Lingua e dialetti italiani
Seguendo una tendenza già affermatasi nettamente nel secondo dopoguerra, negli anni Ottanta e Novanta l'uso dell'italiano si è consolidato, erodendo l'area dei vari dialetti. Da un'indagine ISTAT del 1995, fondata su un campione di 21.000 famiglie, si ricava che le persone che parlano soltanto o prevalentemente italiano in famiglia - vale a dire in situazione di confidenza e informalità - sono circa 23.900.000 (44,6%), quelle che adoperano soprattutto un dialetto 12.600.000 (23,6%), quelle che alternano italiano e dialetto 15.100.000 (28,3%). La quota di italofonia abituale si innalza nei rapporti con gli estranei (71,5%) ed è più elevata per i bambini tra i 6 e 10 anni (il 66,9% parla italiano in famiglia e l'81,7% con gli estranei), per le donne, per gli abitanti delle grandi aree metropolitane, per le persone con maggiore istruzione. Pur con la necessaria cautela (si tratta di autovalutazioni degli intervistati, non di rilievi effettuati da osservatori esterni), i dati appaiono attendibili anche perché confermati da altri sondaggi e da altri indizi. Così, un'indagine sull'italiano parlato in diverse situazioni comunicative in quattro grandi città, Milano, Firenze, Roma e Napoli (De Mauro, Mancini, Vedovelli et al. 1993), ha fatto emergere l'uso soltanto occasionale dei dialettismi anche nei contesti più confidenziali, le conversazioni telefoniche. Il totale dei dialettismi (considerando tali non solo quelli lessicali, come guaglione, ma anche quelli risultanti da divergenze fonematiche: boni invece di buoni) ammonta all'1,3% (con un massimo a Napoli e un minimo a Milano: rispettivamente 2,6% e 0,3%) e sale al 3,9% nelle telefonate.
La pressione dell'italiano può comportare fratture tra diverse generazioni: a Maniago (Pordenone) verso la fine degli anni Settanta i vecchi dicevano marangón e calìgo, i giovani falegnàm e nèbia; altre volte il termine dialettale sopravvive, assumendo però una connotazione negativa: a Ferrara, dopo l'introduzione di falegnàm, marangón è passato a indicare 'inchiodatore d'assi, falegname scadente'. In generale, resistono meglio le parole e i modi appartenenti al lessico familiare e quelli marcati affettivamente. A Sant'Alfio (Catania) l'italianizzazione ha agito, per es., nelle sfere semantiche più esposte a rapporti con l'esterno: burocrazia (a pinziòni "la pensione" invece di u sord'i rritiru), rapporti di parentela (vidua invece di cattiva) ecc., e nell'ampio settore dei termini astratti (spurtunatu invece di malasurtatu "sfortunato", cunfruntari invece di aggualari "confrontare").
D'altra parte, i dialetti sono ben lontani dalla scomparsa. Dall'indagine ISTAT del 1995 risulta che circa il 60% dei cittadini italiani conosce ed è in grado d'usare un dialetto e che l'idioma del luogo mantiene posizioni fortissime in alcune aree regionali: Veneto, Trentino, Campania, Calabria e Sicilia (le regioni in cui il dialetto è più debole - a parte la Toscana, per la quale non si può nemmeno parlare di un dialetto locale contrapposto alla lingua - sono nell'ordine la Liguria, il Lazio, la Lombardia e il Piemonte). Il dialetto manifesta inoltre una certa vitalità nel mondo giovanile, non certo in rapporto con la cultura di cui era originariamente espressione ma come strumento di auto-riconoscimento e di trasgressione nei confronti della norma linguistica. Su un altro piano, va poi ricordato l'incremento recente di una poesia dialettale di alto livello artistico, spesso promossa da centri minori, privi di tradizione letteraria in tal senso, come Santarcangelo di Romagna (T. Guerra, R. Baldini, N. Pedretti e altri) o Tursi, in Basilicata (A. Pierro); negli anni Novanta il dialetto ha conosciuto una rinnovata fortuna nella musica leggera per opera di gruppi giovanili legati al rap, al reggae o al ragamuffin.
