Lingua e lingue
Tutti i bambini imparano a comunicare. Molto rapidamente arrivano a capire e a usare il linguaggio del proprio gruppo sociale attraverso diverse fasi di sviluppo, dai suoni fino alle parole che indicano oggetti e azioni. Questa capacità è trasmessa geneticamente, cioè dai genitori ai figli. I bambini imparano a parlare con la mente e con il corpo e il gioco è uno strumento fondamentale per comunicare.
Fin dalla nascita 'parliamo'. I bambini di pochi mesi non usano, ovviamente, parole o frasi ma il pianto, il sorriso, i gesti. Già a tre mesi un bambino emette vocali o consonanti singole. Con lui sta crescendo, oltre alla voglia di comunicare con il mondo, anche la forza dei muscoli, della bocca e della faringe. Nascono così le prime sillabe, i suoni che non sono legati ad alcun significato preciso e che non indicano niente di particolare: ma, ba, la… Gli scienziati chiamano questo periodo la fase della lallazione.
I genitori, gli adulti che stanno intorno al lattante spesso ripetono le sillabe pronunciate dal bambino: ed ecco che nascono buffe conversazioni a base di pa, ba, ta, ca che, anche se non hanno un significato preciso, permettono la comunicazione tra adulti e bambini, attraverso gesti, movimenti del corpo, espressioni del viso. Questa fase è molto importante perché i bambini imparano a parlare anche con il corpo e, dunque, verso i dieci mesi, sanno già imitare smorfie, gesti, movimenti.
Capita spesso di sentire un bambino che strilla per ottenere qualcosa, che piange finché non riceve attenzione oppure che lancia buffe risate fatte di sillabe e suoni modulati. È il segno che quel bambino sta scoprendo la voce e le sue possibilità e che, mentre usa la voce, impara anche a usare i suoni come un vero e proprio linguaggio.
Le mamme, quando i bambini hanno circa un anno, sanno distinguere, per esempio, il pianto che segnala fame dal pianto che esprime un capriccio. Succede lo stesso per le risate. I genitori imparano, insieme al figlio, a distinguere tra una risata di divertimento e una di soddisfazione. E il bambino? Si può dire che, a questa età, comincia a usare gruppi di suoni con la ferma intenzione di dire qualcosa di preciso. Non è più solo un gioco di sillabe e gesti. Adesso, a circa un anno, quando emette un suono lo accompagna a un gesto e ha un obiettivo preciso: vuole ottenere qualcosa.
Le parole semplici sono essenziali per comunicare, cioè per mandare un messaggio e ricevere una risposta. A due anni un bambino sa già come funziona questa splendida macchina che è il linguaggio umano e comincia a costruire frasi appena abbozzate. Per esempio, dice "papà brum" e vuole dire "papà è in macchina" oppure "papà guida la macchina"; oppure accoppia un nome a un aggettivo e ottiene, magari, "mamma bella". E se dice "ciao" è per salutare qualcuno che arriva o se ne va. Gioca con le parole, insomma, ma sa bene quello che sta facendo.
Ci sono rime che servono per divertire e al tempo stesso per insegnare qualcosa. Per esempio: "In bocca a me / in bocca a te / in bocca al figlio del re…" è una filastrocca fatta apposta per dare i tempi dei bocconi durante il pasto. Ancora: "Cavallino trotta trotta / che ti salto sulla groppa / trotta trotta in Delfinato / a comprare il panpepato…" è un bel gioco ma è anche un'occasione per il bambino di imparare espressioni nuove, intonazioni e ritmi. Impara ad ascoltare e a imitare, tanto che ripete i versi, i movimenti, chiede di giocare ancora.
La capacità di parlare non ha inizio con la prima parola pronunciata, ma molto prima. Comincia con i gesti, i suoni, i comportamenti. Prosegue con le sillabe e poi con le parole. La prima parola, quando arriva, segna solo l'avvio di un lungo periodo di apprendimento del linguaggio.
È soprattutto grazie all'aiuto paziente e giocoso degli adulti, e in primo luogo dei genitori, che i bambini trovano un nome per gli oggetti, gli animali e le persone, indicandoli con parole semplici e brevi che ne imitano rumori, versi, suoni. Miao, bau bau, brum brum, tic tac e così via sono alcune di queste parole, che vengono definite onomatopeiche.
