GIOVANNETTI, Matteo
Non si conosce la data di nascita di questo pittore viterbese, del quale si hanno notizie tra il 1322 e il 1369.
Il nome del G. ricorre in alcune lettere dei papi di Avignone, sia in relazione a un canonicato presso la chiesa di S. Luca a Viterbo (2 giugno 1322 e 16 ag. 1328) sia in occasione della sua nomina a priore di S. Martino nella stessa città laziale (30 nov. 1336). Ma il primo documento noto in cui è accompagnato dalla qualifica di pittore risale al 22 sett. 1343 quando il maestro compare in un pagamento relativo all'acquisto di colori, forse per la cosiddetta camera della Guardaroba nella torre omonima del palazzo dei papi di Avignone. In uno successivo del 17 dic. 1348, infine, la qualifica di "pictor pape" accompagna quella di arciprete di Vercelli, a conferma dello stato ecclesiastico del pittore e della sua condizione eminente tra gli artisti attivi presso la corte pontificia. Come suppone Castelnuovo (1991, pp. 38 s.), da questi primi atti si ricavano alcuni dati importanti: innanzitutto che dovette nascere nell'ultimo decennio del XIII secolo o, al massimo, nei primi anni del Trecento; in secondo luogo, che risiedette in Italia almeno fino al 1328, se non fino al 1336; e infine che, se negli anni Quaranta del Trecento il G. era tra gli artisti più in vista della corte pontificia, lungo e ricco di opere dovette essere il suo percorso precedente.
Nulla invece sappiamo della sua formazione e delle opere eventualmente realizzate nella città di origine.
Qui, oltre a un lacerto di affresco con S. Giovanni Battista nel presbiterio di S. Francesco, l'eco più forte dei suoi modi si ritrova in un Angelo e in una Crocifissione e santi rispettivamente nella casa parrocchiale e nella chiesa di S. Maria Nuova. Molti sono i tratti giovannettiani di quest'ultima opera, meglio riconducibile però a un suo seguace diretto che, per il luogo di conservazione dell'affresco, si è spesso voluto riconoscere in Pietro da Viterbo, documentato più tardi ad Avignone a fianco del maestro.
A parte l'Apparizione di Cristo a una santa nella chiesa di S. Cristina a Bolsena, le poche opere da mettere in relazione con l'attività del G. in questa regione sono alcuni affreschi orvietani in S. Giovenale e un S. Guglielmo di Aquitania in S. Lorenzo in Arari, probabilmente "di un suo compagno di formazione e di cultura, attivo forse anche prima del 1330" (Todini, s.d., p. 54).
L'importanza di Orvieto agli inizi del Trecento quale centro di maturazione e irraggiamento del gotico italiano ha un momento fondante nel soggiorno in città di Simone Martini e della sua bottega, intenti fin dal 1322 alla realizzazione di almeno tre polittici per le chiese di S. Domenico, S. Francesco e S. Maria dei Servi. Fu dalla frequentazione di questo ambiente in cui spicca il cosiddetto Maestro della Madonna di Palazzo Venezia, forse conosciuto direttamente dal G., che questi dovette ricavare i fondamenti del suo stile. A tutto questo, però, egli dovette unire in tempi precoci anche la frequentazione del cantiere di Assisi, dove la cappella di S. Martino di Simone Martini, gli affreschi con Storie della Passione di Pietro Lorenzetti e quelli del probabile Stefano Fiorentino e di Puccio Capanna lasciarono un segno indelebile nel suo codice espressivo. Più difficile da definire è l'incontro con Ambrogio Lorenzetti, conosciuto nella stessa Orvieto o forse a Siena. Per il G. la sua pittura fu comunque di fondamentale importanza nella definizione di alcune tipologie delle figure, nell'articolazione di certe soluzioni spaziali e nella maturazione di quella capacità di rappresentare le azioni e la natura che appaiono con evidenza nelle prime testimonianze certe della sua attività avignonese.
Sebbene non ci sia pieno accordo nel mettere in relazione il citato documento del 22 sett. 1343, "pro pingenda guardarauba pape per mag. Matheum Iohoti de Viterbio" (Schäfer, 1914, p. 254), con la decorazione della cosiddetta camera della Guardaroba (o del Cervo, o da letto) ad Avignone, il gusto che in questo ambiente prevale è quello di un nuovo sentimento della natura, aperto all'osservazione della realtà e alla sua attenta riproduzione in pittura.
