono lunghe ore passate a combattere contro le maschere antigas e le tute 'nbc' (anti-interventi di tipo nucleare, biologico e chimico).
Il mattino del 21 marzo partiamo. Appuntamento alle 4.00, dunque sveglia alle tre. Il sergente Benoit sui tempi non scherza mai, nemmeno quando gira impercettibilmente la testa: "Per voi lo stesso, ok?". Sissignore, e chi si sognerebbe mai di fare nulla di diverso? Questo è il nostro tanto sospirato passaggio per l'Iraq. Comincia così, alle prime luci dell'alba, un viaggio in convoglio che durerà quasi cinque giorni. Interminabili, faticosissimi.
In guerra
Entriamo, con una colonna di camion lunga cinque chilometri, nell'Iraq in guerra. Ognuno di noi è seduto tra due soldati americani appollaiati sui sedili dei camion. Nella cabina di guida i discorsi si riducono all'osso. Garza e Ward, i due soldati che viaggiano con me, hanno paura e non si preoccupano di nasconderlo. Chiedono continuamente a me le informazioni su quello che sta succedendo, dove andremo, cosa ci accadrà. Tento di far capire che più di tanto non so e certamente non posso fare nulla per aiutarli.
I solchi dei camion nella sabbia diventano la nostra bussola. Dobbiamo seguire chi ci precede per ore, ininterrottamente. I miei compagni di viaggio paiono sempre più depressi. Sullo sfondo, nel buio della notte irachena si vedono solo dei lampi distanti. C'è battaglia in corso, stanotte. Sappiamo che potrebbe essere Nassirya. Il capitano che comanda il nostro tratto di convoglio si avvicina. Garza, che sta guidando, abbassa il finestrino: "Da ora in poi black hawk drive, è pieno di bad guys qui intorno". La voce del capitano arriva a tratti ma il messaggio è chiaro. Ci sono bande armate tutto intorno e dobbiamo procedere a fari spenti. I camion si accostano gli uni agli altri, annullano la distanza e poi riprendono la marcia così, lentissimi, un serpentone cieco nella notte.
Quando arriviamo a destinazione è il 25 marzo. Pensavamo di arrivare a un campo, invece l'accampamento nasce con noi. Le poche tende si moltiplicano ogni giorno. È una delle postazioni americane più avanzate in territorio iracheno, il campo base per gli elicotteri Apache e serve da riferimento anche per gli elicotteri Chinhook. Ogni pomeriggio rientrano alla base gli Apache che hanno combattuto e atterrano a pochi metri dalla tenda dove dormiamo. E i primi giorni le cose non vanno bene, per niente. I mezzi tornano spesso crivellati di colpi. Da terra gli iracheni sparano anche con armi leggere ma hanno gioco facile a colpire questi elicotteri che in missione volano a pochi metri dal suolo. L'umore tra i piloti è pessimo. Questa mattina un Apache è stato colpito peggio degli altri. Fortunatamente il pilota è riuscito a tirarsi fuori dalla zona dell'attacco, poi è stato soccorso. Ma la notizia si è sparsa immediatamente e la tensione è sul volto di tutti. Anche al campo non si può stare troppo tranquilli. Durante la notte due gruppi di iracheni armati hanno cercato di fare irruzione dalla zona di atterraggio. Gli uomini di guardia li hanno respinti, ma adesso siamo tutti all'erta. Ken, uno dei nostri compagni di tenda, ha 19 anni. Nonostante la divisa e l'atteggiamento serissimo, i tratti del volto tradiscono la sua età. La mattina dopo l'attacco mi avvicina mentre fuori dalla tenda sto lavandomi i denti con la bottiglia d'acqua. "Sappi che se dovesse succedere qualcosa io vi terrò d'occhio. Devi stare tranquilla perché io intendo proteggervi". Lo dice, scuro in volto, con l'M16 in mano, poi se ne va immediatamente. Rimango con lo spazzolino a mezz'aria e per tutta la giornata continuerò a risentire nella testa questa frase. Sono passati i giorni della diffidenza. Adesso siamo parte del loro gruppo al punto che qualcuno, come Ken, ha voluto dirci di stare tranquilli. In realtà non sta scritto da nessuna parte che loro debbano aiutarci o proteggerci. Semmai il contrario. Il Pentagono lo ha specificato chiaramente che non dobbiamo essere d'intralcio alle operazioni e nessuna manovra militare potrà essere modificata a