Magia
Il termine 'magia', di uso corrente, ha una lunga storia e ha assunto connotazioni diverse nel corso del tempo. Lo scetticismo nei confronti dei poteri o dell'arte che il mago pretende di possedere è parte integrante dell'attuale nozione occidentale della magia, ma tale atteggiamento non caratterizza necessariamente altre aree culturali o altre epoche storiche. La magia è un complesso di pratiche e di credenze: i poteri che il mago proclama di possedere e gli effetti prodotti dalla magia sono assai vari, e riflettono differenti concezioni della natura, di ciò che è normale e di ciò che è possibile. Alla tematica della magia e dell'occulto è strettamente legato il problema della credenza, con i sentimenti (paura, speranza) a essa associati, nonché quello delle forme e delle funzioni sociali assunte dalle credenze e dalle pratiche magiche. Gli antropologi che intendono analizzare la magia in una prospettiva comparatistica devono tener conto dei possibili condizionamenti derivanti dalla complessa storia della concezione occidentale della magia allorché cercano di individuarne gli equivalenti in altre culture.Nel Concise Oxford dictionary del 1934 si legge la seguente definizione della magia: "La presunta arte di influenzare il corso degli eventi mediante un controllo occulto della natura o degli spiriti; stregoneria; magia nera, magia bianca, magia naturale (che implicano l'invocazione di diavoli, angeli, spiriti impersonali); influsso inspiegabile o straordinario che produce risultati sorprendenti". Gli elementi contenuti in questa definizione associano diverse concezioni della magia: la magia come arte appresa e come controllo occulto; come insieme di fenomeni che destano un misto di meraviglia, sorpresa e scetticismo; come capacità di influenzare il corso degli eventi o la natura, cui può essere associato il coinvolgimento di spiriti, buoni o cattivi che siano. Anche nel Larousse del 1928 la magia viene definita innanzitutto come "presunta arte di produrre, per mezzo di pratiche il più delle volte bizzarre, effetti contrari alle leggi della natura". Il fatto che in entrambi i casi si parli di 'presunta' arte evidenzia lo scetticismo insito in tali definizioni.
Nell'antropologia l'analisi della magia è stata per lungo tempo collegata al problema dello sviluppo della conoscenza e del pensiero nelle diverse società, e aveva come presupposto l'idea di una serie di stadi nell'evoluzione dell'intelletto, in cui si ha una progressiva separazione della magia dalla religione e dalla scienza. In seguito lo studio della logica del pensiero magico portò a focalizzare l'attenzione sui modi di pensare, sulla natura della credenza e sulla psicologia della superstizione; venne posto il problema di stabilire se chi pratica la magia creda in una sua efficacia reale oppure se i riti e le pratiche magiche abbiano un valore puramente simbolico, metaforico; infine, si mise in luce la relatività culturale delle nozioni di vero e di possibile. Lo studio delle pratiche magiche in altre società ha portato ad analizzare i meccanismi di allocazione e di controllo delle conoscenze magiche nonché gli usi politici e sociali delle credenze. L'antropologia contemporanea tende a considerare molte di queste pratiche e di queste credenze come parte dello studio del rito anziché della magia, in quanto qualificarle come 'magiche' significherebbe considerarle implicitamente false ed erronee, e, secondo alcuni, sarebbe indice di un approccio condizionato da pregiudizi.
Il tentativo di operare una distinzione tra magia e religione ha una lunga storia. James Frazer ed Émile Durkheim affrontarono tale problema, ma esso aveva origini assai più antiche che influenzarono i termini in cui venne formulata la questione. Tali origini possono essere individuate nelle dispute dei credenti sui poteri dei vari dei e spiriti e sul vero dio. La storia biblica della sfida tra Elia e i profeti di Baal per l'accensione della catasta di legna posta sull'altare ne è un esempio. Quale dio si dimostrerà più forte? Se i profeti chiedono al dio di agire, questi darà loro ascolto? Il problema di quale sia il dio più forte diventa il problema di stabilire quale sia il vero dio. Le religioni monoteiste ammettevano un unico vero dio; se altri profeti asserivano i poteri delle proprie divinità o proclamavano di possedere capacità taumaturgiche, dovevano essere rinnegati. La magia era considerata sacrilegio. Il termine magia indicava in origine la dottrina e la pratica degli antichi sacerdoti persiani, i magi, noti come astrologi, divinatori, esperti di scienze occulte. Nell'antichità pagana venivano riconosciuti i poteri delle divinità di altri popoli. Come ha messo in luce Jacob Burckhardt (v., 1852), i Romani nel periodo di Diocleziano e di Massimiano dimostravano tolleranza e rispetto nei confronti delle divinità di altri popoli. Secondo Burckhardt era tipico delle religioni politeiste ricercare elementi affini in altre religioni trasformandoli in identità. I Romani che professavano la religione pagana classica mescolavano e inserivano in essa i culti delle provincie sottomesse e dei paesi stranieri, riconoscendone le divinità anche se diverse dalle proprie. Laddove gli Ebrei non volevano avere nulla a che fare con la religione romana, i Romani di classe a Gerusalemme osservavano il sabbath e gli imperatori andavano a pregare nel tempio sul colle Moria. L'interesse nei confronti di divinità diverse dalle proprie e la curiosità per i segreti e i poteri magici degli adepti di altri culti erano assai diffusi. Sotto questo profilo il contrasto con il monoteismo è piuttosto netto. Nella tradizione giudaico-cristiana l'idea di un unico dio onnipotente portava a condannare tutti gli altri spiriti o esseri sovrannaturali come falsi o malvagi: riconoscere valore e poteri ad altri dei o alle pratiche a essi associate avrebbe significato mettere in discussione la dottrina centrale di un unico dio onnipotente. Gli antichi dei e spiriti delle foreste e delle acque venivano trasformati in demoni o diavoli. Tuttavia le pratiche religiose degli altri popoli continuavano ad affascinare per la loro stranezza, che si caricava di mistero.
Nei primi secoli del cristianesimo Roma pullulava di taumaturghi, asceti orientali, astrologi e seguaci di culti misterici, dell'antica scuola pitagorica e del nascente neoplatonismo. Alcuni dei trucchi praticati dai taumaturghi descritti da Burckhardt (si trattava di mistificazioni assai elaborate, consistenti ad esempio nel far convergere in una grotta i raggi lunari riflessi in una pozza d'acqua, o nell'incollare al soffitto squame di pesce che luccicavano nella penombra simulando il cielo stellato) sono desunti dagli scritti di sant'Ippolito diretti alla confutazione delle eresie (v. Burckhardt, 1852). Si rendeva necessario distinguere i veri miracoli dalle mistificazioni e dalle imposture, perché nei primi secoli del cristianesimo gli apologeti ricorrevano spesso a descrizioni di poteri miracolosi, di prodigi e di interventi della divinità per provare la verità del cristianesimo (v. Gibbon, 1776-1788). I miracoli attribuiti a Gesù e quelli narrati nella Bibbia confermavano il potere e la verità della dottrina cristiana; non si doveva consentire ad altre religioni di millantare miracoli che li eguagliassero. Le pretese di verità di altre religioni venivano condannate come false o denunziate come inganni e imposture: se esse avevano dei poteri, si trattava di poteri malvagi - quelli della magia e della stregoneria - oppure dell'opera dei demoni o del diavolo.
Veniva così istituita un'opposizione tra vera religione e falsa religione, che può essere riformulata come opposizione tra religione e superstizione. Gli spiriti, i poteri e le pratiche delle false religioni potevano essere condannati come superstizione, ma ciò non era sufficiente a estinguere ogni credenza in essi, né ad annullare il richiamo che esercitavano. Curiosità, paura e credenza persistevano, manifestandosi ovviamente in modi diversi a seconda dell'epoca, dell'area geografica e del livello culturale: tra il popolo in forma di credenza nella stregoneria e in esseri sovrannaturali quali angeli, demoni, spiriti, e tra le persone colte nell'interesse per la filosofia occulta. Con la rinascita della cultura classica, e in particolare con la traduzione degli scritti degli ermetici greci ad opera di Marsilio Ficino e altri, nell'Europa rinascimentale molti studiosi si dedicarono allo studio della filosofia e delle scienze occulte. Personaggi come Pico della Mirandola, Cornelio Agrippa di Nettesheim, Paracelso e Simon Dee contribuirono a creare l'immagine dello studioso di arti occulte che persegue conoscenze esoteriche: le proprietà dei minerali, delle pietre preziose e dei coralli, i segreti dei tutori egiziani di Mosé, la natura impalpabile degli 'spiriti intermedi', né angeli né diavoli, che popolano invisibili lo spazio tra la terra e la luna, e la possibilità di controllarli (v. Yates, 1973). Nacque così l'immagine popolare dell'erudito solitario, incarnato dal Faust di Marlowe e dal personaggio di Prospero nella Tempesta di Shakespeare: uomo di profonda e pericolosa dottrina, dotato di poteri occulti e di arti magiche, che possiede l'antica, segreta sapienza ed è in grado di controllare gli spiriti. Da tale immagine derivò una concezione della magia come dottrina o arte, come capacità di produrre determinati effetti attraverso mezzi occulti e sovrannaturali, oppure attraverso il controllo o la coercizione di qualche spirito minore. La magia veniva vista come qualcosa di temibile e forse malefico, e tale idea si fece strada anche per l'ignoranza del popolo, che restava escluso dalla conoscenza delle lingue e della sapienza degli antichi, e temeva forze e poteri che non era in grado di controllare.
Gli stereotipi popolari non danno un'immagine esatta degli interessi di questi studiosi, né del ruolo che essi ebbero sia nella rinascita dell'umanesimo e della cultura classica, sia nella scoperta di nuovi modi di investigare, sperimentare e interpretare la natura. Ad esempio le indagini sulle proprietà della materia, la ricerca di sostanze o piante in grado di curare le malattie, lo studio delle proprietà dei minerali nel tentativo di mutare i metalli vili in oro hanno avuto un ruolo importante nello sviluppo della scienza (v. Debus, 1978). Nella storia del pensiero europeo la magia si definisce sia in opposizione alla religione, sia in opposizione alla conoscenza della natura, la scienza, che attraverso l'osservazione e l'indagine può farci scoprire le regolarità e le eccezioni della natura.
Per poter controllare l'ambiente esterno è di fondamentale importanza rilevarne regolarità ed eccezioni. Attraverso l'individuazione delle leggi dei fenomeni possiamo tracciare un confine tra ciò che è normale, consueto, naturale, e ciò che è straordinario, sovrannaturale, anormale. Il modo in cui vengono concepiti i rapporti causali in natura, il tipo di forze o potenze che si ritiene intervengano, influenzano profondamente il modo in cui vengono considerati i diversi fenomeni e il significato a essi attribuito. Così ad esempio il trattato Il morbo sacro di Ippocrate, che verte sull'epilessia o mal caduco, è particolarmente interessante nel contesto della sua epoca in quanto in esso si sostiene che le cause della malattia non sono sovrannaturali, bensì puramente naturali. Il cosiddetto 'morbo sacro' non è diverso dalle altre malattie, anche le più comuni, né più misterioso; secondo Ippocrate i processi naturali sono sufficienti a spiegarlo (v. Lloyd, 1979). Questa presa di posizione in favore di una spiegazione naturale per quello che appariva un evento straordinario - l'attacco di epilessia - è sorprendente se si pensa che per lungo tempo dominò la convinzione che disgrazie, mostri e prodigi dimostrassero il potere di esseri sovrannaturali; ancora in epoca cristiana questi fenomeni erano in genere considerati presagi o segni della collera di Dio, che si riteneva intervenisse per dimostrare il proprio potere.
