Vedi Israele dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Dal punto di vista storico Israele rappresenta la realizzazione dell’obiettivo del movimento sionista, il progetto nazionale ebraico fondato come movimento politico da Theodor Herzl nel 1898 a Basilea. Israele è stato fondato il 14 maggio 1948 con una decisione del movimento sionista che aveva precedentemente accettato il progetto di spartizione territoriale proposto dalle Nazioni Unite, rifiutato invece dagli stati arabi e dai palestinesi. La lunga serie di guerre con i vicini arabi e il conflitto ‘a bassa intensità’ con vari attori palestinesi hanno determinato una situazione tale da rendere tuttora incerti i confini dello stato israeliano.
Il territorio generalmente riconosciuto a livello internazionale come israeliano, ossia quello contenuto entro le linee del cessate il fuoco del 1949 (la ‘linea verde’), ha due nuclei più consistenti a nord (la Galilea e la costa) e a sud (la Giudea meridionale e il deserto del Negev), collegati da una fascia costiera che si restringe nella zona a nord di Tel Aviv fino a circa 20 km, e si spinge con un cuneo a Gerusalemme.
Israele è una repubblica democratica e non ha una costituzione, ma una serie di leggi fondamentali che determinano la struttura istituzionale dello stato. Dal punto di vista istituzionale Israele è una repubblica parlamentare con un’unica camera, la Knesset, che ogni sette anni elegge il presidente della repubblica. La legge elettorale è di tipo proporzionale. La forma che assume la rappresentanza proporzionale dà ai partiti un particolare diritto di scelta: in Israele, infatti, l’elezione avviene su di un unico collegio nazionale a lista bloccata, con una soglia elettorale del 2%. L’ordine di lista viene determinato da ciascun partito o alleanza mediante una procedura interna; se una lista ottiene un certo numero di posti alla Knesset, i candidati saranno eletti nell’assemblea sulla base dell’ordine in cui apparivano nella lista stessa. La forma di governo è parlamentare, il primo ministro ottiene l’incarico dal presidente della repubblica e deve ottenere la fiducia della Knesset.
Popolazione, società e diritti
Il 3,9% della popolazione abita in insediamenti in Cisgiordania (Giudea e Samaria nei documenti ufficiali israeliani). La più grande città del paese è la capitale Gerusalemme, con 772.980 abitanti. La popolazione israeliana è divisa secondo molteplici linee di frattura. La prima e principale è quella tra popolazione ebraica e popolazione araba.
A sua volta la popolazione di origine ebraica presenta due fratture principali: una riguarda l’origine, l’altra l’atteggiamento rispetto al rapporto tra politica e religione. La prima è quella tra ebrei di origine europea ed ebrei di origine nord-africana e mediorientale (erroneamente detti Sefarditi, letteralmente di origine spagnola, e Ashkenaziti, letteralmente di origine tedesca, in quanto parte degli ebrei europei è sefardita). Questa frattura è stata soltanto in parte sanata da matrimoni tra uomini e donne appartenenti ai due gruppi. A questi due gruppi si aggiungono i Falascià, ebrei di origine etiope (conosciuti anche come Beta Israel), e gli ebrei russi immigrati a partire dagli anni Ottanta, ascrivibili agli Ashkenaziti. La seconda è quella tra ebrei cosìddetti ‘ultra-ortodossi’, che sostengono un sionismo di stampo religioso, e quella parte della popolazione di origine ebraica che continua a sostenere, nella tradizione del sionismo politico, una separazione tra politica e religione. Secondo l’ufficio statistico israeliano, circa l’8% degli ebrei sopra i 20 anni si dichiara ultra-ortodosso, il 12% religioso, il 39% tradizionale e il 41% laico. La maggioranza degli arabi israeliani è di religione sunnita. La popolazione araba comprende, infatti, a sua volta, l’83,8% di musulmani, il 7,9% di cristiani e l’8,2% di drusi. Gli arabi israeliani cristiani sono inoltre frazionati tra molteplici confessioni (greco-ortodossi, melchiti, membri della chiesa siriaca, cattolici latini, chiese protestanti). A Gerusalemme è presente una consistente comunità armena, che ha un suo quartiere nella città vecchia. Molte delle chiese orientali sono divise in una chiesa ortodossa e una cattolica, che mantiene i riti originari ma ha dichiarato obbedienza al papa di Roma e ha aderito al dottrinario del cattolicesimo. La comunità drusa, concentrata nella zona del Monte Carmelo, è più integrata nella vita istituzionale israeliana: per i drusi è prevista la leva obbligatoria e molti sono arruolati, in particolare nella polizia di frontiera. Tra gli arabi invece l’8% si dichiara molto religioso, il 43% religioso, il 27% non molto religioso, infine il 22% non religioso. Bisogna rilevare da ultimo che la chiusura di Gaza e la difficoltà di accedere in Israele per i palestinesi, anche di coloro residenti in Cisgiordania, hanno provocato una penuria di manodopera che ha a sua volta causato una crescente immigrazione, soprattutto dall’Asia orientale.
