Arte marziale e tipo di lotta praticata anche come mezzo di difesa personale. Fondato sui principi dell’equilibrio e della non resistenza all’avversario, il j. («via della cedevolezza») fu codificato nel 1882 dal maestro J. Kano. Dal Kodokan (una specie di università del j.) da lui fondato a Tokyo, il j. si diffuse anche in Occidente. Originariamente il j. si prefiggeva non solo di dare ai suoi adepti un temibile strumento di difesa, ma di insegnare, attraverso un lungo tirocinio anche spirituale, una dottrina: raggiungere, con la padronanza del proprio corpo, il dominio delle emozioni; dimostrare l’inutilità della forza fisica di fronte alla padronanza della tecnica ecc.
Con la sua introduzione in Occidente il j. ha gradualmente perso il carattere quasi religioso, accentuando sempre più l’aspetto agonistico. L’apprendimento del j. richiede una lunga e costante pratica. A seconda dell’abilità conseguita, i praticanti (judoisti o judoka) sono classificati per gradi, kyu per gli allievi, dan per i maestri, e si distinguono dal colore della cintura: bianca, gialla, arancione, verde, blu, marrone per i primi; per i secondi, nera fino al 5° dan, a bande verticali bianche e rosse fino all’8° dan, tutta rossa per il 9° e 10° dan. Le varie azioni di un combattimento si distinguono in: proiezioni (fig. A-D), divise in lanci dalla posizione eretta e «tecniche di sacrificio» che comportano la caduta anche dell’attaccante; immobilizzazioni (fig. E); tecniche di strangolamento (fig. F), prese che costringono l’avversario al suolo (fig. G).
L’attuale regolamento di arbitraggio del j. è stato approvato dalla International Judo Federation nel febbraio 1998. L’area di combattimento, ricoperta di tatami, misura minimo 8×8 m e massimo 10×10 m. I combattenti indossano il judogi. La durata dei combattimenti alle Olimpiadi e ai Campionati mondiali è di 5 minuti effettivi per gli uomini, di 4 per le donne. Uomini e donne gareggiano nelle classi juniores (17-19 anni), seniores (20-35 anni) e master (36-50 anni), divisi in sette categorie di peso. Durante la gara, diretta da un arbitro e due giudici, ai concorrenti vengono assegnati punteggi (in ordine crescente: koka, yuko, waza-ari, ippon) o comminate sanzioni (shido, chui, keikoku, hansoku-make). Un concorrente vince se è in vantaggio sull’avversario allo scadere del tempo regolamentare, oppure prima dello scadere se ottiene un ippon, o due waza-ari (waza-ari-awansete-ippon, cioè somma di waza-ari), o un waza-ari e il suo avversario è sanzionato con keikoku (sogo-gachi, cioè vittoria composta), o il suo avversario è sanzionato con hansoku-make (squalifica). Se risulta impossibile stabilire la superiorità di un concorrente sull’altro, si decreta hiki-wake (parità).
In Italia il j. fu introdotto intorno al 1920 da Carlo Oletti; nel 1925 fu fondata la Federazione italiana di lotta giapponese, assorbita poi dalla Federazione italiana lotta, pesistica e judo (FILPJ), che tuttora lo disciplina. Ha avuto una crescente diffusione fino a contare centinaia di palestre e migliaia di praticanti. I primi campionati nazionali si disputarono a Lanciano nel 1948. Tra i migliori atleti italiani: E. Gamba, campione olimpico (1980) ed europeo (1982), e i campioni europei N. Tempesta (1960, 1961) e F. Mariani (1978, 1979, 1980). In campo femminile si sono distinte M. De Cal, M.T. Motta, A. Giungi, E. Pierantozzi, vincitrici di diversi titoli europei e mondiali tra il 1980 e il 1991.
Il j., presente a scopo dimostrativo per la prima volta ai Giochi olimpici di Tokyo (1964) in quanto sport nazionale del Giappone, è stato definitivamente ammesso all’Olimpiade di Monaco 1972 (quello femminile dai Giochi di Barcellona 1992). In campo internazionale, all’iniziale dominio giapponese e coreano si è affiancato il successo di atleti europei e cubani.