Nel XVI secolo i fenomeni rari, insoliti o straordinari cominciarono a essere visti come testimonianze della ricchezza della natura. Se la natura poteva essere concepita come un ingegnoso artigiano, i mostri e i prodigi naturali apparivano come le sue opere più magistrali. Bacone progettò di catalogare tutti i fenomeni rari, nuovi e insoliti nella convinzione che essi potessero fornire la chiave per comprendere quelli più regolari e le possibilità della natura (v. Park e Daston, 1981). Bacone separò le cause naturali da quelle sovrannaturali, e incentrò l'attenzione sulle prime nell'intento di scoprire nuove verità che potessero rivelarsi utili per l'umanità e contribuire al suo benessere. Dalla concezione baconiana dello studio della natura nacque una nuova visione della scienza. I progressi nella comprensione delle leggi della natura misero sempre più in discussione le spiegazioni in termini di forze mistiche o sovrannaturali. L'idea di legge naturale cominciò a subentrare a quella di forze sovrannaturali che possono intervenire sconvolgendo ad arbitrio il corso normale degli eventi. Il contrasto tra le spiegazioni in termini di leggi naturali e quelle basate sull'intervento di forze mistiche o sovrannaturali si trasformò progressivamente in una contrapposizione tra scienza e magia. Con le nuove scoperte la scienza divenne in Europa la fonte - l'unica fonte - di conoscenza della natura. Il concetto di magia si precisò attraverso l'opposizione alla scienza, e i progressi di quest'ultima segnarono il declino della magia (v. Thomas, 1973). Si cominciò a nascondere l'interesse per le pratiche magiche, per l'alchimia e per l'astrologia anche se, come nel caso di Isaac Newton, si continuava a subire il loro fascino. La Chiesa dal canto suo era sempre impegnata a combattere l'eresia e le credenze popolari estranee alla dottrina ortodossa. I progressi della medicina e delle tecniche agricole influenzarono alcuni ambiti che in precedenza erano stati dominio incontrastato della magia, e questa venne considerata sempre più come errore, illusione o impostura.
Le caratteristiche salienti della concezione occidentale della magia dunque cambiarono, e hanno continuato a cambiare via via che si è trasformato l'atteggiamento nei confronti della religione e della scienza. L'antropologia, sviluppatasi come scienza sociale alla fine del XIX secolo, affrontò il problema del posto da assegnare alla magia in uno schema evoluzionistico del pensiero che postula un progressivo sviluppo dalla società primitiva a quella civilizzata. Lo schema evoluzionistico proposto da Lewis Henry Morgan (v., 1877) distingueva le varie fasi in base allo sviluppo della tecnologia e delle forme istituzionali - i modi di sussistenza, le forme della famiglia e del governo; altri autori, sulla scia del Cours de philosophie positive di August Comte (v., 1830-1842), identificarono i diversi stadi della storia umana in base al tipo di mentalità che domina in ciascuno di essi, postulando un passaggio dalla religione alla scienza. Porre la ragione e la razionalità al centro degli schemi evolutivi non era una novità: si trattava ora di stabilire quale fosse il posto della magia in rapporto sia alla religione che alla scienza.
Alla fine dell'Ottocento dominava in Europa la fede nel progresso e la convinzione della superiorità della civiltà occidentale e della religione cristiana; la teoria evoluzionistica di Darwin aveva stimolato la riflessione in molti campi, inclusi lo studio della religione e della società (v. Burrow, 1966). Attraverso i resoconti di esploratori, missionari e funzionari di governo provenienti da regioni remote del mondo si venne a conoscenza di una straordinaria varietà di credenze e pratiche bizzarre. Gli antropologi dell'epoca si proposero di analizzare tali sistemi di credenze e di spiegarne la genesi alla luce delle teorie dell'evoluzione sociale e del progresso della civiltà.Edward Tylor fu uno dei primi antropologi ad analizzare la magia. Egli si occupò dell'argomento soprattutto nel quarto capitolo del suo studio Primitive culture, nel contesto della teoria delle sopravvivenze - ossia quelle usanze e quei tratti considerati residui di un precedente stadio evolutivo. In Primitive culture Tylor si propose di studiare e di comparare le varie culture al fine di individuare le leggi del pensiero e del comportamento umano che sono all'opera nell'evoluzione della civiltà. Tali leggi a suo avviso non sono "costituite in maniera differente in Australia e in Inghilterra, al tempo degli abitanti delle caverne e al tempo dei costruttori di case di ferro" (v. Tylor, 1871; tr. it., vol. I, p. 168). Lungi dal trattare con disprezzo le religioni delle 'tribù selvagge', Tylor sostenne che i principî su cui esse si basano sono essenzialmente razionali, sebbene applicati in condizioni di ignoranza. Egli definì la magia "uno dei più perniciosi errori che hanno afflitto il genere umano" (ibid., p. 112). Tuttavia, convinto che la storia umana fosse improntata al progresso, Tylor si servì del concetto di sopravvivenza per indicare i residui di idee e pratiche proprie di uno stadio evolutivo precedente, che continuano a sussistere anche quando hanno mutato o perso il loro significato. La credenza nella magia illustra il modo in cui determinate opinioni possano sopravvivere anche quando sono ormai diventate estranee. Alla fine esse verranno eliminate in quanto errore e superstizione. Tylor considerava la magia come una pseudoscienza che diventa obsoleta via via che si sviluppa la vera scienza: per questo motivo in Primitive culture la magia non viene trattata nello stesso contesto della religione. Tuttavia a suo avviso all'origine della magia vi sarebbe una facoltà che "costituisce il fondamento stesso della ragione umana, ma in misura non trascurabile anche della irrazionalità umana": si tratta dell'associazione di idee. Cose che si presentano connesse nella realtà vengono associate nella mente; l'errore del pensiero magico sta nell'invertire questo processo e nel supporre che cose associate nel pensiero possano essere associate anche nella realtà. Le arti magiche costituiscono un'erronea applicazione del principio di associazione: ne è un esempio il tentativo di nuocere a distanza a una persona manipolandone capi di vestiario o frammenti di unghie. Ciò significa credere che la connessione mentale possa fungere da connessione reale. Questo concetto dell'associazione di idee sarà in seguito sviluppato diffusamente da Frazer. Tylor indicò anche una serie di motivi che possono spiegare perché si continua a credere nella magia: a volte in concomitanza con il trattamento magico può essere stato somministrato un rimedio efficace; le persone possono essere persuase o influenzate dall'autorità dello stregone; le profezie tendono ad avverarsi per la forza della suggestione; la natura o certi trucchi talora possono portare al risultato desiderato; si tende a dar rilievo ai successi dimenticando i fallimenti, e spesso questi ultimi sono imputati a un dettaglio che si è trascurato nel seguire la procedura. Nella sua analisi della magia Tylor era interessato soprattutto a individuare i principî logici che ne stanno alla base e le sopravvivenze, privilegiando la sua dimensione intellettuale piuttosto che quella sociale.
Durkheim , influenzato da Comte, si servì di fonti antropologiche per spiegare l'origine e lo sviluppo delle idee morali e religiose. Soprattutto nel saggio De quelques formes primitives de classification, scritto in collaborazione con Mauss (v. Durkheim e Mauss, 1901-1902), egli analizzò le forme di classificazione dei fenomeni naturali, il modo in cui le categorie vengono organizzate in sistemi e i rapporti che vengono istituiti tra di esse, affermando che tali classificazioni non vengono elaborate autonomamente dai singoli individui, ma sono acquisite socialmente. Le idee dei membri di una società sono idee condivise collettivamente. La credenza nella magia rivela determinate caratteristiche della società cui appartengono gli uomini, piuttosto che le capacità intellettuali di questi ultimi; le concezioni del mondo dei singoli individui riflettono la società di cui fanno parte. Secondo Durkheim le credenze cambiano col mutare delle forme organizzative e del grado di complessità della società. Le forme più semplici o elementari del pensiero si ritrovano nelle comunità primitive (caratterizzate da una tecnologia rudimentale, da uno scarso sviluppo della divisione del lavoro, dalle dimensioni ridotte e da una struttura sociale segmentaria). Nel suo studio sulla natura e sull'origine della religione Durkheim (v., 1912) si servì di una serie di dati etnografici sui riti e sulle credenze degli Aborigeni australiani al fine di illustrare le forme elementari della vita religiosa. Egli mise in luce la rilevanza del sacro nella vita sociale, il suo potere cogente e vincolante sulla collettività. La distinzione tra religione e magia va ricondotta per Durkheim alla distinzione tra interessi individuali e interessi collettivi, che corrisponde grosso modo a quella tra azione pubblica e azione privata. Gli individui praticano la magia per raggiungere determinati scopi personali, mentre la pratica religiosa è un'azione di carattere pubblico e collettivo rivolta al sacro. Marcel Mauss, che aveva collaborato strettamente con Durkheim, in uno studio sulla magia (v. Hubert e Mauss, 1902-1903) sviluppò una teoria che pone all'origine della magia la nozione di una forza o potenza mistica, analoga a quella che in molte società polinesiane viene chiamata mana. Sia per Mauss che per Durkheim il problema era in parte l'individuazione di un criterio o di una serie di criteri in base ai quali distinguere la magia dalla religione; non sempre difatti era facile separare le due categorie nelle descrizioni dei comportamenti e delle credenze delle popolazioni primitive fornite dagli osservatori.
Durkheim era interessato soprattutto al ruolo della religione nella società, alle cause e agli effetti sociali delle credenze. James Frazer, per contro, focalizzò l'attenzione sul pensiero magico. Nel suo imponente studio The golden bough (v. Frazer, 1907-1915²) egli presentò una teoria della magia e un'analisi dei suoi principî. Il contributo più importante di Frazer allo studio della magia fu l'individuazione dei due principî fondamentali che stanno alla base del pensiero magico: il principio della similitudine (il simile agisce sul simile, l'effetto è analogo alla causa) che caratterizza la 'magia omeopatica', e quello del contagio (cose che sono state in contatto continuano a influenzarsi reciprocamente anche a distanza) che caratterizza la 'magia contagiosa'. La magia omeopatica e quella contagiosa formano quella che Frazer definì 'magia simpatetica'. I principî dell'analogia e del contatto, che sono alla base della credenza magica, costituiscono il fondamento di un falso sistema di leggi naturali, di un'erronea concezione dei rapporti di causa ed effetto. Secondo Frazer, inoltre, la differenza tra magia e religione è legata anche alla distinzione tra forze o esseri personali e impersonali. La magia presuppone un potere o spirito impersonale su cui sarebbe possibile agire in modo coercitivo mediante formule o azioni rituali; per la religione invece il mondo sarebbe retto da esseri personali ai quali ci si rivolge con preghiere o sacrifici cui essi, a differenza delle forze magiche, possono o meno rispondere. La conoscenza delle formule e delle azioni magiche consente di controllare gli spiriti o le potenze, e in questo senso Frazer attribuisce alla magia un carattere coercitivo. A differenza della religione, inoltre, la magia non fa capo a una chiesa come collettività di credenti; le formule magiche tendono a perdere il loro significato, e il mago non può essere equiparato a un sacerdote.
