Romani antichi
Con la spada e con le leggi alla conquista del mondo
Originati da una mescolanza di elementi latini, sabini ed etruschi, in poche centinaia di anni i Romani divennero i padroni della maggior parte del mondo allora conosciuto. L’artefice delle loro conquiste territoriali fu senz’altro l’esercito, ben addestrato, disciplinatissimo e tecnologicamente all’avanguardia; ma tali conquiste furono mantenute grazie agli apparati di governo, alla certezza del diritto e all’universalismo romani. Governati al tempo della Repubblica da un sistema che racchiudeva i pregi delle tre forme politiche dell’antichità – monarchia, aristocrazia e democrazia –, con l’avvento dell’Impero i Romani accrebbero sicurezza e ricchezza ma persero la libertà politica
Secondo la tradizione, Romolo fondò Roma nel 753 a.C. con un atto, il famoso tracciato di un fossato tramite l’erpice di un aratro, dal valore magico e sacrale. Non si tratta d’altro che di una leggenda, dal momento che le effettive origini della città di Roma restano, in realtà, avvolte nell’oscurità (Roma antica). Del dato tradizionale sembra oramai accettabile soprattutto la cronologia, dal momento che nel luogo dove poi sarebbe sorta Roma sono stati rinvenuti reperti databili alla metà dell’8° secolo a.C. Anche altri dati della tradizione tramandano certamente elementi di verità, benché avvolti in un racconto leggendario. Il famoso episodio del ratto delle sabine, per esempio, rimanda al fatto che la vicina popolazione laziale dei Sabini ebbe nella storia più arcaica di Roma un ruolo molto importante anche se oramai difficilmente determinabile: lo testimonia anche la non chiara vicenda del re dei Sabini Tito Tazio, che avrebbe addirittura condiviso con Romolo il potere supremo a Roma.
Il problema più grave per lo studio dell’età arcaica di Roma è rappresentato dall’affidabilità delle fonti storiche disponibili. Tito Livio, Dionigi di Alicarnasso, Plutarco e i tanti altri autori che ci hanno lasciato testimonianza scritta della più antica storia di Roma, infatti, scrissero molti secoli dopo questo periodo, per lo più a partire dall’età augustea. Inoltre essi non potevano attingere a fonti molto antiche, e pertanto dovettero spesso fare affidamento su tradizioni posteriori, talvolta confuse se non addirittura inventate.
I resoconti storici più antichi, infatti, erano gli elenchi annuali dei magistrati (Fasti) e le annotazioni degli eventi più rilevanti di ogni singolo anno (Annali). Tali fonti, però, furono a lungo monopolizzate da un ristretto numero di famiglie patrizie, che ebbero modo di modificarle a proprio uso. Fu solamente a partire dall’inizio del 3° secolo a.C., con il coinvolgimento dei plebei nella redazione degli Annali, che la tradizione su Roma antica acquistò consistenza compiutamente storica, segnando così la fine dell’età arcaica. La tradizione che ci è pervenuta sulle origini di Roma e sulle sue più antiche fasi, pertanto, è in larga parte frutto di una ideologia, quella del 3°-2° secolo a.C., poi perfezionata durante il regno di Augusto (si pensi al mito delle origini troiane di Roma, eternato da Virgilio).
Gli influssi dei popoli vicini. Come qualsiasi altra entità storica, anche il popolo romano crebbe e si sviluppò da un ceppo, quello latino, cui appartenevano altri popoli del Lazio antico (Latini), che ebbero poi un destino meno importante. I Romani si avvalsero anche dell’apporto di altre popolazioni vicine: oltre ai Sabini, gli Etruschi. Dei sette re di Roma, che avrebbero retto il governo della città dal 753 al 509 a.C., gli ultimi tre – Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo – sarebbero stati di origine etrusca: proprio sotto questi re Roma avrebbe iniziato ad assumere un aspetto monumentale e compiutamente urbano.
La nascita delle istituzioni romane. L’età più antica di Roma resta quindi, per molti aspetti, misteriosa. Fu in questa età che si consolidarono le più importanti istituzioni dello Stato romano. Queste ultime sono complesse e talvolta tra loro contraddittorie. Ciò è dovuto al fatto che la mentalità romana era estremamente conservatrice e pertanto, anziché abolire un istituto ormai superato, si preferiva spesso aggiungerne uno nuovo e svuotare di contenuti il vecchio. Questo tipo di mentalità ha contribuito da una parte alla nascita di un sistema politico estremamente complesso per l’epoca, dall’altra ha permesso agli studiosi moderni di ricostruire compiutamente lo sviluppo istituzionale dell’organismo politico più grande del mondo antico.
