ROMANO, Liborio
– Nacque a Patù, nel basso Salento, il 27 ottobre 1793 da Alessandro e da Giulia Maglietta, primo di sette figli.
Apparteneva a una ricca famiglia, dove era presente una lunga tradizione di giuristi e proprietari terrieri, radicati dal Seicento nel Salento.
Liborio seguì il percorso formativo delle buone famiglie del Regno. Prima gli studi nel capoluogo provinciale, poi quelli di diritto nella capitale. A Napoli si laureò e diventò avvocato. Negli stessi anni, iniziò la militanza politica. L’intensa politicizzazione del Regno non si era arrestata con la fine dell’esperimento francese. La generazione di Romano era largamente coinvolta nella carboneria. L’organizzazione clandestina aveva raggiunto grandi dimensioni anche in provincia di Lecce. La sua famiglia era coinvolta nella lotta settaria, segnata dalla presenza di un violento brigantaggio filocarbonaro. Romano prese parte alla mobilitazione del 1820 senza incarichi di primo piano. Fu comunque inviato al confino per due anni, dopo la restaurazione di Ferdinando I. Per tutti gli anni Venti fu implicato nell’intreccio di cospirazioni e repressioni determinati dai tentativi delle sette carbonare. Queste, dopo il 1821, non riuscirono più a cambiare i rapporti di forza nel Regno. Romano iniziò la sua attività di avvocato, ma fu continuamente colpito, prima con un nuovo obbligo di residenza (1824), poi con l’arresto (1826) che gli costò il carcere duro nella prigione di S. Maria Apparente, mentre anche il fratello Gaetano fu detenuto per motivi politici.
All’inizio del regno di Ferdinando II, Romano (definitivamente scarcerato nel 1830) rilanciò la sua attività beneficiando del nuovo clima di distensione promosso dal sovrano. L’avvocatura era la professione per eccellenza nella capitale del Regno. Dimostrò di saper combinare le doti essenziali richieste al suo ufficio: conoscenza profonda del diritto e abilità nelle relazioni politiche e sociali. Il suo studio diventò tra i più importanti. Ospitava un corposo gruppo di collaboratori, praticanti, associati. Tra questi erano i fratelli, molti compaesani e anche futuri dirigenti di primo piano del movimento unitario, sia della sinistra, come Giuseppe Libertini, sia della destra, come Giuseppe Pisanelli. Grazie alla sua estesa rete di relazioni, lo studio fu coinvolto in cause famose, come quella tra lo Stato borbonico e il Regno Unito per la questione degli zolfi siciliani, dove rappresentò gli interessi britannici, colpiti dal tentativo di Ferdinando II di cambiare l’affido della privativa dei giacimenti siciliani. In qualche caso, difese gratuitamente collaboratori accusati di cospirazione politica. Si inserì anche nell’ambiente accademico con qualche studio e collaborazione con l’Università di Napoli.
Romano si riconosceva all’interno di un movimento liberale dal profilo neoguelfo, autonomista e costituzionale, dove coltivava rapporti stretti con la famiglia Poerio, Luigi Dragonetti e gli uomini più distanti dal radicalismo rivoluzionario. Rapidamente ampliò relazioni e amicizie con tutti i settori della politica, compresi radicali e apparati dello Stato, senza mai trascurare l’intreccio familiare, sociale, economico con la provincia d’appartenenza. Nel 1848 si ritrovò nella mobilitazione per la costituzione e nella battaglia elettorale. Si candidò senza successo alla Camera. Riuscì comunque ad avere un certo ruolo nella vasta area moderata, maggioritaria in Parlamento e convinta che solo un compromesso potesse determinare una trasformazione liberale del Regno. Quando il re decise di rompere con il movimento costituzionale, Romano subì un primo arresto nel 1849, poi un secondo che gli costò il carcere ancora una volta nella prigione di S. Maria Apparente. Dopo un paio d’anni ottenne la tramutazione all’esilio. Nel 1852 si recò in Francia, ma dovette registrare la crisi dello studio, poi la morte della madre, infine il nuovo arresto di un fratello; eventi che misero in discussione il patrimonio familiare. Fu proprio Giuseppe a fargli firmare la richiesta di grazia che gli consentì di tornare in patria.
