Vedi Israele dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La nascita di Israele porta a conclusione il progetto nazionale ebraico a cui aveva dato vita il movimento politico sionista di Theodor Herzl, nel 1898, a Basilea. La sua creazione è stata proclamata da David Ben Gurion (primo premier) il 14 maggio 1948, alla scadenza del mandato britannico sulla Palestina. Il territorio generalmente riconosciuto a livello internazionale come israeliano, ossia quello contenuto entro le linee del cessate il fuoco del 1949 (la ‘linea verde’), ha due nuclei più consistenti a nord (la Galilea e la costa) e a sud (la Giudea meridionale e il deserto del Negev), collegati da una fascia costiera che si restringe nella zona a nord di Tel Aviv fino a circa 20 km, e si spinge con un cuneo fino a Gerusalemme. L’avvio di una fase di ripetuti conflitti (1948, 1956, 1967 e 1973) ridisegna nell’arco di venticinque anni non solo i confini geografici del paese ma anche gli equilibri politici della stessa regione mediorientale. Le guerre con i paesi arabi e il conflitto ‘a bassa intensità’ con i palestinesi, nelle loro diverse organizzazioni, hanno determinato una situazione di perenne instabilità nella regione che ha catalizzato non solo l’attenzione ma, a tratti, anche gli sforzi diplomatici dell’intera comunità internazionale.
Sul piano interno, le relazioni del governo israeliano con i palestinesi della Cisgiordania e nella Striscia di Gaza sono influenzate e viziate da uno stato di continua instabilità. Le minacce maggiori alla sicurezza giungono dalla Striscia di Gaza, dal 2007 sottratta al controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese e da allora governata autonomamente dall’organizzazione islamista Hamas. Da quell’anno Hamas ha lanciato una lunga catena di offensive contro il territorio israeliano caratterizzate soprattutto dal lancio di razzi contro i centri abitati d’Israele. I governi israeliani hanno generalmente risposto con dure operazioni militari mirate a distruggere l’apparato militare di Hamas, che però ha sempre provveduto a ricostruirli. Dal 2007 Israele sottopone inoltre la Striscia di Gaza all’embargo sulla circolazione di merci e persone. Nonostante la firma di un cessate il fuoco tra le parti nel 2014, permangono numerose fonti di tensione che potranno portare in futuro a nuovi confronti militari, come i piani di ampliamento delle colonie ebraiche in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, la ricostruzione di Gaza e la mancata fine dell’embargo. Sul piano regionale Israele rimane in formale stato di guerra con due stati confinanti, Libano e Siria, mentre i rapporti con il resto della regione rimangono tesi. La maggior parte degli stati arabi – e alcuni stati a maggioranza musulmana come Somalia e Pakistan – non riconosce formalmente Israele pur trattenendo spesso con essa relazioni informali. Egitto e Giordania hanno invece riconosciuto Israele, firmando con essa trattati di pace separati. È però contro una entità non statuale, il gruppo politico e paramilitare sciita libanese Hezbollah, che Israele ha ingaggiato le sole operazioni militari su vasta scala dall’inizio degli anni Duemila, soprattutto in risposta ad atti di provocazione come il lancio di razzi dal sud del Libano o il rapimento di soldati israeliani. Inoltre, soprattutto in relazione ai suoi effetti sulle capacità militari di Hezbollah e sul possibile fiorire di gruppi estremisti ad essa ostili, Israele monitora con attenzione gli sviluppi della crisi siriana iniziata nel 2011.
Di tenore opposto invece sono le relazioni con i due storici vicini Giordania ed Egitto. All’insegna della semi-cordialità sono le relazioni tra Tel Aviv e Amman, così come sono nettamente migliorati i rapporti tra Israele ed Egitto. In particolare, l’elezione dell’ex ministro della difesa e capo di stato maggiore dell’esercito, Abdel Fattah al-Sisi, a presidente egiziano ha aperto la strada a un rinnovato rafforzamento dei legami bilaterali tra Israele ed Egitto, come dimostrato dal ruolo decisivo svolto dal Cairo nelle trattative di cessate il fuoco provvisorio tra Hamas e lo stato ebraico nel 2014. Ciononostante permangono alcuni timori di sicurezza sul fronte del Sinai, dove dal 2011 cellule jihadiste hanno lanciato una serie di attacchi contro infrastrutture economiche e istituzioni politiche e militari locali rendendo di fatto instabile il territorio settentrionale della penisola vicino al confine con Israele e la Striscia di Gaza.