Si tratta di una sensibilità tutta italiana che, oltre a trovare significativi precedenti in campo letterario, e petrarchesco in particolare, matura ad Avignone sulla scia del soggiorno di Simone Martini e, ancor prima, del Maestro del Codice di S. Giorgio. Questo gusto si contrappone a quello ancora sostanzialmente lineare e bidimensionale che informa la vicina camera del Papa, dipinta con ampi girali vegetali tra il 1337 e il 1341. L'unico brano che in essa si distingue per una spazialità diversa, tridimensionale e prospettica, è quello con alcune gabbie vuote, dipinte in due piccoli vani in prossimità delle finestre. L'attribuzione al G. di questo motivo, proposta senza prove concrete, non ha trovato un consenso unanime. Lo spirito nuovo che ne informa il carattere si distingue però dal resto della decorazione e anticipa alcune di quelle soluzioni "spaziose", sperimentate nelle più tarde prove del maestro. Un'analoga incertezza attributiva caratterizza anche la camera della Guardaroba, dove nessuna delle mani (almeno tre) che vi lavorarono può essere identificata con certezza con quella del Giovannetti. Tuttavia, la sua presenza nell'impresa e un ruolo di rilievo all'interno della bottega che a quelle date sovrintese alla decorazione del palazzo possono essere ricavati, oltre che dai documenti, dalla significativa coincidenza che vede nel 1344 la fine dei lavori nella Guardaroba e l'avvio di altre importanti opere di decorazione a capo delle quali dovette essere lo stesso Giovannetti.
Dal 1344, i numerosi documenti conservati rivelano che il pittore, a capo di una nutrita e composita bottega (in cui ricorrono i nomi di Bartolomeo di Marsiglia, Domenico "de Bellona", Pietro da Viterbo e Robin de Romans), dovette ricoprire un ruolo di vero e proprio sovrintendente alla decorazione delle fabbriche papali, sia ad Avignone, sia nella vicina Villeneuve-lès-Avignon, dove fu attivo al servizio del cardinale Napoleone Orsini (1346).
Si riferiscono infatti al G. gli incarichi per l'esecuzione di ancone e pale d'altare (Castelnuovo, 1991, pp. 94 s.); e a lui si attribuiscono incarichi per varie opere di arredo minore, dalla pittura di armadi alla doratura di due cattedre per il papa, alla decorazione delle stuoie per le finestre della cappella clementina.
Tra il 1344 e il 1345 il G. eseguì, nel palazzo di Avignone, la decorazione della cappella di S. Michele, all'ultimo piano della torre della Guardaroba, e di quella di S. Marziale (o "capella Tinelli magni" o "Magne Aulae"), al secondo piano della torre di S. Giovanni, saldate al pittore il 3 genn. 1346.
La prima, di cui non rimane che qualche sinopia poco leggibile, illustrava "storie di angeli delle diverse provincie" (ibid., p. 54); la fama di queste pitture era così diffusa e radicata che ancora nel 1406 il re d'Aragona Martino I ne chiedeva delle copie al vescovo di Lerida. La seconda cappella narra invece le Storie di s. Marziale, evangelizzatore dell'Aquitania e presunto discepolo di Cristo, la cui vita fu scelta forse dallo stesso papa Clemente VI come esempio e campione locale di quell'apostolato che poteva dare legittimazione alla nuova sede della Chiesa e piena potestà ai pontefici che vi risiedevano. Gli episodi della vicenda terrena di Marziale, dalla Predica di Cristo alla presenza del santo fino al suo trapasso e ai miracoli post mortem, si snodano sulla volta e lungo le pareti in una ventina di scene contrassegnate da lettere alfabetiche che ne scandiscono la successione e ne facilitano la lettura. Lo stile di questo complesso, primo testo certo dei modi del pittore, mostra nelle scene d'interno una sicura capacità di definizione dello spazio che si fa concreto e abitabile, mentre si colora e si arricchisce negli esterni di notazioni naturali e di un vivido senso dell'osservazione del vero. Questo gusto aperto alla rappresentazione del dato naturale informa anche le figure, colte sia nei loro atteggiamenti e gesti quotidiani, sia studiate nei loro tratti individuali secondo una propensione ritrattistica che rimarrà costante anche nelle successive prove del maestro.
Al 21 nov. 1345 risalgono i primi pagamenti al G. per le pareti del Gran Tinello.