Anche dopo che hanno iniziato a parlare, i bambini possono comunicare semplicemente attraverso i suoni: pianto, risata, sospiro, urlo. Perfino i gesti e le posizioni hanno la loro importanza: saltare (di gioia o per dispetto), correre (per sfuggire un pericolo), rannicchiarsi (per difendersi da qualcosa o da qualcuno), salutare. Si parla, dunque, con le parole ma anche con i gesti.
Per riuscire a parlare bisogna essere capaci di produrre suoni, di pronunciare vocali e consonanti, e unirli per formare sillabe e parole. E ancora non basta. Bisogna essere capaci di ascoltare e percepire i suoni e le parole dette da altri. E poi? Occorre avere qualcuno che ci ascolti e che parli con noi. Infine, bisogna aver voglia di comunicare.
Per imparare a parlare occorre che tutti i nostri sensi siano ben svegli e in movimento. Udito, vista, tatto, gusto e olfatto vengono raggiunti continuamente da una grande quantità di informazioni. Di tante informazioni, al cervello ne arriva solo un centinaio al secondo. E tutte le altre dove vanno a finire? Semplicemente non vengono raccolte, perché fin da piccolissimi impariamo a prendere quello che ci serve oppure quello che per noi ha significato. Ci aiuta, in questo importante lavoro di scelta, l'educazione che si riceve a casa, a scuola, nell'ambiente in cui viviamo.
La voce della mamma, le coccole, gli abbracci, la pappa sono le prime 'parole' che s'imparano da bambini e a cui si risponde con il sorriso, le smorfie del viso, lo sgambettare, il modo di guardare. La mamma parla con i gesti e con le parole, ripete le smorfie del bambino, i suoni che produce e cerca di insegnargliene di nuovi. Mamma e bambino fanno una specie di gioco di specchi: l'una imita l'altro e viceversa.
Prima di dargli un nome, un bambino deve conoscere un oggetto attraverso i sensi: lo guarda, lo tocca, lo mastica, lo annusa, lo fa cadere, lo agita per sentire se fa rumore. Fa tutte queste cose insieme e ripetutamente. Certe volte questo suo comportamento fa reagire gli adulti. Il bambino scopre, così, che gettare un oggetto a terra è un gesto che gli adulti, in genere, proibiscono. Allo stesso modo scopre che non deve portare alla bocca tutti gli oggetti. Impara che alcuni gesti sono accompagnati dalla parola "sì" e altri da un "no" secco. Impara regole, comportamenti e, soprattutto, parole.
Nel 1798, in Alvernia, una regione della Francia centrale, tre cacciatori trovarono un ragazzo di circa dodici anni che, cresciuto da solo in mezzo ai boschi, si comportava come un animale selvatico. Quando si rese conto di essere prigioniero, il ragazzo ebbe crisi nervose, mordeva e graffiava chiunque tentasse di avvicinarlo. Il ragazzo non aveva mai sentito voci umane ed era incapace di parlare. Non emetteva altro che un suono gutturale ripetuto, però era capace di ridere e piangere. Con grande fatica, imparò poi a riconoscere le lettere dell'alfabeto e a leggere le parole.
Quasi tutte le lingue europee che oggi parliamo hanno la stessa origine. In epoca preistorica, dall'Europa centrale a una parte dell'Asia, si parlava una lingua comune, l'indoeuropeo (v. indoeuropei). Le migrazioni e le guerre di conquista, poi, misero in contatto i popoli di quelle regioni con genti che parlavano lingue diverse. Da quell'incontro sono nate le lingue che conosciamo
Circa quattromila anni prima di Cristo, dall'Europa centrale all'Asia, inclusa l'India, si parlava una sola lingua. Gli studiosi l'hanno chiamata indoeuropeo. Di questa lingua non ci sono rimaste tracce scritte. Tuttavia, siccome le lingue venute dopo, come il greco, l'ittita, il latino, il celtico e altre ancora, si assomigliano molto nei suoni e nella grammatica, gli studiosi hanno pensato a una lingua d'origine unica per tutte le lingue antiche, le quali, trasformandosi, hanno poi dato vita a quelle che oggi conosciamo.