Merita un discorso a parte la questione del programma nucleare iraniano. Pur non rappresentando una minaccia diretta, almeno nell’immediato, alla sicurezza israeliana, è percepita dall’establishment come una delle principali fonti di preoccupazione. La firma dell’accordo fra il gruppo P5+1 (i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite più la Germania) e l’Iran nel luglio 2015 ha contrariato molto la leadership israeliana e contribuito a raffreddare le relazioni con gli Stati Uniti, il principale alleato sul piano internazionale e dagli anni Settanta principale sponsor e fornitore di armamenti dello stato ebraico. Nonostante ciò gli Stati Uniti rimangono il fulcro del sistema di alleanze di Israele, la quale ha comunque da sempre coltivato relazioni stabili con tutte le principali potenze internazionali, comprese la Russia, la Cina e l’India.
Sul piano interno, Israele si caratterizza per una forte frammentazione politica. Dal governo di unità nazionale del 1984-88 in poi, nessuna amministrazione è riuscita a completare il proprio mandato. A causa della mutevolezza del panorama dei partiti israeliani, a sua volta riflesso delle divisioni sociali, alleanze, fusioni, scissioni e cambiamenti di nome si susseguono con una certa frequenza, provocando instabilità politica. Anche i governi di Benjamin Netanyahu, il quale è assurto a principale figura politica israeliana dalla seconda metà degli anni Duemila, hanno dovuto affrontare numerose crisi politiche che hanno portato alla fine prematura dei suoi numerosi mandati.
Da leader del Likud – il tradizionale partito della destra israeliana – Netanyahu si è dovuto confrontare con la riottosità e la continua trasformazione dei partiti suoi alleati, sia di centro, sia appartenenti alla destra religiosa. Dall’altra parte dello scacchiere politico l’esperienza di Ehud Barak come primo ministro dal 1999 al 2001 ha segnato finora la fine dei governi a guida laburista. Il partito laburista – che ha governato ininterrottamente Israele fino a metà anni Settanta e durante l’avvio del Processo di Oslo negli anni Novanta – nel nuovo millennio non è riuscito a trovare una nuova figura di riferimento in grado di farlo tornare alla guida del paese. La sua storia recente è stata infatti caratterizzata da sconfitte elettorali e compromessi che l’hanno visto membro di minoranza di governi di unità nazionale, o membro di coalizioni elettorali con partiti di centro come Kadima, la formazione fondata dall’ex primo ministro ed ex leader del Likud Ariel Sharon.
Israele è una repubblica parlamentare con un’unica camera (la Knesset) composta da 120 seggi, eletti ogni quattro anni con sistema proporzionale. Alle elezioni legislative non è previsto il voto di preferenza. In Israele l’elezione avviene su base proporzionale di un unico collegio nazionale a lista bloccata – ossia l’intero territorio –, con una soglia di sbarramento al 2%. L’ordine di lista viene determinato da ciascun partito o alleanza mediante una procedura interna; se una lista ottiene un certo numero di posti alla Knesset, i candidati sono eletti nell’assemblea sulla base dell’ordine in cui apparivano nella lista stessa. Nel tentativo di realizzare alleanze di governo più stabili, nel marzo del 2014 è stata approvata una nuova legge che innalza la soglia necessaria per la rappresentanza nella Knesset dal 2% al 3,25%.
La forma di governo è parlamentare, il primo ministro acquisisce formalmente l’incarico dal presidente della repubblica ma deve ottenere la fiducia dell’assemblea per governare.
La Knesset elegge ogni sette anni il presidente della repubblica, ruolo ricoperto attualmente dal membro del Likud, Reuven Rivlin, eletto il 10 giugno 2014 quale decimo capo dello stato ebraico succedendo a Shimon Peres. Il presidente della repubblica ha una funzione puramente rappresentativa essendo l’esercizio del potere esecutivo delegato nella sua interezza al primo ministro, che solitamente è il leader del partito o della coalizione di maggioranza nella Knesset. Il potere giudiziario è affidato alla Corte suprema e ai tribunali distrettuali e locali sparsi sul territorio. Il sistema giudiziario è articolato in tre livelli di giudizio: il tribunale cittadino, i tribunali distrettuali, che fungono sia da appello sia da prima istanza, e la Corte suprema, ultimo grado di appello e verdetto, che svolge mansioni di cassazione e di liceità costituzionale. Come il Regno Unito, il sistema legale israeliano è fondato sul common law; Israele non ha una Costituzione scritta redatta in un unico documento, ma dispone di più leggi fondamentali basate sui regolamenti della Knesset, sulle convenzioni costituzionali, sui precetti religiosi ebraici e sulla dichiarazione di indipendenza dello stato di Israele del 1948.
