Moneta
Man mano che le società progrediscono, superando lo stadio selvaggio e primitivo, cresce l'esigenza di andare oltre la produzione per il consumo diretto e oltre il baratto, ossia lo scambio di un bene contro un altro bene: occorre che emerga un bene generalmente accettato come intermediario negli scambi e come misura dei rapporti di scambio - dei valori - fra i diversi beni. Quel bene può avere una sua specifica utilità ovvero può essere accettato come intermediario negli scambi per convenzione, anche senza un'utilità intrinseca, proprio perché risponde all'esigenza dell'intermediazione. Tale convenzione, tuttavia, non può non essere fondata sulla ragionevole aspettativa che quel bene non sia disponibile in quantità illimitata o non sia riproducibile a volontà, giacché solo in queste condizioni si può confidare che i suoi rapporti di scambio con gli altri beni restino tollerabilmente stabili nel corso del tempo. Tale relativa stabilità rende idoneo quel bene non solo a svolgere la funzione di intermediario negli scambi, ma anche a fungere da serbatoio di valore, dove 'valore' è da intendersi come la capacità del bene considerato di acquistare altri beni. I due ruoli - intermediario negli scambi e serbatoio di valore - sono quelli tradizionalmente attribuiti al bene di cui si discute e che viene definito come moneta, un bene che nei tempi più vicini a noi è stato man mano sostituito da segni cartacei. A questo punto cade l'utilità intrinseca della moneta e resta solo l'elemento convenzionale.
Coloro che hanno studiato l'evoluzione delle società umane in diverse parti del mondo nei tempi antichi hanno individuato i beni più diversi prescelti come moneta: conchiglie (in zone lontane dal mare), bestiame, pelli, e infine metalli. Per un lungo perio do storico le società che progredivano a un ritmo relativamente più rapido hanno adottato come moneta determinati metalli. E qui compare una bipartizione: da un lato troviamo i metalli nobili, non facilmente riproducibili, quasi inattaccabili da agenti esterni, come l'oro e l'argento; dall'altro troviamo altri metalli e leghe, come il rame e il bronzo. I metalli nobili costituiscono la moneta fondamentale, usata negli scambi di rilevante entità; gli altri metalli vengono usati nei piccoli pagamenti e costituiscono la moneta detta divisionaria o sussidiaria. Sia i metalli nobili sia gli altri vengono suddivisi in piccoli pezzi - in dischi - coniati dall'autorità centrale della società per dare la garanzia del peso e del contenuto.
Durante gli ultimi secoli in Europa, nelle società più evolute, accanto alla moneta costituita da metalli nobili (e oltre la moneta divisionaria) compare e man mano si diffonde la moneta cartacea; per un certo periodo i due tipi di moneta coesistono, la moneta cartacea essendo subordinata a quella metallica. A un certo punto la moneta vera e propria scompare, mentre sopravvive la moneta divisionaria, quella usata per gli scambi di piccola entità. I banchi, che sono i progenitori delle banche moderne e si trovano già nell'antica Grecia e poi, più tardi, nell'antica Roma, compiono principalmente il servizio di custodire le monete depositate da singoli individui, che in quel tempo sono monete d'oro, d'argento e di rame; servono anche a cambiare le monete dei diversi metalli; possono inoltre far prestiti, con monete proprie o, raramente, depositate. Nel tardo Medioevo in certe zone dell'Europa, e in particolare nelle parti centrali e settentrionali della nostra penisola, i commercianti che svolgono traffici a lunga distanza cominciano a usare lettere di cambio - quelle che poi diventano cambiali - con cui un soggetto s'impegna a pagare in moneta sonante un altro soggetto che opera in un luogo diverso: si usano lettere di cambio ovvero promesse di pagamento in luogo di monete coniate d'oro o d'argento per evitare i rischi, allora molto elevati, connessi col trasferimento di queste monete. In origine le lettere di cambio erano titoli di credito; cominciarono ad acquisire una funzione di tipo monetario quando, sul finire del Medioevo, si introdusse la 'girata', che poteva essere ripetuta più volte, fino a quando chi riceveva la lettera di cambio non decideva di riscuotere in moneta sonante la somma promessa. Le lettere di cambio potevano essere accettate in luogo delle monete vere e proprie dalle banche, che davano al commerciante che gliele consegnava moneta sonante, trattenendosi per il servizio una percentuale - un interesse anticipato, uno 'sconto'. Contro le lettere di cambio, che erano promesse di pagamento, ossia erano titoli di credito ma non mezzi monetari, le banche, quando raggiungevano una notorietà sufficientemente ampia, potevano offrire le proprie promesse di pagamento, variamente configurate, che erano largamente accettate come moneta, mentre questo non succedeva con le promesse di pagamento dei commercianti. Si aveva allora uno scambio fra titoli di credito di tipo diverso: fra cambiali, rilasciate da commercianti ad altri commercianti, e promesse di pagamento delle banche, che, dato il credito di cui queste godevano, circolavano come moneta in ampie cerchie di persone. L'operazione di sconto - scambio fra cambiali e mezzi di pagamento bancari - risultò via via conveniente non solo fra soggetti operanti in luoghi diversi, ma anche fra soggetti operanti nello stesso luogo, che tuttavia avevano rapporti che implicavano tempi diversi: le operazioni di credito, che rientrano nel genere più ampio delle operazioni finanziarie, hanno significato proprio se si considerano gli intervalli temporali - finanza viene da finis che significa 'termine'. Nel Medioevo i mezzi di pagamento bancari non sono propriamente moneta, ma sono usati in sostituzione della moneta e cioè svolgono funzioni monetarie.
Col tempo emerge via via una bipartizione fra gli stessi mezzi di pagamento bancari: da un lato quelli che fanno capo alle banche che prevalgono sulle altre poiché hanno raggiunto notorietà e credito in ampie zone e presso un gran numero di soggetti; dall'altro i mezzi di pagamento che fanno capo alle banche minori. La bipartizione dà luogo da un lato ai biglietti, che fanno capo alle banche dette poi 'di emissione', e dall'altro ai depositi, che fanno capo alle banche dette poi 'ordinarie' o 'di deposito e sconto'. Le banche che via via superano le altre per importanza e dimensioni possono ricevere un forte impulso per un ulteriore sviluppo se l'autorità politica attribuisce ai loro titoli il potere liberatorio per il pagamento dei tributi o di particolari obblighi contrattuali; in contropartita di tale privilegio l'autorità politica si fa dare, come anticipazioni, somme di biglietti: sono prestiti concessi a condizioni di favore e non di rado rinnovati più volte o addirittura mai rimborsati. In certi casi le banche di emissione sono create direttamente dall'autorità politica, come banche pubbliche, senza la precedente evoluzione di cui si è appena detto. Anche nei paesi in cui operano diverse banche autorizzate a emettere biglietti si afferma man mano la tendenza verso l'unificazione, cosicché alla fine emerge una sola banca di emissione. Oggi questa è la regola ed è per tale motivo che si parla al singolare di banca di emissione o di banca centrale. Già prima i biglietti erano generalmente accettati come moneta perché un gran numero di soggetti aveva la certezza che in qualsiasi momento essi potevano essere scambiati in moneta sonante secondo un rapporto fisso - dischi coniati d'oro o d'argento. L'espressione 'pagabili a vista al portatore', che ancora si legge sui biglietti della banca centrale, aveva un tempo un significato sostanziale, mentre oggi è un'espressione priva di significato concreto giacché i biglietti non sono più convertibili in monete d'oro o d'argento. Ormai alla moneta di base, che non ha più un valore intrinseco ed è costituita dai biglietti della banca centrale, resta solo l'elemento convenzionale, emerso dall'esigenza sociale di un intermediario negli scambi e suffragato da regole stabilite dall'autorità politica.
Quanto agli assegni, che fanno capo alle banche ordinarie e sono usati come mezzi monetari sul fondamento dei depositi, vale per essi una relazione simile a quella che sussisteva fra biglietti e monete auree: come i biglietti circolavano sulla fiducia di poterli convertire in qualsiasi momento in monete metalliche, così gli assegni circolano sulla fiducia di poterli convertire in qualsiasi momento in biglietti. Le due convertibilità possono essere assicurate se da un lato la banca di emissione e dall'altro le banche ordinarie dispongono di riserve adeguate: rispettivamente, di monete auree o argentee e di biglietti. Tuttavia, per mantenere la convertibilità non era necessario che le riserve di monete metalliche rappresentassero il 100% dei biglietti e quelle di biglietti il 100% dei depositi. Non era necessario, poiché, se c'erano soggetti che facevano valere il loro diritto alla conversione, c'erano altri soggetti che portavano alla banca i biglietti o gli assegni senza pretendere la conversione in quanto dovevano restituire i prestiti ricevuti. Del resto, di norma bastava la fiducia che la conversione era possibile senza difficoltà per far sì che essa non venisse richiesta. Man mano che cresceva il numero dei soggetti che accettavano normalmente in pagamento i biglietti e gli assegni (nella prima fase dello sviluppo delle banche moderne tale numero era assai ristretto), diminuivano le richieste di conversione e poteva quindi diminuire la quota delle riserve. (Al principio del Novecento la quota delle riserve auree delle banche di emissione si aggirava sul 10%, oggi la riserva in biglietti delle banche ordinarie si aggira sul 20-25%).
Di norma, dunque, una quota modesta di riserve poteva essere sufficiente ad assicurare la duplice convertibilità. Ai circuiti del credito corrispondevano i circuiti della produzione: quando questi si concludevano positivamente i prestiti potevano essere restituiti; in tali condizioni la fiducia nei mezzi monetari bancari non veniva in alcun modo incrinata. Ciò valeva anche quando alcune imprese fallivano e non restituivano i prestiti, se la quota dei fallimenti sul totale dei prestiti era modesta; quando diventava elevata, il circuito del credito si rompeva, i mezzi monetari restavano in circolazione come peso morto e la fiducia nella stabilità del loro potere d'acquisto si incrinava. A questo punto poteva esplodere il panico, che provocava una corsa alla conversione e rendeva inadeguate le riserve. Se ciò accadeva per le banche ordinarie queste fallivano, a meno che l'autorità pubblica o la banca centrale non intervenissero per salvarle; se il panico investiva i biglietti, la banca di emissione era costretta a sospendere la convertibilità in monete auree. Una tale catena di eventi poteva essere avviata da una serie di fallimenti di imprese e, di riflesso, di banche; più spesso, però, la convertibilità doveva essere sospesa perché l'autorità politica imponeva - di solito per esigenze connesse a una guerra - la stampa e la cessione di cospicue e crescenti somme di biglietti che non avevano una contropartita nell'attività produttiva: quella militare è, per definizione, un'attività distruttiva. La convertibilità poteva poi essere ripristinata bloccando per un certo periodo l'emissione dei biglietti: quando la ripresa della produzione arrivava al punto di controbilanciare la massa dei biglietti, questi recuperavano l'antico potere d'acquisto e scompariva il divario fra valore della moneta metallica e valore dei biglietti - un divario chiamato 'aggio'.
