Monarchia
Governare per diritto di nascita
Il termine monarchia deriva dal greco mònos («solo») e archìa («comando») e significa letteralmente «governo di uno solo». Per governo monarchico si intende un regime politico in cui un singolo individuo è sovrano, ossia detiene la somma dei poteri dello Stato (sovranità), secondo tre caratteristiche: ereditarietà, perpetuità e irrevocabilità. Il monarca deriva il suo potere per diritto di nascita (sale al trono in quanto figlio di re o membro della famiglia reale); è sovrano dall’incoronazione fino alla morte, salvo il caso in cui abdichi; il suo governo è riconosciuto come legittimo e per destituire il monarca è necessaria una rivoluzione o quanto meno un cambiamento istituzionale
Nella storia dell’umanità, la monarchia è stata la forma di governo di gran lunga prevalente: ha costituito il sistema politico dominante sino all’età contemporanea, pur presentando caratteristiche diverse a seconda dei tempi e dei luoghi.
Presso i popoli antichi il monarca era un guerriero e un sacerdote: egli univa al dominio militare la prerogativa religiosa di mediatore tra la sfera divina e quella umana; in taluni casi (nell’antico Egitto, negli Imperi alessandrino e Romano) veniva adorato come un dio. Secondo i giuristi e i pensatori politici medievali il modello più alto di sovranità monarchica antica era costituito dal principato di Augusto.
Forma tipica dei regni romano-barbarici era la monarchia germanica. Presso i Visigoti, i Franchi, i Longobardi, il re era in origine un capo militare, divenuto capo politico solo dopo l’insediamento della popolazione. Per lo più eletto, il re disponeva di poteri piuttosto ridotti, in quanto condivideva il potere effettivo con i rappresentanti dei diversi gruppi gentilizi (le tribù).
Nell’Impero carolingio (una monarchia feudale plurinazionale) la concezione monarchica germanica si fuse con quella imperiale romana. Il potere di Carlomagno non derivava più dal popolo, perché l’imperatore pretendeva di fondare la sua autorità su una base di sacralità: affermando che il suo potere derivava da Dio, egli si poneva in una sfera superiore.
Nonostante la preminenza, il monarca medievale restava primus inter pares («primo tra parigrado»), cioè un signore feudale che cercava una base di consenso al suo governo stringendo un vincolo personale con i membri del ceto nobiliare a cui egli stesso apparteneva; i feudatari promettevano obbedienza e sostegno militare in cambio del diritto allo sfruttamento economico delle loro terre e, dopo l’11° secolo, della giurisdizione (cioè l’amministrazione della giustizia e la riscossione di tributi) su un determinato territorio (feudalesimo).
Il monarca, come rappresentante del potere divino sulla Terra, vantava anche facoltà straordinarie: i re taumaturghi della Francia e dell’Inghilterra medievale affermavano di avere doti magico-religiose (come guarire le malattie). Tuttavia, il re aveva una supremazia soltanto teorica ed esercitava un potere effettivo unicamente nelle zone di sua proprietà. Egli era il rappresentante di un sistema patrimoniale composto di potenti dinastie territoriali e concentrato nelle mani di pochi.
Nel tardo Medioevo, con lo sviluppo delle città come centri di potere, la monarchia si pose come arbitro tra l’emergente borghesia cittadina e la feudalità, rafforzando la sua autorità e cercando di assumere la gestione diretta dei poteri pubblici nelle province. Nell’età moderna si delineò in tutta Europa la tendenza a un progressivo accentramento del potere nelle mani del monarca, mirando alla formazione di Stati nazionali. L’istituto monarchico andò evolvendo verso il modello di una monarchia assoluta, caratterizzata dall’imposizione di un potere centrale contro le volontà di autonomia dei signori locali. La monarchia, divenuta stabilmente ereditaria, affermò così la sua superiorità su tutti i ceti.