Il fattore demografico è stato per Israele decisivo sin dall’origine. Gli incentivi introdotti dalla fine dell’Ottocento (e in parte mantenuti tuttora) per stimolare l’arrivo nei territori palestinesi di ebrei provenienti da tutto il mondo (soprattutto Russia e Stati Uniti) erano finalizzati a legittimare l’esistenza di uno stato ebraico e ad accantonare le rivendicazioni territoriali da parte degli arabi palestinesi. Israele si è quindi sempre preoccupata di assicurare all’interno dei propri confini una maggioranza ebraica, avviando misure che mantenessero un tasso di incremento demografico abbastanza alto, tale da poter far fronte al tasso di fecondità palestinese, tra i più elevati al mondo. Israele conta oggi otto milioni di abitanti, di cui il 75% ebreo e il 20% arabo. Più del 4% della popolazione ebraica vive in comunità in Cisgiordania (Giudea e Samaria nei documenti ufficiali israeliani), dove la costruzione degli insediamenti dei coloni israeliani, in progressivo aumento, provoca crescenti tensioni con i palestinesi.
Le più grandi città del paese sono Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme, quest’ultima l’unica a superare il milione di abitanti. In base alla legge fondamentale del 1980 Gerusalemme è la capitale dello stato ma quasi tutti i paesi che hanno relazioni diplomatiche con Israele mantengono le proprie ambasciate a Tel Aviv o nelle immediate vicinanze della città sulla costa mediterranea.
La popolazione israeliana è divisa da molteplici linee di frattura. La principale faglia si apre tra popolazione ebraica ed araba. A sua volta la popolazione di origine ebraica è separata sia dall’origine di appartenenza, sia dall’atteggiamento rispetto al rapporto tra politica e religione. La prima differenza è tra ebrei di origine europea (per lo più Europa orientale) arrivati prima o immediatamente dopo la fondazione dello stato (detti ebrei aschenaziti) e quelli di origine nordafricana e mediorientale (detti ebrei sefarditi). Questa frattura è stata soltanto in parte sanata dalla pratica dei matrimoni ‘misti’, che sono in netta diminuzione anche a causa delle tensioni con i palestinesi negli ultimi anni. A questi due gruppi si aggiungono i falasha, ebrei di origine etiope (conosciuti anche come Beta Israel) e gli ebrei dell’Europa centro-orientale (cechi, ungheresi, polacchi, russi, ucraini, moldavi e rumeni) immigrati in Israele dagli anni Ottanta e Novanta, soprattutto in seguito alla caduta dell’Unione Sovietica, e divenuti la comunità più numerosa in gran parte del paese.
La seconda divisione riguarda la distanza tra laici e ultra-ortodossi (gli haredim) che si sta facendo sempre più profonda. Gli haredim, che sostengono un sionismo di stampo religioso e a tratti militante, usufruiscono di numerosi benefici e detrazioni statali – sono esenti dal servizio militare, ricevono sussidi scolastici e familiari in virtù del gran numero di figli, e buona parte di loro si astiene dal lavoro per dedicare il proprio tempo allo studio dei testi sacri – poiché demograficamente in grande ascesa rispetto al resto della popolazione rappresentano un’importante quota dell’elettorato israeliano.
Gli arabi israeliani cristiani sono invece frazionati tra greco-ortodossi, melchiti, membri della chiesa siriaca, cattolici latini e appartenenti alle chiese protestanti. A Gerusalemme vive una consistente comunità armena, che ha un suo quartiere nella città vecchia. Molte chiese orientali sono divise in una chiesa ortodossa e una cattolica, che mantiene i riti originari ma ha giurato obbedienza al Papa di Roma e ha aderito alla dottrina latina. La comunità drusa, concentrata nella zona del Monte Carmelo, è più integrata nella vita istituzionale israeliana: per i drusi è prevista la leva obbligatoria e molti sono arruolati, in particolare nella polizia di frontiera. La chiusura di Gaza e la difficoltà di entrare in Israele per i palestinesi, anche per quelli residenti in Cisgiordania, hanno provocato una penuria di manodopera che ha a sua volta causato una crescente immigrazione, soprattutto dall’Asia orientale. Ufficialmente i cittadini israeliani hanno uguali diritti indipendentemente dalla loro religione e lingua, ma le comunità arabe ricevono servizi e istruzione di qualità inferiore rispetto a quelle ebraiche. Inoltre le comunità beduine spesso non ricevono servizi essenziali e sono soggette, in base alle denunce di associazioni per i diritti umani israeliane e internazionali, a discriminazioni nel possesso della terra e nel diritto a costruire, in particolare nel Negev, dove è presente la maggioranza delle comunità beduine locali (circa 90.000 persone).