Circa duemila anni prima di Cristo, infatti, molti dei popoli indoeuropei cominciarono a spostarsi dirigendosi verso l'Oceano Atlantico, il Mar Mediterraneo, l'Oceano Indiano. Occuparono così nuove terre, tra loro sempre più lontane, e soprattutto incontrarono nuove popolazioni (per esempio gli Etruschi, i Piceni, gli Iberi, i Berberi, i Punici) che parlavano una loro lingua, diversa dall'indoeuropeo. I modi di parlare, dunque, si mescolarono e si fusero: nacquero così nuove lingue.
La lingua italiana deriva dal latino dei Romani. Con la conquista militare di quasi tutta l'Europa e di ampie regioni dei paesi mediterranei da parte delle truppe romane, il latino diventò la lingua usata nella comunicazione e nel commercio nel vastissimo territorio dell'Impero. Il latino parlato nelle terre che oggi si chiamano Portogallo, Spagna, Francia, Italia e Romania, a partire dalla caduta dell'Impero Romano d'Occidente, si trasformò dando vita a nuove lingue, parlate ancora negli stessi luoghi: le lingue romanze. Esse si assomigliano perché derivano tutte dal latino parlato ai tempi dell'Impero.
Lo strumento più usato per comunicare a distanza con la voce in italiano si chiama telefono, téléphone in francese, teléfono in spagnolo, telefone in portoghese, telefon in romeno. Spesso le parole della tecnica e della scienza nate nell'epoca moderna confermano le parentele tra le lingue, poiché esse sono formate utilizzando parole greche e latine. Greco antico e latino tornano a farci parlare un po' di indoeuropeo. In inglese, per esempio, che non è una lingua romanza, ma è comunque una lingua d'origine indoeuropea, "telefono" si dice telephone: una parola assai simile a quella usata nelle altre lingue appena citate. Dimenticavamo: telefono e i suoi 'parenti' sono formati con tele-, dal greco têle che significa "da lontano", e -fono, dal greco phonè che significa "voce", "suono".
Le parole della scienza, della medicina, della tecnologia, formate attingendo dal vocabolario del greco antico e del latino, vengono diffuse in Europa e, attraverso l'inglese, in gran parte del mondo. Inoltre, spostandoci sempre più rapidamente e frequentemente da un paese all'altro conosciamo posti nuovi e impariamo lingue diverse. Ci accorgiamo così di essere anche noi un po' nomadi, come i nostri progenitori, che usavano lingue di provenienza diversa. Usiamo infatti moltissime parole di lingue straniere e diciamo taxi, blitz, leader, lager, computer, file, crème caramel sicuri di essere capiti. In altri paesi europei si usano parole italiane come ciao, bravo, pizza e così via. Ciò dimostra che le lingue si influenzano l'una con l'altra.
Prima dell'alfabeto sono nate altre forme di comunicazione: segni, disegni, graffiti. Poi, circa cinquemila anni fa, gli uomini hanno cominciato a usare i segni e i disegni per comporre una scrittura fatta di immagini
Lontano nel tempo, circa ventimila anni fa, gli uomini che vivevano all'aperto e trovavano rifugio nelle caverne usarono i tizzoni del fuoco oppure i colori estratti dalle piante e dall'impasto con la terra, per tracciare sulle pareti di roccia segni e disegni. La loro intenzione era di raccontare ciò che avveniva durante la caccia, la pesca, i riti per propiziare la benevolenza delle forze della natura. Insomma, quei segni erano un modo primordiale di raccontare la vita, le azioni e anche i timori degli uomini. Bellissimi disegni di quella lontana età sono stati ritrovati in Francia, nella grotta di Lascaux.
Nella preistoria ancora più lontana, altri uomini avevano graffiato (da cui la parola 'graffito') i ritratti di animali e di cacciatori sulle pareti delle caverne dove vivevano, oppure nelle grotte che venivano usate per i riti che invocavano la benevolenza degli spiriti prima della caccia.