causa della presenza dei reporter. Ma poi accade che un ragazzino di 19 anni decide di attenersi al suo personale codice d'onore e d'orgoglio, e questo cambia le cose. Nessuno di loro sa per quanto tempo ancora dovrà rimanere qui. È il 5 aprile e la guerra sembra andare un po' più veloce. Al briefing gli ufficiali hanno saputo che gli uomini della Terza divisione sono già a un passo dall'aeroporto di Baghdad. Le cose forse vanno meglio del previsto. Ogni mattina recuperiamo un passaggio in jeep per arrivare alla zona di atterraggio dove si fermano i Chinhook. Così qualche volta capita di riuscire a salire e volare a vedere cosa succede in altre parti del paese. Sono voli diversi da tutti gli altri che avevamo fatto fino a oggi. Sono voli di guerra. A bordo l'atteggiamento scherzoso lascia il posto alla tensione. Nessuno fa un cenno, non un saluto. Non ci si guarda più nemmeno dritti in volto. Ognuno ha un ruolo ed è concentrato su quello. Seduti sul portellone posteriore aperto, i ragazzi del 101 hanno le mani strette sul mitragliatore e scrutano il paesaggio che scorre sotto di noi. Da quando gli iracheni sono riusciti a centrare parecchi elicotteri in volo, l'attenzione è ancora maggiore. A ogni atterraggio si tira un sospiro di sollievo: "Questa volta è andata bene, la prossima vedremo". La sera, al campo, raccontiamo del volo ai nostri compagni di tenda. Chad, il ragazzo di Brooklyn con le cuffiette sempre sulla testa, tra un rap e l'altro, coglie un brandello di conversazione e interviene: "Ma chi ve lo fa fare di andare a volare sopra quell'inferno là fuori? Vi hanno obbligato?". Ed è difficile far capire che nessuno ci obbliga, ma che farlo in questi giorni ci sembra importante: crediamo nell'utilità di andare a vedere che cosa sta succedendo fuori dal nostro campo, per poterlo raccontare con cognizione di causa.
Qualche volta la guerra si introduce dritta dentro il campo. Come la mattina che il tam tam non ufficiale delle tende annuncia che sono arrivati prigionieri iracheni a centinaia. Cerchiamo il modo di incontrarli. Sono stati portati nella zona di atterraggio degli elicotteri nella notte. Ci sono giovani e vecchi, ragazzini di 15 anni e vecchi signori con la kefiah a scacchi e la lunga veste bianca. Qualcuno ha ancora addosso pezzi di divisa dell'esercito di Saddam Hussein, altri solo stracci recuperati al volo durante la fuga: sembra infatti che alcuni dei gruppi speciali, in particolare i fedayn Saddam si siano letteralmente strappati gli abiti di dosso prima di essere catturati. I soldati americani distribuiscono le razioni di cibo. Loro guardano con sospetto e curiosità le buste marroni cercando di indovinarne il contenuto. Mangiano solo crackers e biscotti, le cose più semplici, quelle più facili da riconoscere. Poi chiedono acqua. I soldati americani non sanno davvero come comportarsi. C'è un senso di forte imbarazzo nei confronti di questi uomini logori e sporchi, al punto che il sergente della polizia militare di guardia ai prigionieri rompe il silenzio, mi fa avvicinare e mi dice: "In fondo è vero che queste persone sono a casa loro, ma è anche vero che noi stiamo cercando di migliorare le loro condizioni di vita… li abbiamo liberati da un dittatore". Due Chinhook arrivano sulla striscia di asfalto qualche ora dopo. I prigionieri vengono messi in fila e fatti salire ordinatamente, uno a uno dentro gli elicotteri. Riusciamo a scoprire solo che verranno portati verso sud, dove le forze angloamericane hanno costruito un centro di detenzione, null'altro. Torniamo al campo con la sensazione sgradevole che altrove stia succedendo qualcosa che bisogna andare a vedere e i ragazzi in tenda involontariamente ce lo confermano. "Baghdad è caduta. Le statue di Saddam sono state trascinate per tutta la città. Forse la guerra finirà presto". Tre frasi. Bastano per capire che il nostro tempo qui sta per scadere. I soldati americani rimarranno in Iraq ancora a lungo, forse molto a lungo, ma il nostro embedding, la nostra inclusione o intrusione nelle loro file sta per finire.