L'idea di una forza impersonale che determina i fenomeni, propria della magia, la rende affine alla scienza, che postula l'esistenza di forze naturali o causali; la differenza tra magia e scienza è che la prima implica la credenza in poteri straordinari o sovrannaturali, la seconda in forze naturali. Si tratta di distinzioni analitiche che, per quanto possano apparire assai nette, a volte sono difficili da individuare e da applicare nei casi concreti. Frazer contrappone la magia alla scienza: entrambe assumono che l'universo sia regolato da leggi impersonali e immutabili, ma l'una è falsa e l'altra vera. Traspare in questa concezione la fede nel progresso scientifico: "È un'ovvietà asserire che ogni magia è necessariamente falsa e sterile; se mai essa divenisse vera e feconda, non sarebbe più magia bensì scienza" scrive Frazer in proposito (ibid.; ed. ridotta, p. 65). Sembra che la scelta dei criteri in base ai quali stabilire cosa sia vero e fecondo non comporti alcun problema. L'identificazione tra magia e falsa credenza costituisce un elemento che ha caratterizzato per lungo tempo la concezione europea della magia. L'identificazione dell'errore, tuttavia, non è compiuta da chi crede nella magia, bensì dall'osservatore esterno. Se si adottasse la prospettiva di colui che crede nelle pratiche e nei riti magici il giudizio probabilmente sarebbe rovesciato. Un altro modo di distinguere la magia dalla religione e dalla scienza potrebbe basarsi sul tipo di forza o potenza che si ritiene determini gli eventi - personale o impersonale, naturale o sovrannaturale - ma ciò comporta maggiori difficoltà.Se per definire la magia si fa riferimento alla natura della credenza, le testimonianze relative a ciò che gli individui dicono e pensano diventano di fondamentale importanza, qualunque sia l'interpretazione che l'osservatore esterno può dare delle loro azioni. Le teorie antropologiche di Frazer e di Durkheim sulla magia e sulla religione erano meramente 'speculative', basate sui resoconti e sugli scritti di altri e non sull'osservazione diretta; né l'uno né l'altro avevano alcuna esperienza della vita nelle società di cui scrivevano.
L'antropologo W.H.R. Rivers, invece, basò le sue teorie su una ricerca sul campo condotta in India e in Melanesia alla fine dell'Ottocento. Anch'egli affrontò il problema del progresso nell'evoluzione delle idee, ma spesso trovò difficile applicare in modo inequivocabile le distinzioni analitiche dello schema evoluzionistico. Nel suo ciclo di lezioni sulla medicina, la magia e la religione (tenute nel 1915 ma pubblicate postume nel 1927) Rivers esamina la distinzione tra magia e religione e si propone di spiegare la nascita della scienza e la sua progressiva separazione dalla religione e dalla magia alla luce dello sviluppo della medicina. All'inizio del ciclo di lezioni egli osserva che "l'uso del termine 'sovrannaturale' implica l'esistenza del concetto di 'naturale', ed è proprio questo concetto quale noi lo abbiamo che manca tra i popoli di cui intendo parlare" (v. Rivers, 1927, p. 3). La magia secondo Rivers si distinguerebbe dalla religione in quanto manca in essa la preghiera rivolta a esseri superiori, e tuttavia egli osservò questo elemento 'religioso' della preghiera in riti che altrimenti sarebbe stato indotto a classificare come magici. Dapprima Rivers pensò di abbandonare la distinzione tra magia e religione sostituendola con quella tra credenza in un potere umano e credenza in un potere sovrannaturale, ma anche questa soluzione si dimostrò insoddisfacente. Distinguere tre tipi di cause - forze umane, forze sovrannaturali o spirituali e cause naturali - collegando la magia alle forze umane, la religione a forze non umane e la scienza alle cause naturali non risolveva il problema, perché spesso i tre tipi si trovavano mescolati. Tali categorie potevano essere nettamente distinte in teoria, ma non in pratica.
Frazer si era servito anche di un'altra distinzione, quella tra magia come scienza e magia come arte, equiparando la magia teorica a una pseudoscienza e la magia pratica a una pseudoarte. La pseudoarte includerebbe la 'magia positiva' o stregoneria e la 'magia negativa' ossia i tabù. Frazer raccolse una quantità imponente di descrizioni di riti e pratiche magiche alquanto eterogenei, che riguardavano pressoché tutti gli ambiti della vita: i riti per assicurare il successo nella coltivazione dei giardini, nella pesca e nella caccia; le cerimonie per propiziare la guarigione, la crescita e la fecondità di persone e animali, per assicurare il successo in guerra e in amore, per il controllo delle condizioni atmosferiche e dell'appetito; le magie di difesa e di offesa; i riti associati alla divinazione e alle prove ordaliche. Frazer dava per scontato che le azioni magiche potessero essere comprese e analizzate dagli antropologi nel chiuso delle biblioteche, per via puramente speculativa. I suoi metodi erano gli stessi degli storici che si basano sulle fonti scritte e dispongono di alcuni fatti oggettivi, ma per interpretarli devono attribuire determinati scopi o idee agli attori. Ciò richiede un uso intelligente delle informazioni e della tecnica introspettiva, che si basa sul tentativo di comprendere le azioni dei soggetti mettendosi al loro posto e ricostruendone deduttivamente le motivazioni e i processi mentali. Evans-Pritchard (v., 1965) parlò in proposito di 'posizione intellettualistica': questa si basa sul presupposto che l'antropologo, servendosi esclusivamente dell'immaginazione e della speculazione, sia in grado di cogliere i processi mentali degli altri, a prescindere dalle differenze di cultura e appartenenza geografica. Detto in altri termini, la mente umana e i processi del pensiero avrebbero caratteri universali tali da giustificare il metodo interpretativo. Il metodo analitico adottato da Frazer partiva dall'assunto che gli individui agiscono razionalmente in base alla propria logica - i loro motivi e impulsi sono intellegibili anche se può esservi un uso erroneo dei principî razionali. Paradossalmente, tuttavia, Frazer si trova ad affermare e a negare nello stesso tempo le capacità razionali dell'operatore magico: "Occorre tener ben presente che il mago primitivo conosce la magia solo nella sua dimensione pratica; egli non analizza mai i processi mentali su cui si basa la sua prassi, né riflette sui principî astratti che governano le sue azioni. Nel suo caso, come accade per la grande maggioranza degli uomini, i processi razionali sono impliciti, non espliciti: egli ragiona allo stesso modo in cui digerisce il cibo, ignorando completamente i processi mentali e fisiologici essenziali all'una e all'altra operazione. In breve, per lui la magia è sempre un'arte, mai una scienza; l'idea stessa di scienza è inconcepibile per la sua mente poco sviluppata. Sta allo studioso ricostruire il processo mentale che è alla base delle pratiche del mago" (v. Frazer, 1907-1915²; ed. ridotta, p. 15). Si tratta di un'argomentazione tipica degli antropologi 'speculativi', che traevano le proprie informazioni dai libri anziché dalla ricerca diretta sul campo.
Osservando le azioni e i comportamenti degli individui siamo indotti a ricondurli a determinati fini e motivazioni; nel descriverli partiamo dal presupposto che rispondano a una logica o si basino su determinate credenze. Ad esempio, quando osserviamo qualcuno pregare a voce alta, o rendere grazie al Signore, o versare libagioni in un luogo di culto, siamo portati a presupporre che tali atti abbiano un destinatario e che chi li compie abbia una qualche nozione di un essere o di esseri invisibili cui sono indirizzate le sue parole e le sue azioni. Assumiamo che lavare significhi mondare o purificare qualcosa, che toccare significhi stabilire un contatto, che infliggere dei colpi implichi l'intenzione di scacciare il male, ecc. Alla base di molte azioni è riconoscibile un'idea o un'intenzione. In questo senso, i comportamenti rituali visti nel loro contesto sembrano rispondere a una logica precisa. Ma l'esecuzione dell'atto in sé non ci fornisce alcuna informazione certa sui motivi, sulle convinzioni personali o sulla sincerità di chi lo compie. Gli individui agiscono conformemente a regole tradizionali o a precetti in merito al comportamento da seguire in una determinata situazione, e tali regole e precetti rimandano a rappresentazioni collettive relative a come si può e si deve agire. Dall'epoca di Frazer il problema dei rapporti tra rappresentazioni collettive e credenza individuale è stato investigato assai più a fondo. La nozione di rappresentazione collettiva ha spinto gli studiosi successivi ad analizzare la struttura e i processi logici delle azioni rituali come se si trattasse di un testo il quale può fornire indicazioni sulle caratteristiche e sui modi di pensare propri di una cultura, non già sui processi psicologici dei singoli individui.
Il repertorio tradizionale della magia comprende l'uso di incantesimi per mutare le cose, il trasferimento di determinate proprietà da una cosa a un'altra attraverso atti o parole speciali, la capacità di esercitare un influsso benefico o malefico a distanza, la predizione del futuro attraverso pratiche divinatorie. La magia mira a produrre un effetto specifico attraverso mezzi speciali - mezzi ritenuti strani, fuori dall'ordinario o sovrannaturali - e di solito comporta una combinazione prescritta di parole e azioni. Le parole vengono rese speciali in varie maniere: attraverso il carattere segreto, la forma in versi, l'incomprensibilità, il linguaggio arcaico, gli incantesimi, la pronunzia o la fonazione insolite, il modo particolare di sussurrarle o di insufflarle. La situazione e le azioni vengono anch'esse rese speciali mediante la stranezza dei gesti, l'ordine fisso e prestabilito di determinate azioni, l'uso abnorme di oggetti e atti quotidiani, l'impiego e la combinazione di oggetti e materiali particolari; possono esservi delle regole che stabiliscono il tempo e il luogo del rito magico, le condizioni in cui deve trovarsi chi lo esegue e ciò che questi deve fare prima e dopo. Questi elementi sono destinati ad acuire l'attenzione dello spettatore e dell'attore, e contribuiscono a conferire al comportamento o alle azioni magiche proprietà particolari, fuori dal normale o sovrannaturali.Il filosofo John Skorupski (v., 1976, pp. 125-159) ha riesaminato la teoria frazeriana della magia e dei principî su cui si basa alla luce delle moderne acquisizioni antropologiche. Egli si propone di individuare le caratteristiche del pensiero magico analizzando alcuni tipici esempi di comportamento magico. Skorupski non parte da una definizione preliminare della magia, in quanto uno dei suoi scopi è quello di stabilire, una volta individuate le strutture dell'azione e del pensiero magici, se esistano principî o processi logici comuni ai vari tipi di pratiche e di riti che vengono classificati come magia. Egli arriva alla conclusione che la categoria della magia comprende un assortimento assai eterogeneo di pratiche, che rispondono a tre principî fondamentali: il principio della trasmissione per contagio, quello della identificazione simbolica e mimetica, e il principio del potere magico delle parole.