In certi periodi e in certi paesi è stato usato, come moneta, un solo metallo, l'oro o l'argento. In altri periodi e in altri paesi sono stati usati simultaneamente due metalli, l'oro e l'argento. In tempi antichi si trattava solo di dischi coniati; in tempi relativamente recenti nei paesi che adottavano il bimetallismo i biglietti della banca di emissione erano convertibili in moneta d'oro o d'argento secondo un rapporto fisso (spesso 1 a 15). Dal bimetallismo ci si attendeva una stabilità dei prezzi maggiore di quella ottenibile col monometallismo: era questo il vantaggio sperato che poteva indurre a quella opzione; per i paesi economicamente deboli che avevano rapporti molto stretti con un paese forte che aveva adottato il bimetallismo, un altro vantaggio era costituito da una maggiore facilità nei rapporti economici col paese più forte. In effetti, fino a quando non avevano luogo scoperte rilevanti di nuove miniere, d'oro o d'argento, il vantaggio riguardante i prezzi era reale. Naturalmente, in economie in crescita, di tanto in tanto non poteva non emergere una scarsezza relativa dell'uno o dell'altro metallo; ma grazie alla convertibilità in entrambi i metalli le variazioni dei prezzi risultavano più attenuate di quanto sarebbero state col monometallismo. Oltre certi limiti, però, in seguito a scoperte rilevanti di nuove miniere, il sistema bimetallico entrava in crisi e diventava, almeno di fatto, monometallismo. In effetti s'imponeva la cosiddetta 'legge di Gresham', secondo cui la moneta cattiva caccia la buona: quando vi sono più mezzi monetari con cui si possono fare pagamenti, la gente preferisce pagare col mezzo di minor valore intrinseco rispetto all'altro, che viene tesoreggiato, o impiegato in usi non monetari o nei pagamenti esteri, quando i soggetti di altri paesi chiedono di essere pagati con la moneta 'buona'. Giova ricordare che, storicamente, la Francia istituì un sistema bimetallico nel 1803; quel sistema fu poi adottato nel 1865 dall'Unione monetaria latina, di cui faceva parte anche l'Italia, ma fu travolto nel 1878, come conseguenza delle grandi scoperte di miniere d'argento nel continente americano.
In diversi paesi evoluti nel XIX secolo e fino alla prima guerra mondiale la convertibilità dei biglietti era la regola e l'inconvertibilità l'eccezione - si parlava di 'corso forzoso' e questa espressione indicava una situazione di emergenza. Oggi non si parla più di corso forzoso e l'inconvertibilità è diventata la regola che non soffre eccezioni. Il sistema aureo è stato sostanzialmente abbandonato nel periodo fra le due guerre.Quando la moneta era puramente metallica l'autorità politica interferiva assai poco sulla circolazione monetaria: garantiva il peso e la qualità dei dischi metallici per mezzo del conio, ma talvolta alterava il peso o la qualità dei dischi coniati e imponeva alla gente di accettare in pagamento le monete come se l'alterazione non fosse avvenuta. La conseguenza era una perdita del potere d'acquisto delle monete, ossia un aumento dei prezzi. In ogni modo si trattava di periodi relativamente brevi, anche se non infrequenti. Tutto sommato, quando circolava la moneta metallica l'autorità politica non era in grado di commettere abusi troppo gravi. Le cose cambiano quando si diffonde la moneta cartacea. Già cambiano quando vige la convertibilità dei biglietti in moneta metallica, e cambiano perché l'autorità politica può imporre alla banca di emissione di 'anticipare' certe somme di biglietti a vantaggio dell'erario; quando tali anticipazioni diventano molto rilevanti, la proclamazione del corso forzoso diviene inevitabile. Le cose cambiano poi radicalmente quando il corso forzoso diviene la norma: in queste condizioni gli abusi possono diventare gravi e frequenti. Contro questi abusi i paesi evoluti hanno cercato di difendersi rendendo pubblica, quando non lo era già, la banca di emissione e introducendo leggi che stabiliscono regole rigorose circa l'emissione dei biglietti, anche se poi, in caso di necessità vera o presunta, il governo trova il modo di non rispettarle. Su queste regole ci sono stati e ci sono dibattiti fra economisti e politici. Con l'inconvertibilità dei biglietti divenuta norma permanente, il cambiamento nel sistema monetario è talmente profondo da indurre un economista di spicco come Alberto Breglia a parlare di una vera e propria nazionalizzazione della moneta.Come si è accennato, la fine del sistema aureo ha avuto luogo nel periodo compreso fra le due guerre mondiali, dopo la grande crisi cominciata nel 1929, ma il sistema aveva dato segni di cattivo funzionamento da quando, a partire dal principio del nostro secolo, prezzi e salari erano divenuti sempre più rigidi verso il basso: la flessibilità verso il basso dei prezzi, come si cercherà di chiarire, era uno dei requisiti essenziali per il buon funzionamento del sistema aureo.
Nel tempo in cui le monete erano esclusivamente o prevalentemente metalliche le stesse monete che circolavano all'interno di un dato paese erano usate per i pagamenti a soggetti di altri paesi. Considerati i diversi comportamenti dei diversi Stati - alcuni intervenivano piuttosto spesso per alterare a proprio vantaggio il peso e la qualità dei coni, altri raramente -, nel corso del tempo erano le monete coniate dagli Stati più corretti a prevalere. Così, il tallero d'argento di Maria Teresa è stato usato a lungo nei paesi più diversi e tuttora è usato, sia pure marginalmente, in certi paesi arabi e africani. Questo stato di cose, tuttavia, poteva permanere fino a quando gli scambi fra paesi diversi restavano quasi stazionari ovvero crescevano lentamente. Quando la crescita è divenuta vigorosa, è aumentato parallelamente il bisogno di mezzi di pagamento. Per questo motivo e per ridurre i rischi inerenti al trasferimento di monete auree o argentee, si è sviluppato l'uso, nei pagamenti internazionali, di pagare con lettere di cambio stilate nella moneta cui appartiene il debitore e cambiate poi in moneta nazionale nel paese dove risiede il creditore. Compare, così, un vero e proprio mercato delle lettere di cambio, o cambiali estere, o divise. Quando vigeva la convertibilità dei biglietti in oro, le oscillazioni dei prezzi dei cambi - o, brevemente, dei cambi - incontravano due limiti molto ristretti, uno verso l'alto, l'altro verso il basso, rispetto al livello normale, o parità, dei cambi, determinato dal peso in oro delle unità monetarie dei due paesi considerati. I limiti di oscillazione si aggiravano sull'1-2% della parità e dipendevano dalle spese di trasporto e di assicurazione delle monete auree; solo quando il prezzo delle divise superava l'uno o l'altro limite - i 'punti dell'oro' - le monete auree venivano trasferite (esportate o importate). In regime aureo dunque il livello dei cambi, intesi come prezzi delle divise, era dato dal rapporto fra i pesi in oro con due ristretti margini di oscillazione.
In qualsiasi regime monetario i prezzi delle divise - i cambi - dipendono dalla domanda e dall'offerta delle divise, la domanda essendo determinata dal complesso delle voci passive, l'offerta dal complesso delle voci attive della bilancia dei pagamenti (compravendita di merci e di servizi, trasferimenti di capitali), cosicché un aumento dei cambi - considero solo questo caso - indica un eccesso della domanda sull'offerta, ossia un deficit nei conti con l'estero. Se il deficit è consistente, in regime aureo le monete d'oro vengono esportate e diminuiscono le riserve della banca centrale, la quale, per difenderle, eleva lo sconto. Tale aumento attira capitali dall'estero, giacché gli investimenti finanziari a scadenza relativamente breve nel paese che si considera diventano più vantaggiosi. Già questo è un contributo al riequilibrio della bilancia dei pagamenti; è tuttavia un contributo temporaneo, poiché i prestiti esteri, che immediatamente rientrano fra le voci attive, danno poi luogo a voci passive, per il pagamento degli interessi e per la restituzione. L'aumento dello sconto della banca centrale - definito anche 'saggio ufficiale' - ha anche un altro effetto: costringe le banche ordinarie a elevare il loro sconto, poiché per rifornirsi di biglietti esse debbono ricorrere alla banca centrale, riscontando le cambiali ricevute dalle imprese. Le imprese chiedono allora minori prestiti e riducono sia gli investimenti sia la domanda di servizi dei lavoratori; pertanto diminuisce, o cessa di crescere, la massa dei mezzi monetari bancari e diminuisce anche la domanda di beni. Nel secolo scorso e fino alla prima guerra mondiale, sia i salari che i prezzi erano flessibili verso il basso e la flessione dei prezzi, determinata dalla diminuzione della domanda, stimolava la crescita delle esportazioni dal paese considerato, il che tendeva a riequilibrare in modo più stabile i conti con l'estero. La diminuzione della domanda, d'altra parte, riduceva il livello o il saggio di aumento delle importazioni e anche ciò contribuiva a eliminare il deficit estero, che era all'origine del deflusso d'oro.
Si è fatto riferimento al tempo in cui nei paesi più evoluti vigeva il sistema aureo, giacché in quegli anni si è via via articolata la manovra dello sconto attuata dalla banca centrale. Allora la manovra dello sconto serviva soprattutto a difendere la riserva aurea, che aveva una funzione propriamente monetaria. Anche oggi, nel tempo dell'inconvertibilità, la banca centrale detiene una riserva d'oro, come anche di divise estere; ma oggi l'oro non ha più funzioni propriamente monetarie: se mai, quando si profila un deficit consistente nei conti con l'estero, l'oro può essere ceduto ai paesi creditori, che non hanno difficoltà ad accettarlo, per quegli stessi requisiti che per tanto tempo hanno indotto i paesi più diversi a sceglierlo come moneta unica o, nel periodo della convertibilità, come moneta di base. L'oro aveva allora una funzione propriamente monetaria, poiché i soggetti erano certi che l'unità monetaria fondamentale aveva un determinato peso e un determinato titolo; oggi non è così e il prezzo dell'oro oscilla come quello di qualsiasi merce. Mette il conto di soffermarsi sulla manovra dello sconto, giacché quella manovra viene attuata ancora oggi anche se per fini alquanto diversi; certi fini tuttavia coincidono e il confronto fra il modo in cui operava quella manovra nel passato e il modo in cui opera oggi è un confronto istruttivo. Oggi non si tratta più di difendere le riserve auree in quanto riserve monetarie, ma si tratta pur sempre di difendere le riserve d'oro e di divise, e la manovra dello sconto può essere il mezzo adatto per gli effetti che tende ad avere sui movimenti di capitali e sui cambi.
Riguardo ai cambi, attualmente bisogna distinguere il regime dei cambi fissi e quello dei cambi flessibili. Il regime dei cambi fissi rassomiglia al regime della convertibilità: anche allora i cambi erano fissi o, più propriamente, quasi fissi, e il livello normale era costituito dal rapporto fra i pesi in oro; anche allora vi erano, per effetto di un meccanismo spontaneo, margini ristretti di oscillazione - i 'punti dell'oro'. In regime di inconvertibilità sia il livello normale sia i margini di oscillazione dipendono non da meccanismi spontanei, ma da accordi internazionali: i margini, che imitano i punti dell'oro, servono al buon funzionamento del sistema. Con i cambi flessibili, invece, non ci sono limiti né verso il basso né verso l'alto. Le oscillazioni dipendono essenzialmente dall'andamento dei conti con l'estero e dalla stabilità politica - l'instabilità tende a generare sfiducia nei mercati finanziari - ed entro certi limiti possono essere controllate dai responsabili della politica economica e, in particolare, della politica monetaria.