Per qualche giorno continuiamo a seguire la vita al campo ma intanto organizziamo il viaggio verso Baghdad. Quando arriva il giorno della partenza, sono in molti a venirci a chiedere di restare ancora un po', di fare ancora un pezzo di strada con loro. E sembra strano accorgersi che dire "no, ce ne andiamo" ha un'aria quasi malinconica. Ma in fondo è così. Per sei settimane abbiamo raccontato le contraddizioni, gli eroismi, le incoerenze e la banalità dei giorni di questi soldati arrivati in un paese straniero a migliaia di chilometri da casa. Abbiamo vissuto in mezzo a loro, cercando di raccontare dall'interno un frammento minuscolo di una storia infinitamente più complessa.
Monica Maggioni
Da Babilonia a Baghdad
La terra tra i due fiumi
Quando i romani giunsero in Mesopotamia, ai tempi dell'imperatore Traiano (2° sec. d.C.), delle città di Uruk, Babilonia, Ninive, Ur restavano solo le rovine a testimoniare dei siti dove aveva avuto inizio la più antica civiltà urbana del mondo, dove erano stati concepiti la scrittura cuneiforme e il primo calendario lunare, dove sulle tavolette d'argilla avevano preso forma i primi libri e i primi archivi dell'umanità e dove per la prima volta le leggi di un popolo erano state raccolte in codici. La preistoria della Mesopotamia inizia con i sumeri, popolazione la cui provenienza è ancora oggetto di discussione tra gli studiosi, anche se c'è accordo nel considerarli non autoctoni. Testimonianze archeologiche fanno risalire al 5° millennio a.C. le più antiche tracce della loro presenza nella regione, presenza che diventa più incisiva con l'apparizione delle prime città, del primo nucleo statale e della scrittura cuneiforme che indica nei sumeri gli artefici della 'rivoluzione urbana'. La ricostruzione storica della civiltà sumerica è resa possibile dalla scoperta delle antiche città di Ur, Uruk, Lagash, Kish, Nippur, Isin e Larsa e da rinvenimenti epigrafici che hanno contribuito alla comprensione della struttura statale, delle istituzioni, del mondo intellettuale e religioso. Il dominio sumero non soltanto si estese alla Babilonia, il tratto della valle dell'Eufrate e del Tigri compreso fra un punto corrispondente pressappoco all'attuale Baghdad e il Golfo Arabico, e all'Assiria, il paese sulle due sponde del Tigri superiore, ma esercitò anche una forte influenza su popolazioni dell'interno dell'Asia Minore. Le leggende del popolo sumero narrano che 'avanti il diluvio' si ebbero diverse dinastie di re, ma anche le prime dinastie 'dopo il diluvio' hanno per la maggior parte carattere leggendario. Alla prima dinastia di Uruk si fa appartenere l'eroe nazionale sumero e babilonese Gilgamesh, il cui regno sarebbe durato per ben 120 anni. L'organizzazione politica del popolo sumero in Babilonia si articolava in città-stato in lotta tra di loro, l'una o l'altra delle quali riuscì talvolta ad acquistare per breve tempo il predominio su tutto il paese. La storia semitica della regione comincia con il re Sargon (2350-2294 a.C.). I semiti, che abitavano nella valle dell'Eufrate e del Tigri probabilmente già prima dell'invasione sumera, s'infiltrarono sempre più nel paese dalla Siria, seguendo specialmente il corso dell'Eufrate, sia pacificamente sia mediante incursioni armate, e riuscirono a formare una propria dinastia con sede ad Akkadu. Sargon di Akkadu conquistò anche l'Assiria, annettendola al suo impero: a lui la tradizione attribuisce la fondazione di Babele (la Babylonia dei latini), ma è più probabile che il sovrano ampliasse un villaggio già esistente, erigendovi un palazzo reale. Dalla dinastia di Babele uscì il più celebre sovrano babilonese, Hammurabi (1792-1750 a.C.). Sconfitti i vicini, assoggettati i sumeri, occupato un vasto territorio che andava dalla Siria all'Assiria, Hammurabi ne sviluppò l'economia agricola e ne organizzò l'amministrazione. Come altri celebri re babilonesi, fu un grande costruttore di templi e dotò la Babilonia di una rete importante di canali, indispensabili per l'opera di irrigazione. Il suo nome è particolarmente legato alla raccolta di leggi, con la quale, basandosi su raccolte sumere anteriori, cercò di fondere il diritto semitico della nuova stirpe con quello degli antichi abitanti del paese.
