ROMANO, Liborio
Uomo politico, nato a Patù, in provincia di Lecce, nel 1798, morto ivi il 17 luglio 1867. Apparteneva a famiglia alla quale - come ebbe a scrivere nelle sue Memorie politiche - "non erano estranee le tradizioni liberali, le persecuzioni e le mascherate confische della tirannia borbonica". Andato giovanissimo a Napoli, studiò giurisprudenza sotto la guida del Parrilli, rettore dell'università, a cui succedette a ventun anno nella cattedra di diritto civile e commerciale. L'anno dopo, scoppiata la rivoluzione, il R. si mostrò fautore delle dottrine costituzionali, e dopo la rotta di Rieti fu mandato in Terra d'Otranto (febbraio 1821) per raccogliere e riorganizzare i fuggiaschi colà riparati; ma tornata la reazione, egli fu destituito dalla cattedra e rinchiuso nel carcere di S. Maria Apparente, da dove uscì l'anno dopo per intromissione del Parrilli, con l'obbligo del confino a Patù. Colà rimase due anni, e concessagli la dimora a Lecce, vi esercitò l'avvocatura. Nel 1826 fu di nuovo arrestato con l'accusa di avere appartenuto a una società segreta detta degli Ellenisti, e rinchiuso nel carcere di S. Maria Apparente. Liberato l'anno dopo, rimase a Napoli, dove riprese l'esercizio della sua professione, ma su di lui la polizia esercitò un'attiva sorveglianza. Nel 1848 fu uno dei più strenui promotori della petizione con la quale s'invocava da Ferdinando II il patto costituzionale. Presentatosi deputato, non fu eletto. Probabilmente non prese parte ai fatti del 15 maggio: tuttavia, infierita con maggiore violenza la reazione, nel febbraio del 1850 fu ancora una volta rinchiuso in S. Maria Apparente, dove rimase due anni, poi cacciato in esilio "con obbligo formale di rimanere internato, lontano da Parigi e da ogni porto di mare". Scelse per dimora Montpellier, poi, rotto il divieto, andò a Parigi e nel 1854 gli fu concesso il ritorno a Napoli. Sottoposto a più severa sorveglianza della polizia, nel settembre del 1859 corse pericolo di essere ancora una volta imprigionato; sennonché, la monarchia borbonica si avvicinava alla sua rovina, e per quanto mostrasse un'inconcepibile leggerezza di governo, dopo le imprese di Garibaldi in Sicilia si era indotta a emanare riforme costituzionali, anzi con l'atto sovrano del 25 giugno 1860 si era decisa a creare un ministero d'intonazione liberale. Al R. fu offerta la carica di guardasigilli, che egli rifiutò; accettò invece (28 giugno) l'ufficio di prefetto di polizia e subito dopo emanò un proclama, in cui esortava i cittadini "a deporre ogni odio e ogni privato rancore, e a concorrere al mantenimento dell'ordine pubblico e della tranquillità". Nei giorni successivi ricompose con nuovi elementi il personale di polizia, modificò la legge sulla stampa, migliorò l'orribile sistema carcerario, abolendo l'uso delle legnate. Il 14 luglio, di fronte alle "incalzanti difficoltà della situazione scabrosa in cui trovavasi il ministero", succedette al Del Re nella carica di ministro dell'Interno e di Polizia. In quei giorni di gravissimi avvenimenti, in cui, ai servigi di una monachia traballante, doveva fronteggiare partiti politici e congiure di corte, in cui Garibaldi, sceso in Calabria, continuava la sua marcia gloriosa, il R., per mezzo di N. Nisco andato di nascosto a Napoli per incarico del conte di Cavour, aprì trattative col governo piemontese, ed ebbe varî colloquî col Persano che stava con la sua flotta nel golfo di Napoli. Disposto dapprima a seguire le mire politiche del conte di Cavour per una sollevazione popolare col concorso dell'esercito, il 20 agosto scrisse a Francesco II una lettera, consigliandolo ad allontanarsi "per qualche tempo dalle terre e dal palazzo de' suoi avi"; ma quando si convinse che era impossibile di contrastare a Garibaldi l'ingresso in Napoli, il 6 settembre gli scrisse che quella città "aspettava con ansietà l'invincibile dittatore delle Due Sicilie, e a lui confidava i suoi destini". Garibaldi, entrato in Napoli, confermò subito (7 settembre) al Ministero dell'interno il R., che però si dimise il 24 dello stesso mese, per divergenze sorte con A. Bertani nei riguardi dei plebisciti. Tornato a vita privata, il R., insieme con Carlo Poerio, fece parte del consiglio della luogotenenza (17 gennaio 1861), ma il suo potere durò fino al 12 marzo successivo. Eletto deputato in otto collegi, nell'aprile andò a Torino, e prese parte alle discussioni parlamentari, specialmente in quella riguardante lo stato e l'ordinamento dell'esercito meridionale. Non si presentò alle elezioni generali del 1865, preferendo ritirarsi nella sua nativa Patù. Lasciò alcune Memorie politiche, con le quali si difese dalle accuse mossegli di aver tradito la causa dei Borboni dei quali era ministro. Furono pubblicate postume dal nipote Giovanni (Napoli 1894).
Bibl.: G. Lazzaro, L. R., Torino 1863; P. Palumbo, Don L. R. e i suoi tempi, Lecce 1919; P. Marti, L. R. e la caduta dei Borboni, ivi 1909.