A questo punto è bene ricordare che le relazioni fra cambi e prezzi sono bidirezionali: l'aumento dei cambi tende a far crescere i prezzi interni attraverso l'aumento di quelli dei beni importati; d'altra parte l'aumento dei prezzi interni imprime una spinta verso l'alto ai cambi, poiché scoraggia le esportazioni e stimola le importazioni e quindi fa diminuire le voci attive e fa crescere le voci passive dei conti con l'estero.
I vantaggi dei cambi fissi consistono, in primo luogo, nel fatto che quando i salari aumentano la concorrenza internazionale costringe le imprese a concentrare i loro sforzi sull'aumento della produttività poiché non possono elevare i prezzi. In secondo luogo, i cambi fissi riducono al minimo i rischi d'inflazione importata. In terzo luogo, essi riducono i rischi di movimenti speculativi di capitali, che possono provocare dannose alterazioni nei movimenti di merci e nei flussi finanziari. Con i cambi flessibili si hanno svantaggi speculari: debole incentivo ad accrescere la produttività, rischio di inflazione importata, movimenti dei capitali provocati da operazioni speculative sui cambi. Con i cambi flessibili si hanno, però, adattamenti vantaggiosi alle condizioni che cambiano e l'incentivo a espandere le esportazioni anche quando i prezzi interni aumentano, dato che la speculazione sui cambi opera con maggior forza della speculazione sui beni; pertanto l'aumento dei cambi tende ad anticipare quello dei prezzi, che a loro volta ricevono, con ritardo, dai cambi una spinta verso l'alto.
Tutto considerato, i vantaggi dei cambi fissi (o quasi fissi) superano quelli dei cambi flessibili: è questo il motivo per cui i paesi più evoluti nell'ultimo mezzo secolo hanno aderito ad accordi che tendevano a ricostituire un sistema di cambi quasi fissi, come gli accordi internazionali di Bretton Woods del 1944 e gli accordi del 1979 fra un certo numero di paesi europei. Gli accordi di Bretton Woods comportavano un sia pur parziale legame con l'oro attraverso il dollaro, che a certe condizioni poteva essere convertito in oro, ma solo su richiesta dei governi; gli accordi del 1979 che dettero vita al Sistema Monetario Europeo (SME) non comportavano, invece, alcun legame prestabilito col dollaro o con l'oro, ma impegnavano i governi a mantenere i cambi a determinati livelli. Il sistema di Bretton Woods entrò in crisi nel 1971, quando gli Stati Uniti abbandonarono ogni legame fisso con l'oro. Dal Sistema Monetario Europeo sono usciti, in anni recenti, alcuni paesi fra cui Inghilterra e Italia; gli altri sono rimasti, ma con margini di oscillazione più ampi. Ciò, tuttavia, è avvenuto per cause che si possono definire di forza maggiore, tanto che tutti i paesi europei hanno manifestato, con gli accordi di Maastricht del 1991, l'intenzione di arrivare a un'unica banca centrale europea e a una moneta unica, si potrebbe dire a un sistema a cambi rigidamente fissi, con margini di oscillazione nulli; per entrare nel sistema previsto da quegli accordi, tuttavia, i paesi interessati dovranno soddisfare certe condizioni, riguardanti principalmente l'ammontare relativo del debito pubblico e il ritmo della pressione inflazionistica.
Il rialzo dello sconto, come si è ricordato, può sostenere il cambio della moneta nazionale attirando capitali esteri e frenando il deflusso di capitali interni; e ciò vale sia in regime di convertibilità sia in regime di biglietti inconvertibili. Quel rialzo può essere anche attuato, nell'uno e nell'altro regime, per fini principalmente interni, per esempio per frenare un aumento dei prezzi o per provocarne una flessione. Questo secondo obiettivo, tuttavia, poteva essere perseguito con successo in passato, quando sia i prezzi sia i salari erano flessibili verso il basso. Oggi, come meglio vedremo, solo i prezzi dei prodotti grezzi, agricoli e minerari, dipendono, nel breve periodo, dalle variazioni della domanda e dell'offerta: i prezzi dei prodotti finiti, che in un'economia moderna sono i più importanti, variano soprattutto per effetto delle variazioni dei costi, in primo luogo dei salari, che tuttavia vanno messi in rapporto alla produttività. La restrizione del credito e della moneta ha effetti sulla domanda di tutti i beni, a cominciare dai beni d'investimento, ma non ha effetti diretti di rilievo sui prezzi dei prodotti finiti. Può avere un effetto indiretto: frenando gli investimenti il rialzo dello sconto tende a far crescere la disoccupazione e in questo modo indebolisce il potere contrattuale dei lavoratori e frena l'aumento dei salari, cosa che, a sua volta, frena un aumento dei prezzi. L'aumento dello sconto può essere usato come monito: ai sindacati, affinché moderino le loro richieste di aumenti salariali; agli industriali, affinché non usino subito e pienamente il loro potere di mercato sui prezzi. Può essere usato come monito anche nei riguardi del governo, qualora ci sia un consistente deficit di bilancio: l'aumento dello sconto rende più pesante l'onere per interessi e può indurre il governo a contenerlo.
Alternativamente, o congiuntamente, la banca centrale dispone di altri strumenti di intervento, oltre lo sconto; anzi, coi cambi fissi è meno acuto l'assillo dei conti con l'estero e dei movimenti speculativi di capitali, e lo sconto viene usato più raramente. Le altre manovre - mi limito alle principali - sono le seguenti: 1) la compravendita di titoli pubblici; 2) la manovra sulle riserve delle banche ordinarie; 3) indicazioni non coercitive, che fanno appello alla persuasione (moral suasion), rivolte alle banche ordinarie e agli intermediari finanziari. Le diverse manovre - che vanno poste in relazione ai diversi obiettivi della banca centrale: difesa delle riserve, stabilità dei cambi, stabilità dei prezzi, stimolo agli investimenti e allo sviluppo - sono tutte storicamente condizionate, nel senso che tutte divengono possibili solo in seguito a determinate trasformazioni nella struttura dell'economia e del sistema creditizio. In generale, possono avere efficacia solo se c'è un'unica banca di emissione, il che storicamente non si è verificato né in tutti i tempi né in tutti i paesi (in Italia l'unificazione dei diversi istituti di emissione ha avuto luogo solo nel 1927). La stessa manovra dello sconto può avere piena efficacia solo dopo che i traffici e i movimenti internazionali di capitali hanno superato certe dimensioni ed è divenuto sufficientemente ampio l'uso dei biglietti e delle divise. La compravendita di titoli di Stato (in Inghilterra si parla di open market operations) viene attuata dalla banca centrale per far variare la massa dei biglietti in circolazione - con l'acquisto di titoli tale massa aumenta, con la vendita diminuisce - senza modificare il saggio di sconto e gli altri saggi dell'interesse. La compravendita di titoli di Stato ha potuto assumere carattere sistematico solo dopo che il loro mercato è divenuto ampio, e ciò è avvenuto col progressivo ampliamento dell'intervento pubblico nell'economia (nel passato solo durante e subito dopo le guerre quel mercato assumeva dimensioni ragguardevoli). La manovra sulle riserve delle banche ordinarie consiste nel variare la quota, rispetto al volume dei prestiti, che quelle banche debbono tenere sotto forma di biglietti per assicurare la convertibilità dei depositi: variando quella quota varia in senso inverso la massa dei prestiti e quindi dei depositi. Tale manovra presuppone che la banca di emissione non solo sia unica ma sia anche dotata di poteri coercitivi, che un'istituzione privata non può avere. Anche gli interventi volti a favorire ovvero a scoraggiare i rapporti di debito e di credito con l'estero delle banche ordinarie e le raccomandazioni che a tali banche rivolge la banca centrale in tanto sono concepibili in quanto questa banca ha poteri conferiti dalla legge: le banche ordinarie sanno che quei poteri esistono, anche se non vengono usati, e la 'persuasione' può avere efficacia.
In definitiva, la politica della banca centrale influisce sull'economia principalmente in due modi: variando il saggio ufficiale di sconto e variando la massa dei biglietti in circolazione e quindi la liquidità complessiva del sistema. Il rialzo dello sconto è efficace soprattutto sui conti con l'estero e sui cambi, e viene usato più in regime di cambi flessibili che in regime di cambi fissi. Ma il rialzo dello sconto rende inevitabile anche il rialzo dei saggi sui prestiti concessi dalle banche ordinarie alle imprese e ciò frena gli investimenti, non solo reali ma anche finanziari. Le variazioni della liquidità complessiva possono essere attuate anche senza variare lo sconto ufficiale; ma poiché di quelle variazioni risentono soprattutto le banche, esse si rifletteranno, in senso inverso, sui saggi dei prestiti concessi dalle banche alle imprese.
Nel descrivere la manovra dello sconto tradizionalmente si pone l'accento sugli effetti che questa manovra ha sui prezzi; in particolare, un rialzo dello sconto provocherebbe una flessione dei prezzi o, quantomeno, una diminuzione del loro saggio di aumento. Come si è accennato, da un rialzo dello sconto era lecito attendersi, nel XIX secolo e, in minor misura, al principio del XX, una flessione di tutti i prezzi, quelli delle materie prime e quelli dei prodotti finiti. Dopo la prima guerra mondiale e, in misura più accentuata, dopo la seconda, i prezzi dei prodotti finiti hanno mostrato una netta rigidità verso il basso, mentre è rimasta immutata la flessibilità dei prezzi delle materie prime in entrambe le direzioni; anzi, per i prezzi delle materie prime la doppia flessibilità è divenuta perfino più netta dopo il totale sganciamento del dollaro dall'oro, avvenuto nel 1971. Pertanto nel nostro tempo, salvo situazioni eccezionali, il rialzo non provoca una flessione nei prezzi dei prodotti finiti, ma ci si può invece attendere un rallentamento nell'aumento dei prezzi. Si tratta di chiarire meglio perché.
Il meccanismo tradizionalmente indicato per spiegare la flessione dei prezzi come conseguenza di un rialzo dello sconto è il seguente. L'aumento dello sconto da parte della banca centrale porta con sé l'aumento dello sconto delle banche ordinarie; i prestiti che le banche fanno alle imprese, con lo sconto di cambiali o con operazioni analoghe, diventano più cari. Diminuiscono quindi la massa dei prestiti e quella della moneta bancaria, giacché una parte cospicua dei depositi proviene dallo sconto di cambiali (un'altra parte proviene da versamenti di biglietti fatti dalle famiglie). Secondo l'argomentazione tradizionale, la diminuzione dei mezzi di pagamento bancari comporta una diminuzione dei prezzi; ciò appare dalla cosiddetta equazione degli scambi, P=MV/Q, dove P indica il livello generale dei prezzi, M la massa di tutti i mezzi monetari, V la velocità di circolazione, ossia il numero delle volte che in media ogni unità monetaria è usata negli scambi nell'unità di tempo, e Q la quantità dei beni prodotti e scambiati. Posto che V e Q nel breve periodo siano relativamente stabili, risulta che P, il livello dei prezzi, varia al variare di M, la quantità di moneta. La cosiddetta equazione degli scambi rappresenta la formulazione più semplice della teoria quantitativa della moneta. Ci sono diverse altre formulazioni, meno semplici - una delle più recenti è quella proposta da Milton Friedman, il padre del monetarismo - ma le variabili fondamentali sono quelle indicate nell'equazione degli scambi.