Nei secoli successivi la città di Babilonia ebbe a soffrire per le contese con gli assiri, che più volte riuscirono a conquistarla. Nel 690 fu distrutta da Sennacherib, che fece della sua capitale, Ninive, lo splendido centro della potenza assira. Alla morte di Assurbanipal (668-629 a.C.), l'ultimo grande re dell'Assiria, cui si deve anche la ricostruzione di Babilonia, Nabopolassar, un generale babilonese della tribù dei caldei liberò il paese dal giogo assiro e si proclamò re, dando vita all'impero neobabilonese. Suo figlio Nabucodonosor (604-562 a.C.) guidò campagne di guerra per occupare la parte meridionale dell'Assiria e la Mesopotamia superiore e si mosse verso Occidente, sottomettendo la Palestina e conquistando Gerusalemme nel 586. Nabucodonosor si rese anche famoso per una serie di opere architettoniche: fece costruire un monumentale sistema di difesa intorno a Babilonia, elevò un magnifico palazzo, edificò o riedificò templi, ornandoli di doni preziosi. Non molti anni dopo la morte di Nabucodonosor l'ultima dinastia babilonese fu travolta dai persiani. Nel 538 a.C. Babilonia fu conquistata da Ciro e la sua regione, insieme con l'Assiria, entrò a far parte dell'impero persiano. Sotto i persiani Babilonia rimase una città fiorente, capitale della IX satrapia, la più importante dell'impero. Ciro vi risiedette per qualche tempo, come fece anche suo figlio Cambise: è la città descritta con ammirazione dagli scrittori classici, abitata da genti di nazioni e lingue diverse. Babilonia mantenne e accrebbe il suo ruolo di centro del mondo civilizzato quando Alessandro Magno, sconfitti i persiani, ne fece una delle capitali del suo regno, dotandola di un ampio porto e restaurandone i templi distrutti da Serse. La decadenza irreversibile della città cominciò con i successori di Alessandro. Durante le guerre dei diadochi la città subì vaste distruzioni, e perdette quasi tutta la sua importanza sotto i seleucidi. La rovina fu completa dopo che fu presa e arsa dal satrapo parto Evemero. Dal 141 a.C. tutta la Mesopotamia passò sotto il dominio dei parti e in questa condizione restò a lungo, se si esclude la breve parentesi (114-117 d.C.) in cui fu provincia romana, al tempo della campagna di Traiano. Da allora fino all'avvento dell'islam (7° secolo) la regione fu terreno di scontro tra i romani prima e i bizantini poi, da una parte, e i parti e i loro successori sassanidi, dall'altra.
L'islamizzazione
La decadenza politica ed economica della regione fu la causa principale della progressiva penetrazione, a partire dal 3° secolo, di popolazioni nomadi arabe che andavano avvicinandosi sempre più al corso dell'Eufrate, attraverso il confine mal determinato e malsicuro del deserto. Così, quando al principio del 7° secolo gli arabi islamizzati se ne impadronirono, già da lungo tempo la popolazione, costituita essenzialmente dai discendenti degli antichi babilonesi aramaizzati, era frammista a numerosi elementi persiani e arabi. Da allora il nome al-Iraq (arabizzazione del medio-persiano erak "persiano") cominciò a indicare il territorio percorso dal Tigri e dall'Eufrate. La conquista araba si trovò di fronte a una civiltà composita: nel processo di assimilazione, che fu lento, gli arabi imposero la loro religione e la loro lingua, ma assorbirono a loro volta molteplici elementi delle culture locali, i quali, in seguito alla parte predominante che l'Iraq ebbe nella formazione della civiltà islamica, si estesero a questa civiltà tutta intera. Le città di Kufa e di Bassora, dapprima semplici accampamenti beduini, furono centri di espansione e di ulteriori conquiste verso l'altipiano iranico e l'Asia centrale, e al tempo stesso teatro delle rivalità politico-religiose che alla morte di Maometto si manifestarono in seno all'islam. L'Iraq cominciò a occupare un ruolo rilevante nella vita politica musulmana quando il quarto califfo Alì, genero di Maometto, vi si stabilì per combattere la Siria, dominata dagli omayyadi. La vittoria di questi ultimi nella lotta per il califfato fece della regione un focolaio di opposizione. Vi si svilupparono i due partiti degli sciiti e dei khargiti, le cui sollevazioni turbarono la pace del paese