Segni, disegni, pitture e graffiti rappresentano, ai nostri occhi, i primi tentativi di raccontare azioni e progetti; ma non possiamo certo dire che fossero un sistema di scrittura né un alfabeto. L'alfabeto, anzi, è una conquista molto recente dell'umanità. Prima dell'alfabeto così come noi lo conosciamo, sono esistite altre forme di scrittura.
Pensiamo ai popoli all'alba della storia, che vivono di caccia, di pesca. Ogni tribù si incontra e spesso si scontra con altre tribù per la conquista di nuovi territori, per il possesso di animali e armi. Lo scontro, alla fine, ha un vincitore. Ma lentamente i gruppi, le tribù si mescolano, si integrano, diventano un popolo con una propria lingua e organizzazione. Si comincia a sentire la necessità di stabilire regole che valgano anche per il futuro, regole che si devono conservare inalterate per generazioni e che perciò contribuiscono nel tempo all'identità di un popolo. La voce, la memoria trasmessa attraverso la parola non scritta non basta più. Bisogna trovare un modo per registrare e trasmettere nel tempo i fatti e i dati più importanti della propria storia. Nasce la necessità della scrittura.
Tavolette d'argilla, sassi graffiti o incisi sono i primi 'fogli' su cui gli archeologi hanno potuto studiare per stabilire che la scrittura è nata in Mesopotamia, un territorio dell'Asia occidentale a nord di Babilonia compreso tra i fiumi Tigri ed Eufrate, circa 5.000 anni fa. Sono tavolette che non raccontano storie o fatti accaduti a Babilonia ma, attraverso il disegno di animali e di sacchi di grano, documentano le vendite di bestiame o il prezzo del grano: infatti la scrittura, in quel tempo, aveva un obiettivo molto pratico. Con essa non si dovevano riprodurre i suoni della lingua che veniva parlata ma, piuttosto, le regole e i commerci. Quei disegni avevano il vantaggio di poter essere compresi anche oltre i confini del proprio territorio. Insomma, non occorreva parlare la stessa lingua per capirsi. Bastava comprendersi attraverso i simboli che ogni disegno rappresentava.
Ancora oggi usiamo simboli e segni che possiamo considerare parenti delle scritture antiche. La più antica forma di scrittura che conosciamo è quella cuneiforme, anche se recenti scoperte archeologiche suggeriscono che siano stati gli Egizi i primi a costruire un sistema di scrittura.
La tastiera del computer che ormai usiamo tutti è sicuramente uno strumento di grande modernità. L'alfabeto e i numeri che noi riconosciamo e digitiamo sono di uso comune e facili da comprendere. Accanto alle lettere e ai numeri ci sono, però, anche dei simboli come @, $, &, %. Non corrispondono a suoni che pronunciamo, però sappiamo bene cosa indicano e soprattutto sappiamo come usarli. Questi simboli sulla nostra tastiera sono i parenti stretti degli antichi sistemi di scrittura.
Tutto cominciò, secondo archeologi e linguisti, in Mesopotamia, con la scrittura cuneiforme dei Sumeri, la più antica che conosciamo, anche se recenti ritrovamenti archeologici sembrerebbero attribuire tale primato agli Egizi. Il nome cuneiforme deriva dal fatto che i segni di questa scrittura somigliano a cunei e chiodi.
Ma prima di somigliare a un insieme ordinato di chiodi, la scrittura sumera era costituita da immagini, disegni, secondo il principio usato dagli Egizi con i geroglifici. Sia i Sumeri sia gli Egizi usavano, per scrivere, i pittogrammi, cioè segni che rappresentano oggetti, animali, ambienti. Alcuni geroglifici degli Egizi, oltre che rappresentare 'cose', come i pittogrammi dei Sumeri, avevano anche valore di suoni. Nacque a quel punto un problema: una scrittura fatta solo di disegni non riusciva a rappresentare tutto quello che la lingua parlata poteva esprimere. Era praticamente impossibile inventare e ricordare un segno per ogni cosa. In più, i pittogrammi non riuscivano a esprimere adeguatamente né le parole astratte, né i verbi e, dunque, le azioni.