A questo punto conviene riflettere sulla determinazione e sulle variazioni delle diverse categorie di prezzi tenendo conto delle diverse condizioni prevalenti nei diversi mercati. Nel XIX secolo nella maggior parte dei mercati prevalevano le condizioni di concorrenza: le imprese erano relativamente piccole, ed erano modeste sia le barriere all'entrata imputabili alle economie di scala sia quelle connesse con le sempre più rilevanti spese per la pubblicità. Il processo di concentrazione che ha avuto luogo nell'industria e in particolari servizi, come quelli del credito, è da porre in relazione con la crescente importanza, in alcuni settori, delle economie di scala, mentre il processo di differenziazione dei prodotti è entrato in un rapporto di interazione con la crescita della pubblicità; i due processi, che in certe attività si sono combinati, hanno modificato le condizioni dei mercati industriali e dei servizi, mentre nell'agricoltura e in parte nell'attività mineraria sono rimaste condizioni per diversi aspetti simili a quelle prevalenti nel XIX secolo, di modo che in queste attività permangono condizioni non lontane dalla concorrenza; nelle altre oggi prevalgono condizioni di oligopolio concentrato, differenziato o misto. Ora, in concorrenza i prezzi dipendono, nel breve periodo, dal gioco della domanda e dell'offerta e sono flessibili sia verso l'alto che verso il basso; nel lungo periodo dipendono dai costi. In oligopolio, invece, i prezzi dipendono dai costi anche nel breve periodo: se la domanda varia, variano le quantità prodotte piuttosto che i prezzi, giacché le imprese hanno un certo potere di mercato e preferiscono variare l'offerta piuttosto che i prezzi (ciò vale non solo per la riduzione dell'offerta, ma anche per l'aumento, giacché di norma le imprese dispongono di capacità inutilizzata; inoltre in mercati aperti, se la domanda aumenta, possono crescere le importazioni senza aumento dei prezzi). Il risultato complessivo consiste in ciò, che oggi, nei mercati più importanti, che sono quelli dei prodotti industriali e dei servizi, i prezzi sono divenuti rigidi verso il basso rispetto alle variazioni della domanda; resta la flessibilità verso il basso nel caso dei prezzi delle materie prime agrarie e minerarie, ma tale flessibilità nelle condizioni attuali ha effetti diversi da quelli che aveva quando riguardava la maggior parte dei mercati, compresi quelli dell'industria e dei servizi, e si esplicava non solo verso l'alto ma anche verso il basso.
Posto che in prima approssimazione la massa dei mezzi di pagamento in circolazione esprima la domanda totale, nel secolo scorso la cosiddetta equazione degli scambi poteva avere un certo potere interpretativo, con riferimento a un periodo relativamente breve. Oggi ciò può valere solo quando la quantità dei mezzi monetari e specialmente dei biglietti aumenta a un ritmo talmente più rapido della produzione da prevalere su tutte le altre variabili; in tali condizioni la crescita della moneta tende a spingere rapidamente in alto tutti i prezzi, indipendentemente dall'andamento dei costi. Sono condizioni che si verificano in guerra o dopo una guerra; nei paesi evoluti raramente hanno luogo in tempi di pace. Oggi, in condizioni di relativa normalità, nel breve periodo le variazioni dei prezzi dei prodotti finiti e dei servizi dipendono dalle variazioni dei costi e in particolare dei costi diretti, in cui ha un ruolo dominante il costo del lavoro, dato dal rapporto fra salari e produttività. Sebbene ciò appaia evidente sul piano empirico, molti economisti sono restii ad abbandonare la teoria quantitativa della moneta. A un tale atteggiamento contribuisce il fatto che, in certe condizioni, quando i prezzi aumentano la banca centrale restringe l'emissione dei biglietti col risultato, sia pure non immediato, di un rallentamento dell'aumento dei prezzi. Tuttavia se, come spesso accade, l'aumento dei prezzi è spinto da un aumento del costo del lavoro, il risultato positivo della politica restrittiva non dipende da un rallentamento della domanda di beni originato da una crescita più lenta della massa monetaria, ma dipende invece dal fatto che la politica restrittiva frena gli investimenti e quindi la domanda di lavoro e quindi ancora l'aumento dei salari: il rallentamento dell'aumento dei prezzi è la conseguenza della crescita più lenta dei salari. Una tale politica, tuttavia, frena il processo di sviluppo e in certi casi dà luogo a una vera e propria recessione: la politica restrittiva, dunque, non influisce direttamente sui prezzi ma passa attraverso un aumento della disoccupazione.
In pieno contrasto con quanto accade oggi, nel XIX secolo i prezzi hanno avuto una nettissima tendenza a scendere. Fatto eguale a 100 l'indice dei prezzi in Inghilterra nel 1800, nel 1897, anno in cui bruscamente termina la flessione, l'indice è sceso a 25. Negli Stati Uniti le cifre corrispondenti sono 100 e 40: la flessione è meno accentuata per il fatto (così pare) che l'inflazione determinata dalla guerra civile ha spinto l'indice stabilmente in alto, anche se poi la flessione è riapparsa. Di un tale andamento abbiamo due ipotesi esplicative, una fondata sulla moneta, l'altra sui costi, avvertendo che allora la convertibilità era la regola e ricordando che nel lungo periodo i prezzi si adeguano ai costi anche in condizioni di concorrenza, allora prevalenti in quasi tutti i mercati.
Chi adotta l'interpretazione monetaristica della flessione dei prezzi assume come data la crescita della produzione - che va attribuita a fattori 'reali', da esaminare separatamente - e studia l'andamento dello stock di moneta reale - l'oro o l'argento. Così, l'economista svedese Gustav Cassel riteneva che nel XIX secolo nei principali paesi la produzione dei beni tendeva a crescere a un saggio medio annuale del 3%; da vari indizi egli pensava che lo stock d'oro tendesse a crescere a un saggio maggiore dopo le scoperte di nuove miniere, e a un saggio minore in altri periodi, contrassegnati dall'assenza di quelle scoperte, in quanto la produzione cresceva solo estendendo lo sfruttamento delle miniere già note. C'erano dunque periodi di relativa abbondanza d'oro, con una corrispondente tendenza dei prezzi a salire, e periodi di relativa scarsità, con la tendenza dei prezzi a scendere; nel complesso, nel XIX secolo avrebbero avuto la prevalenza i periodi di scarsità. L'ipotesi esplicativa proposta da Cassel, che dopo la prima guerra mondiale ebbe una notevole diffusione, è stata criticata da diversi economisti fra cui Schumpeter (v., 1939, p. 473). Le critiche sono di tre ordini: 1) l'ipotesi di Cassel presupponeva che in tutti i principali paesi avesse vigore la convertibilità in monete auree, mentre in alcuni di tali paesi vigeva la convertibilità in monete auree e/o argentee; 2) essa presupponeva anche una quota relativamente stabile fra monete auree e biglietti in circolazione, mentre così non è stato: più si diffondeva l'uso dei biglietti (per un lungo periodo i contadini erano stati restii ad accettarli in pagamento dei loro prodotti) più la quota delle riserve metalliche poteva scendere, senza che questo mettesse a repentaglio la convertibilità; 3) analogamente tendeva a scendere la quota delle riserve in biglietti detenuti dalle banche ordinarie, cosicché la supposta scarsezza d'oro poteva essere agevolmente aggirata.
Se dunque l'ipotesi monetarista non regge, occorre considerare la seconda ipotesi esplicativa, quella dei costi, che in termini embrionali si trova già in Adam Smith. Secondo Smith, con lo sviluppo economico i salari tendono a crescere ma, grazie alla progressiva divisione del lavoro, la 'capacità produttiva' dei lavoratori cresce anche di più e ciò comporta una flessione dei costi e, man mano, dei prezzi. Per molte materie prime vale lo stesso ragionamento, anche se nel complesso, secondo Smith, qui la produttività del lavoro cresce meno rapidamente. (In effetti, nel secolo scorso i prezzi dei prodotti industriali sono diminuiti più dei prezzi delle materie prime).
Se questa ipotesi esplicativa è fondata, perché - ci possiamo chiedere - la flessione dei prezzi si arresta bruscamente nel 1897? E perché da allora in poi i prezzi, pur attraverso ampie oscillazioni, tendono a salire?La risposta alla prima domanda non è difficile: nel 1897, dopo una crisi ciclica, si profila una ripresa che, com'era la regola, portò con sé un aumento dei prezzi. Il quesito più rilevante è l'altro: come mai da allora in poi e specialmente dopo la seconda guerra mondiale si è imposta la tendenza verso l'aumento? Di nuovo l'attenzione va concentrata sui salari e sulla produttività. Col rafforzarsi dei sindacati operai, che si accompagna al processo di concentrazione delle imprese, e con la sempre più accentuata differenziazione dei prodotti e delle capacità dei lavoratori, cresce il potere di mercato dei lavoratori: i salari diventano sempre più rigidi verso il basso e tendono sistematicamente a salire, non di rado, anche più della produttività. Per le materie prime, soprattutto per quelle prodotte da paesi del Terzo Mondo, i due processi (concentrazione e differenziazione) non hanno luogo o hanno luogo in forma assai più limitata, i sindacati operai appaiono tardivamente e raramente raggiungono una rilevante forza contrattuale. Di conseguenza, i prezzi delle materie prime nel lungo periodo salgono meno (l'aumento può essere attribuito principalmente all'aumento nei prezzi dei mezzi di produzione venduti dai paesi industrializzati). Così, nel lungo periodo il rapporto fra prezzi dei prodotti industriali e prezzi delle materie prime, che nel secolo scorso ha avuto la tendenza a diminuire, nell'ultima parte di quel secolo e poi nel nostro ha mostrato la tendenza ad aumentare, mentre nel breve periodo i prezzi delle materie prime sono flessibili sia verso l'alto che verso il basso. Se il costo del lavoro non varia, ossia se i salari aumentano come la produttività e i prezzi delle materie prime flettono, i prezzi dei prodotti finiti possono diminuire. Tale diminuzione, però, è assai limitata, poiché di regola la quota dei costi diretti imputabile alle materie prime è modesta. Solo quando ha luogo una spettacolare caduta dei prezzi delle materie prime, tale da determinare una sensibile flessione dei costi diretti, ci si può attendere una diminuzione sensibile dei prezzi dei prodotti finiti. (Una tale situazione si verificò durante la grande depressione negli Stati Uniti: i prezzi delle materie prime caddero di oltre il 50% e i prezzi dei prodotti finiti diminuirono, per questo motivo, di circa il 20%).