Il primo principio, quello della trasmissione per contagio, implica la trasmissione di una proprietà da un oggetto a un altro mediante un contatto oppure attraverso metodi di trasmissione fisica basati sulla mescolanza, l'ingestione, l'insufflazione o l'inspirazione di determinate sostanze. Skorupski (v., 1976, p. 134) cita come esempio l'usanza di masticare i germogli di una varietà di lampone dalle infiorescenze color rosa chiaro (il Rubus spectabilis), che vengono poi spalmati sul corpo dei bambini affinché crescano con la stessa rapidità con cui cresce tale pianta. La proprietà che si vuole trasmettere deve essere identificata in termini locali. Tra gli Gnau della provincia occidentale del Sepik nel Territorio della Nuova Guinea vi è l'usanza di trasmettere il sangue per propiziare la crescita e la salute dei giovani in età puberale. Ciò avviene attraverso un rito che ha tutti i caratteri della magia contagiosa. Secondo la teoria gnau del concepimento (v. Lewis, 1980, pp. 174-182) questo avviene allorché il sangue della donna si mescola allo sperma. Poiché nello sperma è contenuto anche il sangue dell'uomo, i figli hanno il sangue di entrambi i genitori. Tuttavia il sangue può essere trasmesso anche più tardi, da un anziano - perlopiù un personaggio influente del villaggio - ai giovani in età puberale affinché crescano forti e in buona salute. In teoria dovrebbe essere il fratello della madre a dare il sangue per il figlio della sorella, ma ciò può essere fatto anche da un membro anziano e influente della comunità. Questi, dopo essersi praticato in segreto un piccolo salasso, mescola il proprio sangue con dell'acqua aromatizzata in cui è messo a cuocere una specie di stufato (we'agep) che viene dato da mangiare al bambino con un bizzarro gesto del braccio alzato sopra la spalla. Nei riti della pubertà il sangue di uno o più uomini viene asperso direttamente sulla pelle dell'adolescente, oppure viene mescolato in segreto alle noci di betel che vengono date poi da masticare alle fanciulle. In pubblico i capi del villaggio masticano un bolo di betel aromatizzato con una particolare sostanza, il cui succo rosso viene poi cosparso su tutto il corpo del bambino. La proprietà di favorire la crescita e la salute contenuta nel sangue viene trasmessa spalmando e ingerendo tale sostanza. Devono essere uomini potenti a fornire il sangue e a masticare il bolo di betel, in quanto essi possiedono le proprietà che si desiderano trasmettere. Anche le gocce di sudore che li ricoprono quando danzano col volto coperto da pesanti maschere vengono raccolte dagli altri membri della comunità, che le spalmano sulla pelle dei bambini al fine di propiziarne la crescita e donare loro forza. Secondo la teoria gnau, infatti, quando ci si affatica e si suda il sangue scorre e diventa fluido, simile all'acqua. Spalmare, strofinare o ingerire sostanze quali il sangue, il sudore o il succo di betel sono forme esplicite di trasmissione fisica. Il contatto e l'ingestione rappresentano modi palesi e assai comuni di trasferire una determinata proprietà da un oggetto a un altro e da una persona a un'altra. Come mette in rilievo Skorupski, non vi è niente di necessariamente magico in ciò: l'incendiarsi dell'erba secca a contatto col fuoco, la sensazione di calore provocata dall'ingestione di cibi bollenti, la trasmissione della scabbia o delle affezioni micotiche della pelle attraverso il contatto sono fenomeni che si osservano quotidianamente. L'osservazione della natura fornisce chiari modelli di causa ed effetto. Il fatto che certi casi di trasmissione per contagio siano classificati come magia e altri no dipende dal carattere speciale della situazione e dei comportamenti che accompagnano le azioni, o dallo scetticismo dell'osservatore in merito alla loro efficacia.
Il secondo principio, quello dell'identificazione simbolica, è esemplificato da uno dei riti più caratteristici della magia nera, che consiste nel procurare dolore o la morte di un nemico trafiggendo o bruciando la sua effige - ad esempio una bambola di cera - oppure frammenti di un suo capo di vestiario. Il principio che sta alla base di queste pratiche è che il simile agisce sul simile: producendo un effetto su un determinato oggetto, si determinerà un effetto analogo sull'oggetto che esso rappresenta. Una variante su questo tema è offerta da un altro rito della popolazione degli Gnau, che attribuisce al fratello della madre di Ego il potere di uccidere il figlio della sorella qualora questi non onori i propri impegni. Per far ciò egli si arrampica su un grande albero che cresce nella terra di sua proprietà, e dopo aver spiegato agli spiriti dei suoi antenati il torto subito, incide sul tronco dei segni che rappresentano gli occhi, il naso e le labbra della vittima, dopodiché abbatte l'albero, distruggendo così l'immagine del figlio della sorella. Un testo che descrive in modo dettagliato questo rito spiega come il fratello della madre, dopo aver giustificato il suo atto ai propri antenati, chieda loro di tener fermo il figlio della sorella mentre l'albero viene abbattuto, e di gettarlo poi sotto il tronco che cade, portandolo via con sé nel luogo degli antenati (v. Lewis, 1980, pp. 186-192). L'identificazione simbolica o mimetica si basa sull'identificazione tra il simbolo e la cosa simbolizzata: l'effetto prodotto sull'immagine o simbolo si produrrà anche sull'oggetto o sulla persona rappresentata. Un altro rito gnau può illustrare il meccanismo della magia mimetica. Quando il fratello della madre vuole tagliare un albero che cresce nel suo terreno per cibarsi dei pipistrelli annidati nel tronco, affinché gli animali non volino via quando la pianta viene abbattuta chiede ai figli della sorella di non allontanarsi dal villaggio. Si ha qui un'identificazione tra i figli della sorella e i pipistrelli; i figli della sorella appartengono al clan: crescono o 'escono fuori' da esso come l'albero cresce dalla terra, come i pipistrelli escono dal tronco dell'albero. È questo il meccanismo dell'identificazione simbolica: se i figli della sorella restano nel villaggio quando l'albero viene abbattuto, allora i pipistrelli resteranno nel loro nido. Il carattere 'magico' di questa visione deriva dall'identificazione di due cose così palesemente diverse (i pipistrelli e i figli della sorella) e dall'idea di una forza misteriosa che agisce a distanza, cui si associa la convinzione che 'cause simili producono effetti simili'.
In molti casi, di fatto, si ha una complessa mescolanza di tipi diversi di magia. Nell'esempio citato in precedenza dell'uccisione simbolica del figlio della sorella, è evidente che il rito implica l'intervento degli spiriti degli antenati, cui ci si rivolge per giustificare il proprio atto e per chiedere aiuto. Magia contagiosa e identificazione simbolica spesso sono associate, come dimostra il seguente esempio che riguarda sempre la popolazione degli Gnau. Un uomo viene colto dalla febbre perché, affermano i fratelli, ha toccato e tagliato una determinata pianta. Quando il suo stato si aggrava, i fratelli si recano nel giardino in cui si trova la pianta che ha causato la malattia e, dopo averla divelta con tutte le radici, la portano al fiume, la tagliano in pezzi e la gettano in acqua: in questo modo distruggono la pianta e la raffreddano, così da indurre lo stesso mutamento nella malattia, ossia la cessazione della febbre.I principî della magia simpatetica enunciati da Frazer presuppongono un'affinità o un contatto tra due oggetti affinché gli effetti indotti nel primo si verifichino nel secondo. In alcuni casi, come nell'esempio citato in precedenza dei germogli di lampone strofinati sulla pelle del bambino per trasmettergli le loro qualità, l'azione magica non mira a produrre un effetto su un oggetto per provocarne uno simile in un altro. La magia contagiosa può servirsi delle proprietà e dei poteri di alcune sostanze, mentre la magia omeopatica è spiegabile nei termini di una relazione causale tra eventi. Secondo Frazer entrambi i tipi di magia si basano sull'erronea applicazione delle leggi di causalità, su false credenze empiriche che istituiscono una relazione causale tra l'azione del mago e il verificarsi di un determinato effetto. Skorupski tuttavia osserva che vi possono essere interpretazioni alternative della logica degli atti simbolici. Nel caso della trafittura dell'immagine del nemico, l'elemento determinante non è la somiglianza tra l'immagine e la persona rappresentata, bensì il fatto che l'immagine sia il simbolo di quella persona. Se, come riteneva Frazer, il principio su cui si basa la magia è quello dell'analogia e dell'effetto a distanza, perché gli spilli conficcati nell'effige non agiscono anche sulle altre persone anziché solo sulla vittima designata, visto che l'immagine non è più somigliante a quest'ultima di quanto lo sia a qualsiasi altro individuo? Perché il mago non ha bisogno di una somiglianza esatta? Secondo Skorupski, non è la somiglianza dell'immagine come tale a stabilire il suo legame con la vittima, bensì il fatto che il mago dichiari che essa rappresenta una determinata persona. È assai più plausibile interpretare la logica dell'azione magica in termini di identificazione simbolica tra l'oggetto magico e l'oggetto o la persona che esso rappresenta. Il mago deve conferire all'oggetto il suo significato simbolico con un atto di identificazione, stabilendo chi o cosa esso è destinato a rappresentare. Secondo Skorupski il pensiero magico non si basa sull'istituzione di nessi causali, bensì su un processo di identificazione simbolica; lo stregone idealtipico è convinto di compiere effettivamente l'atto che inscena simbolicamente. Egli non concepisce due eventi distinti, il rito e i suoi effetti, legati da un nesso causale. Per comprendere meglio i meccanismi della credenza nell'efficacia di azioni puramente simboliche, può essere utile considerare il potere magico delle parole. Le parole mostrano con maggior chiarezza in che modo il pensiero magico colleghi i simboli alle cose che essi rappresentano.
Le parole vengono usate per richiamare alla mente le cose; il legame tra la parola e ciò che essa designa è molto stretto: ci è difficile separare i suoni di certe parole familiari della nostra lingua dalle cose che esse designano, dalle idee che richiamano. Naturalmente sappiamo che i suoni differiscono da lingua a lingua. I linguisti direbbero che i suoni usati per determinati oggetti o referenti sono in larga misura arbitrari, dipendono da un particolare sistema linguistico e sono frutto di una convenzione, non di un rapporto naturale e necessario tra significante e significato. Nel pensiero magico invece il legame tra le parole o i nomi e ciò che designano è un legame reale o naturale, non meramente convenzionale. Se l'identità tra significante e significato si fonda su un legame reale, allora agire sulla parola o sul nome significa agire sul suo referente. Da questa concezione deriva la convinzione che il vero nome di una persona debba essere tenuto segreto, in quanto conoscere e usare il vero nome di qualcosa o di qualcuno significa avere un potere su di esso. Si tratta di un tema che ricorre frequentemente nei miti. Si può citare come esempio un mito degli abitanti delle Isole Andamane riportato da Radcliffe-Brown (v., 1922, p. 127), in cui l'eroe si trova ad affrontare un mondo caotico e sconcertante; egli attraversa la foresta senza sapere i nomi delle piante né il loro uso, ma a poco a poco, dai suoni emessi dalle piante e dalle creature che egli sfiora al suo passaggio, ne apprende i nomi e in questo modo impara a controllarle, a conoscerne le proprietà e gli impieghi.