per quasi un secolo. Quando gli abbasidi, discendenti da al-Abbas, zio di Maometto, riuscirono, con l'ausilio di elementi persiani, a soppiantare i rivali califfi omayyadi, l'Iraq divenne il centro dell'Islam. Con l'intento di affermare e rafforzare l'avvento della nuova dinastia, il secondo califfo abbaside, al-Mansur, fondò nel 762, sulla riva occidentale del Tigri, la nuova capitale, posta al centro del territorio islamico, in prossimità delle due grandi arterie fluviali attraverso le quali avevano luogo le comunicazioni verso il Mediterraneo e verso l'Oceano Indiano, in posizione dominante della strada che conduceva dalla pianura mesopotamica all'altipiano iranico e di là all'Asia centrale. Alla città fu dato il nome ufficiale di Madinat as-Salam ("città della pace"), o Dar as-Salam ("casa della pace"), ma prevalse fin dall'inizio il toponimo iranico del villaggio preesistente su cui fu edificata, Baghdad ("dato da Dio"). I secoli 9° e 10° videro uno straordinario sviluppo della ricchezza e della civiltà dell'Iraq. L'alto grado di potenza del califfato abbaside fecero di Baghdad il più splendido centro urbano del medioevo: popolata in misura superiore a quella di qualunque altra città al mondo, ricca di sontuosi edifici, moschee, scuole, bagni, ospedali, mercati, centro dei traffici commerciali e degli scambi culturali del mondo intero, essa fu celebrata nell'Oriente musulmano come la metropoli per eccellenza, e la fama della sua grandezza e del suo fasto si sparse nell'Occidente cristiano, colorita di particolari favolosi. Neanche il progressivo decadere del califfato, e con esso il frantumarsi dell'impero in una moltitudine di Stati separati, tolsero a Baghdad il carattere di grande e fiorente città, né diminuirono il fasto esterno e il prestigio religioso della corte del califfo.
A partire dall'11° secolo l'Iraq cominciò a perdere la posizione di preminenza nel mondo islamico e iniziò la sua decadenza economica. Ne soffrirono in particolare la parte settentrionale, dove dilagarono le invasioni dei curdi, quella meridionale, dove l'incuria nella manutenzione dei canali permise il riformarsi di una zona paludosa, e il confine verso il deserto, dove le incursioni dei nomadi non trovarono più salda resistenza: tutte aree che divennero sede di movimenti di ribellione specialmente di carattere sciita. Queste condizioni si mantennero fino all'invasione dei tartari, che avvenne alla metà del 13° secolo. Da questo momento in poi l'Iraq fu dominato da dinastie discendenti dal ceppo di Genghis Khan, le quali, completamente islamizzate, continuarono le tradizioni culturali del califfato, ma in un ambiente impoverito e decaduto. L'elemento persiano riprese vigore, senza tuttavia togliere alla regione il carattere arabo, ormai definitivamente assicurato.
Alle dinastie di origine mongola si sostituirono nel secolo 16° i safavidi persiani, che ricondussero in Iraq lo sciismo, che proprio lì aveva avuto origine ma era stato debellato dall'ortodossia sunnita. Tuttavia il dominio dei persiani fu contrastato, fin dall'inizio, dall'espansione dei turchi ottomani. Già sotto il sultano Selim parte della Mesopotamia settentrionale fu annessa all'impero turco; poi, con la presa di Baghdad nel 1534 da parte di Solimano il Magnifico, l'Iraq passò sotto il dominio ottomano, condizione nella quale sarebbe rimasto fino al 1917, non senza continui contrasti con i safavidi persiani, che arrivarono a rioccupare Baghdad tra il 1623 e il 1628. Questo succedersi di guerre, cui s'intrecciarono le periodiche invasioni e ribellioni dei nomadi stanziati sui confini del deserto, aggravarono la decadenza dell'Iraq: diviso amministrativamente nei tre vilayet di Baghdad, Mossul e Bassora, visse per circa tre secoli come periferia dell'impero turco. Soltanto nella seconda metà del 19° secolo si ebbe l'accenno a un risollevamento, determinato, oltre che dalle riforme introdotte, sia pure senza energia e senza continuità, dal governo ottomano, dall'interessamento delle potenze europee, per le quali l'Iraq costituiva non soltanto un possibile campo di sfruttamento economico, ma anche un elemento nel gioco di rivalità nella politica internazionale.