In luogo del dialetto vero e proprio, un italiano fortemente intriso di tratti locali (italiano regionale) è diventato la lingua abituale di larghissime fasce di parlanti. I settori che maggiormente tradiscono la provenienza regionale sono quello prosodico (per l'appunto sull'intonazione fanno leva le caricature fondate sull'uso linguistico) e quello fonetico: ben difficilmente un parlante romano anche colto si darà cura di evitare la pronuncia rafforzata di b e g palatale intervocaliche (per es. abbile e raggione; e anche nei casi di maggiore controllo linguistico la pronuncia rafforzata farà la sua comparsa in fonosintassi: quindi abile ma la bbarca, ragione ma la ggente); né triestini e trentini rinunceranno ad articolare come sonora la s postnasalica di pensione, secondo un'abitudine fonetica probabilmente risalente al dominio asburgico. Più limitata l'incidenza dei tratti lessicali e microsintattici. I primi riguardano quasi soltanto la conversazione quotidiana: a Bologna, per es., sono abituali vocaboli come balocco "grumo", caligine "fuliggine", ciappetto "molletta per fermare la biancheria stesa ad asciugare", fittone "paracarro", rusco "pattume". I secondi possono talora emergere anche a livelli più controllati: si tratta di reggenze preposizionali non ammesse dalla norma (estensione di da in Veneto: mi fa da ridere; di di in costrutti locativi in friulano: vado del medico; di a in sardo: sto partendo a Sassari); di usi transitivi di verbi intransitivi (uscire la macchina, scendere le valigie, in gran parte del Mezzogiorno); di estensione dell'ausiliare avere anche con verbi riflessivi e intransitivi pronominali (ci abbiamo divertiti, mi ho fatto accompagnare: Veneto, Puglia ecc.); di particolari costrutti o sequenze (imperativo negativo retto da senza in Sicilia: senza correre!; costrutti antifrastici del tipo piccolina la fortuna! "hai una grande fortuna" in Sardegna; tipo ancora viene "non è ancora venuto" in Abruzzo ecc.).
Non è possibile indicare puntualmente quante siano le varietà di italiano regionale parlate attualmente in Italia, dal momento che il numero dipende dalla quantità e dalla qualità dei tratti di volta in volta considerati significativi. Una classificazione largamente accettata è quella proposta da L. Canepari che, fondandosi sui vari tipi di pronuncia esistenti, individua tredici varietà: piemontese, ligure, lombarda, veneta, giuliana, emiliana, sarda, toscana, umbro-marchigiana, laziale, campana, pugliese e siciliana.
La pronuncia modello, tradizionalmente fondata sul fiorentino emendato (vale a dire depurato dei tratti marcatamente locali, in particolare la cosiddetta gorgia, cioè la spirantizzazione o l'aspirazione delle occlusive intervocaliche, e la fricativizzazione delle affricate palatali intervocaliche: la hasa o la khasa, dieši), continua a essere insegnata nelle scuole di dizione, ma è stata variamente discussa da molti linguisti, già negli anni Settanta. Alcuni ritengono che le varie pronunce regionali siano tutte ugualmente legittime e che il problema di una scelta si riduca all'insegnamento dell'italiano a stranieri; altri (Galli de' Paratesi 1984, 1985²) hanno sostenuto che l'italiano più prossimo alla pronuncia normativa sarebbe quello di Milano, mentre le varietà fiorentina e romana avrebbero tratti fortemente provinciali (ma l'inchiesta risente del tipo di tratti selezionati, che predeterminano in gran parte il risultato finale). In realtà, nessuna varietà regionale in quanto tale gode di un primato indiscusso e, almeno nell'uso formale, l'italiano 'senza accento' è tuttora apprezzato largamente. Semmai si può notare come alcune particolarità di pronuncia siano più stigmatizzate di altre (si tratta, più spesso, di particolarità proprie di parlanti meridionali) e come siano largamente tollerate le deflessioni non rappresentate dalla grafia: oscillazioni nella pronuncia di e e o aperte o chiuse; distinzione tra s sorda e sonora in posizione intervocalica e tra z sorda e sonora in posizione iniziale (per es., zio, con z sorda nell'italiano normativo, con z sonora in moltissime pronunce regionali) o interna postconsonantica (pranzo, con z sonora nell'italiano normativo, ma largamente realizzato anche con z sorda); raddoppiamento fonosintattico.