Ufficialmente i cittadini israeliani godono di uguali diritti, indipendentemente dalla loro religione e lingua, ma le comunità arabe ricevono servizi e istruzione di qualità inferiore alla media delle comunità ebraiche. Inoltre le comunità beduine spesso non ricevono servizi essenziali e sono soggette, secondo associazioni per i diritti umani israeliane e internazionali, a discriminazioni nel possesso della terra e nel diritto a costruire. La stampa è libera e il diritto di associazione è rispettato, anche grazie all’indipendenza della Corte suprema, che si è rifiutata di mettere fuori legge i partiti arabi.
Nel paese, infine, non esiste il matrimonio civile.
Nell’estate del 2011, sull’onda delle proteste nei vicini stati arabi, anche nelle piazze israeliane hanno avuto luogo grandi manifestazioni. Esse sono state l’espressione di un diffuso malcontento popolare a causa delle crescenti differenze socio-economiche presenti nella popolazione. Le politiche liberiste del governo, unite a una rigida separazione tra i vari gruppi sociali, hanno favorito alcuni gruppi a danno di altri, il cui tenore di vita si è abbassato.
Economia ed energia
La struttura economica di Israele rispecchia quella dei paesi sviluppati. L’economia è dominata dal settore dei servizi, che contribuiscono al pil per circa il 65% del totale, mentre l’industria rappresenta il 32,6% e l’agricoltura il 2,4%. Quest’ultimo settore è stato storicamente molto importante per l’economia israeliana, soprattutto nei primi anni della creazione del paese. Ancora oggi Israele ha nell’agricoltura un importante settore per le esportazioni, nonostante il suo lento declino. Il punto di forza dell’economia israeliana sembra però essere quello dell’industria dell’alta tecnologia, in particolare elettronica e telecomunicazioni. L’high-tech ha infatti trainato le esportazioni israeliane dal 2003 in poi. L’alta tecnologia è un fattore importante anche dell’industria della difesa: Israele è il quarto paese al mondo per esportazioni di prodotti dell’industria bellica (che costituiscono il 17% delle esportazioni totali del paese). Per ciò che concerne i servizi, invece, il settore più importante insieme a quello bancario risulta essere il turismo. Sebbene l’economia turistica sia vulnerabile rispetto alla condizione di sicurezza del paese, storicamente oscillante, l’industria del turismo è in ascesa e nel 2009 vi sono stati più di due milioni di turisti, che hanno portato un guadagno di circa 4 miliardi di dollari. Gli investimenti che il paese sta sostenendo in questo settore lasciano presagire, al netto di un peggioramento delle condizioni di sicurezza interna, un aumento dei trend in questo settore. Infine, altro settore importante e strategico nell’economia israeliana è rappresentato dall’industria diamantifera: Israele è uno dei paesi più importanti al mondo per ciò che riguarda il commercio di diamanti tagliati, insieme a Belgio e India. Il principale partner commerciale di Israele, sia per importazioni che per esportazioni, continuano a essere gli Stati Uniti.
Israele è un paese tradizionalmente dipendente dalle importazioni energetiche, che coprono oltre l’8% del fabbisogno nazionale annuo. Tale dipendenza si è dimostrata un fattore di vulnerabilità, specie nel settore del gas naturale e innanzi al cambio di regime verificatosi al Cairo. Unico fornitore di gas a Israele, l’Egitto ha sospeso nella primavera 2012, adducendo motivazioni commerciali, il contratto di fornitura in vigore con Tel Aviv, mettendo in crisi il sistema di approvvigionamento israeliano, peraltro già provato dai diversi attentati che nei mesi precedenti avevano colpito il gasdotto che collega i due paesi nell’area del Sinai.
