DISTOPICA, LETTERATURA
Mondo occidentale. Distopia e apocalisse: definizioni. L’Apocalisse dell’(in-)umano. Bibliografia. Mondo arabo. Bibliografia
Mondo occidentale di Giuseppe Panella. – Distopia e apocalisse: definizioni. – Il grande successo del romanzo The circle (2013) di Dave Eggers permette di mettere a fuoco il discorso sulla distopia letteraria e la sua evoluzione nel corso dei primi anni del Duemila, usando termini di riferimento più precisi di quanto si potesse fare all’alba del nuovo secolo.
Nella narrazione fluida e concitata di Eggers, il Grande Fratello della tradizione orwelliana, resuscitato alla fine del secolo scorso nei modi più diversi (soprattutto in tele visione), trova la propria dimensione finale nella rete di informazioni che avvolge il pianeta, manipolando le opinioni degli esseri umani e abolendo ogni forma di divisione possibile tra interno ed esterno della soggettività. Mae Holland, la giovane protagonista del romanzo, laureata in psicologia ed ex impiegata dell’azienda del gas, viene assunta nel Cerchio, la più grande azienda mondiale nell’elaborazione delle informazioni web (tra cui i big data) e il frutto di un’operazione economica e sociale proiettata radicalmente nel futuro. Le migliori giovani menti del presente sono state cooptate e inglobate in questo progetto gigantesco.
L’azienda si presenta come un mondo a parte, con un sistema di uffici e laboratori in open space futuristici, un’area mensa di nove piani, mattonelle con scritte incoraggianti («Sogna», «Innova», «Respira»), palestre e piscine su quasi tutti i piani, campi da tennis, feste e pic-nic organizzati per le feste e gli anniversari, tavoli da ping pong negli uffici per ridurre lo stress, zone di riposo che diventano camere da letto per chi si trattiene al lavoro, centri di rilassamento yoga, un night club e crooners degli anni Settanta che cantano in diretta nei corridoi, una biblioteca, una fontana firmata dall’architetto spagnolo Santiago Calatrava e persino un acquario di pesci tropicali. Tutto questo avviene in un ambiente di assoluta trasparenza: tutto è visibile e nessuno può nascondersi (come nel Panopticon, il carcere progettato da Jeremy Bentham nel 1791). Mae Holland, il giorno in cui entra per la prima volta nei locali dell’azienda, crede di aver trovato una sorta di Paradiso in terra, la realizzazione di un’utopia mai proposta prima nel mondo del lavoro. Ma c’è una condizione fondamentale per essere assunti: rinunciare alla propria privacy, acconsentire a un regime di trasparenza assoluta, comunicare sul web ogni propria esperienza personale, vivere in streaming tutte le vicende della propria esistenza. Si tratta di trasformare in condivisione tutti gli eventi, anche i più intimi, della propria vita personale.
Le videocamere SeeChange la riprendono in tutti i momenti della sua giornata, e lo stesso compito di seguirla continuamente è affidato al social network TruYou, i cui algoritmi hanno combinato tutte le informazioni su di lei presenti on-line insieme a quelle di milioni di altri utenti in un unico big database. In un primo tempo, la ragazza accetta con vero entusiasmo le regole dell’azienda che le sembra ben superiore in quanto mondo virtuale rispetto a quello vero. Ma poi il suo livello di gradimento della situazione scende e nella sua mente si produce quella che Eggers definisce «una lacrima nera». Tutto questo metterà Mae in uno stato di forte disagio personale che esploderà quando un suo ex collega le farà intravedere il disegno che muove le mosse di Tom Stenton, il capitalista espansivo, Bailey, il comunicatore più efficace della ditta, e Ty Gospodinov, il genio informatico di 25 anni che è disastroso nei rapporti interpersonali (come Mark Zuckenberg, il fondatore di Facebook). Si tratterebbe, infatti, di instaurare un nuovo totalitarismo molto più radicale di quello voluto dal Grande Fratello di George Orwell perché basato sulla gratificazione e il benessere personale piuttosto che sulla coercizione psicologica. Mae capisce così che crollando la barriera tra pubblico e privato, gli uomini sarebbero completamente esposti al controllo e al comando di pochi: da qui la sua rivolta.