Il problema della pronuncia è stato ed è fortemente condizionato dalla radio e soprattutto dalla televisione. La riforma del sistema radiotelevisivo del 1976, sostituendo via via gli annunciatori tradizionali e il loro italiano impeccabile con giornalisti che spesso lasciavano trasparire la propria provenienza regionale, e successivamente la voga delle trasmissioni in diretta, con estemporanei interventi del pubblico, telefonate ecc. hanno abituato i telespettatori a considerare accettabili molti modi (non tutti) in cui gli altri concittadini articolano la lingua nazionale. Se è innegabile un certo prestigio di un generico italiano settentrionale, è anche vero che il maggiore dinamismo demografico delle regioni meridionali potrebbe controbilanciare il possibile influsso del Nord. In base al censimento generale del 1991, non calcolando i sardi - che comunque dovrebbero essere ascritti al tipo centro-meridionale -, attribuendo gli alloglotti (tedeschi dell'Alto Adige, albanesi nell'Italia meridionale ecc.) all'area italiana di riferimento in quanto tutti bilingui, e ovviamente prescindendo dai residenti in regione diversa da quella di provenienza rimasti linguisticamente fedeli a questa, potremmo valutare presuntivamente i parlanti settentrionali in 25.866.000, pari al 46,9% (tutte le province a nord della linea La Spezia-Rimini, con l'inclusione delle province di Massa Carrara e Pesaro) e i parlanti centromeridionali a 29.264.000, pari al 53,1%. Il movimento della natalità nel 1994 mostra che il vantaggio centromeridionale si è accresciuto: ai 206.000 neonati (cifre arrotondate) presumibilmente destinati a un parlato di tipo settentrionale (40,2%) si contrappongono 307.000 centromeridionali (59,8%).
Se l'esigenza di uniformare la pronuncia è scarsamente avvertita, va rilevato che per altri aspetti nell'ultimo ventennio del 20° secolo sembra essersi ridestata una sensibilità normativa, in precedenza latente o confinata nella scuola. I giornali pubblicano lettere che lamentano il cattivo uso della lingua, hanno grande successo commerciale manuali di divulgazione grammaticale o di galateo linguistico, alcune espressioni di rapidissima fortuna vengono presto emarginate come fastidiosi stereotipi, al punto da suscitare ironia verso chi ne fa uso (da formule in voga negli anni Settanta come nella misura in cui, portare avanti il discorso, a monte o a valle in senso figurato, ai più recenti un attimino 'un po'', non esiste 'no', qual è il problema? 'che cosa vuoi/vuole?'). L'attenzione alla lingua si fa sentire anche tra i legislatori: l'educazione linguistica ha ispirato largamente i programmi d'italiano per la scuola media (1979); la Presidenza del Consiglio, con due distinte iniziative (1993 e 1997), ha promosso un "Codice di stile" per semplificare il linguaggio burocratico, suggerendo l'eliminazione di tecnicismi collaterali, ossia di forme dettate da esigenze di registro, non dalla necessaria precisione del linguaggio giuridico (oblazione da sostituire con 'pagamento', istanza 'richiesta'), e insieme di parole ed espressioni libresche (recarsi 'andare', eccepire 'contestare', differire 'rinviare', procedere ad annullamento 'annullare') e di forestierismi non adattati (stage 'seminario', meeting 'riunione, incontro, convegno').
L'assetto dell'italiano di fine secolo è stato variamente valutato dai linguisti. È innegabile che il tratto fondamentale sia l'avvicinamento tra scritto e parlato e in particolare il frequente infiltrarsi di modi tipici dell'oralità nel tessuto della scrittura. Anche le tradizionali distinzioni possibili tra i vari testi scritti (linguaggio letterario, settoriale, scientifico ecc.) sono entrate in crisi. Sulla portata di questa innovazione e soprattutto sulla novità dei singoli fenomeni individuati sono state date interpretazioni divergenti. Alcuni hanno parlato di una nuova varietà d'italiano, propria del registro orale ma sempre più invasiva anche nel dominio della scrittura: "italiano dell'uso medio" (Sabatini 1985), "neostandard" (Berruto 1987); altri hanno ricondotto i vari tratti a possibilità da sempre esistenti nell'italiano normale (Castellani 1991). I fenomeni sui quali si è più insistito riguardano la morfosintassi (generalizzazione di lui, lei, loro come pronomi soggetto e definitivo accantonamento di egli, ella, essi; estensione del pronome atono gli al plurale e anche, in misura molto più ridotta e in modo non certo incontrastato, al femminile; forte sviluppo di cosa come pronome interrogativo, accanto a che o che cosa; espansione dell'indicativo ai danni del congiuntivo, specie nelle proposizioni completive e ipotetiche ecc.) e l'ordine delle parole (frasi segmentate, con tema anticipato o posticipato del tipo: 'il caffè lo prendo amaro', 'lo prendi amaro, il caffè?'; frasi scisse del tipo 'dov'è che ti ho visto?'; costrutti con tema sospeso: 'Giorgio, non gli ho detto nulla'). L'assunzione di questi e altri tratti del genere "non si presenta tanto come una novità, quanto piuttosto segna la legittimazione di caratteri e di usi linguistici già esistenti, ma considerati fino a poco tempo fa del tutto marginali e quindi colpiti da stigma" (Dardano 1993-94, p. 372).