Dallo smembramento dell'impero ottomano all'indipendenza
Gli inglesi, già presenti nel Kuwait dalla fine dell'Ottocento, si adoperavano da tempo per impedire l'accesso dei tedeschi alla regione, che minacciava di tagliare la via dell'India. La Prima guerra mondiale fu l'occasione per la spartizione dei territori dell'impero ottomano. Negli accordi che precedettero il conflitto, mentre Siria e Libano diventavano zone d'influenza francese, l'Inghilterra si riservò il controllo di Palestina, Giordania, parte del Golfo Persico e Iraq. Nel marzo del 1917 le truppe inglesi s'impadronirono di Baghdad e alla fine della guerra, nel novembre 1918, l'Iraq, compreso negli antichi vilayet ottomani, venne interamente occupato dall'Inghilterra. Il tentativo di instaurare un governo locale sotto il controllo inglese incontrò fin dall'inizio fortissime resistenze: nello stesso 1918 gli sciiti si ribellarono e l'anno successivo una sollevazione curda fu repressa duramente. Nel 1920 la Società delle Nazioni assegnò l'Iraq come territorio di mandato all'Inghilterra, che nell'agosto 1921 lo eresse a regno sotto l'hashimita Faisal, che aveva diretto con il colonnello T.E. Lawrence le operazioni militari della rivolta araba contro i turchi.
Il nuovo Stato nazionale così costituito era in realtà composto da un mosaico di etnie e di confessioni religiose: i curdi al Nord, i sunniti al centro e gli sciiti al Sud, oltre ai resti delle popolazioni che avevano abitato la Mesopotamia prima dell'invasione araba, come le minoranze assiro-caldee, da tempo convertite al cristianesimo. Le rinnovate rivolte di curdi e sciiti, insieme ai contrasti con la potenza protettrice per lo sfruttamento del petrolio, resero difficili i primi anni del regno dell'Iraq. Nonostante le difficoltà, Faisal svolse opera abile per organizzare il paese in Stato moderno, che si dotò nel 1925 di una Costituzione contemplante una Camera elettiva e un Senato di nomina regia, e per prepararlo a svincolarsi dalla minorità del mandato. Il raggiungimento dell'indipendenza avvenne nel 1932; restavano comunque saldi i vincoli con l'Inghilterra, sanciti da un trattato venticinquennale, firmato nel 1930, che consentiva, fra l'altro, la permanenza sul territorio iracheno di basi militari inglesi. A Faisal, scomparso improvvisamente nel 1933, successe il figlio Ghazi, sotto il cui breve regno (morì in un incidente automobilistico nel 1939) l'Iraq dovette affrontare una serie di crisi, dovute all'urto di contrastanti tendenze politiche (da correnti filobritanniche a uno spinto nazionalismo anglofobo propugnante uno stretto appoggio alla Turchia kemalista), al riacutizzarsi delle proteste delle minoranze etniche e religiose, ai grandi interessi economici che si disputavano lo sfruttamento delle ricchezze petrolifere. Nel 1936 il putsch del generale Bekir Sidqi apriva la strada a una serie di colpi di Stato alimentati in primo luogo dai fermenti nazionalistici e antibritannici. Quando salì al trono Faisal II, sotto la reggenza dello zio Abd ul-Ilaq, la nuova guerra mondiale rimetteva sul tappeto la questione degli obblighi dell'Iraq verso l'Inghilterra, sanciti dal trattato del 1930. La situazione precipitò nella primavera del 1941, quando elementi nazionalisti rovesciavano il governo e nominavano un nuovo reggente. Gli inglesi concentrarono truppe intorno a Bassora, chiedendo l'autorizzazione a organizzare basi militari nel paese, e al rifiuto del governo iracheno aprirono le ostilità. In meno di un mese la resistenza dei nazionalisti fu vinta, nonostante intervenissero in loro aiuto forze aeree italo-tedesche. Con il reinsediamento di Abd ul-Ilaq, Baghdad ritornò a essere un fedele alleato dell'Inghilterra, posizione che mantenne durante il secondo conflitto mondiale e cercò di mantenere ancora nel dopoguerra, dopo che la firma del Trattato di Portsmouth (gennaio 1948), a modifica di quello del 1930, riaccese a Baghdad le agitazioni antibritanniche. Segno dell'instabilità politica irachena fu il susseguirsi di ben 13 governi tra il 1952 e il 1958, periodo durante il quale, sotto la direzione di re Faisal II, divenuto maggiorenne nel 1953, e del suo ministro Nuri Al Said, il paese seguì una linea di politica estera filo-occidentale abbastanza costante. L'opposizione alla direttiva politica di Al Said venne però crescendo, specie nell'esercito, dopo la costituzione della Federazione araba giordano-irachena, annunciata nel febbraio 1958 come reazione immediata alla costituzione della Repubblica Araba Unita (RAU) tra Egitto e Siria. Il 14 luglio di quell'anno un sanguinoso colpo di Stato militare, capeggiato dal colonnello Kassim, costava la vita a re Faisal, ad Al Said e al principe ereditario. Il gruppo degli insorti proclamò la repubblica e l'immediato ritiro dell'Iraq dalla Federazione araba. Il nuovo governo parve, sulle prime, orientarsi verso la cooperazione con la RAU, ma i rapporti fra Kassim e Nasser divennero presto di reciproca diffidenza a causa dell'atteggiamento filocomunista del primo e delle ambizioni egemoniche del secondo. Dopo il colpo di Stato la situazione rimase più che mai precaria: al fattore perturbatore costituito dall'ingerenza militare nella vita politica e al malcontento delle province, si aggiunse la lotta tra la tendenza comunista e l'ideologia unionista araba.