Il 3 aprile dell'anno successivo gli vennero pagati i lavori in alcuni deambulatori del palazzo, nella galleria superiore del chiostro, in varie camere e scale; il 4 risultava terminata la Madonna, forse dell'Umiltà, dipinta sulla porta che dalla sala del Gran Tinello portava alla cappella di S. Marziale; per quest'opera (oggi perduta) gli erano stati forniti preziosi materiali (stagnole d'oro e fogli d'argento). Dal 21 nov. 1346 al 17 dic. 1348 il G. fu attivo nella sala del Concistoro dove eseguì un'ampia decorazione distrutta da un incendio nel 1413, rappresentante "la Divina Maestà dipinta sul suo trono con tutt'attorno le immagini dei santi, delle sante e di coloro che nel Vecchio e nel Nuovo Testamento avessero scritto o pronunciato massime rilevanti sui giudizi, il diritto, la giustizia e l'equità": un insieme, dunque, "concettoso, ricco e complesso" (Castelnuovo, 1991, pp. 105 s.), che sotto le figure riportava a scopo edificante lunghe scritte e cartigli nel tentativo di fondere la parola scritta con l'immagine.
La stessa attenzione al rapporto fra testo e immagine ritorna nella cappella di S. Giovanni, dedicata al Battista e all'Evangelista, dipinta con molta probabilità dal G. negli stessi anni dell'adiacente sala del Concistoro.
Nessun documento supporta in questo caso l'attribuzione al G., i cui modi sono tuttavia riconoscibili accanto a quelli di alcuni collaboratori forse di origine italiana. La sua mano, infatti, si distingue nell'intero ciclo, svolto lungo le pareti con un numero di scene inferiore a quello della cappella di S. Marziale e da quel complesso stilisticamente distante per una più pacata articolazione degli spazi architettonici, per una gamma del colore più variata e tenue, per una più sentita e attenta osservazione della realtà. Il G., insomma, appare qui a uno stadio di maturazione stilistica più evoluto, in grado, forse per la conoscenza di opere francesi, di approfondire l'analisi fisionomica e psicologica dei personaggi, senza per questo cedere in plasticità nella costruzione delle figure, costruite con una grazia e una fluidità della linea che raggiunge brani di lirica musicalità nei panneggi e nella positura stessa dei corpi.
Negli anni successivi al completamento della cappella di S. Giovanni, il processo di saldatura avviato in quella sede tra la tradizione lineare senese-martiniana e quella di matrice gotica francese dovette ricevere ulteriori sviluppi e approfondimenti sia nelle perdute Storie di s. Roberto, dipinte nell'abbazia dedicata al santo a La Chaise-Dieu (contratto del 18 ott. 1351), sia nei disegni per ventotto storie del medesimo santo (pagamento del settembre 1352) mandati a Parigi perché se ne ricavassero i rilievi "pro cassa argentea corporis eiusdem sancti" (ibid., p. 121). Il metro di questa fusione e maturazione di uno stile nuovo dalle componenti italo-francesi è offerto oggi soltanto dalle superstiti figure di Profeti, re e sibille nella volta della cosiddetta Grande Udienza, voluta da Clemente VI quale addizione al più vecchio palazzo di Benedetto XII, per le assemblee del tribunale poi detto della Sacra Rota.
Le venti figure dell'Antico Testamento che spiccano nella volta su un cielo blu carico di stelle sono l'unico resto apprezzabile di un ampio programma iconografico condotto dal maestro tra il 1352 e il 1353, comprendente in origine anche un Giudizio universale sulla parete nord e una Crocifissione, visibile solo in qualche parte della sinopia, tra le due finestre del muro orientale. "Ma questi profeti, questi spietati patriarchi signori dei cieli, sono le creazioni più alte e liriche della fantasia" del G.; essi sono gli "esempi per eccellenza del linguaggio gotico più puro e avanzato che mai fino ad allora fosse stato tentato da un artista italiano" (ibid., p. 128). La grafia delle loro vesti è tanto sottile e calligrafica quanto l'effetto d'insieme saldo e vigoroso, amplificato anziché attutito da una gamma cromatica raffinata ed elegante, frutto anche delle suggestioni riportate dall'osservazione delle sculture e delle vetrate (come per esempio quelle di Christianus de Cantinave per la cappella Clementina) che negli stessi anni si andavano realizzando nel palazzo.
Dopo questa prova, forse la più alta che il G. abbia lasciato e di certo quella che maggiormente avvicina il suo linguaggio a quello più tardo dello stile internazionale di fine secolo, il pittore dovette essere attivo nella vicina Villeneuve-lès-Avignon, nel palazzo di Audoin Aubert, vescovo di Maguelonne; nonché nella cappella della livrea cardinalizia di Etienne Aubert, il quale, una volta salito al soglio pontificio con il nome di Innocenzo VI, deciderà di inglobare il vecchio ambiente in una nuova certosa fondata con bolla del 2 giugno 1356.