In questo contesto, la scoperta di ingenti giacimenti off-shore nel Mediterraneo orientale potrebbe tuttavia modificare radicalmente la geopolitica regionale del gas, assicurando a Israele l’autosufficienza e consentendogli di avviare anche flussi di esportazione della risorsa. Principale ostacolo allo sfruttamento dei giacimenti – che stando alle previsioni dovrebbe portare i primi frutti già dal 2013 – è tuttavia rappresentato dalle rivendicazioni avanzate dal Libano su parte dei giacimenti, conseguenza della più ampia e spinosa questione della mancata definizione dei confini marittimi tra i due paesi.
Oltre a quella energetica, un’altra questione di grande importanza strategica per Israele e il suo futuro è quella idrica. Il paese ha nel Lago di Tiberiade la maggiore fonte di approvvigionamento idrico e ciò provoca inevitabilmente delle tensioni con la confinante Siria, dal momento che il lago si trova in parte sul territorio delle Alture del Golan, occupate e annesse da Israele, ma rivendicate da Damasco. Il problema legato alla gestione delle risorse idriche, del resto, si ripercuote anche nei rapporti con il Libano e con l’Autorità nazionale palestinese. Per sopperire alla carenza di risorse di acqua dolce sul proprio territorio, Israele ha lanciato un ambizioso piano di costruzione di impianti di desalinizzazione che dovrebbe portare a 600 milioni di metri cubi la produzione annua entro il 2015 – come primo passo per raggiungere, entro il 2050, 1,7 miliardi di metri cubi, circa la metà del consumo annuo israeliano. Il progetto ruota attorno alla costruzione di tre impianti di desalinizzazione della capacità congiunta di 400 milioni di metri cubi, il primo dei quali, presso Hadera, è entrato in funzione nel 2010.
Difesa e sicurezza
Le forze armate israeliane (Tzahal, acronimo di Tzva HaHaganah leYisrael, Forze di difesa di Israele) si basano sul sistema della coscrizione e del richiamo periodico delle riserve. Le forze attive comprendono 176.500 soldati, uomini e donne, cui possono aggiungersi fino a 565.000 unità della riserva in caso di mobilitazione – complessivamente, oltre il 10% della popolazione. Il servizio militare è obbligatorio per ebrei e drusi; cristiani e musulmani possono fare un servizio volontario. Chi non ha servito sotto le armi non si può avvalere dei vantaggi che ne derivano, per esempio in termini di borse di studio e di mutui per la casa. Tzahal mantiene un apparato militare tecnologicamente avanzato. Per esempio, l’aviazione è dotata di F-15, F-16 e F-161 Sofah, mentre l’esercito ha in dotazione il carro Merkava Mark 4, migliorato rispetto ai modelli precedenti nei sistemi di controllo del tiro, di difesa attiva e di strumentazione elettronica. Israele ha mantenuto la sua politica di ‘ambiguità nucleare’, e le cifre fornite sono quelle stimate probabili da tutti gli istituti internazionali. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), Israele avrebbe anche sperimentato il missile balistico Jericho 3, con una gittata di oltre 4000 km.
Dal punto di vista delle minacce alla sicurezza la situazione di Israele è paradossale. È infatti di gran lunga lo stato militarmente più forte dell’area, anche dal punto di vista della motivazione e dell’addestramento delle forze armate, ed è tuttavia quello con le maggiori percezioni di minaccia, che non riguardano soltanto il terrorismo, ma continuano a interessare la stessa idea di sopravvivenza dello stato e del popolo di Israele.
Tuttavia, le prove di forza in Libano, contro Hezbollah, e nella striscia di Gaza, contro Hamas, hanno da una parte confermato lo strapotere militare di Israele, dall’altra la relativa efficienza politica di tale strapotere. Infatti, nonostante la tenace resistenza opposta dalle milizie di Hezbollah e le perdite subite dai reparti israeliani, il prezzo pagato dalle milizie sciite libanesi in termini di uomini, mezzi e installazioni è stato tale da esercitare una forte azione dissuasiva per il futuro. Analogamente, sia l’operazione ‘Piombo fuso’ sia ‘Pilastro di difesa’ hanno inflitto perdite assai pesanti alla struttura militare di Hamas, tanto che successivamente il lancio di missili contro Israele è cessato. Ciò nonostante, come accadde nel 1982 in Libano, a una serie di relativi successi militari ha corrisposto una sostanziale elusione dell’obiettivo politico.