L’esperimento attuato nel Cerchio va ben oltre il Big Brother orwelliano perché investe la sfera interiore dei pensieri e dei desideri e soprattutto viene accettato entusiasticamente dai suoi protagonisti-vittime (a differenza di quello che accade – solo per fare un esempio – in film come The Truman show di Peter Weir del 1998, brillantemente sceneggiato da Andrew Niccol, dove la partecipazione al reality da parte del protagonista è del tutto inconsapevole e la sua presa di coscienza finale mette fine all’esperimento): tutto è sotto gli occhi di tutti e il mondo sembra divenuto un enorme social network.
Il ritorno della dimensione distopica letta e temuta sotto forma di assoluta invasività da parte dei social network costituisce un possibile e forte rilancio di una tradizione che sembrava ormai tramontata dopo gli eventi politicamente più rilevanti di fine secolo e di inizio millennio.
Sarà opportuno, quindi, chiarire la differenza fondamentale che esiste tra le diverse forme della l. d. e il filone della fantascienza postapocalittica (così come viene definita la narrativa che descrive ciò che potrebbe accadere dopo grandi catastrofi di tipo ecologico o come conseguenza di una guerra atomica totale).
In realtà, l’aspetto più propriamente distopico della narrazione del futuro prossimo venturo ingloba quasi sempre al suo interno la dimensione apocalittica e rende quest’ultima, di conseguenza, un sottogenere in cui aspetti della distopia letteraria propriamente detta compaiono in forma esemplare ed esplicitamente connotati in senso catastrofistico, disumanizzato ed emotivamente spietato.
Una delle caratteristiche principali delle distopie, infatti, è l’accentuazione dell’aspetto umanistico della polemica sociopolitica contenuta in esse (il richiamo è a opere come 1984 di Orwell o Brave new world di Aldous Huxley), mentre nella dimensione postapocalittica la crisi del soggetto e delle sue caratteristiche considerate tradizionali (solidarietà, altruismo, capacità di provare sentimenti di qualche tipo nei confronti degli altri componenti della società) è ormai precipitata come in una soluzione satura e non trova luogo a procedere tra le figure sociali rappresentate nell’opera letteraria. Il prefisso dis (cattivo, malvagio), infatti, rende perfettamente il rovesciamento dell’u-topia quale eu-topia (cioè il ‘luogo buono’ in cui preferibilmente andare a vivere) nel suo esatto contrario. La distopia è, allora, l’odio-amore per un’utopia che si vede realizzata in una modalità del tutto opposta a quella che si sarebbe voluta ottenere. Le tradizionali utopie in cui si raggiungeva un elevato livello di perfezione grazie alla messa in opera di accorte forme di armonia istituzionale vengono tutte sostituite da situazioni in cui, pur permanendo la forza del potere dello Stato come strumento di dominio, il risultato che si raggiunge non è la felicità dell’umanità, ma la sua assoluta e sconsolata sconfitta.
Solo con l’emergere di ciò che oggi viene definito posthuman sarà possibile un superamento in positivo di quell’orizzonte. È questa la novità contenuta nelle correnti letterarie della seconda metà del Novecento che troverà nell’opera letteraria di James G. Ballard più legata alla fantascienza catastrofistica o nel cyberpunk di William Gibson, di Bruce Sterling e degli altri autori contenuti nell’antologia Mirrorshades del 1986 gli antesignani della sua attuale evoluzione narrativa. Ma se tutti i romanzi distopici della prima metà del Novecento si erano proposti di mettere in scena il sogno dell’utopia possibile come qualcosa di compiutamente realizzato e di compiutamente devastante era perché i sogni a essa legati si erano infranti.