Man mano che la pratica della scrittura si diffondeva, diventava sempre più necessario esprimere azioni, sentimenti, intenzioni, progetti. Gli Egizi, i Sumeri e gli altri popoli che usavano i pittogrammi cercarono allora un sistema per scrivere i suoni della lingua. I disegni si semplificarono, divennero più stilizzati e nacquero così i segni che rappresentavano tre, due o uno dei suoni che l'uomo è in grado di emettere. La lingua egizia non prevedeva la scrittura di vocali e capitava spesso che parole dal suono simile risultassero scritte nello stesso modo e, dunque, difficilissime da distinguere per chi leggeva. Per risolvere il problema, vennero inventati segni che, posti accanto a un geroglifico, potessero differenziarlo da quello a cui corrispondeva una parola dal suono somigliante. Un'altra complicazione era dovuta al fatto che gli Egizi cambiavano spesso direzione nello scrivere: da destra a sinistra, dall'alto verso il basso, in colonne verticali, in linee orizzontali. Insomma, non facevano come noi che quando scriviamo usiamo sempre la stessa direzione, cioè da sinistra a destra. L'alfabeto era ancora lontano.
Gli archeologi ne discutono senza riuscire ad arrivare a una conclusione certa. Fino a poco tempo fa, si era sicuri che le prime forme di scrittura organizzata fossero nate con la civiltà sumerica, in Mesopotamia. La scoperta di placchette di osso e di argilla nella necropoli di Abydos in Egitto, a circa 400 km dal Cairo, suggerisce invece che i primi a usare la scrittura in forma organizzata possano essere stati gli Egizi. Le iscrizioni sulle tavolette sembrerebbero essere ricevute che attestano il pagamento delle tasse al faraone.
Furono i Fenici a creare il primo sistema di scrittura che faceva corrispondere una lettera a ogni suono emesso. In breve tempo, il sistema dell'alfabeto si diffuse in tutta l'area del Mediterraneo. Greci, Etruschi, Umbri e Latini lo assunsero come sistema di scrittura, cambiandone alcune lettere.
I Fenici vivevano lungo le coste del Mediterraneo orientale. Grandi navigatori ed esperti mercanti, furono i primi a inventare, circa a metà del 2° millennio a.C., un sistema di scrittura diverso da quello dei pittogrammi. A ogni segno fecero corrispondere non più un oggetto, un animale o un fatto, ma un suono. E se con le scritture degli Egizi e dei Sumeri bisognava imparare circa tremila segni, che comunque non bastavano a dire tutto quel che gli uomini vedevano, pensavano, contrattavano, con la scrittura fenicia il numero dei segni si ridusse moltissimo.
L'alfabeto fenicio comprendeva solo 22 segni contro le migliaia dei sistemi di scrittura cuneiforme e geroglifica. I segni, disposti l'uno vicino all'altro, corrispondono ai suoni che formano le parole. Poiché i segni sono pochi, è facile ricordarli: questo spiega la rapida diffusione dell'alfabeto fenicio.
I Fenici non pronunciavano i suoni che corrispondono alle nostre vocali e, dunque, non le scrissero nel loro alfabeto. Quando i Greci cominciarono a conoscere la scrittura fenicia si trovarono un po' in difficoltà, perché loro avevano, invece, le nostre vocali. Però, non avevano i suoni aspirati usati dai Fenici. E allora… fecero uno scambio. Adottarono i segni che indicavano in fenicio i suoni aspirati e li trasformarono nelle lettere che corrispondevano alle vocali! Agli inizi del 1° millennio a.C. l'alfabeto fenicio si diffuse per tutta l'area del Mediterraneo e ogni popolo ne adottò i segni, adeguando le lettere alla propria lingua parlata. Tempo dopo, gli Etruschi lo modificarono in modo rilevante, per adattarlo alla loro lingua, ancora oggi non completamente decifrata. In qualche caso, come a Creta per esempio, si mescolarono la scrittura pittografica e quella alfabetica, generando un altro sistema di scrittura molto più complicato dei precedenti e che, ancora oggi, gli archeologi non sono in grado di decifrare.
I Latini adottarono l'alfabeto greco e lo trasformarono in base alla loro lingua e alle loro esigenze di scrittura: a partire dal 7° secolo a.C., per via del dominio militare, commerciale e culturale dell'Impero romano (v. romani anctichi), questa scrittura si diffuse in tutto l'Occidente e divenne la più adoperata. Oggi, i simboli latini sono quelli internazionalmente utilizzati, anche se in molti paesi si usano altri sistemi di scrittura e alfabeti diversi.