Contro la minaccia terroristica il governo israeliano ha risposto con la costruzione di un muro di separazione dai territori palestinesi, iniziata nel 2003 e più volte riveduta; in realtà si tratta non solo di un muro, ma di una barriera a più strati, tecnologicamente sofisticata. La barriera, criticata per varie ragioni sia dai palestinesi (perché ingloba territori al di là della ‘linea verde’, isola o spacca in due interi abitati, rende problematico il movimento), sia da parte del movimento dei coloni (perché implica la rinuncia al possesso di tutti i territori dal Giordano al mare), ha sicuramente ridotto quasi a zero gli attacchi terroristici dentro Israele.
La minaccia Iran, che viene spesso agitata nelle dichiarazioni ufficiali, potrebbe essere non trascurabile, in quanto una potenza nucleare nell’area mediorientale potrebbe togliere a Israele il possesso esclusivo ancorché ufficialmente ambiguo della dissuasione nucleare come ultima risorsa. Il maggiore problema di sicurezza di Israele rimane dunque la pace con i vicini, principalmente i palestinesi e la Siria, e le prospettive di pace nell’ambito mediorientale nel quadro dei mutamenti politici attuali. A tale situazione, si sono aggiunte nel 2011 le preoccupazioni derivanti dalla diffusa instabilità ai propri confini, come conseguenza dalla cosiddetta ‘primavera araba’. Anzitutto, la caduta in Egitto del regime di Mubārak, sostenuto da Israele, ha aperto nuovi scenari nelle relazioni tra i due paesi. La circostanza che l’Egitto, assieme alla Giordania, rappresenti l’unico attore arabo a riconoscere Israele e l’incertezza circa il suo futuro politico ha fatto sì che il governo israeliano percepisse tale cambio di regime come una potenziale minaccia, passibile di determinare una revisione delle relazioni bilaterali. Primo segnale d’allarme è peraltro giunto dalla decisione della giunta militare provvisoriamente al potere di riaprire il valico di Rafah, che collega la Striscia di Gaza al territorio egiziano, permettendo così agli abitanti di uscire dalla Striscia per la prima volta in quattro anni. La percezione di crescente insicurezza che sembra interessare il governo israeliano si è approfondita a seguito delle manifestazioni antigovernative registratesi in Siria. D’altra parte, tra il maggio e il giugno 2011 l’instabilità regionale ha mostrato il potenziale destabilizzante per Israele, in occasione dell’anniversario della naqba prima e della Guerra dei sei giorni poi. In entrambi i casi vi sono stati scontri tra manifestanti di origine palestinese ai confini con i Territori, con il Libano e con la Siria (sulle Alture del Golan), durante i quali l’esercito israeliano ha aperto il fuoco sui manifestanti.
Il nodo dello sfruttamento delle risorse energetiche del Mediterraneo orientale ha aggiunto un rilevante focolaio di tensione alla politica regionale, con una crescente polarizzazione degli schieramenti che vede Israele allinearsi progressivamente a Cipro – intenzionato a sfruttare le proprie risorse nonostante la dura opposizione della Turchia. Oltre ad aver siglato, nel 2010, un accordo per la demarcazione delle rispettive zone economiche esclusive marittime, Tel Aviv e Nicosia hanno firmato, nel febbraio 2012 – in occasione della prima visita di un capo di governo israeliano a Cipro – un accordo di cooperazione militare dalla profonda significatività regionale.