A Napoli Romano riprese, con successo, l’attività di avvocato e, clandestinamente, l’azione politica. Ancora una volta mostrò le sue capacità di tessere relazioni, dalla famiglia reale (con Luigi Maria di Borbone, conte d’Aquila) al vasto arcipelago liberale delle province, dove i vecchi autonomisti che pensavano a un regno costituzionale convivevano con i moderati cavouriani e i radicali democratici, collocati nel movimento nazionalista panitaliano. Questa sua capacità politica e manovriera fu decisiva nella crisi del 1860. La morte di Ferdinando II e la guerra nella pianura Padana cambiarono l’equilibrio politico nella penisola. La spedizione di Giuseppe Garibaldi e la crisi del dispositivo militare borbonico costrinsero l’indeciso Francesco II a concedere la costituzione. Nel luglio, per i suoi legami con i vari ambienti liberali, anche quelli ancora legati alla monarchia, Romano fu nominato direttore di polizia nel nuovo governo costituzionale su proposta del conte d’Aquila. Pochi giorni dopo diventò ministro dell’Interno. Nei due mesi che determinarono il crollo del Regno delle Due Sicilie giocò un ruolo di primo piano. Iniziò a corrispondere con Cavour e Garibaldi, senza mai sbilanciarsi né rompere con il governo borbonico, ma aprendo linee di comunicazione con tutti. Nel frattempo il re perse il controllo della situazione: Antonio Spinelli di Scalea, il capo dell’esecutivo era privo di iniziativa strategica; Giuseppe Salvatore Pianell, responsabile della Guerra, restio a una vera azione sul campo.
Romano, profondo conoscitore del Regno, utilizzò questa paralisi per modificare la struttura di potere nelle istituzioni.
Alcune ricostruzioni hanno dato una certa importanza all’inserimento di un gruppetto di camorristi nella polizia (che venne epurata di molti elementi fedeli alla dinastia), ma si trattò di un episodio di modesto peso, vincolato alla tranquillità della capitale, mentre una scelta decisiva in questa direzione fu il potenziamento della guardia nazionale.
Il ministro realizzò un’operazione politica di ben altra portata. Conosceva il profilo moderato in cui si rifletteva la maggior parte dei gruppi liberali o autonomisti locali, l’intreccio degli interessi e delle relazioni delle province, ma anche i timori di una ripetizione delle reazioni borboniche del 1799, del 1821 e del 1849. Utilizzando l’incompetenza dei colleghi e la confusione della corte, mise mano ai vertici istituzionali dello Stato, modificandone in poche settimane le strutture di potere. Sostituì tutti gli intendenti e i sottointendenti al vertice di province e circondari, imponendo funzionari e politici liberali moderati o autonomisti al posto dei fedeli alla monarchia. Consentì agli unitari di impadronirsi dei vertici di buona parte delle compagnie di guardia nazionale. Intervenne sul sistema penitenziario e spesso influenzò incarichi nel settore giudiziario. Infine lavorò per rinnovare i sindaci dei centri più importanti (e anche dei minori), lasciando spazio alla vasta area liberaleggiante moderata e interpretando così la volontà della larga maggioranza del notabilato provinciale a favore di un cambio di regime controllato. Nel giro di poco più di un mese, aveva demolito ogni possibilità della monarchia borbonica di guidare gli apparati civili dello Stato.