L'analisi fin qui svolta mette in evidenza la necessità di tenere ben distinti i diversi tipi di mezzi monetari, per motivi non solo formali ma anche sostanziali: nel passato le monete metalliche, i biglietti, i depositi; oggi i biglietti e i depositi. È bene avvertire che la moneta divisionaria non compare quasi mai nelle analisi giacché svolge un ruolo puramente sussidiario, specialmente rispetto ai biglietti. D'altra parte, in questo dopoguerra si sono progressivamente diffuse le carte di credito, che svolgono funzioni monetarie; e poiché queste carte debbono essere coperte da depositi, in prima approssimazione è possibile limitare l'analisi all'andamento dei depositi. Tuttavia, la diffusione delle carte di credito crea nuovi problemi di analisi e di politica monetaria, che sono tutti da esplorare a causa dell'origine relativamente recente del fenomeno. È certo che stanno rapidamente crescendo i tipi degli strumenti monetari e di intermediazione finanziaria, mentre al tempo stesso le moderne attrezzature elettroniche hanno consentito uno sviluppo straordinario delle transazioni finanziarie al livello mondiale. Tutto ciò rende incerta la nozione stessa di quantità di moneta e aggrava la labilità delle aspettative e i rischi di crisi finanziarie (v. Minsky, 1986); la nozione di quantità di moneta appare ulteriormente incerta se si ricorda che fra i mezzi monetari si considerano anche i depositi a risparmio e i titoli pubblici a breve scadenza, che possono svolgere alcune funzioni monetarie; a rigore sono da considerare solo come quasi-moneta.
Oggi conviene concentrare l'attenzione su due grandi aggregati monetari, quello dei biglietti e quello costituito dai depositi. Spesso nelle analisi monetarie, e in particolare in quelle dei monetaristi, in modo esplicito o implicito si assume che sussista un rapporto stabile fra i due aggregati. Ora, le banche ordinarie debbono tenere in biglietti (o in mezzi equivalenti) una riserva pari a una certa quota dei depositi, ma questo comporta solo un limite massimo alla creazione dei depositi: non comporta affatto un rapporto stabile fra biglietti e depositi. In effetti, i due aggregati hanno andamenti diversi e in certi periodi di crisi perfino contrastanti, e ciò perché ne sono diversi la genesi e il ruolo.
È diversa la genesi: la banca centrale è un'istituzione pubblica e nell'emettere i biglietti ha molteplici obiettivi. Non necessariamente sorgono contraddizioni fra tali obiettivi; quando sorgono, però, la banca centrale è costretta a stabilire una scala di priorità: assicurare una relativa stabilità dei prezzi o dei cambi, assecondare lo sviluppo produttivo, favorire la crescita dell'occupazione, assecondare il collocamento dei titoli pubblici. I depositi, che fanno capo alle banche ordinarie, nascono fondamentalmente in due modi: provengono dalle entrate che le famiglie consegnano alle banche e che periodicamente ritirano e ricostituiscono; vengono 'creati' dalle banche sulla base di garanzie reali o, più spesso, di cambiali portate dalle imprese per lo sconto. È bene ricordare che in quest'ultimo caso ha luogo una trasformazione di titoli di credito che fanno capo a soggetti privati, e che non sono moneta, in titoli di credito che fanno capo alle banche e che sono moneta. La natura della moneta creditizia e particolarmente di quella che viene 'creata' dalle banche sulla base delle cambiali è stata vista esattamente da Schumpeter (v., 1912), il quale ha fatto della creazione della moneta bancaria una colonna portante della sua teoria dello sviluppo; già prima, però, il fenomeno era stato visto da Marx (v., 1867-1894, vol. II) e da De Viti De Marco (v., 1898).
Le concezioni del ruolo da attribuire alla moneta sono assai diverse. Mentre sono pochi gli economisti che si sono resi pienamente conto del ruolo della moneta nel processo di sviluppo, sono numerosi quelli che hanno elaborato analisi su ruoli degni di considerazione, ma meno rilevanti; tali analisi sono cresciute di numero dopo lo sviluppo delle dottrine di tipo monetarista. (Per una pregevole rassegna v. Bianchi, 1982).Tornando ai due fondamentali aggregati monetari, e cioè biglietti e depositi, è bene notare che fra i due aggregati sussistono differenze di rilievo anche nel loro ruolo di intermediari negli scambi. I biglietti sono usati prevalentemente dai consumatori, soprattutto da coloro che acquistano beni di consumo non durevoli; i depositi sono usati dagli uomini d'affari nei loro rapporti interni, per acquistare mezzi di produzione diversi dai servizi dei lavoratori; sono anche usati dalle famiglie per acquistare beni durevoli di consumo, come case e automobili. Per pagare i servizi dei lavoratori gli uomini d'affari convertono i depositi in biglietti, che i lavoratori usano nei loro acquisti quotidiani. I commercianti man mano restituiscono alle banche i biglietti, se avevano avuto prestiti, altrimenti li depositano; nell'uno e nell'altro caso contribuiscono a ricostituire le riserve delle banche ordinarie. Pertanto il circuito del credito, che prende corpo nei due grandi aggregati monetari, si salda col circuito della produzione attraverso il commercio.
Giova sottolineare che i biglietti sono usati prevalentemente nelle transazioni riguardanti i beni che entrano nel costo della vita, i depositi in quelle dei prodotti intermedi e dei prodotti finiti venduti ai commercianti. Di tali diversi ruoli l'economista che intende analizzare l'andamento dei prezzi deve tener conto, cominciando col distinguere fra prezzi al consumo - per i quali conviene concentrare l'attenzione sui biglietti - e prezzi all'ingrosso - per i quali è particolarmente interessante l'esame dell'andamento dei depositi.
Nell'analisi dei prezzi sono dunque rilevanti due distinzioni, una orizzontale, l'altra verticale. La distinzione orizzontale è fra prezzi delle materie prime e prezzi dei prodotti finiti, quella verticale è fra prezzi al minuto e prezzi all'ingrosso. Le due distinzioni riguardano la logica della formazione e delle variazioni delle diverse categorie di prezzi nonché il ruolo dei prezzi nel processo di sviluppo, come si vedrà brevemente nel cap. 5.
Sono numerosi, anche fra gli economisti che non accettano la dottrina monetarista, quelli che considerano l'inflazione come un fenomeno sempre essenzialmente monetario. In un certo senso ciò è ovvio: l'inflazione consiste in un aumento generalizzato dei prezzi e i prezzi sono ammontari monetari riferiti alle unità dei beni e dei servizi. Se però con quell'affermazione si vuol dire che l'impulso principale, e comunque l'impulso iniziale, parte sempre dalla moneta, l'affermazione è inaccettabile, come già può apparire dall'analisi precedente e come sarà meglio chiarito in questo paragrafo.Il cenno alle tendenze dei prezzi di lungo periodo ha messo in evidenza che l'inflazione è tipicamente un problema del nostro tempo e, in misure molto diverse, è oggi un problema che riguarda tutti i paesi del mondo. È interessante ricordare che nel rapporto annuale della Banca Mondiale nella prima tabella, che fornisce una serie di dati caratteristici dei 132 più importanti paesi del mondo, troviamo una colonna con l'indicazione 'tasso medio annuale di inflazione' per due periodi pluriennali. Se per ipotesi fosse stato pubblicato un rapporto simile nel XIX secolo, si sarebbe invece trovata una colonna con i dati sul 'tasso medio annuale di deflazione', giacché allora la tendenza prevalente dei prezzi era verso la deflazione.
In prima approssimazione l'interpretazione monetarista può aver fondamento per le inflazioni e le iperinflazioni connesse con periodi bellici; non ha fondamento, invece, in periodi relativamente normali, durante i quali, sempre in prima approssimazione, vale lo schema dell'inflazione da costi. Tuttavia anche nel caso delle iperinflazioni - come quelle osservate, non in periodi bellici, in certi paesi dell'America Latina - non sempre il primo impulso parte dalla moneta. D'altra parte nei paesi sviluppati, durante i periodi di relativa normalità, solo eccezionalmente l'inflazione raggiunge tassi molto elevati, superiori al 20%; di solito i tassi variano dal 2 al 6-7% l'anno, ma va ricordato che tassi del genere riguardano i prezzi al minuto, mentre i prezzi all'ingrosso o aumentano di meno o non aumentano affatto. Con riferimento a tassi del 2-3-4% l'anno, si parla di 'pressione inflazionistica' proprio per indicare un'inflazione ininterrotta ma contenuta.
Tutto considerato, i principali impulsi inflazionistici provengono da sei direzioni: dalla quantità di moneta che alimenta la domanda complessiva; dalla domanda di certe categorie di beni, indipendentemente dall'andamento della massa monetaria; dai costi diretti; dai prezzi dei prodotti importati; dai cambi; dal fisco. C'è poi un caso speciale, che può aver luogo durante guerre o sconvolgimenti sociali: una scarsezza generalizzata di beni, che può originare o aggravare un processo inflazionistico.
Sulle relazioni fra quantità di moneta e inflazione si è già detto. La domanda influisce direttamente sui prezzi delle materie prime, agricole e minerarie, nei cui mercati di regola tuttora prevalgono condizioni concorrenziali. I costi e in particolare i costi diretti influiscono sui prezzi dei prodotti non agricoli. L'aumento nei prezzi dei prodotti importati può dipendere dall'andamento dei prezzi nei paesi d'origine, ma può dipendere anche da un aumento dei cambi esteri; in entrambi i casi conviene distinguere fra prezzi delle materie prime e dei mezzi di produzione e prezzi dei prodotti finiti importati, che entrano in concorrenza con quelli prodotti all'interno: nel primo caso si rientra nell'inflazione da costi, nel secondo la spinta inflazionistica dipende dal fatto che si alza il limite che frena il potere delle imprese nazionali di spingere in alto i prezzi. Quanto alla politica fiscale, essa può generare inflazione in almeno due modi: attraverso un aumento delle imposte indirette, le quali, a differenza delle imposte dirette, normalmente si trasferiscono sui prezzi, o attraverso un aumento delle tariffe dei servizi pubblici, che entrano nel costo della vita.
Prima di procedere conviene fare qualche osservazione sul tentativo, compiuto in tempi recenti in Inghilterra, di applicare la dottrina monetarista per combattere l'inflazione, poiché tale tentativo ha fornito la prova empirica che in tempi normali la dottrina monetarista non funziona. Margaret Thatcher, che ha posto la lotta all'inflazione come uno degli obiettivi prioritari del suo governo e ha adottato una politica di rigido contenimento della quantità di moneta attraverso alti interessi, andò al potere nel 1979, quando i prezzi al consumo aumentavano alla velocità del 13%; quando il suo governo cadde, nel 1990, quei prezzi aumentavano del 10%. È vero che in certi anni l'aumento dei prezzi era sceso al 3-5%, ma ciò era avvenuto soprattutto per la flessione nell'aumento del costo del lavoro; la ripresa dell'inflazione è imputabile a una politica fiscale sbagliata (specialmente per gli aumenti di imposte indirette e di tariffe), adottata nella convinzione che l'andamento dei prezzi dipenda soltanto dall'andamento degli aggregati monetari. Secondo i monetaristi la politica fiscale può generare inflazione solo se c'è un deficit di bilancio e se questo deficit è finanziato con stampa di biglietti; ma non è così.
