Nazione
Lo spirito di un popolo
Le nazioni sono forme particolari di comunità, che hanno iniziato a svilupparsi in modo compiuto soltanto tra il 18° e il 19° secolo, nell’epoca delle Rivoluzioni americana e francese, del romanticismo e dell’avvento della civiltà industriale. Da allora esse sono diventate una forza storica di primaria importanza, che ha permeato, in modi e forme differenti, tutti i principali sviluppi della storia contemporanea. All’interno di una nazione si sviluppa uno specifico sentimento di appartenenza: la coscienza collettiva di un’identità condivisa
La parola nazione deriva dal verbo latino nascor («nascere»). Dotata di un significato apparentemente semplice, essa ricorre spesso in modo impreciso o del tutto improprio nel linguaggio quotidiano: per esempio, quando viene impiegata in un’accezione puramente geografica per indicare un luogo delimitato da confini, o in un senso esclusivamente politico per indicare uno Stato. Questi usi sono molto diffusi. E tuttavia, in senso stretto, una nazione è qualcosa di diverso e di più specifico.
Secondo una definizione consolidata, essa è una comunità di persone che si sentono legate tra loro per il fatto di condividere le stesse origini, di risiedere in un medesimo territorio, di possedere uno stesso patrimonio linguistico e culturale, di riconoscersi in una storia comune, oppure ancora di essere sottoposte alle medesime istituzioni politiche, a uno stesso governo e alle stesse leggi.
Due dati essenziali emergono da questa definizione. Il primo è che le nazioni possono svilupparsi su fondamenti molto diversi: in alcuni casi essi sono di tipo etnico-territoriale, in altri di tipo storico-culturale, in altri ancora di tipo storico-politico. Il secondo dato essenziale è che le nazioni acquistano la propria consistenza se e nella misura in cui i loro membri sviluppano un peculiare sentimento di appartenenza e di solidarietà, la coscienza di un’identità condivisa. È questa coscienza che – diffusa a livello di massa e non solo tra ristrette cerchie di persone – trasforma una comunità etnica, culturale oppure politica in una nazione in senso proprio. Ne deriva una conseguenza importante, e cioè che le nazioni, che pure tendono a rappresentarsi come esistenti da tempi immemorabili, sono in realtà comunità tipicamente moderne. È infatti soltanto a partire dal 18°-19° secolo che la coscienza nazionale ha iniziato a divenire un fenomeno di massa e a plasmare l’identità di ampi aggregati umani, molto spesso con importanti effetti politici.
Affermare che le nazioni iniziarono ad assumere rilievo storico tra il 18° e il 19° secolo non esclude che sia possibile tracciarne la storia a partire da epoche più remote.
Forme rudimentali e frammentarie di coscienza nazionale si possono infatti riscontrare già nel mondo antico, presso gli Ebrei, i Greci e i Romani. Altrettanto si può dire per l’epoca che seguì alla dissoluzione dell’Impero Romano d’Occidente (476) e che portò alla formazione dei regni latino-germanici, o per quella che seguì alla disintegrazione dell’Impero carolingio (843), quando si formarono, nel cuore d’Europa, i nuclei originari delle future Francia e Germania.
Sviluppi più rilevanti nella direzione della formazione di un sentimento nazionale iniziarono a prodursi soltanto nell’età moderna, a partire dal 15°-16° secolo. Vi contribuirono fattori diversi quali la crisi del papato e dell’Impero, la nascita degli Stati moderni, la Riforma protestante e l’invenzione della stampa.
È in questo quadro che prese avvio il processo di formazione delle nazioni moderne. Esso procedette per impulso di una dinastia regnante in quei paesi – come la Francia e l’Inghilterra – che si erano dati una struttura politica e amministrativa unitaria, oppure per impulso di ceti più propriamente intellettuali in quei paesi – come la Germania e l’Italia – privi di unità politica.
Nonostante questi sviluppi, tuttavia, fino alla seconda metà del 18° secolo in nessun paese europeo si erano ancora affermate forti identificazioni nazionali di massa. Furono semmai soltanto ristrette élite di ceti colti o politicamente attivi a coltivare un vero e proprio sentimento nazionale, per lo più privo di significative implicazioni politiche.