Ogni lettera dell'alfabeto occidentale ha una storia antica. La A, per esempio, ha come antenato il disegno di un toro. La lettera che ricorda nella forma il toro è il primo segno dell'alfabeto perché il toro rappresenta la forza che è indispensabile alla vita, all'agricoltura, al trasporto, al movimento. Il disegno del toro e del bue esisteva già nei geroglifici egizi. L'energia del toro è posta al principio di tutto e dunque le forme di questo animale diventano le forme del segno con cui inizia l'alfabeto.
Saper parlare è una capacità specifica del genere umano. La lingua è lo strumento attraverso il quale ci esprimiamo e costruiamo il nostro pensiero. Oggi, tra le diverse migliaia di lingue parlate nel mondo, ce n'è una che è, in assoluto, la più parlata sul nostro pianeta: il cinese mandarino.
Gli animali sono in grado di comunicare ma non usano parole e frasi. Saper parlare è una capacità specifica del genere umano. Sono molteplici le teorie su come il linguaggio si sia sviluppato tra gli uomini. Alcuni studiosi sostengono che le prime sillabe siano nate dai gridi con cui gli uomini primitivi accompagnavano le loro emozioni: paura, collera, minaccia, dolore, gioia. Altri pensano che il linguaggio abbia avuto inizio con l'imitazione dei suoni che caratterizzano un fenomeno, per esempio il rombo del tuono, o il verso di un animale, come il ruggito di un leone.
La lingua non è soltanto un formidabile strumento individuale per costruire il pensiero ed esprimerlo. Prima di tutto, la lingua, ogni lingua, è un sistema attraverso il quale coloro che lo usano possono 'vedere' e interpretare il mondo in un certo modo. La lingua sceglie, tra i moltissimi elementi della realtà, quali nominare e in che modo farlo. Facciamo un esempio. In italiano, per esprimere il concetto di bianco abbiamo poche parole: bianco, candido, niveo, eburneo. Invece, nella lingua degli Inuit, gli Eschimesi del Canada, esistono circa cento termini per definire il bianco! Quel popolo, che vive sempre tra neve e ghiacci, conosce e nomina queste 'bianche' realtà in modo molto vario.
Allo stesso modo, una parola che in una lingua esprime un concetto, in un'altra può esprimerne altri. In italiano, per fare un altro esempio, la parola legno indica un tipo di materiale; in inglese, wood significa "legno", come in italiano, ma anche "bosco".
La lingua è strumento di comunicazione e di pensiero, ed è soggetta a numerosi cambiamenti. Per esempio, la condizione economica e sociale di chi la parla può fare la differenza: nella società indiana, dove vige una rigida divisione in caste, esistono varietà molto evidenti della lingua tamil, legate alle caste. Una lingua cambia anche nello spazio: l'Italia è ricchissima di dialetti (con vocaboli, pronunce e regole grammaticali specifiche) diversi da regione a regione e, addirittura, da comune a comune (il siciliano di Palermo è diverso da quello di Catania); in Germania il tedesco usato in Baviera è diverso da quello di Amburgo. Il tempo che passa è un altro elemento che modifica una lingua: l'italiano biade non si usa più nel senso di "cereali"; l'inglese beneath è un modo antiquato di dire below, che significa "sotto".
Non tutte le lingue parlate oggi nel mondo possiedono una scrittura. Molte lingue locali vivono e si diffondono soltanto attraverso ciò che viene detto e narrato: non esistono, cioè, segni o simboli che possano riprodurne i suoni. Non si tratta di un fenomeno insolito. Sappiamo che, per ogni lingua, prima è venuta la comunicazione e l'espressione verbale e dopo la forma dei simboli e dei segni che ne hanno costituito l'alfabeto. Alcune lingue però non hanno mai generato una scrittura. In tutte le lingue scritte e parlate, poi, non c'è perfetta corrispondenza tra segni dell'alfabeto e suoni. In italiano, per esempio, il suono duro della c di casa si esprime, scrivendo, in due modi differenti: con la lettera c (cane, cono, cuore) o con il gruppo ch (che, chilo).