Si può ora procedere a una rassegna di singoli tratti innovativi (per introduzione del nuovo o, più spesso, per abbandono del vecchio), distinti per settore linguistico.
Grafia e fonetica. - Sempre più frequentemente si adoperano le cinque lettere avventizie dell'alfabeto italiano (j, k, w, x, y), soprattutto in seguito alla diffusione degli anglicismi (indicativo che il nome tradizionale di j, 'i lunga', sia spesso sostituito dai più giovani con 'gei' per influsso inglese). Persiste qualche incertezza nell'uso della i puramente grafica: ha preso piede la norma che prevede acacie ma facce (con i mantenuta quando -cia e -gia sono precedute da vocale), ma non mancano eccezioni (provincie è più frequente di province); nella 4a persona del presente indicativo e congiuntivo e nella 5a del congiuntivo dei verbi con tema in gn si oscilla tra bagniamo, bagniate - più frequenti e raccomandate - e bagnamo, bagnate. In alcune tradizionali alternative ortografiche si è avuta più o meno netta preferenza per le varianti latineggianti rispetto a quelle popolari (familiare, consiliare, obiettivo, constatare rispetto a famigliare, consigliare, obbiettivo, costatare). Nell'interpunzione ha grande voga l'uso della sbarretta in casi come l'abbonato/-a o nell'anglicismo e/o. L'accento in sé stesso, generalmente consigliato da grammatiche e dizionari, stenta a radicarsi nell'uso. Quanto ai suoni, è ormai desueta la regola del dittongo mobile là dove non sia cristallizzata (può-poteva, uomo-ometto): muovendo, nuovissimo (invece di movendo, novissimo) ecc. La d eufonica nei monosillabi tende a essere usata solo con a ed e davanti a parola cominciante per la stessa vocale (ad amare, ed è). Elisione e troncamento, vitali nel parlato (con oscillazioni da regione a regione), sono più rare nello scritto per la tendenza a mantenere la forma piena delle parole in qualsiasi contesto, senza rappresentare fenomeni di fonetica sintattica (si è detto, vengono fatti invece di s'è detto, vengon fatti); il troncamento è ormai inusitato negli imperativi di tenere e venire seguiti da enclitica: tienimi e vienimi (invece delle forme tradizionali tiemmi e viemmi).
Morfologia e sintassi. - Conseguenze fonetiche (per l'introduzione di forme terminanti in consonante o addirittura in gruppi di consonanti) ma soprattutto morfologiche (struttura del nome, formazione del femminile e del plurale) ha la proliferazione delle sigle: da colf, vip, sub, prof ai frequentissimi acronimi dell'informatica, in genere pronunciabili solo lettera per lettera: bit, wp (vuppì), pc (piccì), MS-DOS (emmessedòs), VGA (vuggi-à). Abbastanza stabilizzato l'uso dell'articolo, anche nei casi che violano la norma tradizionale (lo iato invece di l'iato o il iato; il pneumatico invece di lo pneumatico). Molte discussioni ha suscitato il problema dei nomi femminili di professione, sulla scia di prese di posizione femministe che hanno trovato espressione ufficiale in un opuscolo pubblicato dalla Presidenza del Consiglio nel 1993 contro il sessismo linguistico: non hanno avuto fortuna le proposte più radicali, ma hanno conosciuto un certo incremento nomi epiceni (la preside, assai diffuso anche prima, o la presidente invece di presidentessa) e femminili regolarmente tratti dai corrispondenti maschili in -o o in -iere (l'avvocata, la ministra, l'ingegnera). Per la sintassi, che richiederebbe un discorso più articolato, esteso alla testualità e alla pragmatica, ci limiteremo a segnalare la diffusione in molti testi scritti (giornali ecc.) dello stile nominale e del discorso diretto; indizio, il secondo fenomeno, di quell'avvicinamento tra scritto e parlato al quale si è già fatto cenno. Due fenomeni particolari che appaiono in espansione sono il largo accoglimento dell'accusativo preposizionale in posizione preverbale, specie con verbi psicologici, per mettere in evidenza una componente ('a me questa storia non convince'; mentre il tipo 'chiama a Paolo' è fortemente marcato come dialettismo meridionale) e l'uso del gerundio semplice come forma temporalmente neutra, cioè in grado di esprimere azione anteriore o posteriore rispetto al verbo finito con tendenziale iconicità sintattica (anteriorità, nel caso di gerundio anteposto: 'arrivando a Rimini andrò subito al mare'; posteriorità, nel caso di gerundio posposto: 'è scivolato cadendo a terra').