La stampa è libera e il diritto di associazione è rispettato, anche grazie all’indipendenza della Corte suprema che si è rifiutata di mettere fuori legge i partiti arabi. Nel paese non esiste il matrimonio civile. Dall’estate del 2011, sull’onda delle proteste nei vicini stati arabi, anche nelle piazze israeliane hanno avuto luogo grandi manifestazioni, espressione di un diffuso malcontento popolare a causa delle crescenti differenze socio-economiche.
Israele ha un’economia di mercato tecnologicamente avanzata. Non a caso la produzione e la ricerca info-telematica e di alta tecnologia rappresentano uno dei fiori all’occhiello dell’economia israeliana. L’high tech, infatti, ha trainato le esportazioni israeliane dal 2003 in poi e ha contribuito in modo decisivo allo sviluppo dell’industria della difesa: Israele è il sesto paese al mondo per esportazioni di prodotti bellici e il primo per quota di vendite rispetto al volume di esportazioni totale. Il primo consumatore di armi israeliane è l’India, ma anche l’Europa sta diventando un’importante acquirente. L’economia è dominata comunque dal settore dei servizi, che contribuisce al pil per circa il 66% del totale, mentre l’industria e l’agricoltura rappresentano rispettivamente il 31,4% e il 2,5%. Quest’ultimo settore, un tempo di fondamentale importanza, è oggi in lento declino, sebbene nei primi anni Cinquanta sia stato alla base dello sviluppo del paese. Per ciò che concerne i servizi, invece, il settore più importante, assieme a quello bancario, è il turismo. Sebbene l’economia turistica soffra della scarsa sicurezza del paese, i visitatori sono in crescita: nel 2014 sono stati registrati 3,2 milioni di turisti, provenienti soprattutto da Stati Uniti e Russia. Altro settore strategico dell’economia israeliana è rappresentato dall’industria diamantifera: Israele è uno dei paesi più importanti al mondo per il commercio di diamanti tagliati, assieme a Belgio e India. Il principale partner commerciale di Israele, sia per importazioni sia per esportazioni, continuano a essere gli Stati Uniti.
Anni di politica di bilancio prudente e un settore bancario flessibile hanno permesso a Israele di recuperare velocemente le perdite scaturite dalla crisi globale. L’economia israeliana ha anche resistito alla tempesta scatenata dalle Primavere arabe, grazie ai forti legami commerciali al di fuori del Medio Oriente che l’hanno resa immune agli effetti di spillover riversatisi sull’intera regione. Israele è un paese tradizionalmente dipendente dalle importazioni energetiche, che coprono quasi l’80% del fabbisogno nazionale annuo. Tale dipendenza si è dimostrata un fattore di vulnerabilità, specie nel settore del gas naturale, quando, in seguito al trionfo dei Fratelli musulmani, l’Egitto (unico fornitore di gas) decise, nell’aprile 2012, di sospendere il contratto di fornitura in vigore con Tel Aviv. Tuttavia, la scoperta di ingenti giacimenti di gas naturale nel Mediterraneo, avvenuta nel 2009 al largo della costa israeliana, ha rivitalizzato il panorama della sicurezza energetica del paese e ha modificato la geopolitica regionale del gas.
Oltre a quella energetica, un altro tema di importanza strategica è per Israele la questione idrica. Il paese ha nel Lago di Tiberiade la maggiore fonte di approvvigionamento d’acqua e ciò ha provocato gravi conflitti con la confinante Siria, poiché il lago si trova in parte sul territorio delle alture del Golan, occupate e annesse da Israele, ma rivendicate da Damasco. Il problema legato alla gestione delle risorse idriche, del resto, si ripercuote anche nei rapporti con il Libano e con l’Autorità nazionale palestinese. Per sopperire alla carenza di acqua dolce, Israele ha costruito impianti di desalinizzazione ad alta tecnologia che a partire dal 2015 hanno portato la produzione annua di acqua potabile a oltre 600 milioni di metri cubi.