"Tutta la Terra aveva un medesimo linguaggio e usava le stesse parole. Or avvenne che gli uomini, emigrando dall'Oriente, trovarono una pianura nella regione del Sennar e vi si stabilirono. E dissero l'un l'altro: "Su facciamo dei mattoni e cociamoli al fuoco". E si servirono di mattoni invece che di pietre e di bitume in luogo di calce. E dissero: "Orsù edifichiamoci una città e una torre la cui cima penetri il cielo. Rendiamoci famosi per non disperderci sulla faccia della Terra"". E così i popoli, uniti da un'unica lingua, cominciano a costruire una torre altissima e una città bellissima. Dio, colpito da tanta superbia, scende sulla Terra perché si rende conto che così gli uomini non avranno più limiti nelle loro imprese. L'unica via per fermarli è quella di moltiplicare il loro modo di parlare affinché smettano di capirsi l'uno con l'altro. E così da quel giorno quel luogo si è chiamato Babele, che oggi vuol dire "confusione", e ogni popolo ha cominciato a parlare una lingua diversa.
Così la Bibbia racconta come sono nate le lingue sulla Terra. Da quel momento in poi, la ninna nanna che la mamma africana canta al suo bambino, per addormentarlo nella cesta, ha parole diverse da quella cantata tra le pelli di foca dalla mamma eschimese. Che peccato! Anche voi, a sentire tutte quelle parole incomprensibili, al Polo o nel villaggio della savana, non trovereste subito il sonno. Pensate a come sarebbe più facile la vita sulla Terra se gli uomini si capissero al volo! Deve averlo pensato anche Gulliver, grande viaggiatore e conoscitore di paesi lontani.
Cosa vogliono da lui quegli strani ometti, alti non più di 20 centimetri? Perché lo tengono legato al terreno per mani e piedi e - oh, che male - per i capelli? Soprattutto non si capisce neanche una parola di quello che dicono. Se Gulliver vuole salvarsi dagli abitanti di Lilliput deve al più presto imparare la lingua del posto. Paese che vai, lingua che trovi! Pensateci, perché potrebbe capitare anche a voi!
Con tutte queste lingue diverse, se andiamo in un paese che non è il nostro, la prima cosa che ci chiediamo è: come farò a farmi capire se voglio mangiare, se cerco un posto dove dormire, se voglio una barchetta per fare un giro in mare? Aiuto! È quel che ha pensato lo sfortunato turista nell'isola di Piro Piro.
"Gli abitanti dell'isola parlano una strana lingua. Devo ammettere che il piropirese sembra una lingua davvero semplice. Da quel che ho capito nasce dalla parola base 'piro' che significa uomo, isola, mare, squalo e tante altre cose; può essere accentata e diventa così
'pirò' assumendo una serie di nuovi significati. Ad esempio 'no' si traduce con piro mentre 'sì' con pirò; 'sì e no' con piropirò. 'Capanna' con piro, 'mare' con pirò; 'capanna sul mare' con piropirò. 'Mangiare' con piro, 'carne' con pirò; 'mangiare carne' con piropirò". Facile, ma, non si sa come, il povero turista vuole una cotoletta e ottiene carne di squalo cruda, chiede patatine fritte e riceve solo succo di molluschi.
Imparare una lingua è dunque molto utile. Ma bisogna avere una ragione importante per farlo! Se non hai nulla da dire, che gusto c'è? E Kamo, ragazzo parigino, non ha nessun motivo valido per mettersi a imparare parole astruse: l'inglese proprio non lo digerisce. Ma una sfida, con la madre che invece conosce molte lingue, - tre mesi per imparare l'inglese - cambierà ogni cosa. Kamo comincia così, un po'controvoglia, a corrispondere con una fantomatica miss Catherine Earnshaw. Saranno la curiosità e certe stranezze della sua 'amica di penna' a fare sì che in Kamo nasca il desiderio di comunicare con lei, anche se in inglese. Non è infatti strano che questa Cathy non sappia che cosa sono la metropolitana e il telefono? E perché le sue buste sono chiuse da un sigillo di ceralacca? Come mai per scrivere usa una penna d'oca che gratta il foglio e non una normale biro? Quali misteri si annidano dietro l'Agenzia di Corrispondenza Babele - Tutte le lingue europee? Non sarà che dietro questa agenzia si nasconde la sfidante di Kamo, cioè la sua mamma?