La convinzione che esista un legame reale tra il nome o la parola e il suo referente, che i termini della propria lingua siano i termini giusti per le cose, che vi sia una rispondenza tra i nomi e gli oggetti o le persone cui appartengono potrebbe derivare in parte dal potere del linguaggio di cui facciamo esperienza sin dall'infanzia: il bambino scopre che la madre accorre al suo pianto, che i richiami, gli ordini e i nomi suscitano una risposta. Se il legame tra la parola e il suo referente non viene considerato totalmente arbitrario, comincia a sfumare la distinzione tra ciò che viene istituito per convenzione e ciò che è dato naturalmente. Secondo molti autori questa incapacità di distinguere tra carattere naturale e carattere convenzionale potrebbe spiegare la credenza nel potere causale del linguaggio e la convinzione che il simbolo in un certo senso partecipi della realtà che rappresenta o si identifichi con essa. L'identificazione simbolica creerebbe un legame tra significante e significato. Il mago è consapevole, in quanto lo constata con i suoi occhi, che l'immagine e la vittima del maleficio non sono eguali: tuttavia egli asserisce che lo sono, forse sente che sono identiche. Questo modo di pensare è intrinsecamente illogico, ma proprio questa caratteristica conferisce alla magia, in certe circostanze, la sua dimensione speciale o mistica. Chiarire e smascherare il mistero significherebbe sminuirlo (v. Skorupski, 1976, pp. 143-145).
L'idea che la conoscenza del nome originario o autentico di cose o persone conferisca un potere su di esse è alla base della segretezza dei nomi propri, nonché della rivendicazione di poteri magici, di autorità e di status. L'antropologo Bateson (v., 1958) descrive una società della valle del Sepik in Nuova Guinea, in cui le discussioni politiche e le rivendicazioni di potere e di status ruotano intorno alla conoscenza dei nomi segreti di potenze ancestrali e totemiche. Il linguaggio magico è spesso assai diverso da quello ordinario, e ciò contribuisce a conferire alla magia il suo carattere esoterico. A differenza del linguaggio ordinario, quello magico può non essere destinato alla comunicazione interpersonale ma rivolgersi a esseri speciali, e possiede quindi proprietà che mancano al linguaggio ordinario. La magia si serve di una lingua antica, originaria e sacra, la stessa usata dagli spiriti creatori allorché rivelarono le formule, le parole o i nomi, le prescrizioni originarie della magia.
L'uso magico delle parole è associato in modo particolare alle formule magiche, che possono avere strutture assai diverse. È assai diffusa l'idea che le formule, frutto di rivelazione, debbano essere fisse e immutabili. La magia apparve con gli spiriti ancestrali che crearono il mondo, e la sua efficacia dipende dalla corretta ripetizione delle formule. Non tutti gli incantesimi però sono formulati in un linguaggio incomprensibile. Bronislaw Malinowski (v., 1922, pp. 428-463) analizzò in modo dettagliato la struttura e la semantica delle formule magiche dei Trobriandesi; queste avevano spesso un carattere poetico, evocativo, e in genere presentavano una struttura tripartita: una 'fondazione' in cui si illustrano le origini della magia, di solito connesse a un tema o a un personaggio mitico; una 'parte centrale' che elenca le proprietà su cui deve agire la magia ed evoca oggetti e immagini che ne esprimono gli scopi; infine una 'coda' in cui si dichiara che l'effetto voluto è stato conseguito con successo. S.J. Tambiah (v., 1968) in una notevole analisi della magia trobriandese sostiene che gli oggetti e le azioni menzionati nelle formule trobriandesi non sono scelti in base a un qualche misterioso potere magico di cui sarebbero dotati, bensì in base alla loro capacità di illustrare le proprietà e i valori che si desiderano conseguire attraverso la magia. Tali formule si basano su metafore persuasive, su suggestioni e similitudini: "così come il ragno tesse la sua tela, possa l'igname mettere molti rami"; "possa il grembo del mio giardino crescere sino a raggiungere le dimensioni del nido del tacchino dei cespugli" (il tacchino dei cespugli, un megapode, è un uccello che depone uova molto grandi in un nido a forma di collinetta, fatto di terra o sabbia mescolata a erba e foglie. La fermentazione delle sostanze vegetali provoca il calore necessario all'incubazione delle uova: è un'immagine perfetta per evocare o simbolizzare la desiderata crescita del tubero sepolto nella terra). La 'magia della bocca' - come i Trobriandesi chiamano gli incantesimi che non comportano la mediazione di sostanze materiali - si basa sulla metafora. Molte delle loro tecniche magiche si basano però su una combinazione di parole e azioni, di metafore o simboli e atti materiali. Attraverso la metafora vengono evocate le proprietà o gli effetti desiderati; poi, attraverso oggetti e azioni, il mago trasferisce tali proprietà alla persona o all'oggetto designato. La metafora si basa sull'identità o sulla somiglianza, la trasmissione delle proprietà di un oggetto o di una sostanza materiale si basa sul principio della metonimia (contiguità o contatto, la parte per il tutto). Nel rito della crescita dell'igname la formula evoca il nido del tacchino dei cespugli, mentre l'azione magica ne trasmette le proprietà alla terra che ricopre il tubero. Si tratta di una tecnica che associa pensiero e azione, metafora e metonimia, identificazione simbolica e magia contagiosa. Il linguaggio della magia trobriandese si serve soprattutto di metafore per evocare immagini e similitudini che illustrano lo scopo e il significato della magia. Secondo Tambiah, molte pratiche magiche dimostrano la creatività del pensiero, in quanto si basano sul meccanismo dell'effetto anticipatore.
La distinzione operata tra formula magica e preghiera corrisponde alla vecchia distinzione tra magia e religione. In questa prospettiva alla formula magica viene attribuito un potere coercitivo, mentre la preghiera assume la forma di una richiesta o di un appello rivolto a forze o spiriti personali. La formula magica comporta una coercizione, risponde alla logica del comando più che a quella della richiesta: pronunziando determinate parole si obbliga l'essere o la forza sovrannaturale a intervenire. L'essere cui è rivolta la formula magica è impersonale: se anche si tratta di una forza o di un essere personale, lo è in forma limitata o attenuata, in quanto gli unici attributi che gli vengono riconosciuti sono la capacità di udire la richiesta e il potere di agire al fine di esaudirla. Alcune formule magiche inoltre non agiscono attraverso la mediazione di un essere sovrannaturale: le parole vengono pronunziate come se avessero in se stesse il potere di agire o di produrre determinati effetti. Alle parole in questo caso è attribuita un'efficacia intrinseca, che ricorda per certi versi quella ascritta alle forze naturali.
Nella pratica però queste distinzioni analitiche tra magia e religione, tra formula magica e preghiera risultano difficili da stabilire quando vengono applicate a comportamenti complessi, come ad esempio la cura delle malattie in molte società. Rivers (v., 1927) mise in rilievo tale difficoltà, che deriva in parte dalla molteplicità di forme assunte dalle formule magiche: queste possono configurarsi come comandi, dichiarazioni di intenti, espressione di stati emotivi, asserzioni relative al conseguimento di un risultato, spiegazioni, istruzioni, mistificazioni. Le parole possono essere o meno intellegibili, e spesso si ha una combinazione di varie forme di preghiera e di magia verbale. Il tipo di formula magica dei Trobriandesi descritto in precedenza non è che un esempio tra tanti.
Emily Ahern (v., 1979), al pari di molti antropologi (ad esempio v. Tambiah, 1973; v. Skorupski, 1976, pp. 149-151), ha messo in luce l'analogia tra le azioni magiche da un lato e gli atti linguistici e performativi di vario tipo dall'altro (formulare un giuramento, promettere, firmare una dichiarazione, ecc.). La corretta esecuzione delle parole e delle azioni prescritte produce un determinato risultato: l'analogia formale con l'azione magica è evidente. L'atto performativo, che comporta in genere una combinazione di parole e azioni, può vincolare a una promessa, può determinare un cambiamento di status, l'assunzione di diritti e doveri, ecc. L'esecuzione dell'atto performativo può essere l'unico modo per acquisire determinati diritti e doveri, per cambiare status, ecc., ma l'acquisizione di tali cambiamenti dipende da particolari convenzioni linguistiche e sociali. Pronunciando determinate parole, proferendo una formula si attua il cambiamento: le espressioni performative equivalgono al compimento di un'azione. Si tratta di una forma di azione sociale e culturale in cui per certi versi viene a cadere la distinzione tra natura e convenzione, tra cambiamento simbolico e cambiamento reale. In certe situazioni alcuni possono essere convinti che compiendo una determinata azione otterranno l'effetto voluto, credono fermamente nella sua efficacia, mentre altri non ne sono altrettanto certi, vorrebbero che quell'azione fosse efficace, ma senza credervi realmente; nel compierla esprimono una speranza, o manifestano i propri sentimenti rispetto alla situazione. Come osserva la Ahern (v., 1979), citando alcuni esempi relativi alla Cina e a Taiwan, le pratiche magiche e le cure mediche spesso non vengono attuate credendo fermamente nella loro efficacia, ma con un atteggiamento analogo a quello del supplice o del postulante, che può esprimere un desiderio o una speranza, un'aspettativa o una richiesta, e persino un comando. Secondo la Ahern l'atteggiamento dei Cinesi nei confronti dei rimedi può essere paragonato a quello che essi assumono quando hanno a che fare con i pubblici funzionari, con la burocrazia e con le istituzioni giudiziarie. In tali rapporti essi sperimentano l'incertezza dell'esito desiderato, e apprendono determinati modi di esprimere la speranza, di attirare l'attenzione dei superiori e di ricercare il loro aiuto. Certe formule verbali convenzionali potrebbero costituire il modello di alcune delle formule magiche e religiose con cui si cerca di agire sul mondo naturale.
