Vedi Libia dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Il 17 febbraio 2011, giornata di proteste contro il regime di Mu‘ammar Gheddafi, al potere dal 1° settembre 1969, ha dato il via al conflitto interno al paese, che è terminato definitivamente il 20 ottobre dello stesso anno quando il leader libico è stato ucciso a Sirte, sua località natale. La lunga fase di transizione della Libia, iniziata da quel momento, si sta manifestando molto complessa e irta d’ostacoli, nonostante le elezioni per il Congresso nazionale, tenutesi il 7 luglio 2012, abbiano avuto un relativo successo.
La caduta del regime di Gheddafi ha inevitabilmente condotto a una fase di destabilizzazione del paese, frutto della nuova interrelazione dei tre livelli identitari che vi sono presenti: l’identità nazionale, l’appartenenza regionale e l’affiliazione clanica-tribale. Un’ulteriore eredità pesante della guerra civile è costituita dalla presenza di diverse milizie armate sul territorio che faticano a sottomettersi all’autorità centrale o a fondersi all’interno del nuovo esercito nazionale.
Il Consiglio nazionale transitorio (Ntc), guidato da Mustafà Abdel Jalil e formatosi pochi giorni dopo lo scoppio delle rivolte, si è posto come organismo d’autorità centrale, prima nella lotta al regime di Gheddafi, poi come riferimento nel tentativo di avviare un necessario processo di riconciliazione nazionale, allo scopo di creare nuove istituzioni, rilanciare un’identità nazionale e ritrovare l’equilibrio tra le varie componenti di controllo e potere in Libia. All’inizio di agosto del 2012 il Ntc ha passato le consegne al Congresso appena eletto, che è riuscito a nominare come primo ministro Ali Zeidan nel novembre 2012.
I problemi della Libia appaiono ancora numerosi, a cominciare dagli scontri che si verificano in diverse parti del paese, in particolare nel sud (città di Sebha e Kufra) e nelle zone con maggior influenza delle fazioni vicine a Gheddafi e al suo clan (Bani Walid, Sirte, alcune aree di Tripoli), per terminare con lo scarso controllo delle frontiere o l’emergere di gruppi estremisti che adottano strategie terroristiche. Su quest’ultimo fronte è da rilevare l’attentato dell’11 settembre 2012 a Bengasi che è costato la vita a quattro funzionari statunitensi, compreso l’ambasciatore a Tripoli Christopher Stevens, e che ha mostrato la pericolosità dei gruppi terroristici presenti nel paese.
Il primo presupposto per una transizione pacifica e democratica, che è costituito dall’affermarsi di condizioni di sicurezza sufficienti al mantenimento della pace e dell’integrità territoriale, derivanti dal monopolio dell’uso della forza da parte dello stato, è una condizione basilare ancora non pienamente soddisfatta. La politica estera del paese e il suo posizionamento internazionale appaiono quindi subordinati al quadro di stabilità interna e all’azione dei protettori internazionali delle forze che hanno combattuto il regime di Gheddafi: i paesi europei che attivamente hanno preso parte all’intervento armato (Francia, Gran Bretagna e Italia), gli Stati Uniti e i paesi del Golfo persico (Qatar in particolare). Nella fase di ricostruzione seguente al conflitto, la Libia non necessita di particolari finanziamenti esterni poiché è uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio, ma ha bisogno invece di supporto nel campo dello state building, con lo scopo di riorganizzare il proprio apparato statale, ricomporre un esercito nazionale e le forze di polizia, e riformare più incisivamente la propria economia con il tentativo di svincolarla dalla dipendenza della rendita energetica.
Dal colpo di stato di Mu‘ammar Gheddafi nel 1969, la Libia ha storicamente improntato la propria politica estera su due direttrici: quella dell’antimperialismo (spesso interpretato in chiave antioccidentale, ma talvolta, in passato, anche antisovietica) e quella del panarabismo, divenuto poi panafricanismo una volta frustrate le ambizioni di leadership del mondo arabo del colonnello Gheddafi. Entrambe sono state funzionali anche al perseguimento di obiettivi di legittimazione e stabilità interna, contribuendo all’individuazione di nemici comuni o di ragioni d’essere, capaci di cementare la debole identità nazionale libica. Da questo punto di vista il nuovo governo libico ha decisamente abbandonato questa linea. Dopo i decenni di isolamento internazionale, le nuove élite libiche, parte delle quali formatesi in esilio all’estero, sembrano voler guidare il paese verso una nuova e piena integrazione nella comunità internazionale.