L’Apocalisse dell’(in-)umano. – Apocalisse, Armageddon, disastro irreversibile sono i termini che ritornano continuamente in quella che si è convenuto definire letteratura postapocalittica, riecheggiando temi un tempo cari alla vicenda politica mondiale legata com’era allo scontro tra le due superpotenze Stati Uniti e Unione Sovietica, all’epoca uniche detentrici di un potenziale atomico in grado di distruggere più volte l’orbe terrestre (Urbanski 2007; Paik 2010; Dystopia(n) matters 2013). La prospettiva della guerra nucleare evocava negli scrittori socialmente e politicamente avvertiti l’incubo e la possibile vicinanza della distruzione del pianeta nonché la necessità da parte degli eventuali sopravvissuti di riorganizzare sulla Terra forme simili, se non necessariamente migliori, di quelle precedenti. La letteratura di anticipazione, di conseguenza, ha cercato di descrivere, spesso minuziosamente, quello che sarebbe accaduto all’alba della fine del mondo o spesso anche dopo, soffermandosi a frugare tra le macerie del paesaggio postatomico immediatamente successivo o tra i resti dell’umanità dolente e inferocita, stravolta e devastata che ne era il frutto diretto e determinato. Tutti i grandi autori di fantascienza ci hanno provato fornendo affascinanti quanto pessimistiche e durature visioni di un Altro quando che assomigliava terribilmente alla realtà del presente.
In quegli anni, gli scrittori di science-fiction accentuavano il senso della catastrofe incombente sulla Terra. Allo stesso modo, il timore della grande invasione proveniente dall’Est o del ‘pericolo giallo’ popolava, così come il timore della contaminazione razziale a opera dei negroes, i sogni diurni dei wasps americani (Sharp 2007). Alla svolta del secolo, tuttavia, le inquietudini che attraversano la letteratura postapocalittica sono divenute altre, anche se altrettanto impressionanti. Certamente il timore di una catastrofe ecologica o dovuta a un’epidemia di provenienza misteriosa è rimasto inalterato e continua a popolare le pagine di scrittori anche non esclusivamente legati al genere. Ne sono esempi illuminanti Ensaio sobre a Cegueira (1995; trad. it. Cecità, 1996) del premio Nobel José Saramago, che racconta di un’epidemia di cecità che devasta una grande città mai nominata dell’Occidente, e il capolavoro di Cormac McCarthy, The road (2006; trad. it. La strada, 2007), vincitore del premio Pulitzer per l’anno successivo. In questo romanzo di grande forza espressiva e di impressionante visionarietà, un Padre e un Figlio senza nome (la Madre si era precedentemente suicidata per disperazione) si aggirano in un paesaggio reso desertico da un evento catastrofico non ben specificato (forse una guerra nucleare), cercando di raggiungere il mare e una possibile salvezza. Durante il percorso, incontrano torme di uomini imbarbariti e violenti che praticano il cannibalismo e tengono in catene altri esseri umani per mangiarli. Sfuggiti al pericolo e alla fame sempre incombente e ad attacchi di altri sopravvissuti, giungono in una località più ospitale dove però il Padre muore lasciando un messaggio di speranza («custodire il fuoco») al suo ragazzo, affidato ad altri superstiti. Anche Margaret Atwood nel suo Oryx and Crake (2003; trad. it. L’ultimo degli uomini, 2003) racconta di come la Terra, devastata da un cataclisma dovuto all’inquinamento e al riscaldamento globale, risulti popolata da misteriosi animali mutanti. La scrittrice canadese, che già nel 1985 aveva dato un notevole contributo alla l. d. con The handmaid’s tale (trad. it. Il racconto dell’ancella, 1988), storia di un mondo governato da una teocrazia totalitaria presieduta da un’oligarchia tirannica in cui le donne sono asservite a principi di pura riproduttività imposta dal Potere, ha configurato nella sua MaddAddam trilogy (oltre al già citato primo volume del 2003, sono usciti The year of the flood, 2009, trad. it. L’anno del diluvio, 2010; e MaddAddam, 2013, trad. it. L’altro inizio, 2014) un paesaggio terrestre devastato dalla catastrofe biologica che ha distrutto i fondamenti del vivere associato.
Anche nella sua dimensione più propriamente fantapolitica e quindi maggiormente legata ai generi paraletterari, la prospettiva appare profondamente mutata.
La caduta del muro di Berlino nel 1989 e la fine dell’esperienza del ‘socialismo reale’ hanno reso inattuale la prospettiva vigente negli anni della Guerra fredda dello scontro armato tra blocchi ideologicamente e militarmente con trapposti e la fine del mondo nell’olocausto di un conflitto nucleare. Il crollo delle Twin Towers avvenuto l’11 settembre 2001 a Manhattan e gli attentati a esso collegati (chiunque possa esserne stato effettivamente l’esecutore) hanno cambiato radicalmente non solo la prospettiva geopolitica del pianeta, ma anche le prospettive della narrativa di genere.