Il processo inflazionistico può essere amplificato dalle aspettative: se è ampia la schiera di coloro che si attendono un aumento dei prezzi e si comportano di conseguenza, i prezzi tendono effettivamente ad aumentare. Per evitare di ragionare in circolo, tuttavia, si possono chiamare in causa le aspettative solo dopo aver chiarito quali sono gl'impulsi che le generano. Inoltre, nei diversi mercati l'effetto di amplificazione può essere più o meno forte secondo le caratteristiche dei mercati medesimi. Così, gli effetti delle aspettative e quindi delle speculazioni nei mercati delle divise estere sono spesso particolarmente rilevanti proprio perché in quei mercati operano soggetti che per ragioni professionali cercano senza sosta di anticipare il futuro: ciò facendo accelerano gli eventi e talvolta con la loro condotta, sia pure temporaneamente, addirittura li provocano. Il fattore speculativo ha sempre avuto importanza nei mercati mondiali delle materie prime, che di regola vengono prodotte e offerte in condizioni vicine alla concorrenza e vengono richieste dalle imprese industriali di tutto il mondo. In effetti, da tempo immemorabile nei mercati internazionali delle materie prime hanno luogo, oltre ai contratti 'a pronti', anche contratti 'a termine', nei quali convergono le operazioni speculative, che sono condizionate dalla politica degli intermediari finanziari e che si riflettono, in primo luogo, nelle variazioni delle scorte.
Dal 1971 l'inflazione si è accentuata in quasi tutti i paesi, sia pure con intensità diverse. Per chiarire questo fatto, conviene far riferimento, da un lato, alla crisi del sistema monetario internazionale, creato dagli accordi di Bretton Woods del 1944 e all'adozione, per un certo numero di anni, dei cambi flessibili in sostituzione dei cambi fissi, e dall'altro, ai mercati internazionali delle materie prime e di quella essenziale fonte di energia che è il petrolio.
Dopo la crisi del sistema monetario internazionale la flessibilità dei prezzi delle materie prime, che è sempre stata più rilevante di quella relativa ai prezzi dei prodotti finiti, è divenuta ancora più accentuata: il campo di variazione prima del 1971 era di circa il 5-6%, in aumento e in diminuzione, dopo quella data si è più che raddoppiato. Ciò perché, senza più l'ancoraggio delle principali monete al dollaro e, indirettamente, all'oro, nei mercati delle materie prime il fattore speculativo è divenuto nettamente più vigoroso che nel passato. D'altra parte, quando i prezzi delle materie prime aumentano, i prezzi dei prodotti finiti aumentano in proporzione al peso che le materie prime e le fonti di energia hanno nel costo diretto, mentre, quando i prezzi delle materie prime diminuiscono, i prezzi dei prodotti finiti diminuiscono di meno o non diminuiscono affatto, anche perché spesso lo spazio che si crea viene riempito da un aumento dei salari. Il risultato è che la maggiore variabilità, verso l'alto e verso il basso, dei prezzi delle materie prime e dell'energia tende ad avere, sui prezzi dei prodotti finiti, una spinta netta verso l'alto.
Dunque, dopo il 1971 il processo inflazionistico mondiale si è accentuato, ma in misure molto diverse, secondo i paesi. Mettendo per ora da parte i paesi dell'America Latina, i differenziali d'inflazione fra i paesi sviluppati sono riconducibili principalmente a tre ragioni. In primo luogo, al diverso andamento del costo del lavoro per unità di prodotto. In secondo luogo, all'andamento dei cambi: i cambi fissi circoscrivono ai soli aumenti dei prezzi che hanno luogo nei mercati d'origine gli impulsi inflazionistici provenienti dall'estero, mentre coi cambi flessibili tali impulsi possono essere provocati anche da aumenti dei cambi. In terzo luogo, i differenziali d'inflazione dipendono dalla composizione della produzione. Beninteso, quei differenziali dipendono in primo luogo dalle politiche seguite dai diversi paesi.
I prezzi al consumo, che generalmente sono usati per misurare l'inflazione, tendono ad aumentare più dei prezzi all'ingrosso; anzi, in certi periodi e in certi paesi tendono ad aumentare anche quando i prezzi all'ingrosso sono stabili o diminuiscono limitatamente (ciò è accaduto più volte in Italia negli anni cinquanta). Il fatto è che i prezzi al consumo comprendono i servizi, dove la produttività aumenta più lentamente della produttività e dei salari industriali, che normalmente guidano l'aumento di tutti i salari, compresi quelli del commercio; inoltre, i prezzi al consumo comprendono anche i fitti, il cui andamento risente della scarsità di carattere monopolistico delle aree fabbricabili.Dopo l'introduzione del Sistema Monetario Europeo, che per un importante gruppo di paesi ha portato con sé il ritorno ai cambi quasi fissi, il processo inflazionistico mondiale ha subito una certa attenuazione. Tuttavia da qualche anno quel sistema è entrato in crisi.
Nel paragrafo precedente sono stati considerati prevalentemente i paesi industrializzati. Ben più ampi sono i differenziali di inflazione fra i paesi industrializzati considerati nel loro complesso e diversi paesi del Terzo Mondo. Particolarmente rapidi sono i processi inflazionistici nei paesi dell'America Latina, dove un saggio annuo del 70 o del 100% e anche più non è affatto eccezionale. L'esame di un tale fenomeno può mettere in luce gli impulsi inflazionistici che esprimono tensioni e conflitti sociali e politici. Queste tensioni e questi conflitti stanno dietro agli impulsi di tipo economico prima ricordati. La differenza fra i paesi più sviluppati e i paesi del Terzo Mondo afflitti da inflazioni galoppanti sta in ciò, che nei paesi più sviluppati di norma quei conflitti sono meno gravi, mentre nei paesi sottosviluppati possono essere e in certi periodi sono nettamente più gravi. La conflittualità va vista con riferimento al mercato del lavoro e al bilancio pubblico: sono queste le due aree in cui si manifestano e in un modo o nell'altro si compongono i conflitti sociali e politici (uno dei modi di composizione è costituito dai trasferimenti sociali). In diversi paesi latinoamericani il sistema tributario funziona molto male, non solo per motivi organizzativi, ma anche per ragioni che si possono definire politiche, cosicché le entrate tendono a crescere più lentamente delle spese, che crescono a un ritmo sostenuto o per motivi militari (spesso dovuti a conflitti interni) o per motivi sociali o di politica economica. Il deficit pubblico, di conseguenza, cresce rapidamente e non di rado viene finanziato con la stampa di biglietti: si profila allora una situazione simile a quella che si ha in periodi di guerra e l'economia subisce un forte impulso inflazionistico. D'altra parte, il pessimo funzionamento del sistema tributario riguarda soprattutto le imposte dirette, che colpiscono le famiglie e le società e che esigono adeguati strumenti di accertamento o di controllo; le imposte indirette, che colpiscono i beni e i servizi, possono essere amministrate con relativa efficacia anche attraverso apparati tributari mal funzionanti. Per contenere il deficit il governo è allora indotto a ricorrere alle imposte indirette, cosa che a volte è la conseguenza di clausole poste da istituzioni finanziarie per concedere prestiti. Ma le imposte indirette, a differenza di quelle dirette, sono inflazionistiche: un aumento ampio e generalizzato di tali imposte può innescare un processo di inflazione, che viene via via aggravato dalle rivendicazioni dei sindacati, i quali cercano di recuperare la perdita di potere d'acquisto dei salari; si mette così in moto la spirale salari-prezzi. In alcuni casi nel processo inflazionistico hanno un ruolo di rilievo i cambi: certi governi hanno praticato una politica di successive svalutazioni, piccole ma frequenti, che annulla l'effetto di freno che i cambi possono avere sui prezzi interni e, dato che di norma i cambi aumentano prima e più rapidamente dei prezzi, favorisce le esportazioni, il che costituisce il motivo principale di una tale manovra; in tal modo però l'inflazione viene accelerata.
Nei paesi latinoamericani sono state messe in evidenza alcune cause strutturali dell'inflazione. Una di tali cause risiede nell'agricoltura e dipende dalla distribuzione relativamente concentrata della proprietà: da un lato grandi proprietari, spesso assenteisti, dall'altro contadini poverissimi che producono principalmente per l'autoconsumo e sono comunque incapaci di rispondere attivamente agli stimoli del mercato. La conseguenza è che l'offerta di prodotti agricoli per il consumo interno risulta relativamente rigida, cosicché una domanda in crescita, anche per la rapida urbanizzazione, tende a tradursi più in prezzi crescenti che in offerta crescente. Va anche considerata l'organizzazione del commercio dei prodotti agricoli: pochi grandi commercianti all'ingrosso, spesso collegati ai grandi proprietari, trovano più profittevole puntare su maggiori margini d'intermediazione piuttosto che sull'espansione delle vendite.
In breve, se l'inflazione è un fenomeno complesso nei paesi sviluppati, esso è ancora più complesso nei paesi semisviluppati dell'America Latina. Nei paesi decisamente arretrati dell'Africa, specialmente dell'Africa subsahariana, l'inflazione è per certi aspetti un fenomeno meno complesso; certamente è diverso. In tali paesi la quota dei lavoratori dipendenti sul totale costituisce una minoranza, in certi casi non supera il 10-15%; gli altri sono lavoratori indipendenti: piccoli commercianti, modesti artigiani e, spesso, membri di tribù nelle quali prevale la produzione per l'autoconsumo. In queste condizioni i salari e gli stipendi hanno ben poco spazio in un processo inflazionistico che, quando ha luogo (e in alcuni paesi assume un'intensità rilevante), si manifesta nelle città, nelle quali il mercato, pur con caratteristiche elementari, assume un peso non trascurabile e articolazioni differenziate. Nelle capitali, dove risiede l'amministrazione centrale, troviamo il maggior numero di pubblici funzionari e i centri delle spese statali, che sono costituite principalmente dalle spese per investimenti e dalle spese militari, connesse con conflitti interni che non di rado sono conflitti etnici e conflitti sociali, solo limitatamente paragonabili a quelli che hanno luogo nei paesi sviluppati.
Con la transizione dalle economie quasi stazionarie dell'epoca premoderna - economie prevalentemente agrarie, di tipo feudale o quasi feudale - alle economie moderne, caratterizzate prima dal capitalismo commerciale e in seguito, in certi paesi, dal capitalismo industriale, lo sviluppo economico diventa, da episodico e saltuario, un processo normale. In tali condizioni la moneta è sempre più legata al credito; anzi la separazione man mano si attenua e la moneta creditizia diviene il principale mezzo di pagamento nelle sue due configurazioni - biglietti e depositi -, con l'avvertenza che quando l'inconvertibilità diviene la regola i biglietti non sono più titoli di credito, ma costituiscono la moneta di ultima istanza.