Popolazione e migrazioni
La popolazione libica consta di soli 6,4 milioni di persone: la densità demografica è molto bassa e la maggior parte della popolazione vive sulla costa, concentrandosi soprattutto nelle zone di Tripoli e Bengasi. La crescita della popolazione è sostenuta (il tasso di crescita tra il 2005 e il 2010 è stato del 2%) e la componente giovanile (la fascia di età tra gli 0 e i 30 anni) è maggioritaria.
I libici sono prevalentemente di etnia araba e berbera, ma esistono anche significative minoranze tribali Tuareg e Tebu. Circa il 10% della popolazione è costituito da immigrati, provenienti per la maggior parte dall’Africa sub-sahariana. Si stima che circa il 97% dei libici sia musulmano sunnita; ai pochi non musulmani è consentito di praticare la loro fede con relativa libertà. Dalla caduta del regime di Gheddafi si sono verificati frequentemente attacchi contro simboli occidentali e cristiani e contro santuari del sufismo da parte di gruppi salafiti.
La Libia è da tempo un paese di immigrazione, a causa dell’elevata domanda di manodopera nei settori del petrolio e del gas e in quello dell’edilizia. Il paese attrae immigrati provenienti in prevalenza dai vicini stati dell’Africa sub-sahariana e, in misura minore, dal Nord Africa. Inoltre, la Libia è un paese di transito per gli immigrati provenienti dall’Africa sub-sahariana (Sudan, Ciad e Niger) e diretti in Europa. Di qui l’interesse dell’Italia, ma anche dell’Unione Europea (Eu), a porre un freno al fenomeno migratorio, stipulando con il paese africano accordi in grado di delegare a Tripoli stessa le prime competenze in materia di pattugliamento delle coste. In questo modo, la Libia si è trasformata di recente in una sorta di paese ‘cuscinetto’. Il Trattato di amicizia italo-libico e l’accordo tra Eu e Libia dell’ottobre 2010 hanno mirato, infatti, al rafforzamento dei controlli della frontiera marittima da parte della Libia, esternalizzando in tal modo parte delle responsabilità nella riduzione della pressione migratoria. Tuttavia, le condizioni degli immigrati in Libia sono state oggetto di critiche da parte di alcune organizzazioni che si occupano di diritti umani: la Libia non dispone di una legislazione adeguata per la tutela dei rifugiati e dei richiedenti asilo e, pur non esistendo dati ufficiali sul traffico di esseri umani da e verso il paese, l’ingente afflusso di immigrati irregolari e la stretta dei controlli alle frontiere ha spesso comportato un rischio reale per le condizioni dei medesimi. La crisi libica del 2011 ha implicato un relativo aumento dell’immigrazione proveniente dal paese, e condizioni di vita assai difficili per le minoranze nere all’interno del paese, percepite come sostenitrici del regime di Gheddafi.
Economia, energia ed ambiente
L’economia libica dipende dai proventi del settore degli idrocarburi, che vi contribuiscono per circa due terzi del pil nominale. Il paese, infatti, possiede vasti giacimenti di petrolio e di gas, ed esporta tali prodotti verso l’Italia – maggiore partner commerciale, che assorbe il 70% delle esportazioni totali di gas e il 35% di quelle petrolifere – la Germania, la Spagna e la Francia.
In particolare la Libia vanta ingenti riserve di greggio accertate: circa 44 miliardi di barili, le maggiori d’Africa e tra le più vaste in assoluto. La Libia è però carente nella tecnologia necessaria a sviluppare il settore degli idrocarburi e rimane quindi dipendente dagli investimenti provenienti dall’estero: per questo, la svolta moderata nella politica estera libica impressa al paese da Gheddafi nella prima parte degli anni Duemila ha offerto alle imprese straniere le garanzie necessarie perché potessero insediarsi con minori preoccupazioni. Tuttavia, la mutevole politica di Gheddafi, che ha per esempio paventato la nazionalizzazione del settore degli idrocarburi, le condizioni piuttosto sfavorevoli imposte dal governo libico alle compagnie internazionali e, infine, le condizioni di sicurezza instabili che caratterizzano il paese nel post-Gheddafi, continuano a creare incertezze e scoraggiare gli investitori. Tra i principali investitori un ruolo di rilievo è ricoperto dall’Italia, e in particolare da Eni. I legami con l’ex colonia italiana, una volta ripresi, sono divenuti negli ultimi anni molto stretti.
Il conflitto civile del 2011 ha comportato per lunga parte dell’anno un blocco delle esportazioni di petrolio e gas e, quindi, una drastica diminuzione delle entrate e del pil annuale (-61%). A cominciare da ottobre 2011 la produzione petrolifera libica è tornata a crescere e ha praticamente raggiunto alla fine del 2012 i livelli pre-guerra, ossia circa 1,6 milioni di barili al giorno. Secondo le stime del Fondo monetario internazionale il pil libico crescerà del 121% nel corso del 2013, tornando ai livelli del 2010.