Il potere monarchico, tuttavia, non fu mai, se non eccezionalmente, una monocrazia assoluta, poiché la nobiltà di origine feudale conservava un ruolo primario, ottenendo i posti di comando nello Stato come compenso all’autonomia perduta nelle province. Al tempo stesso, il monarca assumeva il ruolo di difensore della Chiesa e assicurava alla borghesia il controllo delle attività commerciali.
Con lo sviluppo dello Stato moderno come sistema centralizzato, il monarca assunse la sovranità (ossia la pienezza di poteri) creando una burocrazia alle sue dipendenze ed esercitando un controllo diretto su finanza ed esercito. La monarchia assoluta era anche patrimoniale: l’intero Stato, territorio e sudditi, era considerato proprietà privata del sovrano. Il re francese Luigi XIV giunse ad affermare di essere egli stesso tutto lo Stato. Questa forma di governo e di Stato si realizzò, oltre che nel regno di Spagna, anche in Inghilterra e in Francia, dove a seguito delle guerre di religione il re si impose come unica autorità per garantire la sicurezza pubblica.
I caratteri fondamentali della monarchia assoluta (teorizzati dal francese Jean Bodin e dall’inglese Thomas Hobbes) erano: l’unità e l’indivisibilità (potere esecutivo, legislativo e giudiziario spettano tutti a un unico sovrano), l’assolutezza (il sovrano, legibus solutus ossia «sciolto dalle leggi», è il solo a non essere subordinato alla legge, da lui fatta), e l’irrevocabilità (il sovrano non può essere destituito).
Nella tarda età moderna si assiste a un’inversione della tendenza accentratrice monarchica, causata soprattutto dalle grandi rivoluzioni politiche del Sei-Settecento (in Inghilterra, America e Francia). I teorici del costituzionalismo monarchico (l’inglese John Locke, i francesi Charles-Louis Montesquieu e Benjamin Constant) affermarono la necessità di limitare i poteri del governo in difesa dei diritti di libertà dei cittadini. Sotto la pressione del ceto borghese ormai dominante, la monarchia diventava costituzionale: il monarca concedeva una Carta costituzionale (costituzione e costituzionalismo) che, oltre a garantire certe libertà individuali (di religione, di iniziativa economica, di stampa), riconosceva nello Stato due centri di potere rappresentati dal re e dal parlamento. Al primo spettavano il potere esecutivo di governo, la politica estera e la conduzione della guerra; il parlamento, organo elettivo rappresentativo, aveva il potere di decidere sulle questioni finanziarie e di elaborare le leggi, le quali, però, erano sottoposte alla sanzione del re, che poteva impedire che entrassero in vigore imponendo il veto.
Con il patto costituzionale la monarchia non era più un’istituzione al di sopra dello Stato ma un organo dello Stato, cui ora veniva trasmessa la sovranità o suprema potestas. La monarchia costituzionale apparve per la prima volta in Inghilterra, con l’introduzione del Bill of rights nel 1689 (Rivoluzioni inglesi). Nell’Europa continentale la fase costituzionale comparve molto più tardi, dopo l’età napoleonica e la Restaurazione. In Italia lo Statuto albertino (Carlo Alberto) del 1848 limitò i poteri del re nel Regno di Sardegna.
Con la progressiva affermazione della priorità del parlamento (come organo che rappresenta i poteri effettivi nella società), il monarca, oltre a perdere il carattere di sacralità, perse di fatto anche il ruolo di capo dell’esecutivo, limitandosi a ratificare le decisioni governative prese dalla Camera elettiva. Per monarchia parlamentare si intende dunque quella forma di governo sviluppatasi in Inghilterra già durante il 18° secolo e nell’Europa continentale un secolo dopo, in cui al re spetta soltanto un ruolo simbolico e formale, come moderatore al di sopra delle parti; anche i suoi ministri dipendono dal consenso del parlamento, il quale può licenziarli con un voto di sfiducia.
Nelle monarchie contemporanee, costituzionali e parlamentari, il monarca rappresenta simbolicamente l’unità della nazione ed è a capo dello Stato con poteri che sono limitati dalla Carta costituzionale e dalle leggi; la sovranità effettiva risiede nel popolo e nei suoi organi rappresentativi.