Sebbene anche in questo caso i documenti tacciano, non è escluso che la decorazione della cappella non preceda, seppure di poco, la stessa fondazione della certosa. Essa avrebbe così compreso nel suo perimetro un ambiente già interamente decorato con Storie del Battista, esemplate su quelle analoghe della cappella del palazzo papale. A Villeneuve-lès-Avignon, accanto alle Storie di s. Giovanni e ad alcuni pannelli con diaconi, papi e santi in piedi, il pittore realizzò anche un riquadro con Innocenzo VI che in ginocchio rende omaggio alla Vergine col Bambino. Ovunque, prevale immediato l'interesse per la descrittività e la narrazione, calata più che mai in un ambiente indagato con rigore nelle sue leggi spaziali e prospettiche.
Nessuna opera successiva a questa impresa rimane a illuminare i lunghi anni che separano gli affreschi di Villeneuve-lès-Avignon dalla morte del pittore. Non c'è traccia infatti dei lavori che lo videro impegnato dal novembre 1365 al settembre 1366 nella decorazione dell'appartamento Roma nella nuova ala del palazzo avignonese voluta da Urbano V; né possiamo ricostruire il carattere stilistico dei cinquantasei panni di lino con la Vita di s. Benedetto, dipinti entro il 27 apr. 1367 per il collegio benedettino di Montpellier.
Il 30 apr. 1367 il papa rientrò a Roma e il G. dovette seguirlo. Nell'ottobre di quell'anno, egli è sicuramente in Vaticano dove nel gennaio del 1368 alcuni documenti lo ricordano attivo in non meglio precisate opere di pittura. L'ultima notizia che lo riguarda data al 4 giugno 1369, quando "Matheo de Viterbio, archipresbytero eccl. Vercellen." compare in una lettera di Urbano V, inviata da Montefiascone (Hayez - Hayez).
Il G. morì probabilmente a Roma tra il 1369 e il 1370, anno in cui i documenti della corte, ritornata ad Avignone, non lo citano più.
Il catalogo delle opere mobili del G. comprende attualmente pochi pezzi. Certo è però che, a dispetto dell'esiguo numero di tavole oggi a lui riconducibili, la sua attività in questo campo dovette essere di grande rilievo.
Nella tavola già nella collezione Chalandon di Lione, poi Wildenstein a New York, restituitagli da F. Zeri, la Madonna e il Bambino ricevono l'omaggio di un alto prelato (forse lo stesso papa Clemente VI), inginocchiato e di profilo, il cui volto ha l'accurata definizione di uno studiato ritratto cortese. Non sappiamo se questo pezzo possa riconoscersi in uno di quelli che il pittore eseguì per il palazzo di Avignone o non sia piuttosto da identificare con una delle numerose ancone per l'abbazia di St-Robert a La Chaise-Dieu, ricordate in un documento del 29 nov. 1349 "pro fabricatione tabularum depictarum pro 8 capellis monasteris Case Dei" (Schäfer, 1914, p. 350). Oltre alla tavola già nella collezione Chalandon, ci rimangono una piccola Crocifissione ora nelle collezioni della Cassa di risparmio di Viterbo, unica anta superstite di un dittico smembrato databile alla metà degli anni Quaranta; un trittichetto, circa degli stessi anni, già in collezione Cernazai a Udine, con la Madonna col Bambino tra i ss. Ermagora, Fortunato, Caterina e Antonio Abate e un'Annunciazione nelle cuspidi, oggi disperso tra alcune collezioni private, il Louvre e il Museo Correr di Venezia; e, infine, una tarda tavoletta con la Madonna col Bambino, santi, angeli e la Crocifissione, recentemente riconosciuta al G. da Todini (s.d., pp. 50-53) che la data al 1360 circa. Un'opera di grande rilievo doveva essere infine la tavola, oggi perduta, raffigurante l'Incontro tra il re di Francia Giovanni il Buono e Clemente VI, colti nel momento in cui il papa fa omaggio al re di un dittico con le immagini di Cristo e della Vergine. Il dipinto, dall'autografia incerta ma per il quale da più parti è stata avanzata l'attribuzione al G., è noto soltanto da una copia ad acquerello di Roger de Gaignières (Parigi, Bibliothèque nationale, Cabinet des estampes, Coll. Gaignières, Oa 11, cc. 85-88) della fine del XVII secolo; l'apprezzamento di cui doveva aver goduto per secoli dovette comunque essere molto grande se, com'è noto, esso fu esposto a lungo sulla porta della sacrestia della Sainte-Chapelle a Parigi.
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