Le forze armate israeliane (Tzahal, acronimo di Tzva Hahaganah LeYisra’el, forze di difesa di Israele) si basano sul sistema della coscrizione del richiamo periodico delle riserve. Le forze attive comprendono 176.500 soldati, uomini e donne, cui possono aggiungersi fino a 465.000 unità della riserva: complessivamente, oltre il 10% della popolazione. Il servizio militare è obbligatorio per ebrei e drusi; cristiani e musulmani possono fare un servizio volontario. Chi non ha servito sotto le armi non si può avvalere dei vantaggi che ne derivano, per esempio in termini di borse di studio e di mutui per la casa. Tzahal mantiene un apparato militare tecnologicamente avanzato. Per esempio, l’aviazione è dotata di F-15, F-16 e F-161 Sofah, mentre l’esercito ha in dotazione il carro armato Merkava Mark 4, migliorato rispetto ai modelli precedenti nei sistemi di controllo del tiro, di difesa attiva e di strumentazione elettronica. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), Israele avrebbe anche sperimentato il missile balistico Jericho 3 con una gittata di oltre 4000 km. Quanto alle minacce alla sicurezza, pur essendo lo stato militarmente più forte e meglio attrezzato dell’area, Israele è quello più in allerta non solo per i rischi connessi al terrorismo, ma soprattutto per la persistente ostilità verso la sua esistenza.
Tuttavia, le prove di forza in Libano, contro Hezbollah, e nella striscia di Gaza, contro Hamas, hanno confermato la forza militare di Israele e la sua relativa efficienza. Le operazioni Piombo fuso, Pilastro di difesa e Margine protettivo hanno inflitto perdite pesanti alla struttura militare di Hamas, senza tuttavia riuscire a bloccare in modo definitivo il lancio di missili contro Israele. Per prevenire ogni attacco, il governo israeliano ha costruito un muro di separazione dai territori palestinesi, avviato nel 2003 e più volte riveduto; in realtà si tratta di una barriera a più strati tecnologicamente ricercata. La barriera, criticata per varie ragioni sia dai palestinesi (perché ingloba territori oltre la ‘linea verde’, isolando interi abitati e rendendo arduo il movimento degli abitanti), sia da parte del movimento dei coloni (perché implica la rinuncia al possesso di tutti i territori dal Giordano al mare), ha ridotto quasi a zero gli attacchi terroristici dentro Israele. A novembre 2013, Netanyahu ha segnalato un nuovo obiettivo strategico di sicurezza, che rappresenterà una linea rossa per i futuri accordi con i palestinesi: il controllo israeliano della valle del Giordano. Giustificandoli con il timore di un’infiltrazione in Israele dei profughi siriani che ora vivono in Giordania, il premier ha annunciato i piani di costruzione di una nuova recinzione lungo il Giordano, che è cominciata immediatamente dopo il completamento del muro di separazione con l’Egitto nel Sinai. Accanto a Hamas e Hezbollah, l’altro storico nemico di Israele è l’Iran. In seguito alla rivoluzione del 1979 che ha portato al potere il clero sciita duodecimano la leadership iraniana ha sempre condannato l’esistenza stessa di Israele ed è per questo avvertito dall’establishment israeliano come un pericolo permanente sia per l’appoggio economico e militare a organizzazioni ostili a Israele – come Hezbollah e Hamas – sia per il sospetto che in futuro Teheran possa riprendere il suo programma nucleare sospeso in seguito all’accordo del luglio 2015.
La fase iniziale del movimento sionista, segnata dalle prime due ondate di immigrazione ebraica in Palestina (1882 e 1904) fu alimentata dai pogrom in Russia. A loro volta, le violenze contro gli ebrei si erano incongruamente scatenate dopo l’assassinio di Alessandro II a opera dei terroristi di Narodnaya Volya e protratte in Russia fino al 1921.