Prima che il sionismo si presentasse come un movimento politico, lo storico ebreo-tedesco Heinrich Graetz (1817-1891) e il filosofo Moses Hess (1812-1875) posero le basi teoriche del nazionalismo ebraico. La fase iniziale del movimento sionista, segnata dalle prime due ondate di immigrazione ebraica in Palestina (1882 e 1904) e dalla fondazione del movimento sionista sulla spinta di Theodor Herzl nel 1898, iniziò dopo i pogrom in Russia seguiti all’assassinio di Alessandro II ad opera dei decabristi. Nel 1917, con la Dichiarazione Balfour e l’occupazione inglese della Palestina, si verifica una più consistente ondata di immigrazione ebraica e, contemporaneamente, una più decisa presa di coscienza identitaria dei palestinesi (arabi), nonché una maggior valutazione del problema arabo da parte del movimento sionista. Questo periodo si conclude con i grandi scontri del 1929. Dopo questi e la grande rivolta araba del 1936-39, il conflitto arabo-ebraico in Palestina sfocia nella prima guerra arabo-israeliana (1948-49), scoppiata dopo il rifiuto arabo di riconoscere il piano delle Nazioni Unite di divisione della Palestina in due stati e la nascita di Israele. Tra il 1949 e il 1967, nonostante la guerra del 1956, si ha un periodo di sostanziale consolidamento interno del paese e di trasformazione degli attori arabi. In questa fase il conflitto arabo-israeliano è per lo più giocato da attori statuali, mentre la società e gli attori palestinesi devono assorbire lo shock della naqba, la ‘catastrofe’ del 1948.
Nel 1967 si verifica un evento decisivo per la storia del Medio Oriente, la cosiddetta Guerra dei sei giorni: Israele occupa il Sinai, la Cisgiordania e il Golan. La guerra del 1967 è uno spartiacque storico per diversi motivi:
- segna la fine del panarabismo nasseriano;
- a causa del disastro militare e politico dei regimi arabi, determina l’eliminazione della loro tutela sull’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp);
- alimenta, per ragioni opposte, il successo dei movimenti ‘fondamentalisti’: in Israele per dare un senso alla vittoria, nei paesi arabi per reagire alla sconfitta.
Il conflitto successivo è la Guerra del Kippur che ha luogo nel 1973, quando Siria ed Egitto, con un attacco a sorpresa contro Israele, cercano di ribaltare le conseguenze della guerra del 1967. Anche se sul campo le forze israeliane finiscono per conseguire dei vantaggi, si pone il problema della soluzione diplomatica del conflitto, cui si arriva parzialmente con la Pace di Camp David tra Egitto e Israele nel 1979. Dal 1979 al 1987 l’evento saliente è costituito dalla guerra in Libano, con il quale il governo Begin-Sharon cerca di eliminare l’Olp come attore militare e politico, e di mettere la Siria fuori dei giochi libanesi. Il primo obiettivo viene centrato, il secondo no. L’Olp si trasferisce a Tunisi e il governo israeliano è indebolito prima dallo scandalo delle stragi nei campi palestinesi di Sabra e Shatila, poi dalla crescita della guerriglia contro le forze israeliane, che porta, nel 1985, al graduale ritiro di queste fino a una fascia di sicurezza nel sud del Libano, abbandonata nel 2000.
Il sistema dei partiti israeliano è profondamente mutato rispetto sia a quello originario, sia a quello seguente la vittoria della destra nel 1977. Inoltre, il panorama dei partiti israeliani è molto mutevole: alleanze, fusioni, scissioni e cambiamenti di nome si susseguono con una certa frequenza. Il sistema dei partiti israeliano riflette da un lato la caratteristica di ‘stato fondato dai partiti’ che ha Israele, dall’altro le molteplici fratture presenti nella società. La prima frattura è la divisione tra partiti che sono nati in ambito sionista, o comunque in ambito ebraico, e partiti che rappresentano la minoranza araba. Questi ultimi, di nome e identità variabile, non riescono a raggiungere una rappresentanza neppur lontanamente paragonabile alla rilevanza demografica della minoranza araba stessa, e spesso sono un cartello elettorale di piccoli gruppi formatisi intorno a singole personalità. Sull’altro fronte, la principale frattura del movimento sionista si situa tra la corrente un tempo maggioritaria, di stampo socialista, e la corrente minoritaria o revisionista, caratterizzata da un nazionalismo radicale e da