Ne è un esempio significativo la Spook trilogy di uno dei padri della narrativa cyberpunk, William Gibson: nei tre volumi che la compongono (Pattern recognition, 2003, trad. it. L’accademia dei sogni, 2004; Spook country, 2007, trad. it. Guerreros, 2008; Zero history, 2010, trad. it. 2012), poiché, dopo l’11 settembre, l’America non è più al centro della vita economica e industriale, il tema della globalizzazione e dello spionaggio industriale viene letto in chiave di fantapolitica. Vi si ritrova, inoltre, la sensazione di un controllo da parte di osservatori occulti e di una ossessione per la sicurezza nazionale che modifica i rapporti personali e intimi (il secondo volume della trilogia si intitola Spook country proprio per l’onnipresenza di queste forme di controllo).
In Harm (2007) di Brian Aldiss, che racconta la paura dell’immigrazione araba in una Londra attuale, l’acronimo del titolo indica Hostile Activities Research Ministry (Ministero per la ricerca delle attività ostili), un servizio della sicurezza nazionale che ha sostituito la polizia in situazioni di emergenza e procede al sequestro e alla tortura dei cittadini musulmani.
Nel romanzo di Ken MacLeod The execution channel (2007), la paura dell’immigrazione araba nella Londra del presente porta a un livello di condizionamento costante (il titolo allude a un canale televisivo che manda in onda ininterrottamente immagini di tortura eseguite da militari non identificati su prigionieri altrettanto non identificati).
Invece, in The windup girl (2009), dello statunitense di origine italiana Paolo Bacigalupi, Thailandia e Sud-Est asiatico sono il centro del nuovo mondo economico e la loro fortuna si basa sull’utilizzazione di brevetti di organismi geneticamente modificati (dalle piante agli esseri umani).
Ma non è solo nel mondo anglosassone che si può incontrare la paura dell’Apocalisse una volta girato l’angolo della strada del secolo. In ambito italiano, basterà citare la lunga serie dei romanzi postapocalittici di Alan D. Altieri (alias Sergio Altieri) per rendersene conto. L’ultimo, Juggernaut.Terminal war. La guerra conclusiva è cominciata (2013), ne è la dimostrazione narrativa anche se analoghe situazioni sono presenti in tutti i suoi romanzi di carattere distopico ambientati in un mondo in disfacimento.
Bibliografia: Dark horizons. Science fiction and the dystopian imagination, ed. R. Baccolini, T. Moylan, New York-London 2003; Imagining the future. Utopia and dystopia, ed. A. Milner, M. Ryan, R. Savage, Melbourne 2006; P.B. Sharp, Savage perils. Racial frontiers and nuclear apocalypse in American culture, Norman (Okla.) 2007; H. Urbanski, Plagues, apocalypses and bug-eyed monsters. How speculative fiction shows us our nightmares, Jefferson (N.C.) 2007; P.Y. Paik, From utopia to apocalypse. Science fiction and the politics of catastrophe, Minneapolis 2010; P. Williams, Race, ethnicity and nuclear war. Representations of nuclear weapons and post-apocalyptic worlds, Liverpool 2011; H.P. Segal, Utopias. A brief history from ancient writings to virtual communities, Malden (Mass.) 2012; Future wars. The anticipations and the fears, ed. D. Seed, Liverpool 2012; D. Seed, Under the shadow. The atomic bomb and cold war narratives, Kent (Ohio) 2013; Dystopia(n) matters. On the page, on screen, on stage, ed. F. Vieira, Cambridge 2013.
La bibliografia è a cura di Riccardo Gramantieri che qui si ringrazia.