La difficoltà di distinguere la magia dalla religione sperimentata da Rivers derivava anche dal tentativo di ricostruire la logica sottesa all'azione magica isolando singoli elementi della situazione. L'efficacia delle pratiche magiche dipende dall'intera procedura, non risiede solo nelle formule verbali o solo nelle azioni. I rituali e le tecniche di guarigione comportano spesso procedure assai elaborate, che combinano l'invocazione di spiriti, l'uso di formule magiche e l'esecuzione di determinate azioni. L'illegittimità di isolare un elemento dal contesto globale emerge chiaramente quando si considerano ad esempio le tecniche di guarigione della popolazione degli Gnau. Il guaritore in azione ha un atteggiamento riservato e una grande concentrazione, non chiacchiera né commenta quello che fa. Molte tecniche di guarigione hanno una componente verbale, costituita da formule magiche che vengono borbottate o sussurrate con intonazioni o vocalizzi speciali; nel frattempo il guaritore spruzza saliva, soffia o alita sul paziente, oppure sugli oggetti di cui si serve. Le formule sono pronunciate a voce bassa e soffocata, appena udibile dal paziente. A volte il guaritore parla a voce alta rivolgendosi direttamente allo spirito che affligge il malato o agli spiriti della morte, dichiarando la sua intenzione di operare la guarigione, rimproverando lo spirito per il male che arreca al malato e ingiungendogli di allontanarsi. Per spaventare lo spirito a volte il malato viene colpito con un fascio di ortiche o con altri materiali al torace, sul capo o sulle braccia; i colpi vengono inferti con tale forza da far sobbalzare il paziente. In altri tipi di terapia questi viene strofinato vigorosamente con un fascio di ortiche, con una serie di movimenti verso il basso e verso l'esterno come per concentrare in un unico punto il male, che viene poi raccolto in un mucchietto, sollevato con il fascio di ortiche e gettato via con un curioso gesto del braccio alzato sopra la spalla. Esistono anche procedure assai più complesse per rimuovere il male, ad esempio attraverso l'estrazione di 'punte di freccia' magiche. La mimica e l'ovvio simbolismo dei gesti - rimuovere, spazzare via, suggere, scuotere, gettare via, tagliare, espellere, lavare, appellarsi agli spiriti, rimproverarli, offrire loro oggetti di valore - illustrano il fine sperato e danno un'idea del modo in cui viene concepito il processo di guarigione. La maggior parte delle tecniche magiche combinano l'invocazione di spiriti, l'uso di formule magiche e il compimento di atti che mirano a provocare un determinato effetto. Nelle invocazioni e nelle preghiere che precedono e accompagnano le azioni vengono indicati gli scopi della procedura. Analizzando il significato e gli scopi della magia trobriandese, sia Malinowski (v., 1925) che Tambiah (v., 1968) hanno messo in evidenza l'intreccio di formule magiche e azioni pratiche che la caratterizza.
Nelle formule magiche spesso sfuma la differenza tra parole e azioni. La popolazione degli Gnau, al pari di molte altre, considera i suoni delle formule magiche, le parole e i nomi segreti come oggetti o cose che possono essere trasmessi pronunciandoli, oppure insufflandoli o alitandoli in determinate sostanze, ad esempio una foglia, o direttamente nella persona che deve essere guarita. Parole e suoni vengono insufflati negli oggetti, che possono poi essere impiegati come veicoli per trasmettere un'influenza, come surrogati fisici e manipolabili delle parole e delle idee che rappresentano. Insufflare e alitare formule magiche, così come spruzzare saliva mista a succo di betel o acqua, sono tecniche che caratterizzano molti dei riti e delle terapie gnau. Le parole e le formule possono essere indirizzate a uno spirito, a una persona, o a un oggetto; alcune formule possono avere uno schema fisso di ripetizione, altre hanno forme libere, discorsive, sono più simili a un discorso o a una invocazione diretti all'ascoltatore.
Le tecniche di guarigione sono assai varie: possono comportare l'aspersione di succo di betel, saliva, erbe masticate assieme a pezzetti di noce di betel; la purificazione con acqua; l'insufflazione di formule magiche in determinati oggetti, oppure sulla pelle, nelle orecchie, o nella bocca dell'ammalato; la trasmissione di incantesimi infliggendo colpi al paziente o sferzandolo con un fascio di ortiche. A volte esistono prescrizioni molto dettagliate, che specificano se il paziente che affronta uno spirito debba avere già in bocca il bolo di betel mescolato alle erbe o ai fiori speciali dello spirito quando si presenta a esso per farsi riconoscere; se la persona che estrae le 'frecce' magiche debba pensare a ciò che sta facendo; in che modo il guaritore debba concentrare gli sforzi sino a esaurirsi; come debba stringere il labbro inferiore tra i denti per bloccare il respiro e far confluire il sangue nel braccio quando sferza il paziente con il fascio di ortiche.Il guaritore si serve di gesti bizzarri e particolari, che identificano la natura peculiare delle cure magiche allo stesso modo in cui il linguaggio arcaico e i vocalizzi speciali contraddistinguono le formule magiche. Per designare tali gesti esistono termini e forme verbali specifiche: il verbo na'abepeda ('frustare') designa i colpi dati con forza al fine di raccogliere la malattia in un punto; nagelilapeda ('dare un buffetto', 'accarezzare') designa una serie di colpi leggeri; nasila ('pelatura') indica una sorta di strofinamento o una serie di tocchi leggeri che delimitano una zona del corpo o seguono i contorni del paziente; ne'aiya, ne'aiyeda è il gesto con cui si agita un oggetto sopra il paziente in modo che il suo influsso benefico cada su di esso, mentre nauwererapen ('salire sopra') indica il maleficio che si getta su qualcuno proiettandogli sopra un'ombra; nitawa wilep designa il gesto con cui la malattia viene gettata via, nasubla quello con cui si allontana lo spirito facendo scrocchiare le giunture delle dita (nagelapen bigep). Questi termini assumono un significato preciso nel contesto in cui vengono usati: si tratta di un vero e proprio vocabolario tecnico per identificare gli elementi e le azioni distintive di cui si compongono le pratiche magiche, i riti e le terapie (v. Lewis, 1980, pp. 43-50).
Spesso nelle pratiche magiche sono presenti elementi propri dei diversi tipi di magia: la magia contagiosa, l'identificazione simbolica e il potere magico delle parole. È evidente che non esiste un unico principio al quale possano essere ricondotti tutti i fenomeni e i comportamenti che classifichiamo come 'magia'. Al termine della sua analisi Skorupski (v., 1976, p. 159) rileva questa eterogeneità e si chiede se sia opportuno raggruppare sotto un'unica categoria forme così diverse. La caratteristica più notevole delle pratiche magiche è data dal fatto che esse si basano su assunti e ipotesi che contrastano apertamente con quelli attraverso cui noi (almeno in teoria) interpretiamo i fenomeni naturali e cerchiamo di agire su di essi. È questo che le rende strane e interessanti ai nostri occhi; l'elemento che le accomuna è lo scetticismo con cui le guardiamo. È altrettanto evidente peraltro che determinati problemi relativi alle interpretazioni antropologiche non possono essere risolti in modo soddisfacente basandosi unicamente sulle osservazioni e sulle descrizioni dei comportamenti e delle pratiche magiche; occorre tener conto anche dell'atteggiamento degli attori nei loro confronti. Frazer partiva dal presupposto che l'operatore magico creda realmente alle leggi della magia simpatetica secondo cui il simile agisce sul simile, all'efficacia causale di un atto puramente simbolico, e si proponeva di mostrare la mentalità che sta alla base di tali false credenze. Tambiah al contrario focalizzò l'attenzione sulla dimensione simbolica della magia, sull'uso espressivo e persuasivo della metafora e della metonimia, sugli effetti del simbolismo sugli attori e sugli spettatori. L'efficacia simbolica non si identifica con l'efficacia causale quale la intendeva Frazer, ma con la capacità espressiva e comunicativa, con la forza di persuasione e di suggestione: in questo senso la magia agisce sui partecipanti, non sulla natura. Mentre vi è una corrispondenza tra le leggi di associazione delle idee per analogia e contiguità postulate da Frazer e i principî della metafora e della metonimia di cui parla Tambiah, le posizioni dei due autori divergono per quanto riguarda il problema della credenza nei riti magici: secondo Frazer chi pratica la magia crede che essa abbia un'efficacia causale sui fenomeni naturali, mentre per Tambiah a essa viene attribuita un'efficacia puramente simbolica, espressiva. Tuttavia non è facile risolvere il problema della natura della credenza nella magia, specialmente quando gli attori e i loro comportamenti vengono osservati dall'esterno.
Gran parte delle teorie della magia sinora esaminate si basavano sull'osservazione di determinati comportamenti, dai quali si cercava di dedurre i processi mentali che ne stanno alla base. Secondo Frazer, l'osservatore può desumere i principî della magia simpatetica dalla semplice osservazione delle pratiche e dei comportamenti magici. Ma quando si affronta il problema della credenza, l'osservatore non può sostituirsi all'attore se non a rischio di commettere errori e fraintendimenti. Ad esempio molti rimedi del XVII secolo, che a noi possono sembrare magici, si basavano in realtà su ipotesi obsolete relative alle proprietà fisiche delle sostanze naturali. Esse derivavano da una dottrina dei segni basata su antiche classificazioni, che giustificava l'uso medico di rospi, anelli d'oro, ecc., per le loro presunte proprietà intrinseche (v. Thomas, 1973, p. 189). L'attribuzione di determinati comportamenti a una credenza magica potrebbe derivare da un fraintendimento del contesto o delle intenzioni dell'attore: se partiamo dal presupposto che questi crede realmente in ciò che fa o dice, considereremo le sue parole o le sue azioni derivate da una credenza magica; se invece riteniamo che esse sono intese in senso metaforico o scherzoso le cose cambiano notevolmente.
Azioni e comportamenti si possono osservare con chiarezza, ma le intenzioni o i motivi che si celano dietro di essi non sempre sono altrettanto evidenti. Si può attribuire una determinata intenzione a una persona e scoprire che ci siamo sbagliati. Per citare un esempio addotto da Thomas, "nel 1598 Paul Ridgen ammise davanti all'arcidiacono di Canterbury che quando la moglie si era ammalata aveva fatto chiamare una certa Mamma Chamber, ma non perché intendesse consultare una fattucchiera come tale, bensì perché la donna aveva fama di aver guarito molti ammalati" (ibid., p. 190). Ipotizzando i motivi che stanno alla base di determinati comportamenti, anche noi potremmo accusare erroneamente qualcuno di credere nella magia o di irrazionalità. Certi fenomeni possono apparire magici allo spettatore quando questi non ha alcuna idea di come si producono. Forse per molti ammalati del XVII secolo tutti i rimedi che esulavano dalla loro comprensione avevano un carattere magico, in quanto basati su mezzi occulti. Voltaire ebbe ad osservare causticamente nelle sue Questions sur l'Encyclopédie par des amateurs: "Se per miracolo si intende un effetto di cui non siamo in grado di vedere la causa, allora da questo punto di vista ogni cosa è un miracolo - l'attrazione e l'orientamento di un magnete sono miracoli continui; la lumaca che esce dal guscio, la nascita di ogni animale, la produzione di ogni pianta sono miracoli quotidiani. Ma siamo così abituati a questi prodigi da non considerarli più mirabili, miracolosi" (v. Voltaire, 1774, p. 148). Molto può dipendere dal tipo di attenzione che prestiamo a un determinato evento.Un'altra causa di errore è legata al fatto che a volte è difficile collocare azioni e comportamenti nel loro contesto appropriato, specialmente quando si ha a che fare con culture diverse dalla propria. Al primo impatto con gli Europei i Papua probabilmente erano convinti che gli aerei, le macchine fotografiche e le radio funzionassero per magia. Ciò che è insolito può creare l'impressione fuorviante di essere frutto di magia. Supponiamo che un individuo affetto da una malattia della pelle per questo motivo uccida un pollo e si cosparga del sangue dell'animale. Interpreteremo questo comportamento come un rito magico oppure come un rito religioso a seconda delle intenzioni che attribuiamo all'individuo in questione nel compiere tale gesto - quella di curare la malattia o quella di espiare un peccato di cui la malattia è un sintomo. Il problema di stabilire ciò che credono gli attori stessi è di fondamentale importanza.