una posizione liberista in politica economica. Tale frattura si rispecchia tuttora nella contrapposizione tra il Partito del lavoro e il Likud, per molte legislature, da soli o in coalizione, i due più consistenti partiti in Israele. Il primo, letteralmente Partito israeliano del lavoro (Mifleget ha-‘Avoda ha-Yisra’ elit) è detto usualmente Ha`Ávoda in Israele e all’estero Labour Party. È parte dell’internazionale socialista. Si è indebolito non solo per un lento ma inesorabile declino, ma anche a causa della defezione di esponenti di grande rilievo come gli ex primi ministri Shimon Peres, passato al gruppo centrista Kadima, e Ehud Barak, che ha fondato un suo nuovo gruppo detto Indipendenza (Si’at Ha’atzmaut). La sinistra sionista socialista (in origine marxista), un tempo forte, si è assai ridotta ed è espressa dal Meretz-Yachad (‘energia-unione’ in ebraico, ma ‘Meretz’ è anche l’acronimo di Mapam e Ratz, i due partiti costituenti oltre allo Shinui), derivante dalla fusione del vecchio partito socialista di sinistra, il Mapam, con altri piccoli partiti e gruppi. Il partito comunista (Hadash dal 1977) è arabo-ebraico, ma con un elettorato prevalentemente arabo, e si colloca all’estrema sinistra non sionista. I primi trenta anni di Israele hanno visto una prevalenza della sinistra (escludendo ovviamente i comunisti). Le elezioni del 1977 hanno visto il successo della destra, come quelle successive, e fino alle elezioni del 2001 si è avuto un certo grado di alternanza, con una prevalenza della destra del Likud e alcuni episodi di governi di unità nazionale. Il Likud (‘consolidamento’) si formò in vista delle elezioni del 1974 con la fusione dello Herut (‘libertà’), erede del revisionismo sionista, e di altri partiti di destra. Con il processo di pace, la frattura destra-sinistra si è riconfermata sulla questione delle trattative con i palestinesi, con i laburisti come fulcro di una coalizione favorevole alla trattativa con i palestinesi basata sul principio ‘Land for peace’. I partiti religiosi si sono formati fin dall’inizio dello stato, ma all’inizio si preoccupavano soprattutto della conformità della legislazione israeliana alla religione in alcuni settori, come il diritto della famiglia o il rispetto delle feste, e di alcuni privilegi degli studenti delle scuole rabbiniche. La crescita e la trasformazione dei partiti religiosi e/o di appartenenza ‘etnica’ ha modificato il semplice orientamento destra-sinistra del sistema dei partiti israeliano. A partire dal 1967 i partiti religiosi si sono infatti orientati alla rappresentanza degli ultraortodossi e dei coloni sui territori occupati. Per esempio il Partito nazionale religioso (Mafdal, acronimo di Miflaga Datit Le’umit) si alleava negli anni Cinquanta anche con i laburisti, ma successivamente la sua agenda di sostegno allo sviluppo degli insediamenti ‘in tutta la Terra di Israele in realizzazione del precetto divino’ lo ha portato a entrare in coalizioni di destra. Degel Hatorah/Degel HaTorah (‘Stendardo della Torah’) e Agudat Yisra’el (‘Unione di Israele’) sono partiti ortodossi che si interessano a temi religiosi, ma dall’inizio del processo di pace si sono posti sulla destra dello schieramento. Si è poi formato lo Shas (1984), un partito religioso/etnico derivato da una scissione in Agudat Yisra’el, che si è alleato sia a destra che a sinistra, e rappresenta gli ebrei ortodossi sefarditi-orientali. A questo si sono poi aggiunti i partiti che rappresentano gli ebrei russi immigrati dagli anni Ottanta, come Yisra’el Beitenu, fondato dal discusso Avigdor Liebermann, che si colloca nettamente sulla destra dello spettro politico, rifiuta il principio ‘Land for peace’ e propone perfino scambi di territorio abitato da arabi con i palestinesi e una severa legge sulla cittadinanza. Il quadro è stato definitivamente frammentato dalla costituzione del partito centrista Kadima, fondato da Ariel Sharon, cui hanno aderito anche personalità del Partito del lavoro come Shimon Peres, con la prospettiva – fallita – di creare nel sistema politico israeliano una sorta di forza centripeta. La frammentazione del sistema dei partiti pone un problema di governabilità, ma la prospettiva di una riforma della politica e di una riaggregazione paiono allo stato attuale lontane.