Mondo arabo di Ada Barbaro. – La cultura araba, e in particolar modo quella musulmana, è, per certi aspetti, pervasa da un senso di imminente apocalisse caratteristico di molte scuole di pensiero che si collocano cronologicamente, per quel che concerne l’epoca contemporanea, a partire dalla rivolta della Mecca nel 1979 sino alla seconda guerra del Golfo (2003), passando attraverso le azioni terroristiche messe in atto da al-Qā῾ida. Si tratta di fenomeni culturali che vanno a rielaborare alcuni elementi della tradizione coranica, fondendoli con aspetti rilevabili in altre culture. In questo contesto, da un punto di vista letterario, si inserisce il sorgere del filone artistico della distopia (naqīḍ al-yūtūbiyā, letteralmente «antiutopia»). Sottogenere della produzione narrativa ascrivibile alla fantascienza (al-ḫayāl al-῾ilmī), le cui origini risalgono alla seconda metà del secolo scorso, la moderna narrativa distopica in lingua araba trova antecedenti in Ahl al-safīnah (1934, La gente della nave) dello scrittore marocchino Muḥammad ibn ῾Abd Allāh al-Muwaqqit al-Marrākūšī (1895-1949) come nella pièce Riḥlah ilà al-ġad (1958, Viaggio nel futuro) di Tawfīq al-Ḥakīm (1898-1987), passando attraverso l’ancor più rappresentativa al-Sayyid min ḥaql alsabānaḫ (1987, Il signore venuto dal campo di spinaci) dell’egiziano Ṣabrī Mūsà (n. 1932): in quest’ultimo romanzo, in particolare, si assiste alla concreta realizzazione di una società futuristica, in un pianeta situato altrove nel tempo e nello spazio, dove la meccanicizzazione di ogni aspetto del quotidiano fa sì che il lettore sia condotto a un ripensamento del tanto agognato progresso. Sulle stesse fila della distopia si muove anche il romanzo al-Ḥubb al-mustaḥīl (1999, L’amore impossibile) dello scrittore mauritano Mūsà Wuld Ibnū (n. 1956), il cui topos è costituito dalla descrizione della vita in un immaginario altrove, dove il meccanismo della riproduzione è affidato alle macchine.
Nell’epoca contemporanea uno dei punti di snodo è rappresentato anche qui dall’attacco terroristico alle Twin Towers dell’11 settembre 2001: la produzione narrativa in lingua araba classificabile all’interno del genere distopico ne è stata chiaramente influenzata. Lo scontro tra civiltà già riscontrabile in altre pubblicazioni ha trovato costruzioni narrative originali, riuscito connubio tra eventi della politica contemporanea (sia successivi sia coevi all’11 settembre) e il filone della narrativa apocalittica. L’Armageddon preannunciata in moltissimi testi religiosi appartenenti alla medievistica musulmana pare realizzarsi all’indomani del 2001, quando si concretizzano eventi che un tempo si pensavano solo potenzialmente verificabili. Fantasie apocalittiche e storie di disastri, con riferimento esplicito all’11 settembre, sono quindi il perno intorno a cui ruota un romanzo del 2003 dello scrittore siriano Ṭālib ῾Umrān (n. 1948): in al-Azmān al-muẓlimah (I tempi cupi) l’umanità è totalmente annientata dalla caccia al terrore. Senza assolvere responsabili ed esecutori delle azioni di al-Qā῾ida, al-Azmān al-muẓlimah si configura come una sorta di technothriller in cui l’autore è pronto a condannare anche le spietate azioni di sommaria caccia al terrore condotte da un’enigma tica ‘Superpotenza’. Ṭālib ῾Umrān, già autore di al-῾Ābirūn ḫalfa al-Šams (1979, Coloro che attraversano il Sole), un romanzo in cui si mescolano visioni utopistiche e scenari apocalittici, con i suoi ‘tempi cupi’ consegna alle stampe una singolare opera di denuncia anche sulle condizioni di vita dei prigionieri di Guantanamo.