Dal 2001 il governo di Tripoli aveva avviato una graduale e prudente riforma economica, incentivando un processo di liberalizzazione e privatizzazione: le riforme sono state molto lente ma, in prospettiva, avrebbero dovuto avvicinare il paese a un modello più assimilabile a quello di un’economia di mercato. Inoltre, la Libia aveva intrapreso importanti tentativi per attirare gli investimenti esteri in settori diversi da quello degli idrocarburi (turismo, telecomunicazioni e costruzioni) al fine di diversificare l’economia. Proprio con questo scopo e con quello di acquisire importante tecnologia e know how per il proprio sviluppo interno, negli ultimi anni la Libia aveva adottato una strategia di penetrazione finanziaria all’interno di importanti imprese europee e in primis italiane.
Al di là dei recenti avvenimenti, in una prospettiva di lungo periodo, la Libia dovrà comunque affrontare la questione della disoccupazione, soprattutto giovanile, che, secondo i dati ufficiali, si attesta attorno al 20%. Negli ultimi anni il regime aveva cercato di affrontare tale problema con una politica di ‘libicizzazione’, richiedendo cioè alle aziende straniere di assumere cittadini libici, senza tuttavia ottenere risultati significativi.
Società, politica e diritti
La Libia di Gheddafi, nonostante l’assenza di libertà politiche e civili, possedeva un livello di sviluppo umano relativamente elevato rispetto ai vicini africani. Il tasso di alfabetizzazione per esempio raggiungeva il 100% tra i giovani; le condizioni dei servizi sanitari generici offerti alla popolazione erano sufficienti: in base ai dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, il 97% della popolazione ha accesso alle strutture sanitarie, ma soltanto il 54,4% ha accesso all’acqua potabile. La mortalità infantile è piuttosto bassa (17 su 1000 nati). Quanto alla parità di genere, Gheddafi aveva cercato di promuovere lo status della donna rispetto alla cultura tradizionale e di scoraggiare la discriminazione. Nel 2012 il Ntc ha cercato per legge di riservare una quota di seggi a donne alle elezioni di luglio, ma ha dovuto rinunciare inserendo solamente l’obbligo di alternanza di sesso tra i candidati della quota proporzionale, che ha assegnato complessivamente 80 seggi. La situazione è invece storicamente stata critica per quanto concerne i diritti civili e politici. L’attività politica del regime di Gheddafi è sempre stata molto controllata, la libertà di assemblea era consentita principalmente solo alle manifestazioni filogovernative, non vi erano sindacati indipendenti e la corruzione era piuttosto diffusa. La Libia post-regime sembra fornire dati incoraggianti su questi temi. Alle elezioni di luglio 2012 ha concorso il numero record di 140 partiti registrati, ma le formazioni politiche sono state più di 350. Le elezioni hanno condotto ad un Congresso molto eterogeneo dal punto di vista politico. Il sistema elettorale ha permesso l’elezione con il sistema maggioritario su circoscrizioni locali di 120 membri indipendenti che rispondono quindi più alla comunità di appartenenza che a qualche partito. Tra i partiti ha ottenuto una maggioranza relativa di seggi l’alleanza laica guidata dall’ex primo ministro del governo transitorio Mahmud Jibril che ha avuto la meglio sulle forze legate alla Fratellanza islamica e a diversi altre formazioni islamiste.
Nella nuova Libia il pluralismo sembra essere garantito, come la libertà d’espressione: nel giro di pochi mesi sono sorti moltissimi media, gruppi civili, associazioni e sindacati. Freedom House per l’anno 2011 ha registrato significativi passi in avanti in questo campo sia per quanto riguarda le libertà civili che i diritti politici. È presumibile che ulteriori sviluppi positivi vengano segnalati per gli anni a venire e che la redazione della Costituzione sancisca formalmente l’affermazione di questi valori. Il maggior pericolo potrebbe derivare da gruppi salafiti e jihadisti che non riconoscano come legittima l’attuale transizione politica e l’istituzione di questi princìpi.