L’estrema complessità delle istituzioni politiche romane affascinava già gli antichi: Polibio, uno dei massimi storici di Roma repubblicana, individuava proprio in questo aspetto la causa prima della grandezza di Roma. Secondo lui nella costituzione romana coesistevano in armonia le tre forme di governo delle società antiche: la monarchia – rappresentata a Roma dal sommo potere dei due consoli –, l’aristocrazia – rappresentata dalla nobile assemblea del Senato – e la democrazia – attiva nei comizi, che riunivano il popolo di Roma. Queste tre forme di governo, singolarmente imperfette, messe insieme costituivano per Polibio garanzia di perfezione ed eternità per il potere di Roma.
L’Italia tirrenica. Roma divenne una potenza regionale di un certo rilievo all’inizio del 5° secolo, interamente trascorso nella dura lotta contro gli Etruschi di Veio – guerra che si concluderà solamente nel 396 a.C. – e poi contro Equi, Volsci e Sabini per la supremazia nell’Italia tirrenica. Fu questo un momento decisivo anche per l’assetto interno di Roma: questa fase di durissime lotte per l’egemonia si intreccia infatti con un periodo di forte conflittualità interna tra patrizi e plebei, periodo che può considerarsi concluso nel 376 d.C., quando i plebei ottengono il diritto di eleggere almeno un console. Tuttavia la completa uguaglianza giuridica con i patrizi verrà raggiunta solamente un po’ più tardi.
L’Italia centrale e settentrionale. Frattanto Roma stava acquisendo sempre maggiore potere nell’Italia centro-settentrionale. A partire dal 343 prese il via una nuova fase dell’espansione nell’Italia centro-meridionale, che scatenò il conflitto con una fiera popolazione che abitava gli Appennini: i Sanniti. Contro questo popolo non ebbe esito quel meccanismo di conquista che aveva fino allora garantito i più grandi successi all’Urbe. Invece di annettere, saccheggiare e distruggere i vinti, Roma preferiva, di norma, lasciare sopravvivere le comunità conquistate, concedendo loro parti più o meno ampie di territorio, alcuni diritti e, soprattutto, coinvolgendo la classe dirigente locale nell’amministrazione, rendendola così solidale con gli interessi di Roma. Con i Sanniti tutto questo non riuscì: la classe dirigente sannita, forse perché viveva in una società strutturata in maniera molto diversa da quella romana, non riuscì a trovare motivi di convergenza con Roma, per la quale costituì sempre una fonte di preoccupazione. Servirono ben tre guerre, lunghe e sanguinose, per riportare la vittoria sui Sanniti, nel 290 a.C. – anche se molti considerano, e forse a ragione, anche la guerra sociale (91-89 a.C.) come un ultimo episodio del conflitto tra Roma e i Sanniti (Italici).
Nell’Italia settentrionale, frattanto, l’espansione romana conobbe come tappe fondamentali nella conquista di quei territori – occupati dai Galli – sia la fondazione della colonia di Rimini (268 a.C.), che apriva a Roma la Pianura Padana, sia la costruzione della via Flaminia (220 a.C., da Roma a Rimini) e della via Emilia (187 a.C., da Rimini a Piacenza). Gran parte della Pianura Padana, però, venne a lungo sentita come qualcosa di distinto dal resto d’Italia: fu solamente con Ottaviano, nel 42/41 a.C., che la Gallia Cisalpina cessò di essere una provincia e venne aggiunta all’Italia.
Lo scontro con Cartagine. Le guerre sannitiche posero Roma direttamente a contatto con la Magna Grecia, la parte meridionale d’Italia popolata da numerose e fiorenti colonie greche. In pochi anni, dal 280 al 270 a.C., Roma completò la conquista della Magna Grecia, guardando ormai alla ricchissima Sicilia, terra a lungo contesa da Greci e Cartaginesi. Con questi ultimi Roma aveva rapporti amichevoli da lunghissimo tempo, ma ormai le due grandi potenze del Mediterraneo occidentale erano a contatto diretto, ed era chiaro che tali amichevoli rapporti non sarebbero durati a lungo.