Quando Garibaldi sbarcò in Calabria, le forze borboniche si sbandarono, mentre i rivoluzionari meridionali occuparono province e distretti, quasi sempre con la compiacenza dei funzionari e dei sindaci sostenuti da Romano, in genere poi confermati nelle loro funzioni. Anche quando questi furono sostituiti, non si opposero mai al cambio di regime. Nel frattempo, il re e i più stretti collaboratori erano indecisi: Romano bloccò sul nascere un tentativo di reazione filoborbonica a Napoli, mentre il governo si sfasciò definitivamente. Il ministro utilizzò sapientemente questa congiuntura finale. Offrì garanzie complete a Cavour e all’ammiraglio Carlo Persano di Pellion presente a Napoli, ma evitò il colpo di mano da essi immaginato mentre il re era ancora presente, e preparò l’arrivo di Garibaldi in città, di cui fu il regista unico. Infine, contribuì a spingere Francesco II a lasciare la capitale per Gaeta, inviandogli uno spietato memorandum. In questo modo, governò il passaggio dei poteri, testimoniato dalla clamorosa accoglienza che Napoli riservò a Garibaldi. Formato un nuovo governo, ebbe per pochi giorni una posizione importante al fianco del generale, ma erano oramai in campo attori più poderosi. La rinnovata resistenza borbonica, il confronto tra cavouriani e garibaldini, poi l’invasione sabauda, modificarono definitivamente i rapporti di forza nel Regno e il profilo dello scontro politico. Romano, malvisto dagli ex esuli moderati come Carlo Poerio, si dimise. Conservò però una grande popolarità, testimoniata dal suo successo alle elezioni politiche del 1861, quando vinse in ben otto collegi.
A Napoli era stato formato un governo per le province continentali, la Luogotenenza. Luigi Carlo Farini, il primo a guidarla, fallì completamente e fu contestato dall’ex ministro. Cavour riprese in mano la situazione, affidandola a Eugenio Emanuele di Savoia, principe di Carignano, e recuperando Romano a un ruolo centrale nell’esecutivo. Insieme al procuratore generale Giuseppe Vacca, rappresentò la vecchia area liberale autonomista meridionale. Memore degli antichi conflitti napoletani, si schierò per la decisa repressione dell’insorgenza borbonica che aveva preso la forma del brigantaggio, appoggiò con meno convinzione la politica antiecclesiastica di Pasquale Stanislao Mancini e subì l’unificazione amministrativa. In realtà, aveva avuto un grande successo personale, ma non era riuscito a costituire un gruppo o un partito. Si ritrovò del tutto isolato quando provò a realizzare politiche proprie. Gli uomini della Destra, come Giuseppe Massari, volevano assorbire tutti i moderati meridionali in un progetto nazionale. Si dimise in polemica con Silvio Spaventa che lo contrastava su ogni proposta e con il quale non si erano mai interrotte rivalità e gelosie. Inviò una lettera a Cavour, ma restò inascoltato. La sua uscita di scena non fece che confermare l’impossibilità di posizioni regionali.
Negli anni successivi cercò di svolgere un ruolo in Parlamento, facendosi portavoce dell’eredità dell’autonomismo liberale napoletano, ma con interventi limitati, da notabile di provincia. Si trattò solo di una testimonianza del passato, perché l’intera deputazione parlamentare meridionale, come gli altri gruppi politici provenienti dai vecchi Stati preunitari, si integrò immediatamente nei partiti nazionali con cavouriani, garibaldini o mazziniani. Anche Romano si avvicinò alla Sinistra. Nel 1865 fu rieletto, ma dopo un anno, stanco e malato, si allontanò dalla capitale e iniziò la stesura delle sue memorie politiche.
Morì a Patù, celibe e senza figli, il 17 luglio 1867.
Scritti e discorsi. Fernando Cito in Terra d’Otranto, Napoli 1848; Il mio resoconto parlamentare, Napoli 1861; Lettera al sig. conte di Cavour sulle condizioni delle provincie napoletane in maggio 1861, Napoli 1861; Ai suoi elettori, Napoli 1865; Memorie politiche di L. R., a cura di G. Romano, Napoli 1873, nuova ed. Memorie politiche, a cura di F. D’Astore, Milano 1992; Scritti politici minori, a cura di G. Vallone, Lecce 2005.
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