Un'economia stazionaria può essere paragonata a un circolo, mentre un'economia che si sviluppa può essere vista come una spirale; Joseph Schumpeter distingue tra flusso circolare e sviluppo, Karl Marx tra riproduzione semplice e riproduzione su scala allargata o accumulazione. Nel capitalismo industriale il processo reale è l'accumulazione, che si svolge attraverso periodi di crescita accelerata e periodi di temporaneo ristagno e di crisi. Per Schumpeter il processo di sviluppo è spinto da innovazioni tecnologiche e organizzative ed è attuato da imprese nuove o da imprese già esistenti che s'innovano: in tale processo il ruolo essenziale spetta alla creazione di moneta creditizia, mentre quello del risparmio è del tutto secondario. Vi sono tuttavia anche imprese che espandono la produzione su una base tecnica sostanzialmente invariata: lo stimolo all'espansione può venire da un aumento della domanda generato dalle imprese che s'innovano o da spese pubbliche o dalla domanda estera, o da una combinazione di queste spinte. Infine, vi sono imprese che in ciascun periodo non mutano né il volume della produzione né la base tecnica: sono quelle che, idealmente, rientrano in un processo astratto di riproduzione semplice. Per tali imprese il credito non è indispensabile, giacché la produzione può essere finanziata con le entrate correnti; il credito può servire a far combaciare nel tempo i cicli di produzione coi cicli delle uscite e delle entrate monetarie, una funzione che può essere svolta anche dal risparmio.
Il flusso dei mezzi monetari direttamente connessi col processo di sviluppo è quello costituito dai depositi in conto corrente creati dalle banche per le imprese che si espandono, con o senza innovazioni. Indirettamente collegati con lo sviluppo sono i biglietti emessi dalla banca centrale per sostenere l'azione delle banche ordinarie, che debbono mantenere certe riserve in biglietti e si rivolgono alla banca centrale per riscontare i titoli di credito che hanno scontato alle imprese. La banca centrale emette biglietti anche per sostenere l'azione del governo, particolarmente attraverso l'acquisto e la vendita di titoli pubblici; infine, la banca centrale emette (o ritira) biglietti per ragioni connesse con le relazioni economiche internazionali (merci e capitali). La banca centrale ha quindi un panorama ampio nella sua politica di emissione di biglietti, i quali pertanto non possono essere posti in rapporto diretto col processo di sviluppo economico portato avanti dalle imprese. La banca centrale regola il flusso netto dei biglietti attraverso i tre canali ora richiamati (banche ordinarie, Tesoro, estero) con gli obiettivi plurimi di cui si è detto.
Il volume dei biglietti può certo essere visto come una quantità esogena, ossia determinata da decisioni esterne al sistema economico, anche se si tratta di decisioni che condizionano l'economia e dall'economia sono condizionate. Il volume dei depositi in conto corrente creati dalle banche ordinarie per le imprese costituisce invece una quantità endogena, nel senso che dipende dalla richiesta di prestiti bancari, a sua volta determinata dai profitti attesi, le cui variazioni dipendono dall'andamento dell'economia (v. Sylos Labini, 1948).
Oltre ai depositi in conto corrente creati dalle banche per le imprese, ci sono i depositi in conto corrente di cui sono creditrici le famiglie che hanno compiuto versamenti in biglietti: qui si deve parlare non di creazione, ma di trasformazione di mezzi monetari-depositi in luogo di biglietti. Ci sono poi i depositi a risparmio delle imprese e delle famiglie, che a rigore non sono mezzi monetari.I depositi in conto corrente delle famiglie sono da collegare all'andamento dell'occupazione e degli investimenti e quindi variano insieme ai depositi creati per le imprese.
Le forme di risparmio sono dunque diverse. In primo luogo occorre distinguere fra risparmio offerto e risparmio usato dagli stessi soggetti che lo compiono, di regola imprese. Il risparmio offerto può prendere diverse vie. Può andare alle banche sotto forma di depositi veri e propri e le banche lo usano per alimentare le riserve sulla cui base fanno prestiti alle imprese per un ammontare ben superiore a quello dei depositi ottenuti. Può essere usato per acquistare titoli, che servono a finanziare le imprese o lo Stato. Il risparmio impiegato direttamente dalle imprese varia in relazione alle aspettative di profitto: qui risparmio e investimenti addirittura coincidono (v. Kalecki, 1939). L'interesse sul risparmio che viene offerto da alcuni soggetti ad altri serve a indurre coloro che risparmiano a compiere questa offerta, che ha un ruolo importante nel processo di sviluppo sia perché è di necessario ausilio per le banche, sia perché contribuisce direttamente al finanziamento dell'attività produttiva. L'interesse sui prestiti bancari ha invece la funzione di procurare alle banche il guadagno che le induce a svolgere la loro attività. Per l'autofinanziamento c'è da considerare solo il profitto, da cui va sottratto l'interesse su un piano puramente contabile.
Nel nostro tempo il problema del risparmio va inquadrato nel più ampio problema del finanziamento dello sviluppo. In pieno contrasto con questo punto di vista, che si pone sul piano dinamico, è quello della tradizione neoclassica, che si pone sul piano statico e prescinde dallo sviluppo. Per i neoclassici l'interesse è il prezzo che equilibra la domanda di risparmio, espressa dagli imprenditori che debbono fare investimenti, con l'offerta di risparmio, espressa appunto dai risparmiatori.
Secondo la concezione qui esposta, l'interesse sui prestiti alle imprese è legato alla crescita del reddito; nei prestiti al consumo, invece, l'interesse comporta una redistribuzione del reddito. Ciò è vero sia per i prestiti ai privati sia per quelli contratti dallo Stato al fine di coprire spese improduttive, come sono le spese militari e quelle occorrenti per pagare gl'interessi sul debito pubblico. Nel nostro tempo, tuttavia, la dinamica dell'intero sistema dei saggi dell'interesse dipende dalla dinamica delle imprese: conviene perciò concentrare l'attenzione sull'interesse produttivo.
Da quanto precede appare che l'andamento del risparmio usato per fini produttivi e l'andamento degli investimenti vanno insieme. Per l'autofinanziamento ciò è addirittura ovvio; è bene avvertire che l'autofinanziamento comprende non solo quello delle imprese vere e proprie ma anche quello dei lavoratori autonomi, che in un paese come l'Italia hanno importanza assai notevole (i lavoratori autonomi da noi rappresentano un terzo del totale dei lavoratori). Per il risparmio delle famiglie vale l'argomentazione di Keynes: un aumento del reddito complessivo determinato da un aumento degli investimenti dà luogo a un aumento del reddito delle famiglie e, data la loro propensione al risparmio, a un aumento del risparmio. Sia nel caso dell'autofinanziamento, sia in questo caso sono gli investimenti che generano il risparmio e non il contrario, come la teoria tradizionale induce a credere.
Per mettere in evidenza il nesso, nel capitalismo moderno, tra profitto e sviluppo possiamo ipotizzare, in prima approssimazione, che gli investimenti siano finanziati completamente con profitti, senza fondi esterni. Diviene poi agevole fare l'ipotesi, più realistica, di un finanziamento alimentato sia dai profitti non distribuiti sia da prestiti bancari, che comportano creazione di depositi. Facendo dunque l'ipotesi di completo autofinanziamento e indicando con I gli investimenti e con G i profitti totali, abbiamo
I=aG, (1)
dove a=1 se i profitti sono integralmente investiti e a<1 se sono investiti solo in parte. In luogo della (1) possiamo scrivere I/K=aG/K dove K è lo stock di capitale fisso. Dato che gli investimenti possono essere visti come l'incremento dello stock di capitale, ossia I=ΔK, e supponendo che il rapporto fra stock di capitale e reddito rimanga stabile quando lo stock viene accresciuto, abbiamo K/Y=ΔK/ΔY, ovvero ΔY/Y=I/K o anche, indicando con Ŷ il saggio di aumento del reddito e tenendo conto della (1),
formula (2)
Ciò significa che il saggio di aumento del reddito, Ŷ, coincide col saggio del profitto, G/K, quando a=1; se a<1, ne rappresenta una quota.
Qui possiamo introdurre la creazione di moneta bancaria.Se l'imprenditore svolge la sua attività con mezzi propri, può tenere il profitto tutto per sé. Se invece, com'è la regola nel tempo moderno, svolge la sua attività in tutto o in parte con mezzi monetari ottenuti in prestito, deve cedere al creditore, che spesso è una banca, una parte del profitto complessivo sotto forma d'interesse. Il profitto netto è dunque dato dalla differenza tra profitto e interesse, che, come sostiene Schumpeter, è un'imposta sull'utile dell'imprenditore.
Dunque, quando i profitti non sono integralmente investiti vale la relazione Ŷ=aG/K, dove a<1. D'altra parte gli imprenditori cercano di ottenere un profitto maggiore dell'interesse, i. Se così accade, si ha i=bG/K, dove b<a. Pertanto, a/b i=Ŷ, cosicché, se a=b,
formula (3)
ossia il saggio dell'interesse tende a eguagliare il saggio di incremento del reddito. D'altra parte, per la relazione i=bG/K, il saggio dell'interesse tende a livellarsi sul saggio del profitto; ammesso che b⟨1, resta una differenza a favore del profitto anche se l'imprenditore finanzia la sua attività solo con prestiti esterni - un caso eccezionale, come il caso opposto, di completo autofinanziamento.
La tesi secondo cui l'interesse tende a livellarsi sul saggio del profitto, a meno di una differenza, fa capo addirittura agli economisti classici, Smith e Ricardo in particolare.Le relazioni considerate nel paragrafo precedente si riferiscono al lungo periodo. Se in un tale contesto c'è una tendenziale corrispondenza fra interesse e profitto, nel breve periodo spesso si osserva una correlazione inversa; per lo meno c'è correlazione inversa fra interesse sui prestiti bancari e profitti. Ciò perché, quando il profitto aumenta, aumenta l'autofinanziamento e diminuisce la pressione delle imprese sulle banche, le quali, d'altra parte, preferiscono accrescere i loro guadagni allargando il più possibile gli impieghi (i profitti crescono in una fase di congiuntura favorevole) e sono disposte a ridurre il margine fra interessi sui prestiti (che sono saggi attivi per le banche) e interessi sui depositi (saggi passivi).
Dunque, nel lungo periodo il saggio dell'interesse tende ad avvicinarsi al saggio del profitto; nel breve periodo, però, le variazioni dell'interesse dipendono da altri fattori: oltre che, inversamente, dai profitti, le variazioni dell'interesse dipendono dall'andamento dei prezzi, da quello dei cambi, dal fabbisogno di bilancio che lo Stato intende coprire con la vendita dei titoli, dalle esigenze di liquidità delle famiglie e delle imprese; in breve, si tratta di una funzione non di una ma di più variabili.
I saggi dell'interesse sono molteplici. La distinzione fondamentale è fra l'interesse a lungo e l'interesse a breve termine. Per l'interesse a breve conviene considerare il saggio di sconto della banca centrale e il saggio dell'interesse sui titoli pubblici - i due saggi si muovono insieme.Consideriamo dunque, uno per uno, i fattori che influiscono sugli interessi a breve. L'andamento dei prezzi condiziona questi interessi in vari modi. I prezzi in aumento scoraggiano l'offerta di risparmio, giacché diminuisce l'interesse reale (interesse nominale meno saggio di aumento dei prezzi): un aumento dell'interesse nominale può impedire una tale diminuzione. D'altra parte, se l'aumento dei prezzi dipende da un aumento troppo rapido dei salari, la banca centrale può elevare lo sconto per ammonire i sindacati e le imprese. Se invece i prezzi aumentano come conseguenza di un aumento dei cambi determinato da un deficit estero, la banca centrale eleva lo sconto per riequilibrare i conti con l'estero - l'aumento dello sconto attira capitali di altri paesi e scoraggia l'esportazione di capitali nazionali. In condizioni di instabilità politica i cambi possono aumentare anche indipendentemente da un deficit estero, giacché i soggetti che operano nei mercati finanziari hanno aspettative genericamente negative; anche in tali condizioni la banca centrale può elevare lo sconto, per contrastare i movimenti speculativi sulla moneta nazionale.