Lessico e derivazione
Persistono, benché indebolite, caratteristiche variazioni regionali che riguardano espressioni d'uso comune (l'altro ieri / ieri l'altro / avantieri, sono le quattro meno venti / sono, mancano venti alle quattro ecc.) e soprattutto parole d'ambito familiare e domestico. Da un'inchiesta messa a punto nei primi anni Novanta emerge che presso i giovani fiorentini sono in declino toscanismi tradizionali come desinare, principiare, dianzi, seggiola, cacio (tutti fortemente connotati), ma d'altra parte risultano tuttora d'uso 'normale', per la grande maggioranza del campione, termini come lesso, popone, cencio "straccio", diospero "frutto dei cachi", ramerino "rosmarino". Molto più notevole è però, a livello nazionale, una tendenza di segno opposto: la presenza, anche nella conversazione quotidiana, di parole di matrice colta o specialistica, assunte - o orecchiate - da scienze e correnti avvertite come prestigiose o magari dall'uso burocratico: altresì 'anche', nonché 'e', effettuare 'fare', memorizzare 'ricordare', rimuovere 'dimenticare', estrapolare 'ricavare', nevrotico 'irritabile', opzione 'scelta', problematica 'problema', fibrillazione 'agitazione, nervosismo'. Molto vivace, ma in gran parte effimero, il settore dei neologismi, specie nei linguaggi politico-giornalistico e giovanile. Tra le poche forme diffuse dal linguaggio giovanile non si rinvengono neologismi, ma parole attestate già in precedenza e divulgate più largamente, come casino 'confusione', imbranato 'goffo', fuori di testa 'pazzo' (in senso iperbolico).
Nella formazione delle parole, va registrata la fortuna di alcuni suffissi come l'-istica di sostantivi quali italianistica, oggettistica, modulistica, tempistica, e in particolare la proliferazione di prefissoidi e suffissoidi. In alcuni casi si tratta di formazioni effimere, come per il -poli estratto da Tangentopoli - in riferimento a un grave episodio di corruzione politica scoperto a Milano nei primi anni Novanta - che ha generato nel linguaggio giornalistico i vari, occasionali, Malatopoli, Mazzettopoli, Terremotopoli, assumendo il valore non più di 'città', ma di 'intrigo, serie di affari criminosi, di manovre' in relazione a ciò che indica il primo elemento. Stabile, invece, il progressivo stratificarsi di significati diversi assunto da tele-, che vale 'a distanza' (teleconferenza), 'relativo alla televisione' (teleacquisto), 'relativo al telefono' (teleselezione), con la possibilità di sovrapposizioni (telecomando, in origine genericamente 'comando a distanza' è diventato per antonomasia il 'dispositivo per governare il televisore', favorendo l'uso di radiocomando in molti casi in cui a essere comandato a distanza non sia un televisore, ma un modellino aeronautico, automobilistico, navale). Perlopiù per influsso angloamericano si diffondono formazioni come oto- e nefrotossico, bi- e tridimensionale (con riduzione al primo elemento di una parola composta seguita da un altro composto che presenti il secondo elemento in comune) e sequenze di determinante+determinato (calciomercato, antibiotico-dipendente, Cossiga-pensiero, Casaidea ecc.).