Difesa e sicurezza
Con la fine della Guerra fredda e il conseguente collasso dell’Unione Sovietica, la Libia ha dovuto in parte rivedere i propri piani per la difesa, dal momento che Mosca aveva storicamente rappresentato il fornitore privilegiato di Tripoli in ottica antioccidentale (con un trasferimento di armi pari a circa 25 miliardi di dollari tra il 1970 e il 1989). Complice la caduta del sistema sovietico e dell’alleanza tra i due paesi, Tripoli si è trovata senza una propria industria della difesa all’avanguardia e nella necessità di ammodernare il proprio apparato militare, dovuta alla progressiva obsolescenza delle armi e delle tecnologie di cui era in dotazione. Contemporaneamente, la fine dell’isolamento internazionale all’inizio del 21° secolo ha consentito a Tripoli di fare leva in misura sempre maggiore sulla sua influenza economica, soprattutto grazie all’esportazione delle sue ingenti risorse petrolifere, e di diminuire la portata delle sue strategie di deterrenza militare (al tempo stesso meno necessarie, vista la distensione avvenuta a livello regionale e internazionale). Così, nel 2003 la Libia ha scelto di rinunciare ai suoi programmi di sviluppo di armi di distruzione di massa. D’altro canto il paese poteva recentemente contare su contratti per la fornitura di armi e per il trasferimento di tecnologia militare stipulati non solo con la Russia, ma anche con altri paesi, tra cui l’Ucraina, l’Italia e la Francia. Le sanzioni imposte al regime di Gheddafi nel marzo 2011 hanno imposto l’embargo su qualsiasi tipo di armamento, mentre l’intervento Nato ha eliminato buona parte delle forze armate terrestri e aeree del regime. È presumibile che la Libia abbia una forte necessità di ricostituire le proprie forze armate anche dal punto di vista dei mezzi e delle strutture. Diversi paesi occidentali, primo fra tutti gli Stati Uniti ma anche l’Italia, stanno collaborando con il governo libico nella costituzione e nell’addestramento delle forze di polizia e dell’esercito.
La Libia di Gheddafi ha mirato nell’ultimo decennio a giocare un ruolo di primo piano all’interno della regione africana, e lo stesso colonnello aveva più volte dichiarato che il suo paese vuole essere un punto di riferimento per tutti i paesi dell’area. Lo strumento che Tripoli ha utilizzato per aumentare la sua influenza sul continente è stata l’Unione Africana (Au), organizzazione all’interno della quale la Libia ricopriva un ruolo di rilievo. La nuova Libia non pare affatto interessata ad attuare una politica simile, concentrandosi innanzitutto sul rafforzamento dei carenti controlli alle frontiere, causa del proliferare di traffici di armi, di persone e di droga. In particolare su questo fronte è da rilevare come il ritorno nel Mali di decine di ribelli tuareg che avevano combattuto a fianco delle milizie pro-Gheddafi durante la rivoluzione libica e il riarmo di Aqim (al-Qaida nel Maghreb Islamico) proprio grazie all’arsenale del regime libico abbiano costituito una delle cause di instabilità del Mali e la conseguente presa del potere nei territori settentrionali del Mali stesso ad opera delle milizie islamiche. Secondo diverse fonti, a inizio del 2012, 20.000 missili portatili anti-aerei erano ancora nelle mani delle milizie.
‘La giornata della collera’ del 17 febbraio 2011 ha dato il via alla rivolta contro il regime di Gheddafi. Dal punto di vista militare, in poche settimane, grazie alle defezioni di parte dell’esercito libico, all’occupazione di caserme e armerie, e grazie all’evidente sostegno di diversi paesi occidentali e mediorientali, i rivoltosi si sono organizzati in gruppi armati. Dal punto di vista politico, invece, gli insorti si sono costituiti in un Consiglio nazionale transitorio (Ntc), con a capo l’ex ministro della Giustizia Mustafa Abdel Jalil. Tuttavia non sono riusciti prontamente a prendere il controllo della capitale e della maggior parte della Tripolitania, a causa del consenso di cui ancora godeva il regime in molte zone del paese. Il risultato del mancato successo della rivolta è stato lo scoppio di una vera e propria guerra civile nel paese. La dura repressione dell’esercito e delle milizie del regime, e una situazione di sempre più evidente prevalenza delle forze di Gheddafi su quelle disorganizzate e mal equipaggiate del Ntc, hanno indotto, prima, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ad adottare il 26 febbraio un regime di sanzioni contro Tripoli, che includesse l’embargo agli armamenti, la proibizione a Gheddafi e ai membri della sua famiglia di uscire dal paese e il congelamento dei beni del colonnello all’estero; poi, il 17 marzo, su iniziativa francese e inglese, una risoluzione che autorizzasse la comunità internazionale a istituire una no fly zone e a utilizzare ‘tutti i mezzi necessari’, tranne l’occupazione militare, per proteggere i civili e imporre un cessate il fuoco. Nei giorni successivi sono iniziate le operazioni di no fly zone unitamente al bombardamento di obiettivi militari e strategici da parte di alcuni paesi occidentali, come Francia, Regno Unito e Stati Uniti, e di alcuni paesi arabi, come Qatar ed Emirati Arabi Uniti (Uae). In seguito le operazioni militari sono state poste sotto il comando della Nato nella missione denominata ‘Unified Protector’, a cui ha preso pienamente parte anche l’Italia, da sempre primo partner commerciale di Tripoli. Proprio sul piano politico-diplomatico, la comunità internazionale si è trovata a dover gestire il problema del comando delle operazioni e del suo passaggio dalla coalizione dei volenterosi alla Nato, con la Francia che ha continuato a spingere per la costituzione di un ‘direttorio’ al di fuori dell’Alleanza che ne stabilisse l’orientamento politico. Si è poi trovata una soluzione che ha fatto rientrare il pieno controllo e la gestione della missione in ambito Nato, con quartier generale a Napoli.