L'andamento dei prezzi influisce sugli interessi a breve termine in periodi brevi; tuttavia, se hanno luogo un aumento o una diminuzione molto prolungati dei prezzi, anche gli interessi a lungo termine ne risentono. Così, nella seconda metà del secolo scorso anche l'interesse a lungo termine mostrò una tendenza sistematica a diminuire, insieme con la maggior parte dei prezzi, tanto che alcuni economisti ritennero che tale tendenza fosse l'espressione della caduta tendenziale del saggio del profitto e rappresentasse quindi la conferma della tesi proposta da un lato da Ricardo e dall'altro da Marx. In realtà si trattava, più semplicemente, di una tendenza che esprimeva il nesso fra interesse e prezzi, che allora si manifestava in un periodo lungo. Si può ipotizzare che oggi, in un'epoca di alti interessi sia a breve che a lungo termine e di pressione inflazionistica generalizzata, ricompaia lo stesso nesso, col segno cambiato.
Procedendo nell'esame dei fattori che influiscono sugli interessi a breve, consideriamo ora il deficit pubblico. Per coprire un tale deficit senza ricorrere all'emissione dei biglietti, lo Stato vende titoli pubblici: maggiore è il volume dei titoli offerti, più alto è l'interesse sui titoli necessario a persuadere i risparmiatori ad acquistarli tutti. Imprese e famiglie debbono tenere una parte delle loro entrate in forma liquida per far fronte a pagamenti scaglionati nel tempo; possono tuttavia tenere una certa liquidità per approfittare di acquisti vantaggiosi, per esempio, di titoli pubblici; così, se i soggetti si attendono, nel futuro, un interesse più alto di quello corrente, il valore dei titoli tende a salire e conviene quindi comprarli, rinunciando a conservare la quota della liquidità non necessaria per i pagamenti normali. Viceversa, man mano che si riduce il divario fra interesse atteso e interesse corrente, tende a diminuire la liquidità tenuta da parte per motivi speculativi. Sotto questo aspetto fra l'interesse corrente e il volume della liquidità complessiva, espressa in biglietti, c'è una relazione inversa. Tuttavia in una situazione di crisi le esigenze di liquidità delle imprese aumentano rapidamente, giacché per pagare i debiti ed evitare il fallimento molte imprese hanno bisogno di danaro liquido per rimborsare i prestiti, senza poter aprire nuovi cicli produttivi da cui ricavare nuove entrate, finché la crisi dura. In tali condizioni l'interesse a breve può salire a livelli molto elevati, anche se la liquidità che fa capo alla banca di emissione cresce sensibilmente. Queste osservazioni mostrano che le relazioni tra liquidità complessiva e interessi a breve sono molto complesse; di norma prevale una relazione inversa, ma durante una crisi ciò non è più vero.Un'ultima osservazione. La recente esperienza italiana mostra che l'instabilità politica influisce non solo sui cambi, ma anche sugli interessi, a breve e a lungo termine: cambi e interessi possono essere visti come indici del grado di fiducia di cui gode un paese nella comunità finanziaria internazionale. Dopo aver considerato alcuni fattori quantificabili che influiscono su cambi e prezzi, bisogna fare i conti con quel problematico fattore qualitativo, quantificabile solo nei suoi effetti, che definiamo grado di fiducia (v. Ciocca e Nardozzi, 1996).
Nel capitalismo moderno il processo di sviluppo procede attraverso alti e bassi, ovvero attraverso accelerazioni e decelerazioni o riflessioni.Riconosciuto che il processo di sviluppo è sostenuto dal credito e, in primo luogo, dalla moneta bancaria, dobbiamo attenderci una stretta corrispondenza fra andamento della produzione e andamento della moneta bancaria, particolarmente dei depositi in conto corrente. Una tale corrispondenza non implica che la moneta bancaria abbia un ruolo determinante nell'andamento ciclico. A rigore, non è ipotizzabile neppure il nesso opposto, cioè che l'attività produttiva determina l'andamento della moneta bancaria; ma certo questa ipotesi è meno lontana dalla verità, giacché sono le aspettative di profitto che influiscono sulle decisioni di investimento, che a loro volta regolano l'andamento dell'attività produttiva e quindi della moneta bancaria e quindi ancora, in via subordinata, quello del risparmio.
Economisti di grande rilievo, come Knut Wicksell, Ralph Hawtrey, John Maynard Keynes e Marco Fanno hanno elaborato interpretazioni del ciclo economico che assegnano alla moneta un ruolo importante nel ciclo, anche se non necessariamente un ruolo causale. In un modo o nell'altro questi economisti concentrano l'attenzione sulle variazioni del rapporto fra profitto e interesse: nell'ascesa il primo tende a sopravanzare il secondo, e quindi il profitto netto è positivo ed è crescente; l'opposto accade durante una flessione, o almeno al principio di una flessione. La moneta - meglio precisare: la moneta bancaria - tende a espandersi nell'ascesa a un ritmo sostenuto, mentre nella flessione diminuisce ovvero, se la flessione è blanda, aumenta a un saggio calante. Nel passato, quando il gioco della domanda e dell'offerta influiva nel breve periodo sui prezzi nella maggior parte dei mercati, i prezzi medesimi tendevano ad avere un andamento ciclico, come la produzione; oggi una vera e propria regolarità non si nota più.
Fra andamento della produzione e andamento della moneta bancaria nel ciclo la corrispondenza è stretta, mentre non c'è una corrispondenza altrettanto stretta - anzi in certi periodi c'è una netta divergenza - fra attività produttiva e base monetaria-biglietti e riserve bancarie. Sono stati già più volte indicati i motivi di tale possibile divergenza. È sembrato opportuno mettere nella massima evidenza questo fatto perché di norma esso viene trascurato dagli economisti, specialmente dai monetaristi i quali, dopo aver riconosciuto il ruolo preminente svolto dalla base monetaria, ragionano come se esistesse un rapporto relativamente stabile fra la stessa base monetaria e il volume dei depositi. Che le cose non stiano così è dimostrato in modo lampante dall'andamento dei due aggregati monetari negli anni in cui ha inizio negli Stati Uniti la 'grande depressione', un evento straordinario e drammatico che ha segnato profondamente non solo la storia economica ma anche la storia politica del nostro secolo. Gli andamenti dei due aggregati e della produzione industriale, che rappresenta l'indice più significativo dell'attività economica, risultano dalla figura.
Appare evidente che i depositi variano insieme con la produzione industriale mentre l'andamento della base monetaria non corrisponde affatto alla congiuntura, anzi, il suo volume rimane pressoché stazionario dal 1924 al 1930, anni in cui ha luogo una diminuzione appena percettibile, e invece cresce dal 1930 al 1933, mentre il volume dei depositi addirittura precipita insieme con la produzione. La depressione quindi esplode per motivi non imputabili alla banca centrale, in pieno contrasto con quanto afferma il fondatore del monetarismo, Milton Friedman (fu Nicholas Kaldor che per primo mise in evidenza questo punto; gli scritti dei due autori si trovano in Bellone: v., 1970). È tuttavia possibile muovere una critica severa alla banca centrale americana, la quale non avrebbe dovuto, particolarmente all'inizio della crisi, nel 1929, limitarsi a tenere stabile il volume della base monetaria: avrebbe dovuto invece accrescerlo, come fece poi in modo tardivo e inadeguato, concedendo crediti assai più larghi alle banche e bloccando così quella catena di fallimenti bancari che contribuì notevolmente alla gravità e alla durata della grande depressione. Più recentemente, negli ultimi mesi del 1987, quando si era delineata una grave crisi finanziaria, la banca centrale americana ha effettivamente esercitato un'azione controbilanciante per impedire che la crisi finanziaria degenerasse in una crisi della produzione e dell'occupazione, come molti temevano, dentro e fuori degli Stati Uniti, e quell'azione ha avuto successo.
Se non esiste un rapporto neppure approssimativamente stabile fra base monetaria e moneta bancaria, ne seguono almeno tre corollari, utili per la politica monetaria. Il primo lo abbiamo visto proprio ora: quando occorre, la banca centrale deve esercitare un'azione di contrappeso rispetto alle forze che spingono verso il basso il volume della moneta bancaria e l'attività creditizia. Il secondo: non è affatto saggia la regola automatica, a prima vista seducente, di far crescere la base monetaria secondo obiettivi predeterminati. Infine - terzo corollario - non è affatto consigliabile togliere alla banca centrale la vigilanza sulle banche ordinarie, con l'argomento che essa serve solo a evitare abusi che possono danneggiare i risparmiatori, ma non è rilevante per la politica monetaria; la banca centrale deve vigilare non solo per evitare quegli abusi, ma anche per essere in grado di individuare subito i motivi per cui in certi periodi la solvibilità di molte banche diviene rischiosa, anche senza colpa degli amministratori; solo così può intervenire in modo tempestivo ed efficace.
Tutti i fenomeni economici sono storicamente condizionati, ma varia il tasso di storicità, se così si può dire: tra i fenomeni meno storicamente condizionati troviamo il baratto (anche se lo scambio fra beni senza l'intervento della moneta assume connotati diversi quando la moneta ha una diffusione minima e quando viceversa sono ampiamente diffuse diverse forme di mezzi monetari); all'opposto, fra i fenomeni più storicamente condizionati troviamo proprio la moneta: lo stesso sistema monetario internazionale può cambiare una o due volte in modo significativo nel corso di una generazione. In un lontano passato la moneta era soltanto un intermediario negli scambi e un serbatoio, oltre che una misura, di valore, come ancora si legge nei libri di testo. Nel nostro tempo la moneta ha assunto nuovi ruoli e, in quanto moneta creditizia, è divenuta la leva essenziale dello sviluppo economico.
Assai pochi fra gli economisti teorici - ricordo solo Schumpeter e Breglia - riconoscono che i fenomeni economici sono storicamente condizionati; eppure riconoscere ciò non significa affatto negare la possibilità e l'utilità di elaborare modelli teorici, usando anche, se occorre, gli strumenti matematici. Il fatto è che tali modelli possono avere efficacia interpretativa solo se si fondano su ipotesi ricavate dalla realtà economica, la quale non è immutabile, ma cambia anche radicalmente nel tempo storico.
(V. anche Banca e sistema bancario; Cambio; Cicli economici; Credito; Crisi; Economia; Economia internazionale; Finanza pubblica; Finanziari, intermediari; Finanziari, mercati; Inflazione; Interesse, saggio dell'; Materie prime; Oro; Politica economica e finanziaria; Prezzi; Profitto; Risparmio; Sottosviluppo; Sviluppo economico).
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