Il problema della credenza nella magia è stato impostato in passato in forma dicotomica, come se le risposte dovessero essere formulate necessariamente in termini di alternative mutuamente esclusive (reale/simbolico, magico/religioso, naturale/sovrannaturale, credenza/incredulità). Tuttavia l'atteggiamento nei confronti dei riti e delle pratiche magiche è assai più complesso e sfumato. Franz Boas studiò per molti decenni gli Indiani dell'America occidentale, lavorando a stretto contatto con collaboratori e traduttori indiani e collezionando un numero imponente di testi relativi alla cultura indigena. Boas rimase colpito dal carattere incerto e complesso della credenza magica. Egli cita come esempio un rito kwakiutl per facilitare il parto (v. Boas, 1966, p. 360): quando una donna resta incinta per la prima volta raccoglie sulla spiaggia una manciata di sassolini e li nasconde sotto le vesti, poi li fa cadere e prega "possa anch'io essere come loro!". Secondo Boas, a parte ciò che dichiara la donna stessa in proposito, non si può stabilire con certezza quale sia il suo atteggiamento nei confronti di quest'atto: se a esso venga attribuita una reale efficacia causale, oppure se abbia un valore simbolico, se sia inteso come una preghiera a una potenza soprannaturale. Il confine tra magia e religione, così come queste categorie sono distinte convenzionalmente dagli antropologi, è in realtà fluido. "L'atteggiamento cambia persino da individuo a individuo in una stessa società. Per alcuni il rapporto tra due avvenimenti può essere puramente meccanico, per altri può avere un significato religioso" (ibid., p. 162). Boas rileva inoltre che i Kwakiutl, pur utilizzando piante medicinali di cui hanno scoperto le proprietà per via empirica, indirizzano a esse delle preghiere; il loro comportamento assume delle connotazioni religiose nella misura in cui l'efficacia della pianta è considerata frutto della preghiera. A seconda che l'uso delle piante medicinali sia accompagnato o meno dalla preghiera o da altri elementi che dimostrino la credenza nell'intervento di esseri sovrannaturali, si avrà di volta in volta un comportamento basato sull'esperienza, magico o religioso. Boas scrive in proposito: "La difficoltà di tracciare un netto confine tra effetto causale ed effetto magico può essere forse illustrata dal seguente esempio. Supponiamo che un individuo che intaglia il legno rovini il suo lavoro ogni volta che usa un determinato coltello; se egli afferma 'questo è un coltello infausto' e si rifiuta di usarlo ancora, il termine 'infausto' implica la credenza, non importa quanto debole, in una potenza 'sovrannaturale' e incontrollabile. Se, invece, riprendendo in mano lo strumento esclama 'spero che questa volta ti comporterai meglio!', questa frase potrebbe essere semplicemente un modo di dire, ma potrebbe anche implicare la convinzione che in conseguenza del desiderio espresso (o della preghiera) il coltello risponderà più prontamente ai voleri dell'artigiano. A mio avviso è impossibile operare una netta distinzione tra eventi la cui correlazione è interpretata in termini puramente causali e altri che implicano o esprimono esplicitamente la presenza di un ente sovrannaturale" (ibid.).
Senza dubbio sentimenti e stati d'animo hanno un ruolo importante nella credenza: il dubbio, la paura o il desiderio possono influire sulla volontà di credere. Le emozioni possono offuscare la capacità critica, ma anche acuirla. Nei complessi atteggiamenti che l'uomo assume nei confronti della magia e della religione, nonché delle tecniche di guarigione, si verifica senza dubbio un conflitto tra ragione e sentimenti. Il problema della sincerità e della credenza si pone in modo particolare quando l'antropologo si trova a giudicare testimonianze come quella fornita da uno stregone dei Murngin australiani, che descrive il suo uso della magia del 'puntare l'osso' (kundela): "Il grande intestino della donna sporgeva come se fosse cotonina rossa. Mi cosparsi il braccio di succo di orchidea [...] a poco a poco le infilai la mano nel torace sino a raggiungere il cuore. Con il pollice spinsi l'osso che avevo conficcato nel palmo attraverso le dita sino al cuore della donna. [...] La voltai; il suo grande intestino fuoriusciva di parecchi piedi. Vi cosparsi sopra alcune formiche verdi, e l'intestino si ritrasse impercettibilmente; sparsi altre formiche, e l'intestino rientrò per un altro tratto; ne sparsi altre ancora, e tutto l'intestino rientrò nella cavità addominale. Ora era tutto a posto; non vi era alcuna traccia della ferita" (v. Warner, 1937, pp. 199-200).
Le difficoltà nascono quando il problema della credenza viene posto in termini puramente cognitivi, ignorando il ruolo assunto dalle emozioni e dai sentimenti. In una prospettiva basata sulla disposizione psicologica la credenza è definibile in termini di convinzione, di adesione del soggetto a ciò che fa o dice. L'introspezione conferma l'ipotesi che la credenza è uno stato mutevole e incostante, che gli stati emotivi e gli interessi influenzano la convinzione. Non è sempre facile stabilire con certezza se una proposizione sia intesa o meno alla lettera. Gli atteggiamenti che si celano dietro una determinata azione o asserzione possono essere ambivalenti, o possono mutare a seconda delle circostanze. Può verificarsi una discrepanza tra la ragione, la quale ci dice che quell'azione ha un valore puramente simbolico, e le emozioni e i sentimenti, che ci dicono quanto desideriamo e speriamo che essa sia realmente efficace. Da tale discrepanza potrebbe derivare in parte quella dimensione peculiare, misteriosa che caratterizza alcune forme di magia.
Il concetto di magia, come abbiamo visto, ha una storia e un significato particolari nella cultura occidentale. Per stabilire se un concetto o una categoria analoga esistano anche in altre culture, può essere utile individuare le caratteristiche peculiari, speciali dell'azione magica. Secondo Rivers le società melanesiane da lui studiate non possedevano la nozione di causalità naturale, e di conseguenza non potevano distinguere tra fenomeni naturali e sovrannaturali. La nozione di magia come ambito di eventi straordinari implica l'idea di un ordine normale, naturale delle cose, ma si tratta di un'idea che ogni cultura possiede: la vita quotidiana sarebbe impossibile senza di essa. Ciò che manca nelle popolazioni primitive non è tanto il concetto di causalità naturale, come sosteneva Rivers, bensì l'idea di 'leggi di natura' che possono spiegare adeguatamente il verificarsi di determinati fenomeni, come ad esempio la malattia. Il concetto di 'leggi di natura' è un concetto complesso, culturalmente specializzato, e il fatto che esso manchi in determinate società non significa che esse siano incapaci di riconoscere il carattere peculiare, speciale della magia. I Trobriandesi ad esempio operavano una netta distinzione tra le loro tecniche pratiche e gli elementi magici e rituali a esse associati, considerandoli di natura diversa. Essi avevano termini speciali, una sorta di vocabolario tecnico per designare le diverse parti di cui si compongono le formule magiche, così come la popolazione degli Gnau ha termini specifici per indicare i gesti e i materiali usati nella magia - le erbe seccate e sminuzzate, le pozioni speciali e gli incantesimi. Il fatto che i riti magici siano disciplinati da regole precise, il loro carattere segreto e la loro stranezza segnalano la loro natura particolare. Nei commenti che a volte accompagnano l'esecuzione dei riti si allude spesso al loro carattere fisso, speciale, al fatto che le procedure rituali non sono scoperte attraverso il ragionamento o un metodo per tentativo ed errore, bensì sono qualcosa di appreso, di rivelato (v. Lewis, 1980, pp. 50-67). Gli attori, ovviamente, non si preoccupano necessariamente di dichiarare le proprie intenzioni, né di analizzare le proprie azioni, le loro motivazioni, o i principî del pensiero magico. Essi sono interessati principalmente a eseguire correttamente i riti magici seguendo le regole stabilite. Molti studiosi, a partire da Frazer, hanno sottolineato il carattere occasionale, ateoretico delle pratiche magiche, ed Edmund Leach (v., 1964) ha messo in rilievo la loro fissità: le procedure rituali devono essere seguite rigorosamente, non verificate, analizzate o manipolate. Leach (v., 1967, p. 32) istituisce un paragone tra l'operatore che esegue l'azione magica confidando nella sua efficacia ma senza avere idea di come funzioni, e l'atteggiamento di chi preme l'interruttore della luce, certo che la lampadina si accenderà pur senza sapere come né perché. La magia a volte è più simile all'azione di forze naturali, a volte a quella di esseri spirituali sovrannaturali. Ma il paragone di Leach si rivela inadeguato nella misura in cui trascura la dimensione speciale, peculiare che viene di solito attribuita alla magia, nonché gli stati emotivi legati alla sua pratica in situazioni di incertezza e ansia.
A volte sembrerebbe ovvia la distinzione tra due ordini di eventi, quelli naturali e quelli causati da una forza o potenza sovrannaturale. Le tecniche di guarigione gnau, ad esempio, comportano l'estrazione di 'punte di freccia' dal corpo del paziente, ma non tutte le frecce sono dello stesso tipo; gli Gnau senza dubbio distinguono tra chirurgia simbolica e chirurgia reale. È poco plausibile che essi considerino simili in via di principio i seguenti tre tipi di cura. Nel primo caso si tratta di estrarre da una donna malata una 'punta di freccia' che si suppone localizzata nel collo, dove essa accusa dolore. Un anziano si fa avanti masticando un bolo di betel, e senza dire una parola si avvicina lentamente alla donna malata e la osserva. Indi si china e le palpa la nuca, sollevando con le dita un lembo di pelle, che poi afferra tra i denti piegandosi sulla donna. Dopodiché si risolleva, e con l'indice e il medio rimuove delicatamente qualcosa dagli incisivi spingendolo con la lingua, qualcosa di sottile, e lo butta per terra. Questa sequenza viene ripetuta circa sette volte, e ogni volta il guaritore palpa accuratamente il collo della donna prima di afferrare il lembo di pelle. Dopodiché raccoglie alcune foglie, soffia sulla pelle della paziente e la tasta, mormorando 'pur, pur pur' e alcune parole. Tutto ciò viene eseguito in modo attento ma senza enfasi. Poi l'uomo fruga per terra cercando le 'frecce', ma sembra abbia difficoltà a trovarle, e alla fine non è sicuro di esservi riuscito. Le 'punte di freccia' che cerca sono spighette o fuscelli sottili che possono confondersi facilmente con le schegge e i frammenti che si trovano sul terreno; qui, potrebbe sostenere uno scettico, non sarebbe difficile trovare quello che si vuole, e il misto di attenzione selettiva, aspettativa ed errore indurrebbe a credere nell'effettivo ritrovamento delle 'punte di freccia' (v. Jahoda, 1969, pp. 33-52). Una seconda estrazione, di tipo diverso, si verifica nello stesso villaggio alcuni mesi dopo, e viene effettuata sulla stessa donna (v. Lewis, 1977, pp. 125-126). Si tratta in questo caso di rimuovere delle 'punte di freccia' stregate di dimensioni maggiori (minmin): la più grande è lunga circa quattro centimetri, di legno bianco, e assomiglia a un osso; il guaritore la espelle dalla bocca assieme a quello che sembra un fiotto di sangue in un guscio di noce di cocco tagliato a metà e riempito d'acqua (prima di compiere l'intervento però il guaritore ha masticato un bolo di betel). Il terzo tipo di cura praticata nello stesso villaggio consiste in un vero e proprio intervento chirurgico per estrarre frecce o frammenti di freccia dalle ferite (alcune frecce usate da questa popolazione sono costruite in modo da rompersi nella ferita); la stessa tecnica viene adoperata per rimuovere spine conficcate nelle piante dei piedi o nelle mani.