Con l’implementazione della no fly zone, le ostilità a terra sono continuate su due fronti principali: quello orientale della Cirenaica, e quello di Misurata, città ribelle all’interno della Tripolitania, terza cittadina in ordine di grandezza della Libia. Se l’intervento internazionale ha aiutato le milizie dei ribelli a rafforzare le posizioni in Cirenaica, distruggendo le colonne di blindati del regime (le cui truppe hanno poi cambiato tattica, utilizzando mezzi più agili e confondendosi con gli insorti), a Misurata il supporto aereo è stato inferiore a causa dell’alto rischio di danni collaterali, trattandosi di condurre raid in territorio urbano. I raid aerei sono continuati costantemente per settimane con il chiaro obiettivo del collasso del regime e la sua sostituzione con il Ntc. Tra la fine di agosto e l’inizio di settembre 2011 le forze militari dei ribelli, in particolare le milizie berbere del Nafusa, sono riuscite ad entrare a Tripoli e ad occupare buona parte della Tripolitania. Dopo le difficoltà incontrate all’interno del Ntc nella formazione di un nuovo governo che includesse le diverse anime della rivolta, le ultime sacche di resistenza dei lealisti, concentrate nelle cittadine di Bani Walid e Sirte, sono state in buona parte sopraffatte a metà ottobre 2011. Il 20 ottobre 2011 Gheddafi veniva ucciso proprio a Sirte, sua città natale, tuttavia il permanere sul territorio delle milizie ha cominciato a creare problemi di conflittualità tra le stesse milizie e tra queste e l’autorità centrale.
In seguito al colpo di stato di Gheddafi nel 1969, la Libia assunse ufficialmente la forma di governo della Jamahiriyah. Si tratta di un termine arabo coniato da Gheddafi stesso, che nelle sue intenzioni voleva significare ‘governo delle masse’. Ufficialmente Gheddafi non ricopriva alcun ruolo all’interno del paese, ma de facto fu il capo di stato e il comandante delle Forze armate. Il sistema istituzionale libico si basava sul cosiddetto Libro verde, scritto da Gheddafi e pubblicato nel 1975, in cui egli rigettava i tradizionali sistemi democratici e partitici. Il 7 luglio 2012 i libici sono tornati alle urne dopo 42 anni di regime per eleggere i 200 membri del Congresso. Secondo i dati Undp, su un totale di circa 3,5 milioni di aventi diritto si sono registrati per il voto circa 2,8 milioni di persone e hanno votato 1.764.840 persone, il 50% circa degli aventi diritto e il 63% di coloro che si sono registrati per il voto. I libici sono tornati alle urne nel luglio 2012 per votare i 60 membri dal Comitato che dovrà redigere la nuova costituzione.
A seguito dello scoppio del conflitto, il governo italiano aveva sospeso l’accordo firmato il 30 agosto del 2008 tra Italia e Libia nella città libica di Bengasi e ratificato dai rispettivi paesi tra il febbraio e il marzo del 2009. Secondo le disposizioni previste dal Trattato, l’Italia si impegna a pagare 5 miliardi di dollari alla Libia in 20 anni come compensazione per la colonizzazione italiana, da destinare al finanziamento della costruzione di infrastrutture. Nel gennaio 2012 la `Tripoli Declaration’, il comunicato congiunto finale, firmata dal presidente del Consiglio Mario Monti e dal primo ministro del governo provvisorio libico Abdel Raheem El-Keib a seguito del vertice bilaterale tenutosi nella capitale libica, ha stabilito una parziale revisione del Trattato e ha genericamente confermato le relazioni di amicizia tra i due paesi.