Dal 1987 al 2000 si apre la fase diplomaticamente più dinamica dei rapporti arabo-israeliani. Dopo l’inizio della prima intifada (dicembre 1987) si pone chiaramente il problema di una soluzione politica che non escluda l’Olp. Le condizioni maturano dopo la Guerra del Golfo (1991), con il processo di pace che inizia a Madrid l’ottobre dello stesso anno, da cui è escluso l’Olp. I tavoli di trattativa apertisi a Madrid portano nel 1994 al trattato di pace tra Israele e Giordania. Trattative segrete parallele condotte tra Israele e l’Olp portano prima alla Dichiarazione di princìpi (1993), con cui Israele e Olp si riconoscono mutuamente, poi alla divisione dei territori occupati in tre zone: le città palestinesi, sotto controllo di una nuova Autorità nazionale palestinese (Anp) (zona A), una seconda zona di controllo amministrativo palestinese, la cui sicurezza è sotto controllo israeliano (zona B), una terza zona (zona C, che comprende gli insediamenti) sotto controllo totale israeliano. L’assassinio di Yitzhak Rabin da parte di un estremista israeliano e una campagna di attentati suicidi da parte di Hamas portano alla vittoria nel 1996 Benjamin Netanyahu, con cui il processo si blocca. I problemi sul tappeto sono i confini, e quindi la sorte degli insediamenti israeliani nei territori occupati, le risorse idriche, Gerusalemme e il problema dei rifugiati. Mentre sugli altri problemi le posizioni sembravano avvicinarsi, proprio sulla questione dei profughi le posizioni sono sempre rimaste lontane. Il governo di centro-sinistra presieduto da Ehud Barak non riesce a sbloccare le trattative, e dopo una nuova tornata di negoziati senza esito esplode la seconda intifada o al-Aqsa Intifada. A seguito di più ondate di terrorismo suicida, ad opera soprattutto di Hamas, la decisione di Ariel Sharon di riprendere il controllo di tutti i territori palestinesi prima (2003), poi di abbandonare Gaza senza coinvolgere l’Anp (2005), porta a un nuovo stallo diplomatico. Per uscire dall’impasse è stata definita una Road Map, cioè un percorso politico e diplomatico, la cui mediazione è stata affidata al quartetto Usa, Russia, Unione Europea e Nazioni Unite, ma spesso la fatica della mediazione è stata lasciata alla presidenza e al Dipartimento di stato americani. Infine, la divisione palestinese tra Hamas, più forte a Gaza, e l’Anp, più forte in Cisgiordania, è stata irrigidita da una breve e sanguinosa guerra civile. Infatti dopo le elezioni palestinesi del 2006, vinte da Hamas, si è avuta nel 2007 una sanguinosa resa dei conti tra le fazioni, che si sono impadronite ciascuna della sua roccaforte. Nell’estate del 2006 le forze armate israeliane invadono il Libano meridionale per cercare di sradicare la forza politico-militare di Hezbollah. Le milizie sciite libanesi, pur subendo pesanti perdite, resistono senza crollare. Il risultato è una moderazione militare di Hezbollah, ottenuta al prezzo di un suo rafforzato prestigio politico in Libano. Sul campo, nel Libano meridionale alle milizie sciite si sostituisce un contingente delle Nazioni Unite. Tra il 2008 e il 2009 si svolge l’operazione contro Gaza, anche questa di difficile valutazione. Le pesanti perdite inflitte alle forze paramilitari di Hamas e la cessazione degli attacchi missilistici non sembrano infatti portare a risultati politici definitivi, mentre i rapporti internazionali gettano più di un dubbio sulla condotta dell’esercito israeliano nell’operazione. Infine, l’operazione condotta nel novembre 2012 e denominata ‘Pilastro di difesa’ ha avuto esiti controversi. Lanciata alla vigilia delle elezioni del 2013 dal governo Netanyahu, essa si è trasformata in un successo politico per Hamas, che è riuscita, attraverso la mediazione del nuovo presidente egiziano Mohammed Mursi, ad ottenere delle condizioni assai favorevoli per il ‘cessate il fuoco’. Fra queste la più importante è stata l’autorizzazione alla riapertura dei valichi per Gaza. Questa mossa ha permesso alla leadership di Hamas di affermare di aver ottenuto la fine del blocco della Striscia che perdurava dalla sua presa al potere del 2007.