Considerando questi tre tipi di estrazione di frecce, si può supporre che i guaritori assumano un atteggiamento diverso per quanto riguarda la rispondenza tra ciò che fanno o sembra che facciano e ciò che affermano di fare. Si è portati ad attribuire maggiore sincerità e convinzione al guaritore del primo caso che non a quello del secondo, in cui la dimensione delle 'frecce' estratte rende assai meno credibile la sua buona fede. In ogni caso è difficile porre domande dirette ai soggetti sulla sincerità delle loro azioni. Domande di questo tipo possono apparire ostili o critiche, o essere interpretate come ispirate da un sospetto di inganno e di impostura.
Il problema della sincerità dell'operatore magico è stato messo in luce da Boas nella sua analisi del caso di Quesalid, uno sciamano kwakiutl che aveva appreso a estrarre la malattia per suzione. Nel saggio Lo stregone e la sua magia Lévi-Strauss (v., 1958) riesamina la storia di Quesalid: il suo desiderio iniziale di smascherare i raggiri praticati dagli sciamani a danno dei loro clienti, i trucchi appresi nel corso del suo apprendistato sciamanico, e i dubbi che cominciano a insinuarsi in lui nei confronti del proprio stesso scetticismo, dubbi che lo inducono a credere nuovamente nell'efficacia dello sciamanismo. Come mette in luce Boas, che conosceva bene Quesalid, l'atteggiamento di quest'ultimo cambia col tempo: le testimonianze raccolte in periodi diversi riflettono i mutamenti intercorsi nel suo modo di percepire gli eventi, se stesso e Boas. Le risposte di Quesalid, anche quando viene interrogato con abilità, lasciano adito all'incertezza. In che misura dice quello che realmente pensa? Quanto influisce sulle sue risposte ciò che egli crede Boas voglia sapere o possa capire? Vi sono dei segreti che non intende rivelare?
Boas frequentò Quesalid per oltre trent'anni, e tra il 1897 e il 1930 raccolse quattro versioni degli stessi eventi. Quesalid era in realtà George Hunt, l'amico kwakiutl di Boas, coautore e stretto collaboratore. A Hunt, che aveva imparato a scrivere da Boas, si deve la trascrizione dei testi kwakiutl; egli fu, nel senso letterale del termine, un osservatore partecipante e un etnografo della cultura indigena (v. Boas, 1966, pp. XXVIII-XXXI). Tali testi ci offrono una testimonianza diretta di credenze ed esperienze personali. Boas analizza i cambiamenti intercorsi nell'atteggiamento di Quesalid dall'epoca della sua iniziazione, avvenuta nel 1870 o 1874. La sua credenza nella teoria e nella pratica dello sciamanismo era frutto di pressioni confliggenti: l'identificazione con altri sciamani, l'appartenenza a una società segreta, la sperimentazione di stati di trance (analoghi ad attacchi epilettici), l'autorità vincolante degli sciamani più anziani, poi dei missionari, il timore di avere problemi con il governo se questo fosse venuto a conoscenza dell'utilizzazione di un cadavere, il desiderio di dimostrare ai bianchi il proprio scetticismo nei confronti di pratiche in cui egli sa che essi non credono. Boas osserva come l'immaginazione e i sentimenti contrastanti - nonché l'orgoglio per la propria cultura, il desiderio di impressionare Boas, la percezione dei propri interessi e di quelli dell'amico antropologo - possano aver alterato il ricordo di eventi occorsi nel lontano passato. Quanto alle oscillazioni e alla mutevolezza dello scetticismo di Quesalid, analizzate con grande acume da Lévi-Strauss, Boas mette in rilievo l'ingegnosità degli stratagemmi e degli artifici messi in atto nei riti kwakiutl. Il 'cerimoniale d'inverno' è caratterizzato da una straordinaria profusione di elementi spettacolari e di trucchi teatrali assai abili - finte decapitazioni, botole da cui gli spiriti-mostri appaiono e scompaiono, maschere che celano un secondo volto. Una società che ha sviluppato una tale arte dell'inganno non può che favorire quello scetticismo che costituisce l'elemento più interessante della storia di Quesalid, e che traspare in tutta l'analisi boasiana dello sciamanismo: ad esempio quando descrive i 'sognatori', le 'creature dello sciamano' che sono i suoi 'occhi', le sue spie; la simulazione della malattia e della morte a seguito del rifiuto volontario del cibo; la simulazione dell'estasi; le tecniche per far vibrare il ventre e tremare la mascella, per trasformare un pezzo di quarzo in una stella di mare, per vomitare sangue; l'arte di estrarre la malattia dal corpo per suzione, mostrando poi la 'malattia' estratta sotto forma di un batuffolo insanguinato. Nello stesso tempo però Boas mette in evidenza la sincerità che traspare nei vividi, personali racconti di sogni, visioni, esperienze di malattia e di guarigione: ad esempio il racconto di Tlebeet che descrive la sua malattia e la sensazione di essere fuori dal proprio corpo - "mi svegliai e vidi il mio corpo steso al suolo che gemeva" - o quello dello sciamano Fool, ammalato di vaiolo, che riprendendo i sensi ha la sensazione di essere circondato dai lupi e che due di essi, sdraiati al suo fianco, gli lambiscano il corpo. "La fondamentale conclusione che si può trarre da questi racconti - scrive Boas (v., 1966, p. 125) - è che, nonostante la consapevolezza dell'inganno, persiste una credenza profondamente radicata nel potere sovrannaturale dello sciamanismo, anche tra le persone più smaliziate".
La storia dell'apprendistato sciamanico di Quesalid getta luce su un importante aspetto della credenza magica in ogni società: quello relativo al controllo e all'allocazione, all'insegnamento e alla trasmissione dei poteri e delle tecniche magiche. Al pari di Quesalid, nella maggior parte delle società gli individui acquistano via via consapevolezza e le loro credenze cambiano nel corso del tempo. Nella maggior parte dei casi esistono dei meccanismi di controllo che definiscono diversi modelli di accesso alla conoscenza, diversi percorsi per acquisirla; tali meccanismi di controllo riflettono di solito le funzioni, i poteri e gli usi della magia. L'accesso alle conoscenze magiche è regolato in base al sesso, all'età e allo status sociale. Le norme di esclusione possono avere un ruolo importante nel preservare alla magia il suo carattere esoterico. Le credenze di chi prepara ed esegue i riti magici saranno diverse da quelle dei semplici spettatori. Al livello della collettività vi può essere una sorta di divisione del lavoro che assegna a determinati gruppi della società le responsabilità magiche per conto della comunità intera. La divisione del lavoro magico può creare una dipendenza reciproca e può contribuire a integrare diversi sottogruppi facendone una comunità coesa; è questo il principio su cui si basa un tipo di divisione totemica di alcune società aborigene australiane, in cui ogni sottogruppo è responsabile delle cerimonie di crescita per assicurare la fecondità e il benessere di determinate specie animali o vegetali di cui ha bisogno l'intera comunità. In altre società le norme che limitano il possesso delle conoscenze magiche a determinate categorie di persone possono assumere la funzione di preservare il potere e i privilegi, di regolare l'accesso al potere politico o alle risorse economiche. Le funzioni sociali della conoscenza e della pratica della magia ne influenzano le modalità di accesso e di trasmissione, e determinano il carattere segreto o pubblico delle tecniche magiche. La distribuzione sociale delle conoscenze magiche può influenzare la credenza e gli atteggiamenti nei confronti della magia. Un esempio illuminante in proposito è offerto dalla credenza diffusa in Europa nel potere terapeutico del tocco del sovrano (v. Thomas, 1973, pp. 191-195): in Inghilterra all'epoca dei Tudor e degli Stuart il tocco guaritore del sovrano divenne nella credenza popolare un simbolo durevole di legittimità e continuità dinastica, in quanto si riteneva che tale potere fosse posseduto solo dal re. La credenza nelle virtù terapeutiche del tocco del sovrano derivava più dall'inclinazione a credere nel carattere sovrannaturale della monarchia che non dall'esperienza di effettive guarigioni. Per motivi di ordine politico si evitava di esprimere pubblicamente il proprio scetticismo.
Uno dei punti di forza della teoria sociale della conoscenza proposta da Durkheim nei suoi studi sulla religione e sulle forme primitive di classificazione (v. Durkheim, 1912; v. Durkheim e Mauss, 1901-1902) è dato dal fatto che essa si configura come una teoria della credenza in grado di spiegare perché determinate idee in una società appaiano particolarmente radicate, si impongano in modo quasi cogente e siano universalmente condivise. Esistono forti pressioni collettive che determinano la credenza: è difficile per il singolo individuo mettere in discussione le idee fondamentali accettate da tutti gli altri membri della società. Questa constatazione induce però a chiedersi che cosa determini il declino della credenza nella magia. Nella teoria funzionalista di Malinowski (v., 1925) la magia in certe società persiste perché aiuta ad affrontare situazioni di difficoltà e incertezza. La magia ha un'utilità pratica, la sua funzione è quella di ristabilire la fiducia necessaria ad affrontare le difficoltà. L'ipotesi di Malinowski spiega in modo plausibile lo svilupparsi della magia nelle situazioni di incertezza, quando vi sono importanti interessi in gioco e mancano le risorse tecniche per controllare gli eventi o la capacità di farlo. Secondo Malinowski la magia ritualizza l'ottimismo. La sua teoria offre implicitamente una spiegazione del declino dei sistemi magici quando i progressi tecnologici consentono un maggior controllo dell'ambiente esterno e degli eventi. E in effetti via via che l'uomo impara a controllare l'ambiente fisico e sociale si assiste a un declino della magia. Tuttavia secondo Keith Thomas (v., 1973), autore di uno studio molto documentato sul declino della magia nell'Inghilterra del XVI e del XVII secolo, le testimonianze storiche inducono a concludere che l'abbandono delle credenze magiche ha preceduto i progressi della medicina e della tecnologia. Riprendendo una tesi di Max Weber (v., 1923) che considera la questione da un'altra prospettiva, il declino della magia va ricondotto al fatto che essa rappresenta un ostacolo alla razionalizzazione della vita economica, in quanto impedisce l'indagine e la sperimentazione di nuove soluzioni. Il rapporto causa/effetto in questo caso si inverte: sono stati il declino della magia, il riconoscimento della propria ignoranza, la volontà di porre in questione le credenze tradizionali e di sperimentare nuove soluzioni che hanno portato alle scoperte scientifiche e ai progressi tecnologici. Tuttavia, nonostante il declino della magia in molte aree delle moderne società urbane industrializzate, non si può parlare di una sua totale scomparsa. La credenza nelle pratiche magiche persiste nelle situazioni di incertezza e di ansia, in cui gli eventi sembrano sfuggire al nostro controllo o si vuole sperare anche quando sembra non esservi più spazio per la speranza. (V. anche Antropologia ed etnologia; Credenze e culti; Religione; Riti; Sciamanesimo; Società primitive).
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