Messina fornì il pretesto per scatenare il conflitto. I destini di Roma e Cartagine si compirono nel corso del 3° secolo a.C. con le prime due guerre puniche. La terza (149-146 a.C.) fu solo un crudele esercizio di potenza da parte di Roma contro una città ormai quasi inerme. Il risultato della prima guerra punica (264-241 a.C.) fu la conquista delle prime due province romane – la Sicilia e, dopo qualche anno, la Sardegna; la seconda guerra punica (218-202 a.C.), con l’esercito cartaginese condotto dal grande Annibale, portò alla conquista di altre province in Spagna e quindi in Africa e, soprattutto, alla fine definitiva della potenza di Cartagine.
Le conseguenze della seconda guerra punica. Il principale risultato della discesa in Italia di Annibale e delle terribili sconfitte subite da Roma in quell’occasione, della ribellione di parte degli Italici a Roma e delle durissime repressioni che seguirono la riconquista da parte di Roma fu una gigantesca redistribuzione di terre in Italia. Tale redistribuzione andò a tutto vantaggio dei più ricchi, che si appropriarono di grandi appezzamenti di terra che facevano coltivare agli schiavi: infatti, proprio allora, per effetto delle conquiste, folle di schiavi cominciavano ad affluire in Italia causando una crisi della piccola proprietà, che non poteva reggere il confronto con i bassissimi costi del loro lavoro. Dal canto loro, i latifondisti schiavisti avevano sempre maggiore bisogno di manodopera a basso costo e quindi cercavano di favorire in ogni modo la politica espansionistica di Roma.
Sul piano esterno, in concomitanza con la seconda guerra punica, Roma iniziò l’espansione in Oriente, dapprima costituendo un piccolo protettorato in Illiria, quindi entrando in conflitto con la Macedonia e infine con la Siria seleucide.
Un secolo di lotte. Già gli antichi chiamavano il lasso di tempo compreso tra il tribunato di Tiberio Gracco (133 a.C.) e la battaglia di Azio (31 a.C.) il periodo delle guerre civili. In questi cento anni lo Stato romano cambiò completamente la sua forma di governo, passando da una repubblica aristocratica a un governo imperiale, con il Senato sottoposto all’autorità di un principe che, in realtà, aveva un potere molto maggiore di quanto poteva apparire a prima vista. Ma non fu questa l’unica differenza, per quanto importante. Il secolo di guerre civili fu anche il periodo di massima espansione dello Stato romano: basti pensare che in una quindicina di anni, dal 66 al 50 a.C., due dei maggiori personaggi coinvolti nelle guerre civili, Gneo Pompeo Magno e Cesare, da soli riuscirono quasi a raddoppiare i territori sottoposti al diretto dominio di Roma. In questo periodo si venne organizzando l’esercito legionario ‘classico’, quello che normalmente è associato al nome di Roma, e vennero definite le modalità di governo delle province e le carriere militari e civili dei ceti dirigenti romani.
Due fasi distinte. In questo secolo di lotte intestine si possono riconoscere due fasi distinte. In una prima fase, durata circa un trentennio, la contesa politica venne spesso gestita tramite omicidi e complotti che coinvolgevano gruppi ristretti (si pensi per esempio alle vicende dei fratelli Gracchi); in una seconda fase, a partire dall’inizio del 1° secolo a.C., la conflittualità tra fazioni coinvolse veri e propri eserciti, sfociando quindi in guerre civili (è il periodo delle lotte tra Gaio Mario e Lucio Cornelio Silla, Cesare e Pompeo, Marco Antonio e Ottaviano). Ciò che rese possibile questo cambiamento nella contesa tra fazioni fu la riforma dell’esercito attuata da Gaio Mario, al quale il Senato concesse per la prima volta di poter arruolare dei nullatenenti. Costoro vedevano le proprie fortune dipendere non tanto da quelle di Roma, quanto da quelle dei loro comandanti: nascevano così degli eserciti quasi ‘personali’, che avrebbero per sempre minato l’autorità del Senato e la solidità della Repubblica.
La vittoria ottenuta il 2 settembre del 31 a.C. nella grande battaglia navale di Azio da Ottaviano sulle flotte riunite di Antonio e di Cleopatra segnò la fine delle guerre civili; con la concessione a Ottaviano da parte del Senato del titolo di Augusto si fa comunemente iniziare l’età storica del principato (governo del princeps, cioè di un «primo tra pari»).
Durante questo periodo, durato oltre due secoli e mezzo, l’Impero Romano venne governato quasi senza interruzione da quattro dinastie: i Giulio-Claudi (27 a.C.-68 d.C.: Ottaviano Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone); i Flavi (69-96: Vespasiano, Tito, Domiziano); gli imperatori adottivi e gli Antonini (96-192: Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio, Commodo); e infine i Severi (193-235: Settimio Severo, Caracalla, Eliogabalo, Severo Alessandro).