Tra le lingue straniere che fanno sentire con grande intensità il proprio influsso sull'italiano è fondamentale l'inglese (o meglio l'angloamericano), al quale possono ricondursi alcuni dei fenomeni già toccati in precedenza. Molto numerosi gli adattamenti (in particolare degli anglicismi di origine latina, più facilmente assimilabili: sponsorizzare, interfaccia, implementare) e i calchi semantici (suggestione 'suggerimento', polluzione 'inquinamento', enfatizzare 'sottolineare, rilevare', senza sfumature negative); più rare le strutture sintattiche, come l'interrogativa 'a doppio fuoco' (chi suona che). I prestiti integrali che risultano molto diffusi in alcuni canali scritti (giornali, linguaggi settoriali, pubblicità, comprese le insegne dei negozi), sono in realtà di uso occasionale nel linguaggio parlato: nel Lessico di frequenza dell'italiano parlato (1993) la quota di 'esotismi' (comprendente anche eventuali latinismi, grecismi e altri forestierismi) è appena dello 0,3%. L'anglicismo subisce una più o meno completa italianizzazione fonetica (per es., bomber 'tipo di giubbotto' si pronuncia come si scrive e non bòmë). Il genere grammaticale, assente in inglese, dipende talvolta da quello del soggiacente sinonimo italiano: il budget (bilancio), la holding (società), ma in altri casi sembra prevalere il maschile (il team, nonostante la squadra).
Il francese continua il suo secolare influsso sull'italiano, anche come mediatore di altre lingue moderne, non più come un tempo attraverso prestiti non adattati, ma attraverso calchi, specie nel settore della politica e dell'economia. Al francese risalgono sostantivazioni come il terziario, il nucleare, giustapposizioni come caso-limite, giornata-tipo, quartiere-dormitorio, fortunate metafore giornalistiche come bucare il video 'riuscire bene in televisione', sdoganare 'dare piena legittimazione (a un partito politico)'.
L'italiano nel mondo
Il Ministero degli Affari esteri ha promosso nei primi anni Ottanta un censimento per accertare il numero degli studenti d'italiano fuori d'Italia e le motivazioni della loro scelta. È risultato che all'epoca l'italiano era studiato da circa 1.200.000 discenti, in gran parte per 'esigenze di cultura personale' ed 'esigenze di studio'. Anche se presso le antiche comunità di emigrati la conoscenza della nostra lingua (già precaria a suo tempo, data la dialettofonia della grande massa di persone che hanno lasciato l'Italia) appare compromessa sin dalla seconda generazione, è proprio in queste aree (Stati Uniti, Canada, America Meridionale, Australia) che lo studio dell'italiano viene praticato più largamente. A quanto pare, nel 1987 gli studenti d'italiano nelle varie università americane avrebbero raggiunto la cifra di 41.000.
bibliografia
In generale sull'italiano contemporaneo:
T. De Mauro, Storia linguistica dell'Italia unita, Roma-Bari 1970, 1976³.
G. Berruto, Sociolinguistica dell'italiano contemporaneo, Roma 1987.
Introduzione all'italiano contemporaneo, a cura di A.A. Sobrero, 2 voll., Roma-Bari 1993.
Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni, P. Trifone, Torino 1993-94, 3 voll. (in partic.: M. Berretta, Il parlato italiano contemporaneo, vol. 2°, pp. 239-70.
M. Dardano, Profilo dell'italiano contemporaneo, vol. 2°, pp. 343-430.
F. Avolio, I dialettismi dell'italiano, vol. 3°, pp. 561-95.
T. Telmon, Gli italiani regionali contemporanei, vol. 3°, pp. 597-626.
S. Morgana, L'influsso francese, vol. 3°, pp. 671-719.
P. Bertini Malgarini, L'italiano fuori d'Italia, vol. 3°, pp. 883-922).
Molto spazio dedica all'italiano contemporaneo la rivista Italiano e oltre (dal 1986).
Più in particolare: L. Canepari, Introduzione alla fonetica, Torino 1979, 1980².
N. Galli de' Paratesi, Lingua toscana in bocca ambrosiana. Tendenze verso l'italiano standard, Bologna 1984, 1985².
F. Sabatini, L'"italiano dell'uso medio": una realtà tra le varietà linguistiche italiane, in Gesprochenes Italienisch in Geschichte und Gegenwart, hrsg. G. Holtus e E. Radtke, Tübingen 1985, pp. 154-84 con la replica di A. Castellani, Italiano dell'uso medio o italiano senz'aggettivi?, in Studi linguistici italiani, 1991, pp. 233-56.
M. Dardano, The influence of English on Italian, in English in contact with other languages, ed. W. Vierek, W.D. Bald, Budapest 1986, pp. 231-52.
T. De Mauro, F. Mancini, M. Vedovelli et al., Lessico di frequenza dell'italiano parlato, Milano 1993.
N. Binazzi, Le parole dei giovani fiorentini: variazione linguistica e variazione sociale, Roma 1997.