Il partito Ba'th e l'ascesa di Saddam Hussein
Il colpo di Stato del 14 luglio 1958 che abbatté la monarchia hashimita ha rappresentato un momento cruciale della storia recente dell'Iraq. Da allora il paese, sottrattosi a ogni tutela straniera, si è trasformato in un irrequieto e radicale anello nella catena di Stati arabi, accentuatamente avverso al mondo occidentale. All'interno, la sua vita politica è stata caratterizzata da una serie di colpi di mano militari, in cui si sono intrecciati rivalità personali, correnti e gruppi politici. La dittatura di Kassim fu abbattuta nel febbraio 1963 e sostituita da quella del generale Abdul Rahman Arif, sostenuto dal partito Ba'th (Partito socialista della rinascita araba), nato in Siria dalla fusione tra il Partito della rinascita araba, fondato nel 1947 da Michel Aflaq, e il Partito socialista arabo, il cui carattere panarabo ne aveva favorito la diffusione dalla Siria ai paesi vicini. Nel novembre dello stesso anno Arif si disfaceva del Ba'th, ma nel luglio 1968 questo si prendeva la rivincita con un golpe opposto, capeggiato dal generale Ahmad Hassan al-Bakr, che rovesciava il fratello e successore di Arif (perito poco prima in un incidente aereo). Il colpo di Stato che insediò alla presidenza al-Bakr, alla testa di un Consiglio del comando della rivoluzione (CCR), segnò l'avvento al potere del Ba'th e l'avvio di una relativa stabilizzazione dell'assetto politico. Una Costituzione provvisoria, varata nel 1968 e più volte emendata negli anni successivi, attribuì al CCR e al presidente della Repubblica i pieni poteri, in attesa dell'elezione di un'Assemblea nazionale, mentre l'ordinaria amministrazione fu demandata a un Consiglio dei ministri di nomina presidenziale. Per quanto riguarda l'annosa questione delle diverse etnie presenti nel paese, il nuovo regime sembrò in grado di porre termine al conflitto con i curdi quando, nel 1970, fu concordato con i leader della guerriglia un piano di pace che prevedeva il pieno riconoscimento dell'identità nazionale dei curdi, la loro partecipazione al governo del paese e la costituzione di una regione autonoma. Il ritardo e i limiti imposti da Baghdad all'applicazione dell'accordo portarono tuttavia a una ripresa della guerriglia. I rapporti con l'Iran, già resi difficili da una controversia di frontiera sullo Shatt al-Arab, subirono un deterioramento dopo la rivoluzione islamica di Khomeini, per il timore che la propaganda integralista di Teheran potesse attecchire tra la maggioranza sciita della popolazione irachena. Baghdad fu indotta a modificare di conseguenza la propria collocazione in ambito internazionale.
Gli sviluppi della politica estera irachena si accompagnarono sul piano interno a un mutamento nella direzione del partito Ba'th e dello Stato. Nel luglio 1979 al-Bakr veniva sostituito da un altro esponente del Ba'th, Saddam Hussein al-Tikriti, il quale, dopo aver partecipato al colpo di Stato del 1968, era diventato vicepresidente del Consiglio del comando della rivoluzione. Acquisendo il ruolo di presidente della Repubblica, capo del governo e comandante supremo delle forze armate, Hussein avviò un processo di istituzionalizzazione del regime, indicendo nel 1980 le prime elezioni politiche dal 1958, e affiancando così al CCR un'Assemblea nazionale (oltre a un Consiglio legislativo della regione autonoma curda), rinnovata nel 1984 e nel 1989. In campo internazionale Hussein condusse una politica di riavvicinamento dell'Iraq ai paesi arabi moderati e filo-occidentali e cercò di costruire una propria leadership nel mondo arabo, facendosi carico della diffusa volontà di arginare la rivoluzione islamica. Mentre le elezioni del giugno 1980 evidenziavano il largo controllo di Hussein sul paese, il rilancio dei rapporti economici con l'Occidente e gli Stati Uniti (la ripresa ufficiale delle relazioni avvenne nel novembre 1984) rappresentò un tassello importante per garantire all'Iraq un retroterra di appoggi in vista dell'imminente attacco all'Iran. La guerra contro la repubblica islamica di Teheran, avviata da Hussein nel 1980 anche per recuperare la piena sovranità irachena sullo Shatt al-Arab, si rivelò assai più lunga e difficile del previsto.