Nel 1917, dopo la Dichiarazione Balfour sulla spartizione dell’Impero ottomano e l’occupazione inglese della Palestina, si verificò una più consistente ondata di immigrazione ebraica e, contemporaneamente, una più decisa presa di coscienza dei palestinesi arabi. Il risultato furono gli scontri del 1929. Dopo la grande rivolta araba del 1936-39 e una serie di attentati sionisti, il conflitto arabo-ebraico in Palestina proseguì nella sua escalation con la prima guerra arabo-israeliana (1948-49), scoppiata dopo il rifiuto arabo di riconoscere il piano delle Nazioni Unite di divisione della Palestina in due stati e la nascita di Israele. Tra il 1949 e il 1967, nonostante la rapida guerra del 1956, vinta ancora una volta da Israele, il paese riuscì a consolidare le sue posizioni, mentre il panorama del mondo arabo si faceva più variegato. In questa fase il conflitto arabo-israeliano si svolse soprattutto tra stati, mentre la società araba e i palestinesi dovettero gestire lo shock della Naqba, la ‘catastrofe’ provocata dalla sconfitta del 1948.
Tra il 5 e il 10 giugno 1967 la cosiddetta Guerra dei sei giorni sconvolse gli equilibri del Medio Oriente: Israele occupò il Sinai, la Cisgiordania e il Golan. Fu uno spartiacque storico per diversi motivi: segnò la sconfitta del panarabismo nasseriano; il disastro militare e politico dei regimi arabi portò alla fine della loro tutela sull’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp); alimentò il successo dei movimenti fondamentalisti. In Israele per dare un senso alla vittoria, nei paesi arabi per reagire alla sconfitta.
Nel 1973 la Guerra del Kippur frustrò ancora una volta le speranze arabe: Siria ed Egitto, con un attacco a sorpresa contro Israele, avevano cercato di annullare le conseguenze della guerra del 1967. Ancora una volta le forze israeliane si imposero sul campo, ma la loro vittoria pose un più serio problema di soluzione diplomatica del conflitto. Ci si arrivò parzialmente con la Pace di Camp David, tra Egitto e Israele, nel 1979. Dal 1979 al 1987 l’evento saliente è costituito dalla guerra in Libano, con il quale il governo Begin-Sharon cerca di eliminare l’Olp come attore militare e politico, e di mettere la Siria fuori dei giochi libanesi. Il primo obiettivo viene centrato, il secondo no. L’Olp si trasferisce a Tunisi e il governo israeliano è indebolito prima dallo scandalo delle stragi nei campi palestinesi di Sabra e Shatila, poi dalla crescita della guerriglia contro le forze israeliane, che porta, nel 1985, al graduale ritiro di queste fino a una fascia di sicurezza nel sud del Libano, abbandonata nel 2000. Nel 2013, dopo cinque anni di stallo sono ripresi i negoziati tra Israele e Palestina, grazie alla mediazione di Usa e Giordania subito naufragati a causa delle reciproche resistenze. Il nuovo stallo ha provocato una situazione di accresciuta tensione sfociata nuovamente in una guerra a Gaza (luglio-agosto 2014).
Il 29 marzo 2013 ha rappresentato a suo modo una data storica per Israele. Dopo cinque anni di esplorazioni sottomarine nel Mar del Levante lo stato ebraico ha dato avvio al sito gasifero off-shore Tamar. Israele è, infatti, un paese tradizionalmente privo di risorse energetiche e fortemente dipendente dagli idrocarburi della regione ma la scoperta di queste abbondanti fonti di gas e petrolio sottomarino potrebbe concedere un’insperata indipendenza energetica alla nazione. Una tesi sostenuta da tutto il governo israeliano che ha profuso grandi sforzi per giungere a quest’obiettivo strategico, come dimostra la legge del 23 giugno 2013 che ha stabilito che sino al 2040 Israele utilizzerà il 40% della propria produzione di gas per le esportazioni, conservando il restante 60% per coprire il fabbisogno nazionale. L’approvvigionamento energetico autarchico porterà a un risparmio pari a 3,6 miliardi di dollari annui sulla bolletta nazionale e investimenti pari a 3,5 miliardi di dollari. Una decisione di portata rilevante che potrebbe da un lato accrescere il peso economico israeliano e dall’altro avere dei riflessi anche a livello geopolitico sull’intera regione. Oltre allo sviluppo di una politica di autosufficienza, Israele ha studiato la possibilità di divenire nel breve periodo (non prima del 2017) un esportatore netto di energia e un vettore terrestre strategicamente rilevante a livello internazionale grazie alla costruzione di pipeline e terminal di liquefazione del gas naturale che trasporteranno quantità annue superiori ai 60 miliardi di m3 verso Europa, Giordania, Turchia – con la quale è stato firmato un pre-accordo da 2 miliardi di dollari per lo sviluppo di un gasdotto sottomarino – e Asia (in particolare Cina e India). Una condizione che permetterebbe, grazie ai profitti delle esportazioni e delle royalty pagate dagli operatori nei siti in questione per i prossimi 20 anni (entrate vicine ai 200 miliardi di dollari), di coprire consumi interni annui pari a 7-10 miliardi di m3, creare nuovi posti di lavoro e favorire investimenti nel settore dell’istruzione, della sanità e del welfare. La scoperta di un vasto giacimento al largo dell’Egitto ha parzialmente ridimensionato le ambizioni israeliane nel campo dell’esportazione nella regione ma non significativamente compromesso i progetti di sviluppo in campo energetico.