Le devastazioni materiali conseguenti a un mal interpretato progresso sono invece alla base di Ğuġrāfiyat al-mā᾿ (Geografia dell’acqua), un romanzo del 2009 a metà strada tra la distopia e la narrativa apocalittica. L’autore, lo yemenita ῾Abd al-Nāṣir Muǧallī, disegna un’immaginaria geografia della scomparsa dell’acqua sul pianeta Terra. In undici capitoli costruiti sotto forma di diario, vengono descritte le vicende che coinvolgono Muḥammad, biologo, le cui ricerche accademiche sono correlate al fenomeno che sta mettendo a repentaglio la vita sulla superficie terrestre. La scomparsa dell’acqua è dovuta al Pianeta bianco che, sotto la minaccia di imminente liquefazione causata dai vapori prodotti dall’inquinamento terrestre, decide di procedere con questa sottrazione delle risorse idriche, provocando il dilagare di un conseguente clima di devastazione e corruzione fisica e morale. Il romanzo è dunque segnato da scenari apocalittici che, calati nel contesto cui l’autore appartiene, sembrano avvalorare la tesi di alcuni studiosi che sostengono la presenza di un’aurea di giudizio divino celata dietro le devastazioni descritte.
A metà strada tra la catastrophic fiction e la distopia si collocano due racconti firmati dagli egiziani Muḥammad alSuyyūṭī e Hānī ῾Abd al-Raḥmān al-Qaṭṭ. In al-Rūlīt al-ṭibbī (2010, La roulette medica), di al-Suyyūṭī, compare una nuova realizzazione di una futuristica realtà distopica generata dalla rivalità umana; il racconto di al-Qaṭṭ, invece, significativamente intitolato Dumū῾ Albert Einstein (2010, Le lacrime di Albert Einstein), si configura come un monito all’essere umano circa lo stato di decadenza provocato dallo sviluppo scientifico. Il panorama della l. d. in lingua araba appare segnato anche dal romanzo Yūtūbiyā (2008) dell’egiziano Aḥmad Ḫālid Tawfīq (n. 1962), scritto che secondo alcuni ha preannunciato la ‘primavera’ egiziana del gennaio 2011. Ambientata nel 2030, l’opera percorre i sentieri della metafora politica descrivendo il confronto tra due mondi: da una parte le colonie dell’immaginaria Utopia, protetta dai marines, dall’altra i derelitti della società per i quali Utopia rimane solo una chimera. Più recente è invece Ağwān, della scrittrice degli Emirati Nūrah al-Nūmān. Scritto nel 2012, il romanzo è incentrato sulle vicende di Ağwān, una diciannovenne giunta da un pianeta popolato da creature che respirano l’acqua e costretta alla fuga dalla sua terra, distrutta da un disastro naturale. Qui l’elemento distopico si intreccia, da una parte, con l’ecofilia, e, dall’altra, con la narrativa apocalittica incentrata sulle catastrofi naturali generate dal progresso. A metà tra la distopia politica e il romanzo fantascientifico si colloca infine l’opera Bāb al-ḫurūğ (2012, Portad’uscita) di ‘Izz al-Dīn Šukrī Fišīr (n. 1966): travolto dagli eventi politici a lui coevi, lo scrittore egiziano incentra la sua trama sulla descrizione delle operazioni della polizia volte a fermare il sorgere di costruzioni illegali e che gettano il Paese in un vero e proprio caos dal quale sembra non esserci, per l’appunto, alcuna via d’uscita.
Bibliografia: D. Suvin, Metamorphoses of science fiction. On the poetics and history of a literary genre, New Haven-London 1979 (trad. it. 1985); D. Guardamagna, Analisi dell’incubo. L’utopia negativa da Swift alla fantascienza, Roma 1980; Dark horizons. Science fiction and the dystopian imagination, ed. R. Baccolini, T. Moylan, New York 2003; M. Angenot, Rhétorique de l’anti-socialisme. Essai d’histoire discursive 1830-1917, Saint-Nicolas 2004; A companion to science fiction, ed. D. Seed, Malden (Mass.)-Oxford 2005; J.-P. Filiu, L’apocalypse dans l’islam, Paris 2008 (trad.it. Milano 2011); A. Ḫālid Tawfīq, Ḫayāl ῾ilmī ῾arabī: hal huwaḫayāl ῾ilmī? (Fantascienza araba: è fantascienza?), «al-‘Arabī», 2010,624, pp. 108-25; A. Ḫālid Tawfīq, Utopia, trad. ingl. dall’arabo di C. Rossetti, New York 2011; A. Barbaro, La fantascienza nella letteratura araba, Roma 2013.