Si trattò di una lunga fase di sostanziale benessere e stabilità politica, anche se talvolta turbata da improvvise e gravi crisi per la successione, come nel 68 d.C., l’anno di transizione tra i Giulio-Claudi e i Flavi – noto anche con il nome di anno dei quattro imperatori –, o negli anni tra il 192 e il 197, che portarono all’affermazione di Settimio Severo. Il sostanziale benessere nell’Impero, però, non necessariamente voleva dire stabilità di governo: molti imperatori, infatti, furono vittime di complotti orditi dalla corte. Questo non deve stupire, poiché è tipico di un potere assoluto che la principale responsabilità di eventuali problemi o insoddisfazioni sia attribuita alla figura del capo. Nonostante l’immagine spesso fosca che storici come Tacito hanno tracciato di diversi imperatori, è tuttavia innegabile che l’età del principato fu un periodo di crescita economica e sociale in tutte le province dell’Impero.
Sotto il regno di Marco Aurelio nell’Impero Romano si diffuse una terribile epidemia di peste. Le campagnesi spopolarono e seguì una crisi produttiva che comportò un grave deficit delle entrate. L’Impero si trovò quindi, alla fine del 2° secolo d.C., a dover spendere grandi quantità di denaro per il mantenimento dell’esercito potendo contare tuttavia su un prelievo fiscale fortemente diminuito. L’alternativa sarebbe stata quella di ridurre fortemente gli effettivi militari, ma ciò avrebbe messo a repentaglio la sicurezza dell’Impero, proprio mentre le popolazioni barbariche si andavano facendo più attive, sia in Europa sia in Oriente. La scelta di Commodo e, dopo di lui, di Settimio Severo fu invece di mantenere, se non di aumentare, gli effettivi, e di svalutare la moneta, emettendone di più con minori quantità di metallo pregiato. Si trattò di una scelta forse obbligata, ma carica di conseguenze.
Dopo la dinastia dei Severi si aprì un periodo caratterizzato da una tremenda crisi economica, con una svalutazione dei prezzi che, in alcuni momenti, sembrò raggiungere i livelli di una vera e propria bancarotta. Poiché tra le classi sociali più colpite da questa situazione vi erano i militari, è naturale che il loro malcontento abbia portato a una vera e propria anarchia militare. Per lunghi periodi di tempo i confini dell’Impero non vennero più controllati, mentre usurpatori prendevano il potere nelle province, dichiarandosi autonomi. Dal canto loro gli imperatori – che durarono quasi tutti pochissimo, vittime di colpi di Stato militari e di complotti – per tentare di assicurarsi l’incolumità, non trovarono di meglio che cercare di porre sé stessi su un piano sovrumano: si passò così in questo periodo dal principato al dominato (governo del dominus, cioè del «signore-padrone»). D’altro canto, la terribile insicurezza che la crisi economica, militare e sociale provocò nella popolazione dell’Impero fu terreno fertile per la propagazione delle grandi religioni di salvezza, il cristianesimo innanzi tutto, ma anche il manicheismo e così via.
Le riforme. La soluzione della crisi si dovette in primo luogo a una serie di imperatori che riuscirono a rinsaldare l’unità politica e militare dell’Impero. Il più importante fu Diocleziano, artefice di grandi riforme, soprattutto di natura fiscale e amministrativa. L’età delle grandi riforme, poi, venne conclusa dal suo successore Costantino, che ebbe il coraggio di procedere a una radicale riforma economica con la quale si pose fine alla crisi del 3° secolo.
La Tarda antichità. Con Costantino l’Impero accettò definitivamente il cristianesimo. Da allora il dominato si trasformò: all’imperatore-dio si sostituì l’imperatore per grazia di Dio. Si dovette tuttavia attendere il regno di Teodosio il Grande perché il cristianesimo diventasse la religione ufficiale dell’Impero Romano. Siamo ormai pienamente in quel periodo storico chiamato tarda antichità, ed è con la fine di questo periodo – e non con la deposizione di Romolo Augustolo da parte di Odoacre nel 476 – che gli storici moderni fanno finire la storia romana. La tarda antichità, periodo in cui l’antichità si sovrappone al Medioevo, si chiuse in Italia con la discesa dei Longobardi (568 d.C.), mentre in Oriente e in gran parte del Mediterraneo con la conquista araba (egira, 622 d.C., Islam).