Il controllo delle risorse idriche è da sempre un tema sensibile in Medio Oriente e capace di influire sull’ambiente socio-politico delle comunità che vi abitano. Il crescente fabbisogno di acqua ha infatti creato contese e guerre tra israeliani, palestinesi e i paesi arabi della regione, anche nel recente passato. Al fine di ovviare a questi problemi e di garantire una cooperazione pacifica regionale che favorisca al contempo una riduzione delle disparità, Israele ha firmato con Giordania e Autorità nazionale palestinese (Anp) un protocollo per la costruzione del Red-Dead Canal, un canale che mette in collegamento il Mar Rosso con il Mar Morto. L’accordo, firmato a Washington il 9 dicembre 2013, era in discussione dal 1994 quando fu raggiunto l’accordo di pace tra Giordania e Israele, ma le tensioni politiche tra le autorità delle tre realtà e la difficoltà a reperire i finanziamenti necessari alla realizzazione del progetto avevano bloccato più volte le trattative. In base all’accordo tripartito, il progetto dovrebbe permettere sia la protezione delle acque del Mar Morto dal rischio prosciugamento completo entro il 2050, sia la capacità di far fronte alla crescente richiesta di acqua dei singoli paesi. Oltre alla costruzione del cosiddetto ‘Canale dei due mari’, il progetto prevede la realizzazione di due laghi turistici artificiali e la creazione di una serie di infrastrutture turistiche che sorgeranno nelle loro immediate vicinanze. In base all’accordo raggiunto, ogni anno saranno pompati circa 200 milioni di metri cubi (m3) di acqua attraverso quattro condotti sotterranei che attraverseranno il territorio giordano portando acqua dal Mar Rosso all’estremità meridionale di Israele e da lì trasferiti verso Giordania e West Bank. Sempre in base all’intesa, in Giordania e in Israele giungeranno dai 30 ai 50 milioni di m3 di acqua potabile, mentre Tel Aviv si impegnerà a vendere a prezzi preferenziali ai palestinesi 20-30 milioni di m3 d’acqua proveniente dal Lago di Tiberiade. Il progetto sarà in parte finanziato dalla Banca mondiale per un costo complessivo compreso tra i 250 e i 400 milioni di dollari. Un’infrastruttura che dovrebbe entrare in funzione entro il 2018 ma che sta già riscontrando alcuni ritardi a causa della complessa situazione politica regionale e interna a Israele e all’Anp.
Approfondimento
Il 2015 di Israele e soprattutto del suo primo ministro, Benjamin Netanyahu, si può collocare tra due discorsi. In marzo, alla vigilia delle elezioni anticipate, è stato invitato al Congresso americano, senza che il presidente Obama ne fosse informato, e lì ha tenuto il quarto discorso. Ha parlato, con molte ovazioni e qualche defezione, del suo tema preferito, l’Iran, anche perché i negoziati tra il P5+1 e Teheran erano ancora in corso e Netanyahu sperava di influenzarli. Poco dopo Netanyahu ha vinto le elezioni, di misura, e soprattutto ha formato un governo molto di destra con una base parlamentare di 61 voti su 120 seggi della Knesset. Rafforzata inoltre dall’appoggio di alcuni deputati di destra rimasti fuori ma soprattutto ha contato, costantemente, sui voti a favore o sull’assenza in aula dell’opposizione, i laburisti di Herzog o i centristi di Lapid. Mentre la Knesset passava leggi più dure per fermare la non dichiarata intifada che ha il suo perno a Gerusalemme Est e sulla spianata delle Moschee, la politica estera di Israele oscillava tra un grande attivismo e un grande vuoto. Netanyahu ha tenuto per sé l’interim degli esteri, nominando come sua vice Tzipi Hotovely (Likud), che discute di politica estera usando argomenti rabbinici e difendendo con zelo i coloni e il diritto degli ebrei a tutta la terra di Israele e ha inoltre parlato di annessione.