Dalla guerra all'Iran alla Guerra del Golfo
L'offensiva di Baghdad oltre il confine iraniano ebbe inizio a metà settembre 1980 e portò rapidamente all'occupazione di numerosi centri urbani. Tuttavia Teheran non soltanto evitò il collasso ma, adottate nel corso del 1981 eccezionali misure di riorganizzazione politico-militare, cominciò a far pesare la propria superiorità nel potenziale umano. Un anno dopo le truppe irachene cominciarono ad arretrare dai territori conquistati dopo aver subito notevoli perdite, fino a ripiegare oltre il confine nella zona di Bassora. L'Iraq fu costretto a chiedere crescenti aiuti economici e militari ai paesi arabi amici, assumendo sempre più il ruolo di strenuo oppositore della rivoluzione sciita. A partire dai primi mesi del 1984 lo scontro assunse il carattere di una guerra di logoramento, in cui non mancarono, però, violente offensive iraniane, che nel novembre 1985 consentirono alle forze di Teheran l'attraversamento dello Shatt al-Arab e la conquista della penisola di Faw. Per allentare la pressione iraniana l'Iraq ricorse soprattutto all'impiego di armi chimiche e ad attacchi aerei su Teheran e sull'area del Golfo, a cui l'Iran rispose con il lancio di missili a lunga gittata. La situazione conflittuale determinatasi in una regione di vitale importanza sia sul piano strategico sia per il traffico petrolifero indusse gli Stati Uniti e i paesi occidentali a presidiare il Golfo con forze aeronavali. I molteplici sostegni permisero così all'Iraq, nella primavera del 1988, di riprendere l'iniziativa e di recuperare terreno intorno a Bassora, fino a indurre l'Iran ad accettare la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU che imponeva il cessate il fuoco (agosto 1988).
Confermato al potere nelle elezioni dell'aprile 1989, Saddam Hussein si trovò di fronte un'economia dissestata, a causa delle distruzioni belliche e della pesante situazione debitoria nei confronti dei ricchi paesi petroliferi della penisola arabica. Stretto nella morsa dei rimborsi da effettuare, dotato di un arsenale bellico cospicuo che ne sollecitava le ambizioni, l'Iraq nell'estate del 1990 indirizzò le sue mire espansionistiche verso il Kuwait, uno Stato di cui sempre era stata contestata la legittimità perché considerato un artificioso risultato delle manovre colonialistiche. Fidando che l'appoggio occidentale non si sarebbe tramutato in ostilità e che il mondo arabo avrebbe proseguito le trattative, il governo iracheno attuò il 2 agosto 1990 l'occupazione del Kuwait. Le reazioni internazionali furono invece di aspra e immediata condanna. Il Consiglio di Sicurezza dell'ONU impose un rigido sistema di sanzioni economiche contro l'Iraq e nel novembre autorizzò l'uso della forza per costringere gli iracheni a ritirarsi dai territori occupati. L'azione degli Stati Uniti e dei loro alleati, dopo un'accurata preparazione fondata in particolare sull'intesa con l'Arabia Saudita, che mise a disposizione il suo territorio come base per le azioni belliche, culminò in un'offensiva militare di vasto respiro (gennaio-febbraio 1991) che portò alla liberazione del Kuwait. Alla cessazione delle ostilità l'Iraq aveva subito una sconfitta totale, con decine di migliaia di morti e gravissimi danni alle attrezzature industriali e civili, cui si aggiunsero nei mesi successivi nuove decine di migliaia di vittime provocate dalle disastrose condizioni in cui era precipitato il paese e dalla ribellione delle popolazioni sciite e curde. Queste ultime si erano sollevate sperando nella presenza nel paese delle truppe alleate occidentali, ma quando Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia intervennero imponendo a Baghdad il divieto di sorvolo da parte dell'aviazione irachena dei territori a nord e a sud del paese abitati da curdi e sciiti, la feroce repressione di Saddam Hussein, lasciato al potere dopo la sconfitta militare, aveva fatto il suo corso.