Questa situazione mutò radicalmente tra il Settecento e l’Ottocento. Fu allora che si affermarono – con le rivoluzioni in America e in Francia – il principio della sovranità popolare e quello dell’autodeterminazione nazionale. Gli sviluppi della Rivoluzione francese e dell’età napoleonica offrirono nel contempo il duplice spettacolo dell’espansionismo della ‘grande nazione’ francese – proiettata verso l’egemonia in Europa – e della lotta per l’indipendenza delle nazioni oppresse dalla dominazione napoleonica.
A sua volta, la cultura romantica, in polemica con il cosmopolitismo illuministico, iniziò a elaborare – da Jean-Jacques Rousseau a Johann Gottfried Herder, da Johann Gottlieb Fichte a Giuseppe Mazzini – un’ampia riflessione sull’idea di nazione. Anche la rivoluzione industriale ebbe un ruolo decisivo. Distruggendo il tessuto delle tradizionali società per ceti e sradicando milioni di individui dalla vita comunitaria dei villaggi di campagna per gettarli nelle periferie delle moderne città industriali, essa creò nuovi bisogni di identità, di solidarietà e di integrazione, a cui la coscienza nazionale e il nazionalismo potevano rispondere.
Il risultato di queste trasformazioni fu che le nazioni divennero forze decisive del mondo contemporaneo e il nazionalismo una potente ideologia di massa. In particolare, in virtù del principio dell’autodeterminazione nazionale – secondo cui ogni nazione ha il diritto di governarsi da sé e di determinare il proprio destino – l’idea dello Stato nazionale divenne un criterio fondamentale per la costruzione dello spazio politico. Si trattava di un criterio rivoluzionario, che doveva trasformare profondamente gli equilibri politici europei e poi mondiali.
Due tendenze essenziali hanno caratterizzato quella che possiamo definire, a partire dal 1815, come l’età delle nazioni, del nazionalismo e degli Stati nazionali.
La prima, implicita nel principio di autodeterminazione, fu quella che portò una serie assai ampia di nazionalità a lottare per la propria indipendenza e a darsi proprie istituzioni politiche nella forma dello Stato nazionale, il quale, una volta costituito, doveva poi rivelarsi un ulteriore fattore di costruzione dell’identità nazionale.
La seconda, già anticipata all’epoca di Napoleone, fu quella che fece del principio nazionale e del nazionalismo l’ideologia della politica di potenza dei grandi Stati europei, spesso costruita sull’idea di una missione di civiltà e quasi sempre sulla teoria di una presunta superiorità della propria nazione rispetto alle altre.
Sono riconducibili alla prima tendenza le svariate questioni nazionali che si vennero progressivamente sciogliendo tra la seconda metà dell’Ottocento, le due guerre mondiali e la conclusione del processo di decolonizzazione nella seconda metà del Novecento, in uno scenario che si è andato progressivamente allargando – sulle macerie di imperi multinazionali e coloniali di antichissima storia – dall’Italia alla Germania, ai Balcani e all’Europa centro-orientale sino all’Asia e all’Africa. I frutti principali della seconda tendenza furono le crescenti rivalità tra le grandi potenze europee nell’età dell’imperialismo e, in ampia misura, i due conflitti mondiali.
Se si fa eccezione per la decolonizzazione, dopo il 1945 le nazioni hanno cessato di essere forze storiche di prima grandezza nel nuovo contesto della divisione del mondo tra USA e URSS, della Guerra fredda e della politica dei blocchi. Il venir meno di tale contesto con la caduta dei regimi comunisti (1989-91) ha tuttavia aperto la strada a un clamoroso revival delle nazioni e dei nazionalismi, che si è manifestato in modo particolarmente drammatico nei conflitti che hanno scosso l’ex impero sovietico e soprattutto i Balcani per tutti gli anni Novanta.
Il significato di questo revival è oggetto di discussione. Secondo alcuni studiosi esso va interpretato come il residuo di un’epoca ormai irrimediabilmente trascorsa, cui starebbe subentrando una nuova era tipicamente post-nazionale, l’era della globalizzazione. Secondo altri studiosi esso va interpretato esattamente al contrario: non come un residuo, bensì come il prodotto nuovo e originale della globalizzazione e della resistenza che a essa oppongono coloro che sentono minacciata la propria identità e il proprio mondo.