Ma è Netanyahu il protagonista. La base è, dagli anni Settanta, l’appoggio e aiuto americano, in ogni sede e con grossi aiuti militari, ma nonostante le molte affermazioni contrarie, il rapporto tra Netanyahu e l’amministrazione Obama, attivo in ininterrotto parallelo dal 2009, non è buono. Di recente, Obama ha rifiutato di impegnarsi a usare di nuovo il veto americano in sede di Consiglio di Sicurezza per bloccare eventuali risoluzioni contro Israele. Il 2016 sarà l’ultimo anno della presidenza Obama, e sono possibili colpi di coda a sfavore di Israele. Inoltre, è paradossale che Netanyahu si consideri grande conoscitore della politica americana ma non valuti i profondi cambiamenti in atto, demografici e politici. La tradizionale roccaforte repubblicana sta cambiando, deputati giovani, minoranze crescenti, minore legame anche generazionale con Israele, al di là della tattica elettorale e strategica della politica americana. Netanyahu ha anche cercato sponde altrove, Russia, ma soprattutto Cina, India, soggetti che vedono però Israele come marginale alle proprie politiche, anche se stipulano contratti per forniture militari. Inoltre, l’insistenza di Netanyahu a parlare sempre di Iran e Medio Oriente, e assai poco di palestinesi lo indebolisce. Come sono rapporti di realpolitik, e di difficile gestione, quelli con paesi come l’Egitto o l’Arabia Saudita, interessati al terrorismo ma ostili o scettici verso Netanyahu.
Il rapporto più complesso è quello con l’Europa, intesa come Unione e come singoli stati, con politiche verso Israele non univoche. Ancora una volta il passare del tempo, inutilmente, sul versante di veri negoziati palestinesi, nuove generazioni che alla simpatia per Israele aggiungono la condanna per la politica di occupazione, e una certa esasperazione per il modo in cui i governi Netanyahu (da febbraio 2009 a oggi) si pongono in politica estera ma anche interna, nuociono al tradizionale legame tra uno stato ebraico e il continente dove gli ebrei sono stati perseguitati e massacrati per millenni. Per non parlare della sproporzione che si percepisce in quello che è sia un piccolo paese, ma anche una potenza militare regionale che vuole contare molto, e un cliente di politiche occidentali di favore che però spesso non ricevono adeguato riscontro.
La politica europea ha due palcoscenici. Uno è quello dell’Un, dove negli ultimi anni, in sede di votazioni dell’Assemblea Generale, parecchi stati europei hanno modificato il loro tradizionale atteggiamento. Ad esempio, il riconoscimento della Palestina come stato non-membro nel 2012. Paesi da sempre a favore di Israele, Italia compresa, si sono astenuti, mentre altri hanno votato contro Israele. Una slavina che da allora si muove. Nell’aprile 2015, 16 ministri degli esteri, Italia compresa e Germania astenuta, hanno chiesto di accelerare la procedura per richiedere a Israele l’etichettatura delle merci provenienti dai Territori occupati (ovvero West Bank, Gerusalemme Est e Golan) e in settembre il Parlamento europeo, a stragrande maggioranza, ha votato in questo senso.
C’è da parte di Israele un’incomprensione e una sottovalutazione dei poteri e della forza dell’Eu e dei suoi regolamenti. Di solito Israele conta sull’appoggio di paesi chiave, come la Germania, ma anche questi rapporti si stanno usurando, nel tempo. La solidarietà che da sempre ha legato lo stato di Israele alle comunità della diaspora sta cambiando. Da sempre i governi di Israele tendono a considerare la diaspora una piattaforma di solidarietà indiscussa, ma la politica di occupazione, che nel 2017 compirà 50 anni, suscita critiche crescenti e dilanianti perché spesso sopite. Le nuove generazioni di ebrei, negli Stati Uniti e altrove, vorrebbero una pace che dia sicurezza a due stati, non la semplice gestione dell’occupazione sine die. Il discorso di Netanyahu all’Assemblea dell’Un in ottobre riassume l’isolamento di Israele: ha parlato di Iran, di palestinesi che non vogliono negoziati, in un’aula quasi vuota, mentre nella West Bank si sparava. Solo una forte iniziativa internazionale, forse francese e con avallo americano, può costringere le parti a trattare, e con tempi precisi, soprattutto ora che i giovani palestinesi ricorrono di nuovo alla violenza.
di Maria Grazia Enardu