A proposito di sfide e di penne! La scommessa di Kamo è quasi una bazzecola se messa a confronto con la sfida lanciata da Nick Allen all'intero dizionario di inglese! Le parole sono importanti e hanno una loro storia, a volte anche molto antica, come spiega l'anziana e saggia maestra a Nick e ai suoi compagni; ma, aggiunge, le parole sono cose vive che possono cambiare e trasformarsi. E allora, se così è, Nick prende la sua decisione storica:
"D'ora in poi non userò mai più la parola PENNA. Al suo posto userò la parola DRILLA e farò tutto il possibile perché anche gli altri la usino".
Da quel giorno i suoi amici, ma anche gli altri bambini della scuola e poi tutti i ragazzi della città, e anche tutti quelli dello Stato, finanche gli adulti, insomma gli interi Stati Uniti, usano la parola Drilla che da lì a dieci anni entrerà con tutti gli onori nel dizionario inglese. Provate a cercarla e vedete se ho raccontato delle storie…
Le lingue sono una cosa seria. Tuttavia pare una fissazione dei 'grandi' che i bambini debbano sapere alla perfezione la propria e, magari, impararne anche qualcuna in più.
"Usa il cervello, Giancarlo! Per riuscire nella vita è importantissimo sapere una lingua straniera".
E così il piccolo Giancarlo, per accontentare il padre, va in campeggio in Germania dove fa il suo 'bagno di lingua'. Bagno di lingua? Facile: conoscete il bambino vicino di tenda e fateci amicizia, il resto viene da sé.
"Il bambino biondo bloccò il pallone sotto il piede e, picchiandosi il petto, disse: "Nicloss!" o qualcosa del genere. Compresi che si era presentato. Anch'io mi picchiai il petto e per scherzo esclamai: "Io, Tarzan!". Il mio nuovo amico era un bambino serio. Ripeté imitandomi: "Iotarsan". Il mio vero nome non mi piaceva un granché. Pensai che Iotarsan avrebbe fatto al caso quanto Giancarlo, durante quel mese di agosto".
In barba ai desideri del papà, Iotarsan fa nascere una lingua inventata.
Da oggi fiore si dice sprui, albero trabis, sparapai vuol dire tenda, gabo sgusci significa mi piace il mare e per salutarsi basta dire, sorridendo, Ulaì. Tutti sono felici e pensano che per capirsi basta poco. La mamma di Nicloss e lo stesso Nicloss sono convinti di fare il loro bagno di lingua con l'italiano. Nella tenda accanto, anche i genitori di Giancarlo, temporaneamente Iotarsan, sono felici di imparare un po' di olandese. Ma come tutte le vacanze, anche questa finisce: tra abbracci e lacrime ci si scambiano gli indirizzi (a proposito, per dovere di informazione devo dirvi che Nicloss è in realtà Nicholas O'Sullivan e abita a Dublino, in Irlanda; ma poco importa dove si vive quando si è amici) e ci si lascia con una promessa solenne: NICLOSS GABO IOTARSAN e IOTARSAN GABO NICLOSS. Per la traduzione di questo addio ve la dovete cavare da soli. (Carla Ghisalberti)
La Sacra Bibbia, Edizioni Paoline, Roma 1968
Roberto Brunelli, La Bibbia narrata ai ragazzi, Mondadori, Milano 2003 [Ill.]
Andrew Clements, Drilla, Bompiani, Milano 1997 [Ill.]
Marie-Aude Murail, Papà e i bagni di lingue, Emme Edizioni, Trieste 1993 [Ill.]
Daniel Pennac, Kamo l'agenzia Babele, Emme Edizioni, Trieste 1994 [Ill.]
Jonathan Swift, Primo viaggio di Gulliver: viaggio a Lilliput, Edizioni EL , Trieste 1994 [Ill.]
Dino Ticli, Sette giorni a Piro Piro, Piemme, Casale Monferrato 1995 [Ill.]